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Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

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Published by shllakua, 2023-07-14 18:55:56

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Aesthetica Edizioni Classici n. 2 Comitato scientifico Simona Chiodo Paolo D’Angelo Pina De Luca Elio Franzini Tonino Griffero Giovanni Matteucci Salvatore Tedesco


Karl Rosenkranz Estetica del Brutto a cura di Sandro Barbera presentazione di Elio Franzini appendice biobibliografica di Piero Giordanetti Aesthetica Edizioni


2020 Aesthetica Edizioni Collana: Classici, n. 2 www.aestheticaedizioni.it [email protected] Tel: +39 02 24861657 / 24416383 © Mim Edizioni srl via Monfalcone 17/19 20099 Sesto San Giovanni (Mi) L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.


Contents 1. Presentazione di Elio Franzini 2. Estetica del Brutto di Karl Rosenkranz 3. Prefazione 4. Introduzione 1. Parte prima L’assenza di forma 2. Parte seconda La scorrettezza 3. Parte terza Lo sfiguramento o deformazione 5. Conclusione Landmarks 1. Cover


Presentazione di Elio Franzini 1. «Oportet et hæreses esse»: così scriveva San Paolo 1 , aggiungendo tuttavia che l’eresia poteva essere utile perché si rafforzassero nella fede coloro che della verità erano sostenitori e testimoni («ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis»). Questa, a grandi linee, se si volesse generalizzare in una formula, la funzione che, per Rosenkranz, il brutto possiede nei confronti del bello: non valore “in sé”, bensì un “per sé” che serve a esaltare, far risaltare, evidenziare il senso ontologico della bellezza, seguendo un percorso dialettico che, nelle sue linee fondamentali, deve senza dubbio a Hegel le sue principali articolazioni. Tuttavia, al di là di ogni facile generalizzazione, l’opera di Rosenkranz può essere letta secondo vari angoli prospettici, il primo dei quali, quello che appunto la inserisce nel contesto del movimento hegeliano, non è certo l’unico, pur costituendo un utile (e indispensabile) punto di avvio. Rosenkranz, infatti, da giovanile seguace di Schleiermacher e della sua ermeneutica teologica, fu attratto da Hegel quando, all’università di Halle, entrò in contatto con Hinrichs, che lo indirizzò allo studio della Fenomenologia dello spirito, inducendolo a recarsi a Berlino per conoscere il maestro. La formazione hegeliana, e l’incarico attribuitogli dalla famiglia di Hegel nel 1839, di redigere una biografia del filosofo, non lo “chiude” tuttavia a ulteriori influssi. La “stirpe” hegeliana è notoriamente complessa e variegata e si dirama in vari settori, dividendosi, secondo la visione “parlamentare” che ne offre Strauss 2 , in tre correnti: la “destra”, in cui i “vecchi hegeliani” come C. F. Goeschel, J. E. Erdman (che si definirà ironicamente «l’ultimo dei Mohicani»), von Henning, Hotho, Hinrichs, Daub, difendono il maestro da interpretazioni panteistiche e liberali, è quella corrente che entrerà ben presto in crisi mortale, e proprio nel momento in cui la “Sinistra”, composta dai cosiddetti «giovani hegeliani», incontra un notevole successo pubblico. Questo gruppo, più libero da vincoli esegetici perché


in gran parte non formato da allievi diretti di Hegel, vede al suo interno A. Ruge, L. Feuerbach, M. Stirner, D. Strauss, B. Bauer, e si indirizza verso studi religiosi, politici e sociali. Alcuni tra essi, come per esempio la Vita di Gesù di Strauss, indicano con chiarezza la strada intrapresa, che tende a secolarizzare, attualizzandolo anche in chiave sociale, il messaggio escatologico del cristianesimo. Tra questi due estremi, Strauss stesso pone il “Centro”, incarnandolo proprio nella figura di Karl Rosenkranz. Secondo l’efficace sintesi offerta da Karl Löwith, «la Destra voleva conservare, con l’idea dell’unità della natura divina e umana, tutta quanta la storia evangelica», il Centro soltanto «una parte» e la Sinistra «sosteneva che, partendo dall’Idea, le notizie storiche dei Vangeli non si potevano mantenere né in tutto né in parte» 3 . Ogni suddivisione è ovviamente imprecisa, specie là dove intende sistematizzare, e per di più all’interno di un quadro complesso come quello della galassia posthegeliana 4 : tuttavia, ciò malgrado, tale generalizzazione ben inquadra la personalità “moderata” di Rosenkranz, che non eccede né nella scolastica hegeliana né negli eccessi politici e ideologici dei giovani hegeliani. Anche sul piano dell’impostazione filosofica, l’adesione al pensiero di Hegel non è infatti priva di prese di posizioni autonome, che manifestano uno sforzo sincretico, teso a costruire un quadro sistematico non sempre rigidamente hegeliano. Rosenkranz fu infatti successore, all’università di Königsberg, della cattedra di Herbart, all’interno di un asse, dunque, di evidente tradizione kantiana: di “centro” fu allora anche il suo tentativo di unificare in un percorso comune, quale sintesi della filosofia contemporanea tedesca, Kant, Herbart e Hegel, senza peraltro ignorare neppure un autore “ai margini” quale Schopenhauer. Tale programma, che sul piano speculativo non raggiunse vertici di autentica originalità, viene tuttavia ampiamente sviluppato da Rosenkranz, che a esso dedicò varie opere pubblicate dal 1840 al 1859 5 . Rosenkranz è consapevole, sin dal 1844, che, in tale progetto, vi è il pericolo della ripetitività o, al contrario, dell’improvvisazione, ma non per questo dubita del progresso dialettico della filosofia, che deve ampliare i rapporti con la realtà, e non estraniarsi


dal mondo, senza più cercare scosse decisive, che possono verificarsi solo dopo che, realmente, e non con pensieri “a effetto”, si sono “fatti i conti” con il proprio passato filosofico. In questo stesso contesto sincretico, in cui Rosenkranz sospetta di «motti filosofici del presente» 6 , si pone il lavoro dedicato al brutto, che possiede, di conseguenza, finalità sistematiche, religiose ed etiche, prendendo spunto, oltre che dai lavori di Hegel, da quelli della sua scuola e da un ampio patrimonio di citazioni letterarie e artistiche raccolte da Rosenkranz in circa quindici anni di, pur non esclusivo, studio sul brutto e sul comico. Hegel è così il punto di avvio, ma, probabilmente, un punto di avvio che viene semplificato o almeno non problematizzato sino alle sue estreme conseguenze teoriche. Infatti, nelle lezioni dedicate all’estetica raccolte e stampate da Hotho dopo l’improvvisa scomparsa di Hegel, il ruolo riservato al brutto è molto inferiore rispetto a quello che Hegel stesso vi aveva prestato nei quattro corsi, dal 1820 al 1829, a questo tema dedicati 7 , dove ben risulta «che il brutto artistico non viene concepito da Hegel semplicemente come il contrario del bello, ma come una delle tante forme che l’arte moderna può e deve assumere» 8 . D’altra parte, anche sulla base del testo pubblicato, si può ben comprendere che è nella logica stessa del pensiero hegeliano sottolineare il significato genetico del negativo: nell’Estetica le figure “brutte” connesse al comico, allo humour, al sublime e al tragico sono presenze rilevanti, che hanno in sé quei momenti dissolutivi attraverso i quali l’arte si muove verso il proprio consapevole trapasso. Sia pure nella trascrizione “classicizzante” di Hotho, è evidente la volontà hegeliana di espellere (o marginalizzare) il brutto dall’arte classica, dove l’idea assume la sua perfetta forma sensibile, affacciandosi piuttosto nel momento in cui si avvertono sintomi di decadenza, cioè nell’arte romantica, quando l’accidentalità della forma può meglio assumere alcuni tratti caratteristici del brutto. Ciò si verifica nella cerchia religiosa, all’apparire del corpo di Cristo flagellato, che evidenzia, al tempo stesso, la malvagità dei persecutori di Dio, la loro bruttezza, la crudeltà e deformazione delle loro figure. È in questi motivi, osserva Hegel, che il non bello si presenta, a differenza che


per la bellezza classica, «come momento necessari» 9 . Il brutto è dunque in primo luogo connesso alla raffigurazione della passione di Cristo, cioè al momento in cui la dimensione del dolore e delle fratture sconvolgono con tutta la loro forza dirompente, sia pure rispettando tutte quelle limitazioni “rappresentazionali” che Lessing aveva suggerito. Come insegnato nel Laocoonte lessinghiano sin dal 1766, il brutto può essere dunque, almeno nell’arte drammatica, “necessario”, disegnando una sorta di embrionale fenomenologia che è certo, per Rosenkranz, il punto di partenza. È stato infatti giustamente osservato che annessi al brutto, in Hegel, risultano un ampio spettro di figure ed esperienze “fenomenologiche” che, nel loro legame con la finitezza dell’uomo, rivelano viltà, bassezza d’animo, volgarità, barbarie, rischiando l’ibrido, il terribile, la morte, la follia, la malattia, la paura: brutto «è dunque nell’ottica di Hegel certo il non riuscito, lo scorretto, il formalmente incompiuto; ma anche tutto un mondo di negatività e di dolore per lui non riscattabili sul piano dell’arte, magari rimossi, comunque non trasfigurati ai suoi occhi: una realtà morale e fisica, stilistica o tematica, in eccesso o in difetto di equilibrata consistenza significativa» 10 . È qui in gioco, trasportato sul piano scenico della rappresentazione artistica, un tema che già Kant, con quel che scrive sul disgusto e l’irrappresentabile (dall’Antropologia pragmatica alla Critica del giudizio), aveva introdotto: dimensione che è di per sé “rifiuto” della rappresentazione, paradosso per il pensiero e le sue griglie razionali. Il brutto diviene così discorso sui limiti della rappresentazione sensibile e sul ruolo che essa riveste all’interno di un contesto mimetico – gnoseologico e artistico – che non ne esaurisce le potenzialità. È, di conseguenza, e ciò spiega il senso dello svolgersi in esso di un percorso che va da Kant a Hegel, un discorso sulla forma e sul suo significato conoscitivo, retorico, simbolico. Forma in cui l’idea e la sensibilità si incontrano e in cui, come si è mostrato dal sublime settecentesco all’arte romantica descritta da Hegel, anche si scontrano. Quest’ambito tematico, in un orizzonte di analisi dei fenomeni “liminari” della bellezza e delle sue forme artistiche “ibride” (comico,


tragico, sublime), in cui la rappresentazione si confronta cioè con il limite, o il confine, dell’irrappresentabile, ha successo in tutte le correnti posthegeliane, anche prima della fortunata, e in un certo senso definitiva, “sistematizzazione” di Rosenkranz. Si possono certo, a questo proposito, tentare anche spiegazioni sociologiche: la Germania degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento non è “bella”, in essa si affacciano notevoli contrasti sociali e la miseria è evento quotidiano, che segna una fase di industrializzazione che ha in sé tutta la crudeltà degli inizi. Inoltre, se dal piano della società si passa a quello dell’analisi sociologica dell’arte, va anche osservato che è l’arte stessa a non proporsi più, in questi anni, come “aulica”, dal momento che inizia a scendere per le strade, cogliendo di esse e in esse una “bruttezza” che va rappresentata, trasfigurata, simboleggiata, in ogni caso resa evento visivo e percettivo. Nel momento in cui lo spirito del mondo non cavalca più sotto le finestre di Hegel 11 , e il mondo appare in una crisi di identità in cui si affacciano nuovi, e apparentemente incontrollabili, soggetti sociali, è evidente che ogni sogno di classicità risulta spezzato, e non sembra lecito neppure averne nostalgia. D’altra parte, ogni “rispecchiamento” tra teorizzazione filosofica e realtà sociale e artistica ha in sé elementi che rendono difficile un legame causale univoco: non solo perché la miseria non è un fatto esclusivamente ottocentesco, e neppure la violenta urbanizzazione, non solo perché è la letteratura, e non la filosofia, e sin dalla metà del Settecento, a mostrare il brutto della nuova civiltà, ma anche, e soprattutto, in quanto di questa nuova realtà sociale e artistica ci si rende teoricamente consapevoli nel momento in cui società e arte incontrano lo sguardo di una potente filosofia della storia, quale appunto quella hegeliana, in cui il pensiero razionale deve giustificare la realtà, anche là dove si presenta ingiustificabile. Ciò conduce, quasi ovviamente, a una prima conclusione: le indagini hegeliane e posthegeliane sul brutto e i suoi derivati artistici hanno in prima istanza un valore non di “effetto”, ma di “giustificazione” teorica (e spesso moralistica) di eventi “reali” che sembrano sfuggire, e che vanno dunque ricondotti nel tranquillo alveo di una forma


rappresentazionale. Di queste ambivalenze, in cui sono spesso presenti, se non predominanti, istanze religiose ed etiche – se il bello è buono, per analogia il brutto è male – sono traccia le opere degli hegeliani, e in primo luogo quella di Christian Hermann Weisse, cui Rosenkranz, pur tra varie critiche specifiche, attribuisce esplicitamente il merito di avere introdotto il concetto di brutto come momento organico dell’idea di bello 12 . Si può certo ritenere che, per molti aspetti, «pur essendo mossi da ambiziose aspirazioni di completare o perfezionare la filosofia hegeliana, agli hegeliani riuscì piuttosto di elaborare un’estetica classicistica, in cui il brutto venne considerato un pericoloso elemento da dominare e rimuovere, in vista di una nuova bellezza» 13 . D’altra parte, noti soltanto agli ascoltatori e a pochi allievi, questi pensatori hanno il merito di avere portato l’attenzione su un tema che corre attraverso Hegel. Senza dubbio, come dimostra il primo capitolo dell’opera di Weisse, il System der Ästhetik als Wissenschaft von der Idee der Schönheit, edito a Lipsia nel 1830, cui per molti versi Rosenkranz è autenticamente debitore, vi è qui la volontà sia di “riscattare” il brutto sia, in tale riscatto, di porre la sua moralistica analogia con il male morale. Questo aspetto, che nelle sue lezioni berlinesi è in Hegel molto sfumato, ed elaborato in una direzione complessa e articolata 14 , è invece accolto dai suoi seguaci in modo decisamente “scolastico”: da Hohto a Ruge, da Kuno Fischer a Rosenkranz l’autentica bruttezza è quella incarnata dal male. Weisse per primo sostiene appunto che la vera origine del brutto è il male, insistendo sulla dimensione diabolica e infernale della bruttezza, con accenti che si ritroveranno in Ruge e nello stesso Rosenkranz. E, in ogni caso, anche là dove assume un’autonomia descrittiva, il brutto è comprensibile solo in un quadro dialettico e onto-metafisico. La bruttezza è così, per Weisse, come per ogni hegeliano che assuma il “classico” come proprio modello, la contraddizione presente nel concetto di bellezza, che è tuttavia anche, di per sé, “posizione”, cioè oggetto tematico dotato (almeno) di una possibilità di venire autonomamente analizzato. Anche senza seguire l’intera argomentazione di Weisse, si affacciano qui


vari problemi che saranno presenti in Rosenkranz: il legame con la tradizione del sublime (più schilleriano che kantiano), la stigmatizzazione etica per autori contemporanei che confondono bello e brutto (Byron, E. T. A. Hoffmann), la falsità intrinseca alla bruttezza, il pericolo che la sua capacità riduttiva nasconde, la necessità, di conseguenza, di una sorta di “educazione estetica” al brutto, perché non solo se ne possano comprendere le ambiguità ma, descrivendole, se ne evidenzino i legami dialettici con il bello. A partire da queste basi, Weisse, sempre con accenti simili a quelli che utilizzerà Rosenkranz, osserva, da buon hegeliano scolastico, che tali forme sono inseparabili da una concretizzazione storica, attualizzata in uno specifico spazio-tempo dello spirito osservato nella sua genesi dialettica: il comico è qui l’esempio non di un’arte brutta, dispersa tra spettri e fantasmi, ma di un’arte “benefica”, dove il brutto in quanto tale è superato. Quest’ultimo problema viene ripreso da un altro hegeliano, tra i maggiori esponenti della cosiddetta “sinistra”, cioè Arnold Ruge, che dedicò alla questione parti di un’opera del 1837, la Neue Vorschule der Ästhetik. Das Komische mit einen Komischen Anhange, risentendo di ulteriori influssi, peraltro anch’essi presenti nella genesi dell’opera di Rosenkranz, ovvero le riflessioni sull’ironia di Jean Paul e Solger 15 , che portavano in sé il peso di una tradizione “romantica” già discussa da Hegel. Tradizione che, sia sul piano degli studi hegeliani sia su quello dei suoi risultati teorici è effettivamente all’avvio di un interesse dell’estetica o, meglio, della teoria delle arti in generale, per il significato filosofico ed espressivo della bruttezza. Ruge offre una fenomenologia tipologica, alla quale si aggiungono vari quadri antropologici del brutto, cui associa tutte quelle figure che si ritroveranno in Rosenkranz, e che spesso, appunto, vengono avvicinate ad alcuni filoni della letteratura e del pensiero romantici, ritenuti una sorta di referente “negativo” per un’analisi estetica dell’arte. Si rivela in questo modo, anche nelle pieghe ripetitive di tali scritti posthegeliani, un motivo costante e indicativo di un percorso: il brutto non è un “valore in sé”, non è una categoria che nella sua autonomia possa originare una dimensione assiologica dell’arte post-


classica, bensì un’appendice della bellezza e della sua genesi spirituale, un “relativo” che deve riferirsi a un assoluto per poter acquisire un proprio senso estetico. Il “riscatto” del brutto – segno della consueta esigenza di “superamento” che negli hegeliani è impossibile non trovare – è il comico. Comico che, a parere di Ruge, permette di superare il brutto in quanto ne è la «ridicolizzazione», incarnando in questo modo l’esigenza dell’idea di tornare a se stessa, di riconnettersi all’interno di un preciso quadro formale. Il brutto è una perdita di autocoscienza, è uno «stato di disgregazione della contraddizione stagnante e non fluida», che tuttavia, al tempo stesso è in grado di spingersi oltre se stesso, sino al comico, in cui l’idea può tornare «presso di sé». Ruge dunque, pur in frequente polemica con Weisse, non si discosta dalla sua impostazione o, almeno, si pone all’interno del medesimo universo concettuale. E, in questa posizione, ancora una volta, non è solo. Infatti, pur con accenti meno sistematici, ma riprendendone l’analogo schema (il brutto esiste solo in relazione dialettica con il bello, e si articola dialetticamente con il sublime e il comico, suoi elementi di confronto e di riscatto), viene in questi anni pubblicata un’altra opera citata da Rosenkranz, cioè il saggio di Friedrich Theodor Vischer Über das Erhabene und das Komische del 1837 (le cui tesi sono ribadite in un lavoro posteriore del 1846-57, i quattro volumi della sua Ästhetik oder Wissenschaft des Schönes) 16 . 2. Il quadro genetico della Estetica del Brutto è dunque, sul piano della storia delle idee, sufficientemente chiaro: posto in un contesto di attenzione, kantiana ed herbartiana, per il problema della forma, Rosenkranz si inserisce in una linea hegeliana che, radicata in alcune parti delle opere pubblicate di Hegel, era stata ampiamente sviluppata dalle varie correnti della sua scuola, all’interno di una categorizzazione dialettica che riprende, con polemica, a seconda dei casi più o meno marcata, la tradizione settecentesca del sublime e alcune poetiche romantiche, prestando al tempo stesso una vivace attenzione per quelle forme letterarie, da Balzac a Hugo, da Jean Paul a Sue, che avevano indugiato, a volte compiacendosene, sull’autonomia estetica delle forme brutte.


Questo sguardo sull’arte che riflette le bruttezze sociali, se da un lato è stigmatizzato sul piano etico e conoscitivo, permettendo agli hegeliani di ben evidenziare la loro cifra comune, cioè un profondo e radicato “classicismo” estetico, dall’altro manifesta l’esigenza, anch’essa di matrice hegeliana, di “tradurre” la bruttezza in tipi concreti, capaci di trovare in forme storiche il proprio senso ideale. Ciò comporta un’attenzione non superficiale per la realtà politica, sociale e religiosa della propria epoca, che si tenta di “riscattare” sul piano dell’arte, riconducendo a una “forma” (ne è esempio e simbolo il comico) l’ibrido e l’informe che abitano il brutto, e ne sono l’inguaribile relatività. Si può dire che, in questo senso, la “pluricategorialità dell’arte”, quella che la svincola da un’adesione uniforme all’unità con varietà della bellezza, intesa come «grande teoria» 17 di riferimento assoluto, è effettivamente spezzata dagli hegeliani. Ma ciò accade in un contesto in virtù del quale tale grande teoria, messa in discussione sul piano fenomenologico, non lo è affatto su quello ontologico: mai come in questa cerchia, infatti, il bello ha una posizione centrale e assoluta, enfatizzata proprio dal fatto che il brutto appare come errore, male, relatività, frattura, menzogna, carenza. In ciò, peraltro, come è stato osservato, gli hegeliani si allontanano persino dal maestro, «deprivando il brutto di ogni valenza e forza critica e compiendo un evidente passo indietro verso un platonismo estetico, che Hegel, in verità, non avrebbe condiviso» 18 . D’altra parte, alle spalle di Rosenkranz, oltre alla koinè posthegeliana, vive anche una tradizione più composita, di cui all’interno della sua opera sono visibili sia le tracce sia, ancor più luminose, e forse ancor più utili per la comprensione del testo, le assenze e le incomprensioni. Rosenkranz mostra infatti di conoscere autori come Boileau e Batteux, dove il brutto aveva l’unico scopo “mimetico” di avvicinare l’opera al modello, finalizzandolo con ciò al piacere positivo della bellezza. Allo stesso modo, conosce, e apprezza, Diderot (al quale dedica, nel 1866, un’ampia biografia) 19 , che è senza dubbio tra i primi autori settecenteschi ad attribuire al brutto una sorta di “cittadinanza estetica” nell’arte. Tuttavia, sia di Batteux sia di Diderot non coglie il messaggio “anticlassicistico”,


cioè l’autonomo valore espressivo che, per loro, un pathos a-formale può incarnare nella prassi artistica e nella ricezione delle opere, scardinando con ciò il paradigma mimetico connesso all’idea di bellezza. Allo stesso modo, è per lui essenziale punto di riferimento il Laocoonte di Lessing, dove la distinzione tra le arti figurative e quelle poetiche è fondata sull’incapacità “segnica” delle prime a rappresentare il brutto, che può invece essere oggetto specifico della struttura temporale delle seconde. La disputa intorno al Laocoonte è dunque ben nota a Rosenkranz, che discute Goethe e Schlegel e, non sempre con molta attenzione, vari autori “romantici”. Inoltre, riprendendo il legame lessinghiano tra bruttezza e arte drammatica, dimostra ampie conoscenze, per certi versi assunte in modo paradigmatico, cioè attraverso Schlegel stesso, dell’opera di Shakespeare. Gli sfugge tuttavia completamente il nucleo teorico del discorso di Lessing, cioè la necessità di mettere in rilievo la differenza tra le arti proprio per meglio comprenderne la specificità espressiva, sottolineando nel contempo le difficoltà di un approccio semplicemente “formale” o “filosofico”, chiuso in troppo rigide griglie terminologiche o metafisiche. La descrizione della varietà segnico-espressiva delle arti è dunque rilevata da Lessing per un motivo opposto a quello di Rosenkranz, cioè per evidenziare come la pluricategorialità dell’artistico, comprovata dalle opere stesse, sia irriducibile a qualsivoglia classicistico principio unitario. Che questa incomprensione sia “sistemica” e non occasionale, lo dimostra una rilevante “assenza” nell’universo culturale di Rosenkranz, quella che si riferisce all’opera di Edmund Burke del 1757 Inchiesta sul Bello e il Sublime 20 , opera pur ben nota a Kant e all’intera cultura tedesca. Senza dubbio Rosenkranz non apprezza il metodo empirista, e il substrato retorico, degli autori che nell’Inghilterra della seconda metà del Settecento si sono occupati di sublime e pittoresco: ma l’assenza denota anche, come le incomprensioni relative a Lessing, una sorta di timore per gli aspetti oscuri, inquietanti, perturbanti, dialetticamente irriducibili al bello e a un’idea di forma che attraversano l’arte, specie là dove sembrano assumere una rilevante autonomia teorica, che disegna per l’artisticità


contemporanea una cornice “gotica” che Rosenkranz non può apprezzare. Simile timore si riscontra analizzando il rapporto instaurato con un autore che pure conosce e cita, cioè Victor Hugo, anch’egli attento, sin dalla sua Prefazione al proprio dramma Cromwell (sin dal 1823) 21 , a connettere la bruttezza a teorie letterarie, avendo Shakespeare come punto di riferimento. Hugo, peraltro, sul piano strutturale, essendo lettore di Vico, e quindi attento sia alla circolarità dei processi sia alla loro radice storica, non è lontano da un’impostazione “hegeliana”, in quanto identifica nel cristianesimo quella rottura di un ordine “cosmico” che ha condotto a una verità “plurale” anche sul piano estetico, consapevole cioè che non tutto è bello nel creato e che, accanto a esso, vivono il brutto, il deforme, il grazioso, il sublime, il grottesco. Tuttavia, a differenza di Rosenkranz, e comprendendo il problema con un’originalità non sistematica né onto-metafisica, Hugo sottolinea anche che l’arte non può correggere Dio, né la filosofia può ricomporre un sistema ormai spezzato, e dovrà dunque, in primo luogo sul piano dell’arte drammatica, operare come la natura, mischiando cioè nelle sue creazioni, e senza alcuna sintesi, ombra e luce, grottesco e sublime, corpo e anima, bestia e intelletto. Nelle arti, per Hugo, le cose sono belle o brutte soltanto in virtù di come vengono eseguite: una cosa deforme, orribile, repellente può divenire, in arte, ammirevole e bella, senza per ciò essere meno orribile e mostruosa. Appunto, vi è una sottile distinzione tra “brutto” e “grottesco”, distinzione che Rosenkranz non coglie e che segna la grande differenza tra i due autori: il brutto è per Hugo un «tipo di imitazione», mentre il grottesco un «elemento dell’arte», cui vanno unite altre componenti, e in prima istanza il sublime, che disegna la fondamentale caratteristica del «genio moderno», non classico e imitativo – ovvero meramente “tipologico” – bensì complesso, multiforme, inesauribile nelle sue creazioni proprio perché “grottesco”, cioè creatore del deforme, dell’orribile, ma anche del comico e del buffonesco, offrendo all’arte non un’astratta unità, bensì le creazioni innumerevoli di un’immaginazione pittoresca. In Hugo si coglie dunque un elogio della “varietà” che attribuisce al


“tipo” del brutto una dinamicità “grottesca”, quella stessa che Burke aveva cercato attraverso il sublime. Rosenkranz ritiene invece che tentativi di tal genere abbiano in sé pericoli etici ed estetici: estetici perché, appunto, il brutto potrebbe assumere un valore “assoluto” (che è invece per Rosenkranz, come già si è osservato, esclusivo possesso del bello); etici in quanto gli aspetti deteriori del sociale non devono affatto venire trasfigurati e riscattati dall’arte, bensì, semplicemente, da essa “esibiti” per ribadirne la relatività. Rosenkranz rifiuta infatti quella che ritiene essere la «brutalità irresponsabile» della «moderna arte tragica francese», di cui Hugo è iniziatore, dal momento che dopo di lui «l’offesa alla giustizia poetica è diventata cosa tutt’altro che rara nei francesi». Su questa scia si sono infatti inseriti autori come Delavigne, de Vigny, Dumas, Sue, tutti sostenitori dell’assurdo principio che «le laid c’est le beau», e quindi capaci soltanto di «poe-ticizzare il crimine» 22 . Queste incomprensioni, e altre similari, non sono episodi isolati e contingenti, bensì l’indizio di un atteggiamento teorico che, nelle sue stesse premesse, non può non rifiutare alcuni esiti lessinghiani (in primo luogo i legami per nulla conciliativi tra brutto e comico da lui instaurati), ignorando al tempo stesso la letteratura gotica inglese (dove sono in primo piano il volgare e il ripugnante), pur ben nota in Germania, e presentando Diderot con un’immagine “razionale”, ignara non solo dei suoi scritti su Richardson (di cui invece si sottolineano gli “errori”, comuni a quelli commessi da Rousseau), ma anche di quei Salons in cui il bello appare stravolto dal divenire potente di una natura in cui nulla è davvero “male”, e tutto rientra a pieno diritto nella medesima assolutezza, cioè in quella “grande catena dell’essere” in cui trovano posto anche le licenziosità dei Gioielli indiscreti e le perversioni della Monaca, in cui il patetismo si trasforma in racconto ironicamente crudele. 3. Queste osservazioni sui “limiti”, anche storici, dell’argomentazione di Rosenkranz non hanno affatto un intento “svalutativo”. Servono, al contrario, per valutare la sua opera non in quanto “sintesi” di un percorso complesso e duplice (da un lato esame delle variegate fonti, antiche e


moderne, sulla bruttezza artistica, dall’altro epigono di una ossimorica non lineare “linea” hegeliana), che non rispecchia affatto o ripercorre in modo a volte scolastico e superficiale, bensì come autonomo punto di avvio, per certi versi irriducibile alle sue stesse fonti. L’Estetica del Brutto deve essere letta, invece che nel suo spessore epigonale, come un insieme di motivi a partire dai quali si afferra sia il senso ontologico della bruttezza sia il suo valore epifenomenico, che tanta parte ha avuto nello sviluppo artistico della contemporaneità. In questo senso l’opera di Rosenkranz possiede al suo interno un’articolazione implicita, che risulta penalizzata sia da una lettura troppo “storicizzante” sia da un’attenzione esclusiva per l’impianto sistematico, e viene invece ben compresa nel momento in cui si coglie in essa, come è stato scritto 23 , una sorta di «sistema linneano del brutto», inserito tuttavia, al tempo stesso, in una precisa e articolata concezione dell’estetica. La definizione delle “tre classi” dell’estetica con cui si apre il lavoro di Rosenkranz è infatti un’utile sintesi di un orizzonte tematico ancor oggi valido: l’estetica come idea del bello, come teoria produttiva delle arti e come «concetto del sistema delle arti», ovvero «della rappresentazione artistica dell’idea del bello in un determinato medium» 24 . Si ha quindi, in questo modo, non solo la giustificazione del lavoro, ma anche la sintesi perfetta di una possibile estetica “hegeliana”: la centralità del bello impone infatti attenzione per la sua negazione dialettica, cioè il brutto. A partire da questo punto di vista si sviluppa la prima “chiave di lettura” dell’opera di Rosenkranz, attenta alla dimensione ontologica del problema e alle sue implicazioni sistematiche e metafisiche. D’altro lato, lo svolgersi dialettico dell’idea ha la necessità di concretizzarsi in media, in forme sensibili, e di conseguenza l’estetica diviene descrizione organizzata di questi prodotti dell’immaginazione rappresentativa. Dal primo punto di vista, che è quello da cui prende avvio l’Estetica del Brutto, affermare che il concetto di brutto è «il termine medio tra il concetto di bello e quello di comico» significa sostenere che esso è la “negazione” del bello, che trova a sua volta la propria negazione, e dunque il proprio riscatto


positivo e posizionale nel comico. Ne deriva – ed è il secondo angolo prospettico – la necessità di descrivere sia i gradi intrinseci al brutto sia quelli che conducono verso il comico attraverso un percorso che usa programmaticamente esempi, organizzandoli dialetticamente (con il consueto amore hegeliano per lo schema triadico). L’ontologia, di conseguenza, è attraversata in Rosenkranz da motivi storico-sociali che rafforzano in essa, anche al di là del ruolo relativo che occupa nel sistema generale, la presenza del brutto: il male, il peccato in cui siamo “immersi”, accompagnato dal terrore nei confronti dell’informe e della deformità, sono nella nostra quotidianità percepita e partecipata, rivelando la natura ossimorica dell’uomo e del pensiero. Cedere all’ossimoro significa non comprendere che il brutto non ha solo una funzione retorica ed espressiva, bensì possiede una funzionalità conoscitiva che, esistendo solo perché c’è la bellezza, e avendo di conseguenza un’esclusiva “esistenza secondaria”, tende in modo costante a una rinnovata unità. L’unità processuale e dialettica rivela dunque come il bello sia una forza che sempre di nuovo tende a sottomettere al suo dominio la ribellione del brutto, raggiungendo una “conciliazione” destinata a far sorgere una “infinita serenità” attraverso il comico, dove il brutto che genera il sorriso, riconoscendo con ciò la propria impotenza, annulla la propria relatività. “Ribellione”, “impotenza”, “secondarietà” sono parole che già a sufficienza indicano il percorso filosofico di Rosenkranz: il brutto è relativo perché eteronomo, poiché trova la propria norma e misura «fuori di sé», cioè nella bellezza. Non si tratta, tuttavia, di una relatività empirica, bensì di un tentativo di cogliere nell’empirico i «supremi principi» grazie ai quali un’estetica del brutto possa articolarsi. Di conseguenza – ed è un’affermazione che permette di comprendere l’universo teorico di Rosenkranz ben più del suo impianto sistematico – il referente dialettico del brutto non è «l’ambito del bello convenzionale», bensì le determinazioni assolute della bellezza, il bello come libertà dell’idea nella sua spirituale genesi creativa. Al contrario – ed è qui che si pone l’attualità di Rosenkranz – il bello convenzionale, assimilato a ciò che viene


chiamato moda, è in realtà costituito da fenomeni che si possono soltanto definire “brutti”, se non altro perché il brutto è «il loro mezzo d’espressione adeguata». Anche il bello possiede così una sua relatività, ed essa utilizza la moda come medium espressivo, che diviene sia strumento del brutto (di per sé relativo) sia momento di passaggio al comico, che elimina dal brutto l’elemento ripugnante mostrandone la relatività e nullità rispetto al bello. È evidente che Rosenkranz è qui in sintonia con un suo contemporaneo francese (che certo non conosce quando scrive l’Estetica del Brutto): è infatti Baudelaire, con il suo Il pittore della vita moderna (1859), a scorgere nella moda, e nella sua relatività espressiva, la possibilità di istituire «una teoria razionale e storica del bello, di contro alla teoria del bello unico e assoluto» 25 . Teoria in virtù della quale si comprende che «il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile» e di un «elemento relativo, occasionale», senza il quale «il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla vita umana» 26 . Ma questa “complessità” pluricategoriale della bellezza e dell’arte non è contingente e occasionale, bensì la conseguenza stessa della dualità ontologica dell’uomo. In questo modo, con un asse che lega Baudelaire e Rosenkranz, se il bello relativo è quel limite negativo che si chiama brutto e che la moda esprime, paradossalmente, attraverso la moda, il brutto è, come dimostra l’arte contemporanea, una costante modalità di prassi espressiva e creatrice che tende a porsi, per usare le parole di Baudelaire, «come un sintomo del gusto dell’ideale, che galleggia nel cervello umano al di sopra di tutto ciò che la vita umana vi accumula di volgare, di terrestre e d’immondo, come una deformazione sublime della natura o meglio come un tentativo inesauribile e ricorrente di riforma della natura» 27 . Il primo livello, quello ontologico, in cui appare il brutto in Rosenkranz è dunque, come in Baudelaire, il piano di un “riscatto”, di una “riforma”: di fronte a una constatazione empirica – la relatività della moda che ha invaso la civiltà, la società, l’arte – il brutto è quell’espressione che porta a una nuova forma di bellezza, la si chiami (come in Rosenkranz) «comico»


o, come in Baudelaire, «promessa di felicità». In esso, come è stato osservato 28 , «si fa luce un brutto riscattabile sul piano del comico e dunque recuperabile al bello». Ma, accanto a questa visione, in cui esplicitamente Rosenkranz afferma che l’arte deve purificare il brutto da ogni sovrabbondanza a esso eterogenea, sottoponendolo alle leggi generali del bello, vi è un altro sguardo, certo più legato all’empiricità dell’arte. Sguardo che, nel momento in cui intende condannare, in realtà mostra che il più volte evocato ideale della bellezza è il retaggio di un passato di cui non è più neppure possibile provare nostalgia: il brutto nell’arte, nella letteratura è qualcosa che permane con forza, e che sembra impossibile riscattare, mostrando come l’Estetica del Brutto sia, in un certo senso, un’introduzione eticamente disperata a un’opera mai scritta «sul male del tempo e sul corrotto spirito del tempo» 29 . Vi è persino, di questa intima contraddizione inconciliabile – dialettica qualitativa vicina a Kierkegaard più che alla hegeliana dialettica conciliativa – una corporea manifestazione soggettiva, evidenziata dal “piacere” che il brutto può suscitare. Piacere che, nella sua duplicità, è lo specchio della scissione in cui vive l’opera stessa di Rosenkranz. Da un lato, infatti, vi è nei confronti del brutto un «piacere sano», che nasce quando «il brutto si giustifica come necessità relativa nella totalità di un’opera d’arte e viene superato dall’effetto contrario del bello» 30 . Ma esiste anche, ed è il tema che attraversa le tre parti della Estetica del Brutto, un piacere patologico: piacere che è per Rosenkranz il risultato di un’epoca «fisicamente e moralmente corrotta», alla quale manca la forza per concepire il bello autentico e vuole solo gustare nell’arte «il piccante della frivolezza e della corruzione», insieme mischiando «l’inaudito, il disparato e il ripugnante» 31 . È su questo gusto per un’arte perversa e irredimibile che si esercita, quasi con sentimento sublime, lo sguardo descrittivo di Rosenkranz. Con sentimento sublime perché l’analisi degli aspetti negativi, deteriori, ripugnanti di un’arte non riscattabile ha certo la funzione di “tenerla a distanza”, a rendere avvertiti dei pericoli per meglio poterli fuggire; ma,


d’altro lato, questa stessa descrizione moralistica è accompagnata da un piacere perverso e negativo, che disegna un quadro artistico, ma anche sociale e culturale, nella cui minacciosità si è prigionieri, e al tempo stesso, tuttavia, compiaciuti protagonisti, destinati a storicizzarla e, sia pure in negativo, a perpetuarla. Queste pagine paradossali e sublimi sul brutto si articolano, sul piano strutturale, in tre parti, dove le prime due, dedicate all’«assenza di forma» e alla «scorrettezza», sono quasi un’introduzione alla terza («Lo sfiguramento e la deformazione»), vero e proprio affresco fenomenologico delle “forme” del brutto, in cui Rosenkranz, dopo avere offerto il quadro teorico generale del proprio discorso, si confronta con le forme d’arte del suo tempo. La letteratura tedesca a lui contemporanea, ma soprattutto, come già si è notato, quella francese, con alcuni accenni al melodramma 32 , vengono presi a esempio della “falsità” del brutto, della sua intrinseca scorrettezza, nella convinzione che la possibilità della bruttezza si verifica sempre là dove viene trasgredita «la determinatezza di misura dell’unità, della distinzione, dell’armonia, una negazione che in quanto tale non ha ancor nulla a che fare con l’opposizione di natura e spirito, buono e cattivo» 33 . Il brutto è, essenzialmente, l’illibertà, intesa non come mera assenza di libertà, ma in quanto negazione positiva della reale libertà. Illibertà che, secondo i consueti, e non sempre convincenti, schemi dialettici si manifesta nelle forme del volgare, del ripugnante e della caricatura. Ciascuna di queste forme, a sua volta, mostra articolazioni quasi infinite, spesso separate tra loro da sfumature descrittive, ma che comunque, nel loro insieme, sul piano verbale, e su quello dell’occhio moralistico che condanna le perversità dell’arte, costruiscono un “vocabolario” categoriale del brutto pressoché definitivo. Il volgare si rivela dunque come meschino, debole e vile, articolandosi poi in banale, casuale e rozzo. In tutte queste parti il brutto manifesta altri aspetti ancora, che conducono sul bizzarro, il barocco, il grottesco, il burlesco, l’osceno, il brutale o il frivolo. Il ripugnante, invece, che è per Rosenkranz «una struttura esteticamente ancora più brutta rispetto al volgare» rivela il goffo, il morto e vuoto, l’orrendo, l’insulso, il nauseante, il male, e si


spinge verso il criminoso, lo spettrale, il diabolico, di cui il satanico rappresenta il vertice. Da questo infinito abisso di negatività minuziosamente descritto è difficile uscire: la condanna verso l’arte di un passato recente (il romanticismo, con tutti i suoi retaggi e tradizioni) e di una contemporaneità variegata (il naturalismo alle sue origini, i primi segni di un’arte che guarda al sociale come sua primaria fonte di ispirazione) sembra totale, non lasciando spazio se non a un sogno classicistico, ma quasi essendo consapevoli che appunto di sogno si tratta, specie in un’epoca in cui la fotografia, con la sua vertigine di esattezza, sempre più allontana «dalla libertà e verità dell’ideale», capace di offrire soltanto un uomo «in situazioni del tutto particolari, dominato da una disposizione sentimentale transitoria» 34 . Apparentemente perduto, anche se non disperso, in questo risentimento classicistico, Rosenkranz può così “uscire” dal brutto solo con un “salto” dialettico, attraverso il quale il brutto trapassa nel comico, la cui forma essenziale è quella della caricatura che, enfatizzando oltre misura un particolare, produce lo squilibrio proprio alla comicità: nella sua disarmonia, attraverso la cattiva eccedenza di un momento dell’intero, può nuovamente risorgere una certa armonia. La caricatura in quanto bruttezza come distruzione positiva della bellezza, risolve dunque il ripugnante in ridicolo, accogliendo in sé tutte le forme sia del brutto sia del bello. In questo modo, la caricatura diventa bella nella sua deformazione, ma solo grazie all’umorismo del comico, che la esagera sino al fantastico. Anche se Rosenkranz, pur lettore di Hogarth 35 , sembra non accorgersi che la caricatura è una maschera “velante”, il cui potere di riscatto è di conseguenza sempre velato da una rappresentazione “raddoppiata”, che allontana dalla pura classicità formale dell’idea, è qui convinto, ancora una volta in sintonia con Baudelaire, che dal 1846 dedica ampia attenzione alla caricatura, connettendola al comico nel noto scritto Dell’essenza del riso 36 , che l’elemento misterioso della bellezza si insinua «persino nelle opere chiamate a rappresentare all’uomo la sua bruttezza


morale e fisica» 37 . Esiste tuttavia un punto essenziale in cui si insinua una differenza fondamentale, facendo volgere lo sguardo di Baudelaire verso il futuro e quello di Rosenkranz verso il passato: perché il comico e la caricatura non sono, per Baudelaire, la ricomposizione di un’armonia, bensì, al contrario, la consapevolezza dell’artista della sua qualitativa e non conciliativa duplicità, il momento in cui sa di non poter ignorare «nessun fenomeno della sua doppia natura» 38 . 4. L’Estetica del Brutto di Rosenkranz è così, al tempo stesso, un sapiente esercizio di “scolastica” hegeliana, una determinazione ontologica di un nuovo orizzonte per l’estetica, una straordinaria fenomenologia empirica e psicologica delle forme disarmoniche e del piacere negativo che generano, una denuncia degli eccessi del romantico e del realismo borghese, un repertorio di nuovi aspetti che, nell’Ottocento, pongono la riflessione sull’arte di fronte a nuove realtà, dalle quali si è consapevoli che non ci si potrà più liberare. È anche presa di coscienza che per sfuggire ai demoni, al disgusto, al male sarà necessario indossare maschere, unico strumento, forse, per restituire all’arte il sogno di un’unità nella varietà, in cui i conflitti, pur esibiti, possano tuttavia ricomporsi. Ma l’Estetica del Brutto è altro ancora: Lessing, Solger, Schlegel, Hugo, Baudelaire stesso sono senza dubbio coloro che, nella modernità, avviano una riflessione che rende ormai impossibile connettere il concetto di espressività a quelli di “classico” e “bellezza”. Ma è Rosenkranz, che a questi concetti è ancora legato, a spezzarne definitivamente la possibilità, aprendo una tradizione che, non solo in Germania, è ancora oggi viva e operante. Francesco De Sanctis, tra i primi a far conoscere in Italia l’opera di Rosenkranz, rivela echi della sua lettura in alcune pagine della Storia della letteratura italiana 39 . Sin dal 1854, pur non citando l’opera di Rosenkranz dell’anno precedente, Giacomo Racioppi pubblica un breve volume dal titolo Del brutto nell’arte ovvero del deforme, del male e del ridicolo in cui, se non altro, si colgono molteplici analogie, forse fondate sul comune substrato hegeliano 40 . E non va ovviamente dimenticato che,


dopo Rosenkranz, non esiste grande opera dell’estetica tedesca tra i due secoli che non presti specifica attenzione al problema del brutto. Theodor Lipps, nel primo volume della sua Estetica (1903), pur affrontando la questione dal punto di vista soggettivo, connesso cioè ai fenomeni “empatici”, risente in modo evidente del lavoro rosenkranziano. Così come di esso si colgono precise tracce nel Sistema di estetica (1905-14) di Johannes Volkelt e nell’opera del neokantiano Hermann Cohen Sistema di filosofia (1912) 41 . Anche un lavoro sistematico come quello di Max Dessoir, Estetica e scienza generale dell’arte (1906), riconosce al brutto un «positivo valore estetico», opposto a un bello che rischia di farsi (come appunto in Rosenkranz) «superficiale conciliazione», non permettendo «di guardare in faccia alle cose» 42 . Dopo Rosenkranz, dunque, il brutto acquista davvero quella “cittadinanza estetica” di cui già si diceva e Rosenkranz stesso appare come il “battista” o il narratore di un fenomeno che, in definitiva, non ha sino in fondo compreso. Ma che, tuttavia, non prenderà altre strade, o che, almeno, delineerà alcuni suoi percorsi secondo le direttrici che Rosenkranz stesso ha indicato. L’impianto sistematico sembra inoltre non giovare alla “attualità” del suo lavoro, e il classicismo artistico appare “vecchio” anche se confrontato con alcuni pensatori del secolo precedente. D’altra parte, i timori che Rosenkranz esprime, il sospetto per i fantasmi di un romanticismo “malato”, od ormai compiaciuto dei suoi sintomi di malattia, così come il timore per un’arte che sia soltanto “rappresentazione”, fotografia mimetica di una realtà sociale degradata, quasi compiaciuta della propria stessa degradazione, non possono essere ritenuti soltanto il sintomo di una “vecchiaia” d’impostazione alla quale Rosenkranz non sa sottrarsi. Baudelaire stesso sospetta della fotografia, osservando che «l’amore dell’osceno, che è tanto vivo nel cuore naturale dell’uomo quanto l’amore di sé, non si lasciò sfuggire una così splendida occasione per saziarsi» 43 , temendo che la «riproducibilità», cioè un realismo solo riproduttivo, sconfini «nella sfera dell’impalpabile e dell’immaginario» 44 .


Sarà probabilmente più dal dualismo disperato di Baudelaire che dall’ansia dialettica di Rosenkranz che scaturiranno quei movimenti – che siamo abituati a riassumere con il nome di “avanguardia” – dove il timore per un’immaginazione deprivata dei suoi poteri creativi condurrà a un trionfo degli elementi eccedenti, deformanti, diabolici, grotteschi, “brutti”, esaltando di tale “trasgressione” il lato romantico, ed esasperandone le finalità. Le cosiddette “avanguardie storiche” svilupperanno senza dubbio più gli aspetti “dualistici” della bruttezza, che quelli “comici” auspicati da Rosenkranz per un “ritorno al bello”. Tuttavia l’attivismo, l’antagonismo, l’antipassatismo, la modernolatria che sembrano caratterizzare l’elogio dell’informe che dominerà gran parte dell’arte contemporanea, nascondono anche motivi ben presenti nell’universo di Rosenkranz e che, forse, ne fanno meglio comprendere il disegno generale: non c’è infatti in loro soltanto elogio confuso delle forme ibride, che vivono nel dissidio il problema della riproducibilità, del mimetismo come ansia che spinge al disordine e al caos, ma anche un’inarrestabile esigenza di totalità, che non pone il brutto “fine a se stesso”, ma lo inserisce in un quadro ontologico, in un movimento che ha in sé comunque una dialettica complessa, non così distante, forse, da quella “grande narrazione” che vede la bellezza al centro della dinamica storica e teorica dell’arte. Il disgusto invocato dal Surrealismo, e altri similari atti “brutti” delle Avanguardie, hanno in sé il duplice compito di abbattere un realismo “borghese” e di mostrare che lo sguardo dell’arte è frammentato e disomogeneo, privo di quelle qualità formali che l’avevano da centinaia d’anni caratterizzato e canonizzato. Ma, al tempo stesso, questo disfacimento delle forme presenta un orizzonte aperto, che ha in sé, dialetticamente, una volontà di riscatto, che restituisca all’arte una “nuova” classicità. Ne sono esempio alcune pagine della Teoria estetica di T. W. Adorno: pagine che prendono avvio da Rosenkranz, se non altro perché egli ha compreso che, qualunque cosa esso sia, il brutto «deve costituire o poter costituire un momento dell’arte» 45 . Solo che, ben oltre Rosenkranz, e anzi in una direzione del tutto opposta, il brutto acquisisce qui una sua


autonomia, sanzionata da molteplici manifestazioni dell’arte contemporanea, dove la “dialettica del brutto” ha ormai risucchiato al proprio interno anche la categoria del bello. I fuochi delle Avanguardie, la dialettica negativa di Adorno vanno dunque in direzioni diverse da quelle di Rosenkranz. E percorre una strada ancor più differenziata e variegata la molteplice attenzione che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, è stata riservata al Kitsch e ai fenomeni da esso derivati. In senso specifico questi eventi culturali, artistici e filosofici non sono neppure “figli” di Rosenkranz, anche là dove ne ricordano l’opera e vivono quei “sigilli” – l’ansia di totalità, lo spirito descrittivo, l’implicita esigenza di giustificare l’arte attraverso un movimento dialettico – che appartengono a quell’ormai nostalgico anelito formale e classicistico che in Rosenkranz è ancora ben vivo. D’altra parte, tuttavia, leggere Rosenkranz non è soltanto un’operazione archeologica nelle paludi delle correnti posthegeliane, bensì, al contrario, l’avvio di una fondamentale riflessione su quel che è oggi l’estetica, in primo luogo nel suo rapporto con il divenire delle arti e delle forme. Spezzare in modo sistematico la sistematica della bellezza, introducendo in essa una pluricategorialità, che ha effetti dirompenti anche al di là della “volontà” dell’autore, riflettere sugli eccessi di un’arte che eccede i confini della forma, spingendosi verso i misteri dell’irrappresentabile e sfiorando i confini del disgusto, condannare una prassi artistica che si disperde in un mero “eclettismo empirico”, in cui si ignorano le finalità empatiche dell’arte, annullandole in un’autoreferenzialità ripetitiva sono alcuni tra i principali “motivi” che segnano l’attualità, esemplificativa e simbolica, dell’opera di Rosenkranz. Questo libro fa pensare e, nel momento in cui ricorda che l’arte non è uno specchio, né la ripetizione di regole astratte, permette forse di guardare i rovesciamenti, gli eccessi, le deformazioni presenti nella nostra contemporaneità, permettendo al tempo stesso che si torni così a ragionare sui confini del gusto, della forma, della rappresentazione e dei loro contenuti espressivi. Invocare un “ritorno all’ordine” attraverso la varietà della bruttezza significa forse avere compreso in profondità le aporie e le contraddizioni in cui oggi si


muovono le categorie della bellezza e dell’arte, ponendo le premesse, attraverso appunto la comprensione teorica del problema, perché l’abisso dell’informe e del Kitsch non divenga l’abile artificio retorico attraverso il quale distruggere il senso simbolico e conoscitivo dell’arte stessa. La presente edizione è stata condotta sull’edizione originale: Karl Rosenkranz, Ästhetik des Häßlichen, Königsberg, Verlag der Gebrüder Bornträger, 1853, pp. xiv + 463. Più recentemente riprodotta immutata in tre diverse edizioni: Stuttgart-Bad Cannstatt, Friedrich Fromann Verlag (Günter Holzboog), 1968; Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1973 e 1979 (Mit einem Vonvort zum Neudruck von W. Henckmann) e Leipzig, ReclamVerlag, 1990 (Herausgegeben und mit einem Nachwort von D. Kliche). La traduzione è di Sandro Barbera, che ne è anche il curatore. Le note fra parentesi quadra sono del curatore (che si è ampiamente servito, con le necessarie aggiunte e rettifiche, dell’apparato dell’edizione lipsiense del 1990 sopra menzionata); parimenti le integrazioni delle note di Rosenkranz. La suddivisione dei capoversi è stata talvolta modificata per rendere più agevole la lettura. 1 Cor. xi, 18b-19 2 La distinzione tra una Destra, un Centro e una Sinistra hegeliana venne operata per la prima volta da David Strauss nel 1838, a seguito delle polemiche sorte relativamente alla sua Vita di Gesù, prendendo a modello la suddivisione con cui si era organizzato il Parlamento francese. Sull’ambiente posthegeliano si veda l’Appendice biobibliografica, infra. 3 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Torino, Einaudi, 1949, pp. 89- 90. 4 Si veda M. Ravera, Estetica posthegeliana. Figure e problemi, Milano, s.d. 5 Rosenkranz è autore di grande prolificità, anche se deve la sua fama alla biografia di Hegel e allo scritto sul brutto. Per l’elenco cronologico completo delle sue opere si veda la già citata Appendice. 6 K. Löwith, cit., p. 96.


7 Si veda F. Iannelli, Hegel e gli hegeliani sul brutto: una ricezione controversa, in “Materiali di estetica”, 10, 2004, p. 10. 8 Ivi, p. 14. 9 G. F. W. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 603. 10 G. Scaramuzza, Il brutto nell’ arte, Napoli, Il Tripode, p. 64, 1995. 11 Così Hegel riferendosi a Napoleone in visita a Berlino. 12 K. Rosenkranz, passim, p. 313. Su Weisse e sull’estetica posthegeliana si vedano i già citati contributi di M. Ravera, K. Lowith. G. Scaramuzza, e l’ampia bibliografia da loro riportata. 13 F. Iannelli, cit., p. 17. 14 Ivi, p. 19. 15 K. W. Solger, nelle sue Lezioni di Estetica, apparse postume nel 1829, è forse tra i primi, in Germania, a elaborare una compiuta “teoria” del brutto, in primo luogo a partire dalle questioni dell’ironia e del sublime (si vedano le Lezioni di Estetica, a cura di G. Pinna, Palermo, Aesthetica edizioni, 1995). Tuttavia non è mai citato da Rosenkranz. Più volte ricordato, e non con accenti positivi, Jean Paul, in particolare nelle sue opere letterarie. 16 Si veda, sull’estetica di Vischer, F. Salza, L’Ästhetik di F. T. Vischer e la superficialità del bello, in “Rivista di estetica”, 2, 1979, pp. 14-26. 17 Così W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Palermo, Aesthetica, 2002 4 , definisce la genesi e la storia del concetto di Bellezza. 18 F. Iannelli, cit., p. 21 19 Rosenkranz scrive nel 1866 un’ampia, informata ma per la verità molto “scolastica”, biografia di Diderot. 20 È peraltro assente anche la principale fonte di Boileau e dello stesso Burke, cioè il trattato dello Pseudo Longino.


21 Si veda V. Hugo, Sul grottesco, Milano, Guerini, 1990. Sono qui contenute, oltre alla prefazione al Cromwell, anche le pagine che Hugo dedica a Shakespeare come “genio grottesco”. 22 K. Rosenkranz, passim, pp. 204 e 205. 23 W. Henckmann, Vorwort a K. Rosenkranz, Ästhetik des Hässlichen, Darmstadt, 1973, p. 126. 24 K. Rosenkranz, passim, p. 43. 25 Ch. Baudelaire, Scritti sull’ arte, Torino, Einaudi, 1992, p. 279. 26 Ivi, p. 280. 27 Ivi, p. 307. 28 W. Jung, Schöner Schein der Hasslichkeit oder Hasslickeit des Schonen Scheins, Frankfurt/M, 1987. 29 Ivi, p. 192. 30 K. Rosenkranz, passim, p. 76. 31 Ivi, passim, pp. 76-77. 32 Rosenkranz cita infatti Meyerbeer e l’Anna Bolena di G. Donizetti. 33 Ivi, p. 148. 34 Ivi, p. 119. 35 Si veda W. Hogarth, L’ analisi della Bellezza, Palermo, Aesthetica, 2001 2 . 36 È il noto saggio che Baudelaire, a seguito del Salon caricaturale del 1846, dedica a questo problema, in cui affronta in modo esplcito il legame tra brutto e comico. Il saggio è raccolto nel già citato volume Scritti sull’ arte. 37 Ch. Baudelaire, Scritti sull’ arte, cit., p. 139. 38 Ivi, p. 155. 39 Ci si riferisce, in particolare, alle pagine che De Sanctis dedica all’Inferno di Dante.


40 Si veda G. Racioppi, Del brutto nell’ arte, a cura di M. Mazzocut-Mis, Padova, 1990. Si veda anche M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’ anomalia e il deforme nella natura e nell’ arte, Milano, Guerini, 1992. 41 In particolare nella terza parte, che ha come titolo “Estetica del sentimento puro”. 42 M. Dessoir, Estetica e scienza dell’ arte, a cura di L. Perucchi e G. Scaramuzza, Milano, Unicopli, 1986, p. 156. 43 Ch. Baudelaire, cit., p. 220. 44 Ivi, p. 221. È da queste osservazioni di Baudelaire che prendono ovviamente avvio le riflessioni di Walter Benjamin sull’opera d’arte che, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, perde la sua secolare “aura” classicistica. 45 T. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1981, p. 78.


Estetica del Brutto di Karl Rosenkranz … ascolta, non avere troppo caro il sole e le stelle, vieni, seguimi giù nel regno oscuro 1. Goethe


Prefazione Un’estetica del brutto? E perché no? “Estetica” è diventato un termine collettivo che include un ampio gruppo di concetti e che poi si suddivide in tre classi particolari. La prima ha a che fare con l’idea del bello, la seconda con il concetto di produzione del bello, cioè con l’arte, la terza infine con il sistema delle arti, con la rappresentazione artistica dell’idea del bello in un determinato medium. I concetti appartenenti alla prima classe li riassumiamo di solito sotto il titolo di metafisica del bello. Ma se si discute l’idea del bello, non si può prescindere da una ricerca sul brutto. Il concetto di brutto, in quanto negazione del bello, è dunque una parte dell’estetica. Non sarebbe possibile assegnarlo a nessun’altra scienza: è dunque legittimo parlare di estetica del brutto. Nessuno si meraviglia che nella biologia si tratti anche del concetto di malattia, nell’etica del concetto di male, nella scienza del diritto del concetto di torto, nella scienza della religione del concetto di peccato. Se dicessimo teoria del brutto, non esprimeremmo con sufficiente precisione la genealogia scientifica del concetto. Del resto, è la trattazione della cosa stessa che deve giustificare il nome. Mi sono sforzato di sviluppare il concetto di brutto come termine medio tra il concetto di bello e quello di comico, dai primi inizi sino al suo compiersi nella figura del satanico. Dispiego tutto l’universo del brutto dalle sue prime nebulose – l’amorfia e l’asimmetria – per arrivare fino alle sue formazioni più intensive nell’infinita varietà della disorganizzazione del bello, attraverso la caricatura. L’assenza di forma, la scorrettezza e la deformità dello sfiguramento costituiscono i vari gradi di questa serie di metamorfosi, in sé dotata di consequenzialità. Si è cercato di dimostrare come il brutto abbia nel bello il suo presupposto positivo: sfigurato, produce il volgare anziché l’elevato, il ripugnante anziché il piacevole, la caricatura anziché l’ideale. Tutte le arti e tutte le epoche artistiche dei diversi popoli sono chiamate in causa per chiarire lo sviluppo dei concetti con esempi adeguati, utili anche per offrire materiale e punti d’appoggio a coloro che in futuro si occuperanno di questo difficile settore dell’estetica.


Credo di conoscere molto bene l’incompletezza di questo lavoro, ma con esso spero tuttavia di porre riparo a una lacuna assai rilevante. Finora il concetto di brutto è stato trattato solo o in modo disperso e incidentale, o in tratti assai generali, ciò che appunto gli faceva correre il rischio di venir fissato in determinazioni molto unilaterali. Do per scontato che il benevolo lettore realmente desideroso di istruirsi convenga con tutto questo; ma, ci si potrebbe chiedere, dobbiamo proprio indagare così a fondo un soggetto tanto sgradevole e abominevole? Senza dubbio sì, perché la scienza da qualche tempo ha continuato a risollevare questo problema ed esige di risolverlo. Non ho certo la pretesa di averlo assolto. Sarò soddisfatto se mi si concede, qui come in altri campi, di aver fatto almeno un passo avanti. Di questa confessione qualcuno potrebbe pensare che là sotto è terribile e non tenti l’uomo gli dèi e non cerchi mai di guardare quel che pietosamente hanno coperto con la notte e la paura. 2 Qualcuno può pensarla così, e lasciare intonsa questa scienza del brutto. Ma la scienza non segue che la propria necessità. È costretta ad andare avanti. Tra le rubriche concernenti la divisione del lavoro, Charles Fourier ne ha istituita una per quelli che chiama travaux de dévouement: per questi lavori non esiste inclinazione individuale innata, ma gli uomini vi si risolvono per rassegnazione, perché li riconoscono necessari per il bene comune. Anche qui s’è cercato di adempiere a un obbligo del genere. Ma l’argomento è davvero così ripugnante? Non contiene anche punti luminosi? Non vi è nascosto anche – per il filosofo, per l’artista – un contenuto positivo? Penso di sì, poiché il brutto non può essere inteso che come termine medio tra il bello e il comico. Il comico è impossibile senza un ingrediente di bruttezza, che esso piega e risolve nella libertà del bello. Quest’esito sereno della nostra ricerca, che emerge ovunque, ricompenserà dell’aspetto innegabilmente penoso di talune sezioni del lavoro. Nel corso della trattazione, una volta mi sono scusato in certo qual


modo, di pensare così spesso per esempi. Ma mi accorgo che non ne avrei avuto affatto bisogno: tutti i teorici dell’estetica procedono in questo modo, anche Winckelmann, Lessing, Kant, Jean Paul, Hegel, Vischer e lo stesso Schiller, che raccomanda un uso contenuto dell’esempio. Del resto, non ho usato che un po’ più della metà del materiale accumulato a tale scopo in una serie di anni. Ho scelto gli esempi con ampiezza e varietà solo per non dar luogo, con l’esempio, a un’idea limitata dei principi generali. Un pericolo reale, come dimostra la storia di tutte le scienze. Posso forse sembrare un po’ antiquato, un po’ puntiglioso nel modo in cui ho proceduto con l’uso del materiale. Gli scrittori moderni hanno escogitato uno strano modo di citare, cioè con le cosiddette «virgolette» del tutto a vanvera. Da dove prendano la citazione, rimane oscuro. È già molto se vi aggiungono il nome dell’autore; e sembra loro d’essere pedanti se poi al nome dell’autore aggiungono il titolo del libro. Certo, sarebbe un segno di goffaggine gravare sempre di citazioni ad hoc cose universalmente note o irrilevanti. Ma le cose meno consuete, toccate di rado, remote, ancora sottoposte a dibattito esigono a mio parere di essere riferite con maggiore esattezza, in modo che il lettore vada egli stesso, se vuole, alle fonti e possa confrontare e giudicare da solo. L’eleganza non può mai essere lo scopo dell’esposizione scientifica, ma solo un mezzo, e molto subordinato; fondata solidità e precisione debbono sempre avere la precedenza. Ora che la stampa è terminata, mi accorgo con terrore che una considerevole quantità degli esempi è stata presa dal presente più prossimo: naturalmente perché erano freschissimi nella mia memoria e mi tenevano vivamente occupato per l’interesse che porto anche ai loro autori. Questi autori, tra i quali conto degli amici personali, non lo interpreteranno male, non se la prenderanno con me? Sarebbe molto doloroso. Ma gli illustri autori non dovranno forse chiedersi prima di tutto se quel che dico è vero? Se è così, non vi è nulla che li possa contrariare. Dal mio modo rispettoso di criticare e da altri passi, nei quali viene loro dispensata, quando la meritano, la giusta lode, vedranno che la mia disposizione amichevole è rimasta la stessa. Ricordo, anzi, di avere comunicato ai più


per lettera le mie critiche, sicché non possono farsi meraviglia se anche a stampa io rimango dello stesso avviso. Avrei omesso del tutto quest’osservazione se per una certa esperienza non sapessi come sono suscettibili gli spiriti moderni, quanto poco sono capaci di sopportare la contraddizione, quanto desiderano essere solo lodati, e non istruiti, quanto sono acuti solo nel criticare gli altri e quanto anche dalla critica esigono prima di tutto disposizione favorevole e sottomissione, cioè ammirazione. Credo che la mia esposizione sia leggibile anche in cerchie più ampie, non solo in quella accademica. Soltanto per la natura della materia trattata la leggibilità avrà determinati limiti. Ho dovuto toccare soggetti abominevoli e chiamare certe cose col loro nome. Come teorico, ho potuto trattenermi dal discendere in certe cloache accontentandomi di alludervi, come nel caso delle invenzioni sotadiche. Come storico non avrei potuto farlo, come filosofo ne avevo la libertà. Malgrado la straordinaria attenzione che ho usato, taluno giudicherà che non avrei avuto affatto bisogno di essere franco fino a questo punto. Allora però – posso assicurarlo – l’indagine non sarebbe stata assolutamente consentita, non sarebbe stata possibile. È triste che da noi anche nella scienza si insinui una certa pruderie, e anche nel trattare oggetti della natura animale e dell’arte si faccia della decenza il metro esclusivo. E qual è il modo migliore di acquistare decenza? Non parlare affatto di certi fenomeni, decretare che non esistono. Li si elimina senza scrupoli per restare presentabili nella buona società. Ad esempio si pubblicano con stampe – perché senza illustrazioni a stampa la moderna scientificità non è più nemmeno possibile – con scoperte microscopiche, una fisiologia, una teoria della vita, letture tenute a un circolo di signore e signori in una capitale, e non si dice una parola sull’apparato generativo e sulle funzioni sessuali! Molto decente, certo! La nostra storia letteraria tedesca è già stata castrata del tutto con l’adeguarla ai pensionati di signorine e alle scuole femminili superiori: al fine di estrarvi sempre e solo il nobile, il puro, il bello, l’edificante, il confortante, il piacevole, l’amorevole, il nobilitante, e via dicendo per le anime fragili delle giovanette e delle


donne. Ne è venuta fuori una storia della letteratura dal conio incredibilmente falso che, andando oltre le considerazioni pedagogiche, deforma l’interpretazione e si basa su florilegi tradizionali scelti in modo estremamente unilaterale. Fortuna che ora appare un’opera come quella di Kurz 3 : con la sua autonomia, costringerà i manovali delle antologie a trattare una buona volta altri soggetti, con un altro ordine e un altro giudizio rispetto al binario calcato fino alla nausea. Il lettore accorto capirà che – con tutti gli scrupoli possibili – non potevo scrivere con questo stile clorotico da pensionato, e che posso ben applicare al presente caso il detto di Lessing: Non scrivo per bambinetti che tutti fieri vanno a scuola con in mano quell’Ovidio che i lor maestri non comprendono. 4


Introduzione Grandi conoscitori del cuore umano si sono sprofondati negli abissi pieni d’orrore del male, hanno descritto le spaventose figure che venivano loro incontro da quella notte. Grandi poeti, come Dante, hanno messo ancor più in evidenza tali figure; pittori come Orcagna, Michelangelo, Rubens, Cornelius ce le hanno poste sensibilmente davanti agli occhi e musicisti, come Spohr, ci hanno fatto ascoltare i suoni atroci della perdizione nei quali il malvagio grida e urla il dissidio del suo spirito. L’inferno non è solo etico e religioso, è anche inferno estetico. Noi siamo immersi nel male e nel peccato, ma anche nel brutto. Il terrore dell’informe e della deformità, della volgarità e dell’atrocità ci circondano in innumerevoli figure, dai pigmei fino a quelle deformità gigantesche da cui la malvagità infernale ci guarda digrignando i denti. È in quest’inferno del bello che qui vogliamo discendere. È impossibile farlo senza contemporaneamente introdurci nell’inferno del male, nell’inferno reale, perché il brutto più brutto non è quel che in natura ci ripugna – paludi, alberi contorti, salamandre e rospi, mostri marini che ci fissano con occhi spalancati, e pachidermi massicci, ratti e scimmie – è l’egoismo che manifesta la sua follia nei gesti perfidi e frivoli, nelle rughe della passione, nello sguardo torvo dell’occhio e nel crimine. Questo inferno lo conosciamo abbastanza. Ognuno partecipa al suo supplizio. Sentimento, occhio e orecchio ne vengono colpiti nel modo più vario. Chi ha un’organizzazione più fragile, una conformazione più delicata spesso deve soffrirne immensamente; la rozzezza e la volgarità, l’informe e il deforme spaventano il senso più nobile con mille trasformazioni larvali. Un fatto, tuttavia, può essere noto a sufficienza, eppure non essere ancora riconosciuto a dovere nel suo pieno significato, in tutta la sua estensione. È il caso del brutto. La teoria delle belle arti, la legislazione del buon gusto, la scienza dell’estetica da un secolo a questa parte sono state ampiamente elaborate dai popoli civili d’Europa: solo l’elaborazione del concetto di brutto, malgrado la si sia sfiorata spesso, è rimasta assai arretrata. Si troverà normale che ormai anche il lato d’ombra


della figura luminosa del bello diventi un momento della scienza estetica, come in patologia la malattia, nell’etica il male. Non, come si è detto, che l’inestetico non sia già noto a sufficienza nelle sue manifestazioni particolari. Come potrebbe essere possibile questo, dal momento che la natura, la vita e l’arte ce lo rammentano ogni istante? Ma non si è ancora tentata un’esposizione più compiuta della sua connessione e una più esplicita conoscenza della sua organizzazione. Certamente alla filosofia tedesca spetta l’onore di aver avuto per prima il coraggio di riconoscere il brutto come il negativo dell’idea estetica, come un momento integrativo dell’estetica, e anche di aver riconosciuto che, attraverso il brutto, il bello passa nel comico 5 . Non si può più rinnegare questa scoperta, che ha acquisito alla negazione del bello i suoi diritti. Soltanto che la trattazione del concetto di brutto è rimasta ferma, finora, in parte a una generalità abbozzata, poco approfondita, in parte a una concezione troppo unilateralmente spiritualistica. Essa era tesa, in modo troppo esclusivo, a spiegare alcune figure di Shakespeare e Goethe, di Byron e del genere Callot-Hoffmann 6 . Estetica del brutto suonerà, a taluno, un po’ come “ferro ligneo”, perché il brutto è il contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente nel suo sviluppo come quell’errore in sé in cui si può cadere con un troppo o un poco, spesso esigui. Nel descrivere le determinazioni positive del bello, ogni estetica è costretta a toccare, in qualche modo, anche quelle negative del brutto. Perlomeno ci si imbatte nel monito che, se non si procede secondo le prescrizioni indicate, il bello non ci sarà e al suo posto verrà prodotto invece il brutto. L’estetica del brutto deve descriverne l’origine, le possibilità, le modalità, e in tal modo può diventare utile anche all’artista. Per quest’ultimo, naturalmente, sarà sempre più formativo rappresentare la bellezza senza manchevolezze, che non applicare la sua forza al brutto. Pensare a una figura divina eleva e dà piacere infinitamente di più che immaginare una grottesca smorfia diabolica. Ma non sempre l’artista può evitare il brutto; spesso anzi ne ha bisogno come punto di passaggio nella manifestazione dell’idea, e come elemento di


spicco. Per di più, l’artista che produce il comico non può assolutamente fare a meno del brutto. Qui però possiamo prendere in considerazione, tra le arti, solo quelle che operano come libero fine a se stesse e come fine teoretico per i sensi dell’occhio e dell’udito. Le altre arti, dedicate al servizio dei sensi pratici del tatto, del gusto e dell’olfatto, restano escluse. Il signor Rumohr nel suo Geist der Kochkunst, Anthus nelle sue interessanti Vorlesungen über die Eßkunst e Vaerst nella sua arguta opera sulla gastronomia 7 , di valore durevole soprattutto dal punto di vista etnografico, hanno portato a un alto livello quest’estetica sibaritica. Leggendo questi lavori ci si può convincere che le leggi generali valide per il bello e per il brutto sono le stesse anche per l’estetica della buona tavola, per molti la più importante di tutte. Che una scienza come la nostra esiga una completa serietà d’intenti, e nello stesso tempo non la si possa trattare con pedanteria, a meno di non voler assumere per metro la fragile eleganza dell’estetica da tavolino da tè ed evitare con affettazione il cinico e l’abominevole, è cosa che si comprende da sé: in questo caso infatti verrebbe meno la cosa stessa. L’estetica del brutto obbliga a occuparsi di concetti la cui discussione, o anche solo menzione, può essere considerata una mancanza verso le buone maniere. Chi prende in mano una patologia e terapia delle malattie si mette anche il cuore in pace e sa già di imbattersi nel ripugnante: e così qui. Non è difficile capire che il brutto, in quanto concetto relativo, è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto. Questo altro concetto è quello del bello: il brutto c’è solo in quanto c’è il bello, che ne costituisce il presupposto positivo. Se non ci fosse il bello, il brutto non ci sarebbe affatto, perché esiste solo come negazione di quello. Il bello è l’idea divina originaria e il brutto, sua negazione, ha, appunto in quanto tale, un’esistenza solo secondaria. Non nel senso che il bello, in quanto è il bello, possa essere contemporaneamente brutto, ma nel senso che le stesse determinazioni che costituiscono la necessità del bello si convertono nel suo contrario. Questa intima connessione del bello con il brutto in quanto sua autodistruzione è anche la base della possibilità che il brutto, a sua volta,


si neghi: che, in quanto esiste come negazione del bello, risolva poi di nuovo la sua contraddizione al bello tornando in unità con esso. In tale processo il bello si rivela come la forza che torna a sottomettere al suo dominio la ribellione del brutto. In questa conciliazione nasce un’infinita serenità, che suscita in noi il sorriso, il riso. Il brutto si libera in questo movimento della sua natura ibrida, egoistica; riconosce la sua impotenza e diventa comico. Il comico include sempre in sé un momento negativo verso il puro, semplice ideale; una tale negazione viene ridotta in esso ad apparenza, a nulla. L’ideale positivo viene riconosciuto nel comico perché, e in quanto, la sua manifestazione negativa si volatilizza. Il modo di considerare il brutto è quindi delimitato con precisione dalla sua natura. Il bello è la condizione positiva della sua esistenza e il comico è la forma in cui esso, al cospetto del bello, torna a liberarsi del suo carattere solo negativo. Il semplice bello sta in relazione negativa per eccellenza verso il brutto: è bello solo nella misura in cui non è brutto, e il brutto è brutto solo nella misura in cui non è bello. Non che il bello, per essere bello, abbia bisogno del brutto. È bello anche senza il rilievo a contrasto che il brutto gli offre, ma il brutto è il pericolo che lo minaccia internamente, la contraddizione che per sua natura ha in se stesso. Le cose vanno diversamente con il brutto. Dal punto di vista empirico, certamente, è ciò che è grazie a se stesso: il fatto però che sia brutto è possibile solo per la sua relazione al bello, in cui esso ha la sua misura. Il bello dunque, come il bene, è un assoluto, e il brutto, come il male, è solo un relativo. Non certo nel senso che ciò che è brutto possa essere, in determinati casi, dubbio. Questo è impossibile, perché la necessità del bello è determinata per se stessa. Ma il brutto è relativo perché non può trovare in sé, ma solo nel bello, la sua misura. Nella vita comune ognuno può seguire il proprio gusto e può sembrargli bello ciò che per un altro è brutto e viceversa. Ma se si vuole sollevare questa casualità del giudizio estetico-empirico al di sopra della sua mancanza di sicurezza e chiarezza, bisogna sottoporla alla critica, e quindi all’illustrazione dei supremi principi. L’àmbito del bello convenzionale, della moda, è pieno di


fenomeni che, giudicati in base all’idea del bello, non possono che essere definiti brutti, e tuttavia valgono temporaneamente per belli. Non perché lo siano in sé e per sé, ma solo perché lo spirito di un’epoca trova proprio in queste forme l’espressione adeguata del suo carattere specifico e si abitua a esse. Nella moda più che altrove accade allo spirito di essere in corrispondenza con la sua impronta: qui anche il brutto può servire come mezzo di espressione adeguata. Mode del passato, soprattutto del passato recente, di regola vengono giudicate brutte o comiche: è perché il mutamento di sensibilità può svilupparsi solo per opposizioni. I cittadini della Roma repubblicana, che sottomisero il mondo, si rasavano. Cesare e Augusto ancora non portavano barba e solo a partire dall’epoca romantica di Adriano, quando l’impero cominciava a soccombere sempre più sotto l’impeto dei barbari, la barba folta divenne moda, come se, sentendosi deboli, ci si volesse assicurare sulla propria virilità e baldanza. Le più memorabili metamorfosi estetiche della moda ce le offre la storia della prima rivoluzione francese. Hauff le ha analizzate filosoficamente 8 . Il brutto ha dunque due frontiere: il limite iniziale del bello e il limite finale del comico. Il bello esclude da sé il brutto; il comico invece fraternizza col brutto, ma contemporaneamente gli toglie l’elemento ripugnante facendone vedere la relatività e nullità al cospetto del bello. Un’indagine del concetto di brutto, un’estetica di tale concetto, trova quindi già delineata con precisione la via da seguire. Deve cominciare ricordando il concetto di bello, non per esporlo in tutta la pienezza della sua natura – come è d’obbligo per una metafisica del bello – ma solo quanto basta a dare le determinazioni fondamentali del bello, da cui il brutto si produce come sua negazione. Ma l’indagine deve terminare con il concetto della trasformazione che il brutto sperimenta diventando mezzo di comicità. Naturalmente, anche il comico qui non va affrontato in tutti i suoi dettagli, ma piuttosto solo nella misura che esige la dimostrazione del passaggio del brutto a comico. Il negativo in generale


Che il brutto è un negativo, risulta a sufficienza da quanto si è detto. Ma il concetto generale di negativo non ha con il concetto di brutto che questo rapporto: anch’esso esprime un negativo. L’idea del negativo in generale nella sua pura astrazione non ha alcuna forma sensibile. Ciò che non può manifestarsi sensibilmente neppure può diventare oggetto estetico. Dei concetti di nulla, di altro, di smisurato, di inessenziale, di negativo in genere non si può dare – in quanto astrazioni logiche – intuizione e rappresentazione, perché in quanto tali non possono in alcun modo ricadere nella sensibilità. Il bello è l’idea così come trova effettuazione nell’elemento del sensibile, come libero configurarsi di una totalità armonica. In quanto negazione del bello, anche il brutto ne condivide l’elemento sensibile e quindi non può avere accesso in una regione che è solo ideale, in cui l’essere esiste solo come concetto ma la cui realtà, come realtà che adempie alle condizioni dello spazio e del tempo, ancora è esclusa. E quanto poco può esser definito brutto il concetto di negativo in generale, altrettanto quel negativo che è l’imperfetto. L’imperfetto Nel senso in cui il bello è essenzialmente idea, di esso si può dire anche che è il perfetto. E molto spesso – espressamente poi nell’estetica di Baumgarten, nel secolo scorso 9 – si è assunta l’identità del concetto di perfezione col concetto di bello. Ma perfezione è un concetto non direttamente connesso a quello di bellezza. Vi può essere un animale dall’organizzazione molto funzionale al fine, quindi organizzato in modo perfetto come individuo vivente, e proprio perciò molto brutto, come accade col cammello, il bradipo, la seppia, la rana pipa. Un errore nel pensiero soggettivo, un concetto scorretto, una conclusione errata sono imperfezioni dell’intelligenza che però non appartengono alla categoria dell’estetico. Virtù appena acquisite, non ancora rielaborate quindi dal virtuosismo dell’abitudine, producono un’impressione dal punto di vista etico, eppure possono avere nella loro gioiosa volontà di sviluppo


qualcosa di infinitamente attraente dal punto di vista estetico. Ma un’indole brutta non può che voler dire cattiva. Il concetto di imperfetto è relativo. Dipende sempre dal metro che si assume per valutarlo. La foglia è imperfetta rispetto al fiore, il fiore rispetto al frutto: e certamente è così se si valuta il fiore in base al frutto assunto come esistenza normale della pianta. Dal punto di vista estetico il fiore, imperfetto in senso botanico, o meglio ancora economico, sta più in alto del frutto. In questa relazione l’imperfezione è tanto poco identica alla bruttezza, che può anzi essere superiore a ciò che per realtà e totalità è più compiuto. Se nell’imperfetto agisce l’impulso al buono, al vero e al bello, può anche essere bello, anche se non come nel punto della sua perfezione. Le opere di un autentico artista al suo esordio, ad esempio, avranno ancora svariate manchevolezze, eppure fanno già intravedere il genio chiamato a imprese più alte. Le poesie giovanili di uno Schiller e di un Byron sono ancora imperfette, ma già annunciano il futuro del loro autore, spesso proprio per come si esprime la loro incompiutezza. L’imperfetto nel senso dell’iniziale, dunque, non può essere confuso col concetto di cattivo, al cui posto lo si usa volentieri per eufemismo. L’imperfetto in quanto grado necessario di sviluppo si trova comunque sulla via che porta alla perfezione. Lo scadente invece è quella realtà che non fa desiderare nulla, non suscita nemmeno l’aspettativa di una maggiore perfezione, ma è concettualmente imprigionata in contraddizioni positive. L’imperfetto in senso positivo impedisce soltanto alla forma che seguirà di mostrarsi totalmente come ciò che in sé è già. Lo scadente invece è un imperfetto in senso negativo che include in sé qualcosa d’altro, qualcosa che non deve essere. Un disegno può essere imperfetto e tuttavia bello; un disegno scadente è un prodotto erroneo che contraddice alle leggi estetiche. Per la nostra indagine è essenziale soprattutto intendere il comparativo del bello, presente nell’arte stessa e che si può esprimere così: dal fatto che qualcosa sia più bello di qualcos’altro non segue che il meno bello sia brutto. Si tratta piuttosto di una distinzione di grado, che non àltera ancora la qualità del bello in sé. Bisogna soprattutto ricordare che tutte le


specie sono coordinate in rapporto al genere, anche se tra loro possono stare in rapporto di subordinazione. Nei confronti del genere tutte le specie hanno uguale legittimità, tuttavia questo non esclude che l’una stia più in alto rispetto all’altra. Come specie dell’arte, architettura, scultura, pittura, musica e poesia sono del tutto uguali tra loro, eppure è vero che, così elencate, esprimono una successione in incremento in cui l’arte successiva supera la precedente nella possibilità di esprimere in modo più adeguato l’essenza dello spirito: la libertà. Lo stesso all’interno della singola arte, poiché le distinzioni qualitative di un’arte si comportano anch’esse, verso di essa, come specie. Tenendolo presente si eviteranno tutte le discussioni circa il primato di un’arte sull’altra: la coordinazione non andrà mai a scapito della subordinazione. Ad esempio la poesia è oggettivamente perfetta come poesia drammatica; dunque l’epica e la lirica le sono subordinate, ma da questo non segue che lirica ed epica – forme necessarie della poesia – non posseggano la stessa assolutezza. Da un punto di vista relativo l’architettura è più imperfetta della scultura, questa più imperfetta della pittura e così via. Eppure ognuna di queste arti può raggiungere, all’interno della sua specificità di materiale e forma, l’assolutezza. Vale a dire, in altre parole, che la subordinazione in quanto tale non ha alcun rapporto con la bruttezza. Quando dunque indichiamo – e siamo costretti a farlo – un’arte o un genere artistico come inferiore o più imperfetto, con questo non lo degradiamo affatto in senso estetico: lo diciamo solo in senso relativo, senza implicare il concetto di una bruttezza che discenderebbe necessariamente da questa gradazione. Per singole opere d’arte si è soliti spesso esprimere il comparativo del bello con semplici indicazioni di quantità. Si dice ad esempio che il Münchhausen è l’opera maggiore di Immermann 10 , e con questo si vuol dire che si tratta della più bella. Ma meno bello non è per nulla identico a brutto. Il brutto di natura Nella natura, la cui idea è essenzialmente l’esistenza nello spazio e nel tempo, il brutto può già assumere innumerevoli forme. Il divenire, a cui in


natura tutto sottostà, con la libertà del suo processo rende possibile a ogni istante l’eccesso e la dismisura, e con ciò una distruzione della pura forma a cui la natura in sé tende, dunque il brutto. Spesso, dal momento che nella loro confusione variopinta si affollano in disordine verso l’esistenza, i singoli esseri naturali si ostacolano a vicenda nel loro processo morfologico. Le forme geometriche e stereometriche – triangolo, quadrangolo, cerchio, prisma, cubo, sfera ecc. – sono già belle, nella loro semplicità, per la simmetria dei loro rapporti. Certo, come forme generali di astratta purezza hanno la loro esistenza ideale solo nella rappresentazione dello spirito: in concreto appaiono solo come forme di determinate formazioni naturali nei cristalli, piante e animali. Qui il corso della natura sta nel passare dalla rigidezza dei rapporti fatti di linee rette e superfici piane alla fluidità della curva e a una mirabile combinazione di rette e curve. Nella misura in cui è dominata soltanto dalla legge di gravità, dal punto di vista estetico la mera massa bruta ci offre una situazione neutrale, per così dire. Non è necessariamente bella, ma nemmeno necessariamente brutta: è casuale. Prendiamo ad esempio il nostro pianeta: per essere bello come massa dovrebbe essere una sfera perfetta, ma non lo è. È appiattito ai poli e rigonfio all’equatore, per non parlare delle grandi disuguaglianze d’altitudine sulla sua superficie. A una considerazione puramente stereometrica, un profilo della circonferenza terrestre mostrerebbe la più casuale confusione di altitudine e profondità, dai contorni più incalcolabili. Anche della superficie lunare non possiamo dire che sia bella, con il suo miscuglio di alture e depressioni. Il disco argenteo della luna, visto da lontano come semplice corpo liscio, è bello, ma non lo è quest’intrico di coni, solchi, vallate. Noi non possiamo considerare oggetti estetici le linee che descrivono i corpi celesti in spirali variamente ellittiche, perché solo nei nostri disegni sono linee. Ma l’infinità dell’ammasso stellare non opera sul nostro senso visivo attraverso la massa, bensì attraverso la luce. In taluni ammiratori del cielo notturno scintillante s’insinua una certa illusione della fantasia nel dare il nome alle costellazioni: la Lira, il Cigno, la Chioma di Berenice, Ercole, Perseo ecc.:


com’è bello! L’astronomia moderna è diventata molto prosaica nell’attribuire i nomi e ha onorato nelle costellazioni il sestante, il telescopio, la pompa ad aria, il torchio da stampa e altre importanti invenzioni del genere. Che azioni meccaniche – urto, tiro, caduta, oscillazione – possano essere belle è cosa condizionata non solo dalla forma del moto, ma anche dalla natura degli oggetti e dal grado della loro velocità. Ad esempio un’altalena nel suo oscillare non sarà proprio brutta, ma nemmeno bella. Ci si immagini però una fanciulla che si dondola graziosamente avanti e indietro sull’altalena nella chiara aria di primavera: sarà uno spettacolo di serena bellezza. L’ardito sparo di un razzo che rischiara l’oscurità notturna e nella conflagrazione in cui culmina sembra fraternizzare con il cielo stellato non è bello solo per il movimento meccanico ma anche per la luminosità e la velocità. In sé, i processi dinamici della natura non sono né belli né brutti, perché in essi la forma non giunge a espressività. Coesione, magnetismo, elettricità, galvanismo, chimismo, in quanto tali sono semplici nella loro ottusità. Ma i loro risultati possono essere belli, come lo sfavillare della scintilla elettrica, il raggio a zig-zag del suo lampo, il rombare maestoso del tuono, le variazioni cromatiche nei processi chimici e così via. Qui, le formazioni fantastiche che il gas può sviluppare nella sua mobilità elastica aprono un campo assai ampio. Nella sua grande libertà, il gas fa nascere forme tanto belle quanto brutte. La forma fondamentale è comunque la sferica, che si dilata uniformemente in tutte le direzioni. Ma siccome il gas ha un’espansione illimitata, la forma sferica va perduta sia per gli ostacoli che le oppongono i corpi solidi, sia per gli altri gas con cui si mescola e discioglie in modo caotico. Che gioco infinitamente ricco, inesauribile, di figure crepuscolari che ricordano tutto e nulla ci offrono le nuvole 11 ! Nella natura organica l’isolamento costituisce il principio di esistenza della forma. Di qui il fatto che la bellezza si libera dalla casualità di sogno che le è inerente nella natura inorganica. La forma organica ha immediatamente un determinato carattere estetico, perché è un individuo reale. Ma, proprio perciò, a questo punto anche il brutto diventa possibile


in modo molto più preciso. Seguire il corso della natura da questo punto di vista è compito che spetta propriamente all’estetica del bello di natura. Noi non possiamo soffermarvici in modo dettagliato, e rimandiamo agli eccellenti lavori di Bernardin de Saint-Pierre, Oerstedt e Vischer 12 . In natura l’euritmia, la simmetria e l’armonia della forma, dalle semplici formazioni cristalline si innalzano – attraverso il conflitto di linea curva e linea retta nel regno vegetale – fino alle innumerevoli conformazioni del regno animale, dove con mille oscillazioni e fusioni la curva assume il ruolo dominante: un processo che implica al tempo stesso un’infinita metamorfosi e gradazione di tono cromatico. I singoli cristalli, presi in sé, sono belli. Insieme con altri, nello stato di aggregato, si mostrano spesso in una combinazione fantastica, come si può vedere nei begli esemplari raccolti da Schmidt 13 . I grandi aggregati sulla superficie terrestre hanno le forme più varie, spesso più indefinibili. I monti possono avere un aspetto bello, quando si distendono in linee pure e dolci; sublime, se s’innalzano come muraglie a mo’ di bastioni, come coni giganteschi che torreggiano fino al cielo; brutto, quando disperdono la vista su crepacci desertici in un intrico senz’ordine; comico, quando eccitano la fantasia con stravaganze bizzarre e grottesche. Nella realtà immediata queste forme acquistano, se illuminate, un’attrattiva particolare. Come viene accresciuta dalla luce lunare l’eccentrica stranezza dell’Au-ma-tu, o Cinque teste di cavallo, del colle del Boeate, del Tsi-Tsin o monte delle Sette Stelle, in Cina 14 . Tra la struttura chimica e la forma esiste una connessione che Hausmann, in un classico saggio, ha dimostrato anche per il rapporto che lega la forma del suolo alla vegetazione e al regno animale. Il raffreddamento della crosta terrestre, prima rovente, e il gioco dell’acqua e dell’aria hanno segnato i grandi lineamenti della fisionomia terrestre 15 . Le piante sono quasi sempre belle. Secondo una teologia antiquata, le piante velenose dovrebbero essere brutte: e sono proprio quelle che ci offrono una sovrabbondanza di forme leggiadre e di colori deliziosi. La loro forza narcotica può anche uccidere, ma cosa importa alla pianta di


quest’effetto? L’uccidere è forse implicito nel suo concetto? La narcosi può avere un effetto letale, così come può mandare in estasi con l’ebbrezza che produce; può addirittura salvare la vita da malattie. Veleno è un concetto molto relativo, e il “farmakon” greco indica tanto il veleno quanto la medicina 16 . Ma siccome la pianta è vivente, può anche essere brutta. La vita, come libertà di formazione, introduce necessariamente questa possibilità. Crescendo raggruppate le piante possono soffocarsi e in tal modo imbruttirsi in una deformità che loro stesse producono. Possono essere manomesse con violenza dall’esterno, potate in modo arbitrario e storpiate. Ma possono anche degenerare per un processo interno, per malattia. Con la malattia può svilupparsi anche un processo che le sforma e cambia, in brutto, il colore. In tutti questi casi la causa naturale della bruttezza è ben manifesta. Non si tratta di un principio satanico, estraneo alla vita e alla pianta; è appunto la pianta stessa che come essere vivente malato e in conseguenza dell’ammalarsi può perdere la sua forma normale in tumori ed escrescenze, o essiccandosi e intristendo, e perdere il suo colorito normale in colori sbiaditi e stinti. Ma la violenza che le può essere arrecata dalla tempesta, dall’acqua, dall’afa, da animali e da uomini, è in sé estranea alla pianta. Può imbruttirla, ma anche abbellirla: dipende dall’effetto specifico. La tempesta può sfrondare una quercia, schiantare i rami e intristire la fierezza dell’albero. Ma quando scuote ritmicamente i rami frondosi può anche rendere manifesto con il movimento dell’albero l’elemento di vigore e di energia della sua bellezza. Le trasformazioni normali nella metamorfosi della pianta non sono brutte perché, essendo necessarie, non hanno nulla di malato. Il passare della gemma a fiore, del fiore a frutto è accompagnato da un silenzioso, indicibile incanto. Quando d’autunno la clorofilla se ne va dalle foglie che si colorano di mille tinte giallognole, marroni e rosse, si hanno infiniti effetti pittorici. E come è bella la vista delle spighe d’oro quando le messi maturano e ingialliscono, cioè appassiscono! Nel mondo animale la possibilità del brutto è ancor più grande che nella pianta, perché qui il regno delle forme cresce fino all’infinito e la vita è


più energica ed egoistica. Per capire correttamente il brutto della forma animale occorre considerare che la natura parte anzitutto da questo principio: proteggere la vita e la specie comportandosi perciò con indifferenza verso la bellezza e verso l’individuo. Per questo la natura produce anche animali brutti, animali cioè che non soltanto diventano brutti a causa di una mutilazione, o per vecchiaia o malattia, ma nei quali la forma brutta è costitutiva. Nella formazione del nostro giudizio estetico si insinuano molti elementi ingannevoli, in parte perché facciamo l’abitudine a un tipo e allora siamo inclini a considerarlo bello, così come consideriamo brutta una deviazione da quel tipo; in parte perché isoliamo l’animale in maniera astratta, lo vediamo come ci viene presentato da una stampa o da un esemplare in una raccolta. Com’è totalmente diverso l’animale che vive nel suo ambiente naturale: la rana nell’acqua, la lucertola nell’erba o nella fessura di roccia, la scimmia che s’arrampica sull’albero, l’orso bianco sul lastrone di ghiaccio! Quando vengono impediti nel loro processo di formazione, i cristalli, nella loro rigida regolarità, possono avere uno sviluppo empirico imperfetto, ma nel loro concetto vi è la bellezza della forma stereometrica. Le piante possono venir mutilate o appassire dall’interno e deformarsi, ma nel loro concetto sono belle. Quando, in talune forme, sembrano diventare brutte, addolciscono con un tratto comico la deformità, come avviene coi cactus, le rape, le cucurbitacee, queste ultime utilizzate molto spesso in pittura per comporre figure piene di fantasiosa comicità 17 . Nell’animale invece – non lo si può negare – si producono forme spontaneamente brutte, che nessun tratto comico rallegra del loro orrido aspetto. Il fondamento principale di simili forme è la necessità della natura di incorporare l’organismo animale nei vari elementi, zone e forme del suolo e di fargli attraversare i vari periodi della terra. Sottoponendosi a tale necessità, la natura è costretta a variare all’infinito lo stesso tipo, ad esempio il cane. Certe meduse, seppie, bruchi, ragni, lucertole, rane, rospi, roditori, pachidermi, scimmie sono brutti, e positivamente brutti 18 . Alcuni di questi animali sono importanti per noi, o perlomeno interessanti, come la torpedine. Altri, nella loro bruttezza, s’impongono


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