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Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

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Published by shllakua, 2023-07-14 18:55:56

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Mole ruit sua, si può dire dell’effetto che ha. Quando Bruto giura di dar morte a Cesare perché vuole conservare la repubblica come forma necessaria dello Stato romano, qui ci appare tutta intera la grande crisi politica dell’epoca. Bruto deve sacrificare la sua inclinazione per Cesare, la sua simpatia personale, per rimanere fedele al dovere verso la patria: così come il primo Bruto repubblicano dovette sacrificare alla repubblica i figli quando si compromisero coi Tarquini. Ma quando Voltaire fa di Bruto il figlio di Cesare, lo rende un mostro virtuoso: è un’offesa alla pietà così orrenda che basta da sola a farci raggelare il sangue. Ora sono due gli elementi che ci tengono occupati, la virtù statale romana e la pietà. Nel Bruto shakespeariano non manca quella pietà che deve complicargli la decisione di uccidere Cesare, ma essa non impedisce necessariamente a Bruto di mancare al giuramento, e l’accento principale resta sull’elemento politico. Esteticamente, il contrasto acuto può anche diventare, a certe condizioni, bello; diventa brutto quando non è sostenuto dall’unità dell’identico in sé. Questo trascendere la base omogenea è ciò che deve renderlo piccante; e il piccante è il virtuosismo di Sue e di Scribe, che corrompe ogni arte autentica. Il Grand Opéra parigino è dominato soltanto dall’aspirazione alla novità, ottenuta grazie alla sintesi di opposizioni eterogenee. Qui l’elemento d’impossibilità tiene occupato l’intelletto con la sua non verità e sorprende la fantasia, non con l’ingenuità della favola che con la sua fanciullesca inesperienza ancora gioca con i limiti dell’esistenza, ma con la raffinatezza del delirio blasé. Prima abbiamo citato il Bertram del Roberto il Diavolo di Scribe e Delavigne per mostrare che esso non esprime alcun contrasto con suo figlio. Ma nemmeno contrasta con Alice, «una fanciulla della Normandia», non un demone, come lui. Ma l’elemento di spicco deve consistere appunto nel fatto che il diavolo ha un figlio che ama teneramente e che tenta di corrompere, giacché lo ama: giacché lo ama, cerca di farne un suo compagno d’inferno. Ad esempio nel iii atto (secondo la traduzione, in uso da noi, di Theodor Hell) l’amore gli mette in bocca questo canto: O figlio mio, Roberto, per te


il bene supremo ai miei occhi ho già sfidato il cielo già ho sfidato l’inferno. Della gloria che ora è sfuggita dello splendore ormai svanito tu soltanto mi consolavi in te soltanto trovavo pace. Questo diavolo per niente diabolico deve diventare interessante proprio in virtù del sentimentalismo paterno. Di certo non s’era mai visto un diavolo che ama, che trova quiete e conforto in suo figlio 42! È comprensibile che simili prodotti abbiano messo sovente in difficoltà la critica, perché la falsità della contraddizione riusciva a dissimularsi. In Germania, nel dibattito sulla Maria Magdalena di Hebbel, abbiamo avuto un memorabile esempio di quanto si possano scambiare falsi contrasti per il massimo della bellezza. Certo, questa storia drammatizzata è ben triste. E purtroppo può essere un avvenimento quotidiano: le nostre gazzette pullulano di questa materia putrescente. Ma questa storia non è tragica, come ritiene Hebbel nella prefazione 43 e come ritengono i suoi fanatici fautori. Il triste dell’avvenimento viene reso contrasto tragico, e con la pretesa di assumere tale dignità viene falsato. Ciò che in generale ne risulta è quella particolarità di accecare, che è caratteristica della drammaturgia di Hebbel. Un uomo inflessibile, il vecchio falegname Anton, si ribella a un usciere di tribunale, per mettersi in urto con lui gli dice delle insolenze e l’usciere denuncia come ladro il figlio di Anton, che viene gettato in prigione. Il padre crede alla sua colpa, la madre ne muore d’orrore. La figlia Klara ha amato un giovane che frequentando l’università sembra averla dimenticata. Lei allaccia una relazione con Leonhard, uomo volgare e calcolatore. Consapevolmente, per costringersi a essergli fedele, gli sacrifica la sua verginità e rimane incinta. Ma Leonhard, che può far fortuna con un altro matrimonio, la lascia. Nel frattempo si scopre l’innocenza del figlio, emigrato in America come marinaio. Il primo amore di Klara ritorna, la ama ancora e desidera sposarla, ma purtroppo lei è incinta. «Nessun uomo potrebbe farlo!», così esclama lui. Invano Klara implora Leonhard di sposarla. Poiché non si è


data a lui nell’ebbrezza della passione e nel suo cuore ama un altro, egli la respinge con scherno. Il suo primo amore, addottoratosi, sfida perciò a duello lo scrivano e si uccidono a vicenda. Il vecchio Anton, che è molto prodigo di invettive catoniane, tuttavia non dev’essersi fidato molto del rigore di costumi della figlia. Ha profferito la minaccia che se lei avesse dato scandalo una volta, si sarebbe reciso il collo. La figlia, consapevole della sua miseria, per amore del padre si getta in un pozzo. Lui non si recide il collo con un rasoio, così come ci si sarebbe aspettati da un Catone della tragedia borghese, e nemmeno impazzisce – per questo è troppo ragionevole – ma conclude il dramma con questa frase sarcasticamente priva di contenuto: «Non capisco più il mondo». Questo dramma è un vero concentrato di falsi contrasti. Figlio e madre, figlio e padre, figlia e padre, amato e amata, tutto sta in relazioni false. E non c’è un solo rapporto, tirannide familiare, furto, innocenza, infedeltà, disonore, duello, suicidio con inevitabile infanticidio, che non offra un aspetto brutto. Al centro di tutto dovrebbe esserci Klara. Ma come possiamo vedere in lei una figura tragica se si butta nelle braccia di un soggetto come quel senza cuore di Leonhard? Se egli fosse un uomo nobile, sarebbe possibile un contrasto tragico tra lui e il giovane addottorato. Ma così, nella loro relazione con Klara, manca l’unità. Oppure potrebbe esserci contrasto tra lui e Klara. Ma come è possibile, se ha tradito per lui il vero amore del suo cuore, se addirittura in un momento di frivolezza gli ha sacrificato la sua purezza verginale? Quali che siano i sofismi con cui si può abbellirlo, il rapporto è e rimane volgare. Certo, Klara è ben infelice! Ma quando sentiamo per cinque atti una fanciulla piangere in segreto o lamentarsi con pathos, che ci racconta lei stessa che non è per amore, non è per rapimento dei sensi che si è data a un uomo non amato nel suo intimo più profondo, ma per un proprio calcolo infernale, allora ci è impossibile avere un sentimento che non sia il compatimento. Hebbel ha narrato l’infelice storia, che può ripetersi tutti i giorni nel nostro vicinato, con grande fedeltà al quadro di genere in un linguaggio caldo e vitale, ricco di evidenza plastica: con ciò facendoci solo aspirare nell’intimo, fuori da quella miseria, al sublime brivido della


tragedia, che purifica attraverso l’orrore e la compassione. Che la bruttezza del falso contrasto possa trasformarsi molto facilmente in comicità, lo si può già capire leggendo tra le righe quel che si è detto fino a qui. Basta solo spingere un poco oltre l’eterogeneità, accentuare ancora un poco l’effetto ricercato, ed ecco il ridicolo. Così, è certo che molti fortunatamente debbono aver riso di cuore – a dispetto della musica di Meyerbeer – ai lamenti del diavolo Bertram in Roberto il Diavolo. Il falso contrasto è già intima frattura del rapporto simmetrico, passaggio alla disarmonia ricolma di contraddizione. C – La disarmonia La simmetria non è ancora l’ultima delle determinazioni formali del bello, poiché nel suo identico ripetersi ancora vi è una ragionevolezza certamente benefica in sé, ma che in quanto tale è anche esteriormente noiosa, come le distinzioni della regolarità pura e semplice. L’arte egiziana ci mostra un’immagine grandiosa della monotonia estetica che non riesce ad andare oltre la regolarità e la simmetria sollevandosi a forme più libere. Poiché, ad esempio, le figure geroglifiche hanno bisogno di qualcosa che indichi se vanno lette da destra a sinistra o viceversa, in un’iscrizione debbono essere rivolte tutte in una direzione o nell’altra. Da qui quelle vaste pareti murarie su cui tutte le figure, spesso migliaia, appaiono di profilo, voltate nella stessa direzione: una vista straordinariamente affaticante, contrastata solo dai colossi che siedono ai portali d’ingresso in posizione frontale. Perciò, natura e arte tendono spesso a violare la rigidezza della simmetria. Per ottenere e conservare l’armonia dei grandi rapporti, il coraggio della genialità non esita a sacrificare la regolarità e la simmetria delle relazioni subordinate: lo possiamo vedere in vaste esecuzioni architettoniche, ad esempio nel mirabile castello di Marienburg 44; in quelle musicali, ad esempio in alcune Sonate di Beethoven; in quelle poetiche, ad esempio nei drammi storici di Shakespeare. Il bello può sviluppare la differenza fino a superare la contraddizione


poiché fa sì che la contraddizione si risolva a sua volta nell’unità: solo con questo risolversi della separazione si genera l’armonia. Certo, anche la semplice unità è in sé bella, perché adempie alla condizione prima di ogni forma estetica: esprimere un tutto. Abbiamo visto però che la mera unità ancora manca di qualcosa, e che diventa brutta, in parte per intima mancanza di distinzione, in parte per il confondersi delle distinzioni, per vaghezza e nebulosità. La distinzione può, come differenza, diventare libera e bella molteplicità, ma per mancanza di raggruppamento la mera differenza – distinzione superficiale, esteriore – può trasformarsi in selvaggio e caotico: contro quest’assenza di forma il bello cerca di reagire subordinando il diverso a una regola comune. Sorge così – si è visto – la regolarità come ritorno uguale delle stesse distinzioni: ma a sua volta, appunto, la regolarità può diventare brutta non appena costituisce la forma definitiva di una totalità estetica, per cui il bello è costretto a elevare la distinzione a distinzione determinata. Il positivo e il negativo diventano, invertendo i momenti in sé uguali, simmetria vera e propria, la cui scambievole relazione è al suo stesso interno bella. Se manca del tutto là dove pure, secondo il concetto della forma, dovrebbe esser presente; o se manca una metà della forma disposta simmetricamente; oppure è presente, ma in modo errato e che disturba con un’interna contraddizione la presupposta eguaglianza delle distinzioni unitariamente contrapposte, allora sorge di nuovo il brutto. Porre la contraddizione non contraddice il bello. Il vero contrasto del relativo con il relativo, del relativo con l’assoluto, dell’assoluto con l’assoluto, è bello. In ogni elemento dinamicamente estetico la collisione costituisce il vertice dello sviluppo; ma il falso contrasto diventa brutto perché pone una contrapposizione tra ciò che per l’unità della sua natura non è in grado di contraddirsi con se stesso. La contraddizione genuina deve per forza contenere la separazione dell’unità con se stessa, perché porta in sé la possibilità della sua risoluzione; con la sua collisione la dissonanza fa sentire l’unità come l’ἓν διαφεροῦν ἑαυτώ. Che il brutto che nasce dall’unità, dalla diversità, dalla regolarità, dalla simmetria, dal contrasto possa convertirsi in comico, è puntualmente dimostrato.


In quanto unità estetica, l’unità raggiunge la sua compiutezza solo quando le distinzioni si producono come momenti viventi dell’intero e stanno tra loro in libera relazione reciproca. Non solo l’unità deve apparire come unità che determina se stessa al cospetto delle sue distinzioni, ma anche le distinzioni debbono possedere lo stesso carattere dell’autodeterminazione. È il concetto di unità come unità armonica. L’armonia non è solo unità astratta, autonoma; nemmeno è un’unità che si suddivide soltanto in distinzioni esteriori, indifferenti l’una dall’altra; piuttosto essa è la totalità che produce liberamente le differenze che le sono proprie e torna ad assumerle in sé: la totalità dunque che – seguendo il modello della natura – ci piace definire come totalità organica. Essa ha la forza di superare di per se stessa la contraddizione in cui possono cadere le sue distinzioni. Gli antichi apprezzavano talmente l’armonia da subordinarle del tutto l’individualità delle distinzioni, mentre i moderni hanno la tendenza a sacrificare l’armonia alla caratteristica individuale. Prendiamo ad esempio la pittura parietale pompeiana: l’armonia dei colori è così essenziale per essa, che in una camera la tonalità fondamentale determina tutto, fino al minimo dettaglio. Nella Vorschule zur bildenden Kunst der Alten 45 Hettner ha mostrato assai bene che solo questo elevato senso dell’armonia spiega le anomalie contro le verità di natura che troviamo negli affreschi, come animali e uomini dipinti con un colore innaturale. A un’indagine più ravvicinata troviamo che queste deviazioni dalla natura sono determinate dall’armonia, in cui il colore fondamentale della parete e della pittura centrale s’accordano con le pitture laterali e con gli ornamenti. Gli antichi facevano della parete una vivente unità ottica: è da essa che ogni elemento particolare doveva assumere la sua tonalità cromatica. Come in tutti i casi analoghi, l’espressione armonia viene già usata anche per questi gradi dell’unità che in essa sono solo momenti. La purezza di un semplice profilo, di un colore, di un suono, di una superficie possiamo ben chiamarla armonica. E così l’euritmia di una felice disposizione simmetrica. A rigore, però, possiamo definire armonica solo un’unità le cui distinzioni hanno carattere genetico. Per l’armonia non si esige


soltanto la proporzionalità dei rapporti, ma anche il carattere attivo della relazione. Quanto più le distinzioni del tutto sono molteplici, quanto più ognuna di esse appare per sé autonoma, e tuttavia si connettono tra loro intimamente per produrre un’unità comune omologa, tanto più l’impressione è armonica. L’opera armonica riflette l’essenza del tutto in ognuna delle sue distinzioni e conferisce tuttavia a queste una propria anima. Non teme di scomporsi nella molteplicità delle distinzioni perché sa riassumerle di nuovo sotto la sintesi del tutto come momenti, che nel loro modo specifico di vivere hanno bisogno gli uni degli altri, come pure del tutto. La disarmonia scaturisce pertanto dall’armonia come suo rovesciamento, perché senza postulare l’armonia di una forma nemmeno si potrà parlare di disarmonia. Ciò che è vuoto, morto, senza contraddizione, solamente identico ancora non dà materia alcuna alla disarmonia: essa compare soltanto quando c’è relazione scambievole di uno e molteplice, essenza e forma, generale e particolare. Ci accorgiamo della mancanza di armonia allorché ci imbattiamo in una unità solo astratta là dove ci attendevamo un’unità vivente; ma in questo caso ancora non c’è una disarmonia positiva. L’assenza di una libera varietà è non bella, però non è neppure una separazione dell’unità. Se l’unità si distingue, ma le distinzioni rimangono accostate in modo esteriore, non si mescolano tra di loro, sentiamo che manca l’animazione dell’armonia. Nemmeno in questo caso c’è disarmonia positiva, bensì una non-armonia, perché le distinzioni in quanto sconnesse, accostate, fanno sì che l’unità cada nella varietà. Le distinzioni diventano esse stesse unità, che non stanno tra loro in relazione reciproca. Perciò l’unità appare, anziché armonica, nell’aridità di uno stato di mera aggregazione. È una difformità che mai ci colpisce quanto a teatro, quando manca la coordinazione delle parti. Allora ogni personaggio sulla scena rappresenta la sua parte per conto suo, come se gli altri non ci fossero. La recitazione dei singoli non si integra; l’azione ristagna continuamente e l’impressione dell’insieme che manca diventa per forza – soprattutto quando la compagnia è raccogliticcia – più desolata e fredda. Talora anzi, quando gli attori dipendono troppo dal suggeritore e non fanno che ripetere ad alta


voce quel che si è già udito dai sussurri metallici della voce dell’Orco, l’impressione non è molto dissimile da quella che fanno i malati in un manicomio: anche qui ognuno continua a recitare il suo ruolo senza riguardo per gli altri. Se l’unità delle distinzioni si annienta perché esse passano a contraddirsi, senza ritornare all’unità, nasce allora quella separazione che per lo più, e a ragione, noi designiamo come disarmonia. Tale contraddizione è brutta perché distrugge dall’interno la condizione fondamentale di ogni struttura estetica: l’unità. Ora, la disarmonia è certo brutta in se stessa, ma nello stesso tempo bisogna distinguere tra la disarmonia che – in quanto necessaria – è bella e quella che – in quanto casuale – è brutta. La disarmonia necessaria è il conflitto in cui le distinzioni esoteriche (per così dire) presenti in una unità possono svilupparsi in una loro legittima collisione; la disarmonia casuale è la contraddizione essoterica, per così dire, alla quale si concede per grazia un’unità. Nell’immensa incrinatura che si spalanca, la contraddizione ci rivela l’unità in tutta la sua profondità. La forza dell’armonia si manifesta tanto più potente quanto più è grande la disarmonia su cui trionfa, ma non solo la separazione deve spartire con l’unità l’elemento omogeneo: deve essere la relazione negativa dell’unità verso se stessa, perché solo con questo presupposto è possibile istituire di nuovo l’unità. Dunque la separazione non è bella per il negativo in quanto tale, ma per l’unità che nella separazione dimostra la sua energia come potenza operante internamente, potenza connettiva, salvifica, rinnovatrice. Bello, dice giustamente Kant, è ciò che piace universalmente senza interesse 46; brutto, dunque, ciò che universalmente dispiace senza interesse. Ora, il disarmonico può ben suscitare il nostro interesse, senza essere bello: allora lo chiamiamo interessante. Non diremo interessante, invece, ciò che non reca in sé una contraddizione. Il semplice, il leggero, il trasparente non è interessante; a sua volta il grande, il sublime, il santo sta troppo in alto per questa espressione: è più che soltanto interessante. Ma il complicato, il contraddittorio, l’anfibolico, e quindi anche l’innaturale, il criminoso, il curioso, addirittura il folle, è interessante. L’inquietudine


in fermento nell’inferno della contraddizione ha una forza magica di attrazione. Vi sono scrittori che scambiano spesso l’interessante con il poetico e sanno idealizzarlo con la ricchezza del loro spirito, la loro arte espressiva, al punto che esso si avvicina all’ideale. Questi autori colgono sempre prima di tutto la contraddizione, come Voltaire e Gutzkow. Invece nella genesi e nel risolversi della contraddizione non sono così felici: e questo spiega perché occupano l’intelletto e la fantasia piuttosto che trascinare il sentimento, anch’esso agitato dal vortice della disarmonia ma che nello stesso tempo vuole farsi trascinare dalla corrente vittoriosa dell’armonia. La vera disarmonia è un punto risolutore dell’unità; la disarmonia falsa – e quindi brutta – è una pseudo-separazione, una contraddizione inoculata artificiosamente. Tale disarmonia non ci rappresenta dunque la manifestazione di un’esistenza autentica, ma piuttosto di un’autentica inesistenza, e perciò ci diviene penosa. Nella Maria Magdalena di Hebbel di cui abbiamo parlato prima, tutte le volte che Klara calca la scena sentiamo la contraddizione permanente tra ciò che è di fatto e ciò che vuole e deve anche essere. Qualunque cosa possa dire di nobile e di bello, tutte le sue parole ci giungono attenuate perché noi siamo sempre costretti a rispondere: ma tu sei incinta, e hai voluto esserlo! Questa Maria della Germania del Nord in fondo non è diversa dalla Fleur de Marie nei Misteri di Parigi di Sue 47 . Questa Goualeuse, una principessa di nascita, con la sua voce fresca e argentina, la sua ingenua fanciullaggine, naturalezza, sentimento angelico, doveva essere un ideale. Ma proprio nel momento in cui la sua leggiadria si dispiega di più, con decisione tanto maggiore noi sentiamo la disarmonia insita nel fatto che la cara fanciulla ci viene incontro, di primo acchito, in un tapis franc della Cité parigina; che, quantunque amica della coraggiosa e pura Rigolette, per mancanza di lavoro, dopo aver sciupato il suo denaro si è data a una vita disordinata e oziosa. Si è lasciata ubriacare con l’acquavite dall’ogresse, e convincere alla prostituzione. Una principessa di nascita in un repaire della Cité! Estremamente interessante, ma nulla meno che poetico. Non riusciamo più ad andare oltre l’onta che a partire da questo momento macchia il suo atteggiamento morale; nemmeno lei ci riesce, e


Sue ha perlomeno avuto tanto tatto da farla morire, non maritata, di mal sottile nella casa del padre, l’allegorico principe tedesco Rodolphe 48 . Una disarmonia autentica diventa brutta quando si risolve in modo falso: in questo caso viene manifestamente prodotta una contraddizione nella contraddizione. Nello sviluppo conseguente della contraddizione la legalità dell’unità in essa attiva avrebbe dovuto poter emergere gradualmente, e la vista di questa interna necessità assicurarci soddisfazione, perché noi afferriamo il venir meno del disarmonico grazie all’armonia in cui si risolve, mentre il deviare verso un esito che non corrisponde intimamente all’esordio è chiaramente brutto. Ciò è accaduto ad esempio a Prutz, che pure di solito è così chiaro, nel suo Carlo di Borbone 49 . Anziché essere devoto alla poesia della storia, anziché farlo cadere davanti alle mura di Roma nella lotta contro il papa per una pallottola di Benvenuto Cellini, lo fa morire vari anni prima, sul campo di battaglia di Pavia, di veleno, che prende da un anello datogli da una donna di cui s’era infatuato, scappata da un convento, e che à propos andava vagabondando nel trambusto della battaglia. Ferito, stremato, vaneggiando di poter prendere forza con la bevanda, il grande Connestabile muore lentamente con un lungo affannato discorso. Che contrasto sentimentale triste con la baldanza della sua prima comparsa, in cui fa valere al cospetto del re di Francia il bene e la gloria della Francia. Che disarmonia! Che falsa armonia nel fatto che la misera avvelenatrice, un’infelice creatura romantica, si avvelena naturalmente insieme! Una rapida pallottola nel caldo della lotta che attraversa un cuore coraggioso, come ha fatto la storia: solo questo era, qui, armonico e poetico. Il romanticismo si è permesso spesso di dare una risoluzione soltanto soggettiva e fantastica della contraddizione, che inganna la nostra aspettativa, anziché una risoluzione oggettiva, che si forma da sé. Eppure qui bisogna ricordare che nel considerare il bello, sia naturale sia artistico, non si è mai abbastanza liberali. Quanto più certi debbono essere per noi i grandi principi estetici, quanto più dobbiamo tener fermo in modo incrollabile la loro eterna verità, tanto più possiamo essere tolleranti verso la concreta struttura del bello, quando spesso abbraccia in sé gli elementi


più vari e contraddittori. In precedenza, e a ragione, abbiamo distinto tra l’interessante e il poetico; per prevenire malintesi interpretativi osserviamo che, come è naturale, l’autenticamente poetico può essere, nello stesso tempo, estremamente interessante. Ecco contrade rocciose, crepacci così spaventosi, dirupi così strani che non possono definirsi belli e neppure brutti nel senso del puro ideale e della sua negazione. Ma possono esser definiti interessanti, e come tali emanare una poesia selvaggia, orridamente singolare. Ecco edifici dove lo stile di secoli diversi si è mescolato in modo così mirabile che malgrado la loro eterogeneità gli elementi costituiscono un tutto estremamente interessante, disarmonicamente armonico. Ecco composizioni poetiche che non appartengono a un genere ben definito e quindi non possono avere un effetto estetico completamente puro, ma posseggono un empito di schietta poesia. Il pellegrinaggio di Harold 50 di Byron non è epos, non è melos, non è poesia didattico-descrittiva, non è elegia: è tutto questo assieme in un interessante insieme. Poiché la disarmonia riposa sulla separazione dell’essenza con se stessa, e poiché riunisce tutti i momenti del brutto formale nella sua falsa fondazione e falsa risoluzione, diventa naturalmente un mezzo per produrre il comico molto più forte di tutti i precedenti passaggi al brutto. Ogni accantonamento puro e semplice, ogni risoluzione errata, ogni conclusione fantastica della contraddizione in luogo della necessità del suo svolgersi immanente è già in procinto di diventar comico. In opere di questo tipo, in cui il comico in quanto concetto non appartiene intimamente alla loro natura, ma a un’altra coscienza ingannata dall’illusione che esse producono, la contraddizione è di natura troppo seria perché il suo aggrovigliarsi e invertirsi, il suo errato risolversi possa suscitare in noi una completa serenità: per far scomparire tutte le tetraggini nel raggio di sole del riso, la comicità deve essere libera da pensieri: perciò tali opere, contro la loro stessa intenzione, diventano brutte. Hebbel, il poeta del pessimismo e dell’umor bizzarro, come l’ha chiamato giustamente Hennenberger 51 , potrebbe permetterci di mostrare, prendendo lo spunto dalla sua Julia, come il tragico cominci a


convertirsi in comico quando non annoda né scioglie in modo giusto i nodi delle sue contraddizioni, e tuttavia, siccome è ancora troppo serio e pesante, resta in primo luogo brutto. Un capo di briganti, Antonio, vuol vendicare se stesso, o piuttosto il padre, Grimaldi – anch’esso incappato nella giustizia perché capo di briganti – contro il ricco Tobaldi, perché lo ritiene causa dell’esilio del padre. E come vi si appresta? Decide di disonorare la figlia di Tobaldi. Le si avvicina, senza che naturalmente lei sospetti nulla della sua attività di brigante; ella si innamora dell’uomo giovane e bello; lui la disonora per schernire il padre di lei: diabolico più che italiano! Ma nel disonorarla il suo odio si converte in amore, e in seguito a ciò tutto il suo atteggiamento muta. Egli scompare, per nulla all’italiana, per sottrarsi alla sua banda, diventare un membro ordinario della società borghese e partire per l’America con la sua Julia. Solo che è tanto sciocco, che non dice nulla alla fanciulla di tutti questi progetti, benché gli capiti anche la disgrazia di doversene stare malato a lungo in un nascondiglio. Il tempo passa. Julia s’accorge di essere incinta ma – nella sua qualità di vergine più pura della città – deve far la parte di regina delle vergini nella festa di Santa Rosalia. Non sopporta la contraddizione; fugge, va errabonda per i campi e spera di poter morire da qualche parte. Anziché gettarsi in acqua, come pur fa la Klara hebbeliana nella Maria Magdalena; anziché colpirsi al cuore con un pugnale, come Lucrezia; farsi uccidere dal padre, come Virginia; o almeno prendere un sonnifero, come la Giulietta shakespeariana, adesca un bandito in un bosco, sola soletta, gli mette davanti agli occhi una borsa e fa uno strano discorso, finché il bandito indovina che potrebbe esserle grato non vivere più a lungo. Nel fitto del bosco si nasconde un conte tedesco giovane, ricco, estremamente blasé, animato da un amore superiore verso il genere umano in generale. Egli si è rovinato talmente che, con certezza matematica, non può più vivere a lungo. Dal momento che è un uomo molto buono – come attesta anche il suo vecchio servitore Christoph – desidera valorizzare i giorni che gli restano da vivere in un’azione utile, possibilmente nobile. Il come, purtroppo, è oscuro al suo cervello ingegnoso, ma la provvidenza del dramma pensa anche ai pazzi. Egli ha assistito con sorpresa alla scena dell’originale


delitto, mette in fuga al momento giusto, cacciando fuori la potente esclamazione «briccone!», l’onorato bandito Pietro, apprende subito da Julia come stanno le cose ed è estasiato di aver trovato in lei una bella occasione per poter dare un significato a quel nulla che gli resta da vivere. Decide di sposare Julia incinta. Ciò che ancora non può il primo innamorato di Klara nella Magdalena, perché nessun “uomo” lo potrebbe fare, non esiste più per l’estenuato conte. Il suo punto di vista è più alto, più libero, assetato com’è, nell’imminenza della morte, di una azione virtuosa, di aiutare con astuzia una fanciulla caduta a ristabilire il suo onore – non dovrebbe essere tutto ciò straordinariamente virtuoso? Nel frattempo il vecchio padre s’è accorto della mancanza della figlia e inganna la città con una cassa vuota, come se lei fosse morta: lo aiuta nella buffonata il medico di casa Alberto, che come amico di famiglia ha amato prima la madre di Julia, poi Julia stessa, sempre a rispettosa distanza. Il conte Bertram arriva con Julia e il padre, volente o nolente, dà la sua benedizione al nobile genero. Ma arriva anche il bel bandito Antonio, votatosi per amore al filisteismo, e naturalmente di primo acchito s’infuria, fino a che non gli vengono chiarite le strane intenzioni di Bertram, determinate non tanto dalla castità quanto, piuttosto, dall’impotenza. Nell’ultimo atto, in un castello del conte, in Tirolo, troviamo Julia con suo marito, il suo innamorato e il platonico Alberto in pacifica convivenza. Bertram non è insensibile a tutta l’infinita bellezza e leggiadria della giovane moglie, ma promette di comportarsi da gentiluomo. Vuole andare a caccia di camosci sulle Alpi... e poi? A questo punto conosce bene il Jacques di G. Sand: non deve vivere più di un mese... e poi – rivolto a Julia e Antonio – promettetemi entrambi... Julia: Poi... Antonio: Poi, ci chiediamo: ci è lecito ancora essere felici? Julia: Ci chiediamo: possiamo ancora essere felici? Finisce così questa tragedia, sfigurata dal talento del suo autore fin nel minimo dettaglio, di cui abbiamo reso con schiettezza il contenuto, senza poter fare a meno di lasciarvi cadere sopra delle luci di comicità. Non


mettiamo minimamente in dubbio la serietà soggettiva della tendenza etica che Hebbel proclama con tanto pathos nella prefazione. E tuttavia non ce ne lasciamo sedurre e riconosciamo che in fondo questa tragedia è, per il tipo di disarmonia che offre, una commedia mostruosa, un eccesso di contrasti apparenti. Vogliamo prescindere dai motivi più crassi che compaiono nella tragedia e che sono spesso di natura estremamente comica; ci vogliamo limitare ai rapporti fondamentali: e questi non sono tragici, ma comici. Che una fanciulla che s’è fatta segretamente ingravidare debba comparire come regina delle vergini in una festa è certamente comico. Che un padre la cui figlia è scappata – così egli crede – con il suo amante, inganni la città con una morte apparente e la falsa cassa da morto della figlia è certamente comico. Che un conte tedesco, dopo una vita dissoluta, sia preso da un impulso ipocondriaco alla virtù e desideri per giunta onorare la sua cadaverica esistenza blasé per servire a qualcosa di utile, addirittura nobile, è certamente comico. Che una fanciulla incinta in una contrada dove esistono gendarmi si aggiri a piedi e, desiderosa di morire, susciti in un bandito la voglia di ucciderla offrendogli una borsa, mentre ci si dovrebbe aspettare che il bandito possa assicurarsi il possesso della borsa anche senza ucciderla, e costringere la fanciulla, come una bella preda, alle sue voglie, tutto questo è certamente comico. Che Bertram e Julia concludano un matrimonio che non è tale; lui per farsi usare, prima di morire, per qualcosa di buono, lei per salvare il suo onore attraverso un consorte, è certamente comico. Che infine tutti e tre gli innamorati, ognuno riconoscendo, anzi onorando il punto di vista dell’altro, si sopportino egregiamente a vicenda nel castello tirolese e che il conte dia ad Antonio e a Julia la piacevole scappatoia di scomparire per sempre, per loro comodità, questo è certamente comico. Comico? Sì, nel senso di Aristofane, di comprendere in sé anche la nullità etica, non nel senso più ampio, anch’esso aristofanesco, della serena licenza dell’assoluta nullità, che è senza pretese. Piuttosto, questi rapporti corrotti sono trattati, nella più solenne serietà, con discorsi magniloquenti; in tal modo, anziché ridere beatamente, restiamo solo afflitti per avere davanti una tragedia fallita. Se già per il suo contenuto la contraddizione non è di natura ideale e il soggetto in essa imprigionato non la sente come contraddizione, ma piuttosto appare in essa perfettamente soddisfatto, allora una simile


disarmonia è comica. Ricordiamo ad esempio lo Strepsiade nelle Nuvole di Aristofane, l’onorato cittadino ateniese che vuol studiare filosofia da Socrate. Ma a che scopo? Per liberarsi con sofismi dei suoi creditori. Lo scopo che egli pone nella filosofia ne contraddice la natura. Proprio il fatto che venga assunta in questo modo è comico. Ma in primo luogo Strepsiade si trova del tutto a suo agio nella sua franca fiducia che la filosofia possa liberarlo dai debiti, fino a che il figlio lo supera in sofistica e gli dimostra dialetticamente che ha il diritto di bastonarlo.


Parte seconda La scorrettezza Le determinazioni astratte dell’assenza di forma valgono per tutto il brutto in generale. Ma in concreto il brutto è parte brutto naturale, parte brutto spirituale. L’universalità dell’amorfia, dell’asimmetria e della disarmonia diventa esistenza individuale nella natura o nello spirito. In quanto tale, è sottomessa alla necessità di realizzare nella sua manifestazione il concetto universale che costituisce la sua natura. L’accordo della realtà con il concetto, l’oggettivo compiersi della legalità, costituisce la correttezza. Essa consiste nel fatto che esprime la forma estetica secondo la sua specificità normale, nel fatto dunque che non venga escluso nulla che concettualmente le appartiene, non venga aggiunto nulla di estraneo alla sua natura, in essa non si muti nulla contro la sua normalità. In queste negazioni consiste, invece, il concetto della scorrettezza. La scorrettezza ci porta nel campo delle singole arti. Ma se si dovesse far vedere come entra nelle singole arti, si cadrebbe in dettagli infiniti e superflui. Bisognerebbe cioè aggiungere a ogni determinazione positiva il canone in base al quale ogni offesa a tale determinazione è scorretta. Che faticosa prolissità sarebbe istituire tutte le regole dell’arte e dover ripetere per ognuna la litania che la mancanza di una di esse costituisce scorrettezza. Per il nostro contesto basta dunque mostrare come nello scorretto sia presente il brutto e come anche lo scorretto possa diventare una fonte del ridicolo. Tratteremo perciò, prima di tutto, il concetto dello scorretto in generale; attraverseremo poi le modificazioni particolari dello scorretto nelle specificità stilistiche delle nazioni e delle scuole, nelle forme ideali individuali dell’espressione; ma per quanto riguarda la configurazione che


esso assume all’interno delle singole arti, basterà dichiararne la caratteristica generale. A – La scorrettezza in generale La correttezza in generale sta nella fedeltà con cui una figura rappresenta le forme a essa immanenti in forza del suo contenuto essenziale, sia esso naturale o storico. Nel linguaggio della logica formale si potrebbe dire che essa correda un oggetto di tutti i caratteri che lo distinguono essenzialmente dagli altri oggetti. Solo la precisione e la chiarezza della sua fedeltà fondamentale consente a una figura di distinguersi anche esteticamente da altre figure. La correttezza esige quindi, ad esempio, che in un paesaggio le specie di alberi si distinguano in base al loro tipo naturale, che in un’opera architettonica le rastremature e i fregi siano inseriti secondo la legge e l’ordine delle colonne, che in una poesia sia tenuto fermo il carattere del genere a cui appartiene ecc. Questa precisione è un requisito assolutamente necessario, perché senza di essa l’individualità della figura non può manifestarsi. Tuttavia, poiché essa riguarda solo l’accordo formale della figura individuale con la sua legalità generica, ancora non è bella in assoluto. Ciò costituisce soltanto il realizzarsi di una condizione indispensabile per il bello. Lo slancio idealistico, la consacrazione di una superiore poesia non sta ancora in essa: da sola quindi non è in grado di soddisfare esteticamente. Se di un’opera d’arte diciamo che è completamente corretta, è certamente una lode, e non piccola, perché con questo riconosciamo che è conforme alle regole dell’arte. Ma se non diciamo niente di più, la lode è prossima a convertirsi in biasimo, perché come opera soltanto corretta può essere anche arida, senz’anima, senza la sorgente dell’invenzione originale. Lo vediamo soprattutto nelle opere di quell’indirizzo artistico che definiamo indirizzo accademico. Di solito, non hanno errori dal punto di vista formale, ma poiché il loro pregio sta nell’assenza di errori particolari, ci annoiano malgrado la correttezza: non ci afferrano con


l’entusiasmo che, andando oltre la corretta misura, ci esaltava con quella sovrabbondanza di carattere divino, di verità ideale, di originaria libertà che soltanto rende classica un’opera d’arte. La correttezza accademica, diligente, che ancora non è altro che questo, apparirà dunque spesso con la sua esattezza puntigliosa, fredda e arida, e dunque brutta, di fronte al respiro creatore del genio. Non il corretto in quanto tale è brutto: brutto è il bello, in quanto resta fermo alla mera correttezza e non fa di essa il mezzo puro e semplice di una manifestazione ricca di sentimento. Invece un’opera che ha errori nei particolari, che dunque è scorretta, malgrado gli sbagli di disegno, di tonalità, di disposizione, di costruzione del verso, può essere bella se nel complesso è trascinata da una forza ideale che ci fa dimenticare l’errore nel dettaglio. La novità dell’invenzione, l’audacia della disposizione, la forza o l’avvenenza dell’esecuzione, fanno sì che in nome del genio dimentichiamo le sconvenienze, gli errori, gli sbagli particolari. Così, ad esempio, Platen è straordinariamente corretto, eppure poco originale e creativo; Heine invece è spesso scorretto – a tratti in modo addirittura consapevole – ma la sua forza creativa, la sua originalità sono incomparabilmente più grandi. Grazie a questa differenza, anche la sua influenza sulla nostra letteratura è stata molto più intensa e ampia di quella di Platen. Non vi è dubbio che la scorrettezza in sé, poiché con omissioni, aggiunte eterogenee o cambiamenti nega una precisione necessaria della forma, ricada nella categoria del brutto. L’arte deve esigere la correttezza e non può praticare una falsa tolleranza nei confronti dello scorretto. La necessità cui l’arte deve sottomettersi per una procedura corretta in generale è di tipo fisico, psicologico e storico-convenzionale. Compare a questo punto il concetto di imitazione, perché qui l’arte è in relazione a un dato, che deve seguire. Deve osservare le forme di una manifestazione della natura e dello spirito, perché solo in tali forme può individualizzare le sue figure. È noto tuttavia che l’imitazione non significa puro e semplice copiare la casualità empirica, ma significa, con dedizione a essa, riconoscere riproducendone la figura la forma ideale, la misura generale. Per la casualità e l’arbitrio che necessariamente ineriscono al loro


manifestarsi, natura e spirito sono spesso impediti da sé stessi a raggiungere quella forma a cui tendono per essenza come alla loro adeguata manifestazione. La loro realtà resta spesso indietro rispetto alla tendenza del loro concetto, perché involontariamente si disturbano nella loro necessità come nella loro libertà. L’arte libera la configurazione estetica da questa collocazione impropria, allontana tutto quanto è dannoso e inessenziale, estrae il puro nocciolo e ci allieta con l’eternità dell’ideale scevro di manchevolezze. Un mero eclettismo empirico non lo consente; infatti quanto più le sue creazioni – figure di cera, automi, dagherrotipi ecc. – sono esatte, tanto più si allontanano dalla libertà e verità dell’ideale. Un ritratto dagherrotipo non ci dà l’uomo intero, ma l’uomo come si trova proprio in quell’istante, in situazioni del tutto particolari, dominato da una disposizione sentimentale transitoria, e così via. L’artista deve produrre l’ideale estraendolo in definitiva dall’intuizione spirituale: solo l’obbedienza a essa, contro l’empiria, gli dà il materiale necessario. Prassitele non avrebbe mai creato la sua statua ideale di Afrodite se si fosse limitato a riassumere fedelmente le squisite beltà delle etere che gli ateniesi gli avevano messo a disposizione per i suoi studi. Immaginiamo che avesse preso da una i seni, dall’altra le braccia, dalla terza i piedi e così via unendo poi in modo esteriore le singole parti: avrebbe sicuramente creato un bel mostro, mai una dea della bellezza degna di adorazione. È estraendolo dal proprio interno che poteva creare il trionfo della bellezza femminile. Ma quelle etere non gli furono inutili: il loro studio gli rese possibile la correttezza, in quanto egli poteva scorgere in ognuna di esse una manifestazione relativamente vera dell’ideale. Come si vede nei nostri ritrattisti e pittori moderni, che spesso dipingono nudi femminili solo avendo di fronte come modelle delle grisettes, che hanno corrotto con i busti le pure forme della natura! Per essere corretta, l’arte deve assumere in sé l’essenza della realtà naturale e spirituale, ma non deve naturalizzare, così come non deve idealizzare nel senso di una falsa trascendenza. Dobbiamo concedere all’artista – ne ha bisogno per istituire la verità oggettiva dell’ideale – una trasfigurazione relativa della fedeltà pura e semplice, e non possiamo rimproverarlo di scorrettezza se in


questo modo va oltre le forme empiriche. Dobbiamo respingere solo l’idealizzare soggettivo che sciupa la forza specifica dell’individualità potenziandola in modo astratto. La correttezza fisica può essere stabilita con la massima sicurezza, perché qui è estremamente facile e accessibile paragonare la creazione artistica con il dato. L’espressione “secondo natura” la usiamo in modo traslato, in un senso generale, comprendendovi anche l’immediato in genere. Ad esempio anche per un dipinto che ritrae un’architettura – quantunque l’edificio sia un’opera dello spirito – diciamo che è eseguito secondo natura. Ugualmente diciamo: secondo la vita. Benché la vista della natura, per poterla correttamente concepire, sia disponibile a ogni istante, non è affatto così a buon mercato come potrebbe sembrare. Un vedere e un udire puramente oggettivi non sono affatto facoltà così generalizzate. A una osservazione più esatta riconosciamo di solito, con nostra meraviglia, più scorrettezze di quante credevamo. Ma altre scorrettezze derivano anche dal fissarsi dei manierismi, come ad esempio la lunghezza eccessiva delle figure, delle mani e dei piedi nella pittura bizantina 52 . Chiamiamo spesso verità di natura la fedeltà psicologica. Essa abbraccia la sfera del sentimento coi suoi desideri, inclinazioni e passioni; la loro fedele espressione nei gesti, sembianti, parole; ma anche, e in misura non minore, la fedele motivazione degli affetti. La connessione dei sentimenti in base al loro contenuto, la loro forma di manifestazione nella relazione mimica, patognomica e fisiognomica, la loro espressione in suono e parola, offre un campo infinito alle offese inferte alla verità oggettiva, la cui correzione non è più tanto facile come quella delle scorrettezze fisiche. Nella poesia, nella musica e nella pittura sarà possibile mostrare l’errore psicologico con più precisione di quanto non lo sia nella scultura. Quest’ultima, tendendo all’espressione generica, deve ammorbidire la nettezza del caratteristico, e non di rado esprimere l’astrattamente allegorico. La poetica dei francesi possiede ad esempio un concetto, quello di poésie legère. Pradier ha espresso questo concetto in una statua di cui i critici d’arte francesi parlano in termini superlativi e sulla quale i poeti hanno scritto versi entusiastici. Una bella donna in atto di danzare


tiene nella mano sinistra una piccola arpa e solleva la destra sul capo. Si sostiene sulle dita del piede sinistro; il destro è sollevato in un lieve balzo e tocca leggermente il suolo con la punta. Concediamo che la figura – secondo i concetti francesi della poésie fugitive – sia un po’ piena, ma era proprio necessario che anche nella testa, che deve ispirare un entusiasmo celestiale, la regione mentale avesse un’espressione soddisfatta, di grassa lascivia? Era proprio necessario che gli occhi fossero così piccoli, chiusi come se fossero appesantiti dall’oppio? Non diventa un po’ troppo alla Frine, questa fisionomia? Pradier non doveva pensare che la sua poesia leggera poteva avere bensì un tratto di lascivia, ma anche marcare di più nell’occhio e nel mento l’elemento spirituale? Tali obiezioni nascono da quest’idea: se anche il concetto della musa burlesca, spiritosa, giocosa, erotica possa essere esattamente espresso in simili forme. Pradier, certamente dopo Canova il più capace, tra gli scultori moderni, nell’esprimere l’avvenenza, si sarebbe forse difeso col dire che un mento meno tondeggiante e un occhio più grande sarebbero stati, poi, troppo nobili, troppo apollinei 53 . Nella fedeltà storico-convenzionale la libertà dello spirito resta il punto essenziale a cui il riferimento al dato deve sottomettersi. Se l’espressione psicologica del sentimento è corretta, se la sostanza specifica di un evento storico è concepita in modo giusto, la morfologia esterna del fenomeno importa meno. Qui perciò, a causa della scorrettezza, le viene concesso uno spazio maggiore. Lo spirito storico mostra il suo carattere specifico anche nel modo di abitare, di vestirsi, nella forma degli arredi, nel tipo di costumi. In tutte queste manifestazioni esso procede a un’infinità di determinazioni che, pur esprimendone la natura, sono più accidentali rispetto alla sua natura profonda. Se consideriamo queste cose nel loro complesso e a grandi linee, ci compiaciamo della consequenzialità con cui l’individuale penetra fin nelle minuzie, ma per ciò che riguarda l’arte dobbiamo riconoscere che la varietà delle forme particolari in cui l’individualità si espone, rispetto al pathos della libertà come contenuto essenziale, non potrebbe che pretendere un valore solo secondario. La micrologia antiquaria non può avere il primato dal punto di vista estetico.


Alla fin fine una spada, ad esempio, rimane pur sempre una spada, anche se è giusto che tutte le nazioni – e anche una singola nazione – ne hanno individualmente variato, nelle diverse epoche, il ferro e l’impugnatura. Per quanto mutato secondo il clima e il costume dei popoli, o anche solo il gusto della moda, il vestito mantiene pur sempre e dovunque la necessità di dare un colletto per infilarci la testa e due aperture laterali per le braccia, ecc. L’arte è dunque giustificata a mettere in rilievo prima di tutto, quando esprime lo storico, l’universalmente umano, il contenuto spirituale, l’intimo dell’azione, e il suo esprimersi in gesto, sembiante, parola. È questa verità a costituire, contro la fedeltà alle forme convenzionali, la poesia, da cui in definitiva il bello dipende. Presupposto dunque che sia soddisfatto l’interesse sostanziale che abbiamo al manifestarsi dello spirito, teniamo molto meno in conto l’obiettività della fedeltà storica rispetto a quella fisica e psicologica. La precisione erudita nell’esteriorità storica non può mai essere scopo dell’arte. L’arte pretende qualcosa di più che soltanto istruire. Se, come accade con Walter Scott, la fedeltà antiquaria coincide con il fascino poetico, sarà cosa assai piacevole, ma la poesia non può, all’inverso, diventare erudizione; se vi sono opere scritte con questa tendenza didattica – come il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce di Barthélemy, il Charikles e il Gallus di Becker 54 – si ammette già in partenza che si tratti di un piacevole travestimento dell’utile, e viene meno ogni pretesa artistica. Noi concediamo in modo incondizionato all’artista una certa indulgenza in tutte le esteriorità di una composizione storica, purché ci mostri l’uomo. Anche gli anacronismi non ci urtano, purché non diventino proprio dei controsensi o non producano nessun effetto artistico che li giustifichi. Con questa libertà grandi artisti hanno trattato la storia senza che noi giudicassimo scorrette le libertà che si sono prese. Così Shakespeare ha trattato non solo la storia inglese, ma anche quella romana. I suoi romani sono in un certo senso anche inglesi, ma soprattutto sono uomini reali, plebei, aristocratici, pieni di affetti e passioni eternamente veri. Ciò che la pedanteria gli ha imputato come scorrettezza storica, a una critica più precisa si mostra motivato dal punto di vista poetico. Nel Racconto


d’inverno fa frangersi il mare sulla costa boema. Che ignoranza, esclamerebbe qui la pedanteria! Ma è una favola, appunto, e la favola ha una geografia fantastica. Per gli inglesi di allora la Boemia era appunto una terra lontana, una terra in genere, tanto storica, per la favola, quanto i suoi re e i suoi maghi. Nel Richard Savage 55 di Gutzkow ci imbattiamo in un anacronismo che merita di essere chiamato scorrettezza. Savage discorre con il noto giornalista Steele. Quest’ultimo vuol distrarre Savage dalla sua malinconia e tendenza ad alambiccarsi e gli dice: «Guarda, compiango me e te, perché ci hai fatto fuggire l’aria mefitica di Londra, ma Botany Bay, amico mio (devo cercare di consolarlo) merita davvero d’essere studiata a fondo. Per il mio giornale è di enorme importanza avere laggiù un corrispondente». Gutzkow colloca i suoi personaggi e il dramma nel 172*. È troppo istruito per non sapere che allora l’Oceania non era ancora stata scoperta; per le idee umanitarie espresse da Steele, poi, non c’era nessun bisogno di Botany Bay; dunque l’anacronismo è del tutto immotivato e quest’ostentazione nel superfluo lo rende scorretto. Ora, se l’arte può mostrarsi indifferente verso la correttezza in cose del genere, non può farlo però verso quelle che costituiscono il nerbo poetico. Deviare da questo tipo di fedeltà, che è un’espressione della verità dell’azione, della sua corrispettiva manifestazione fisiognomica, patognomica e retorica, significherebbe distruggere a un tempo l’essenza ideale senza cui l’opera d’arte non può esistere come opera bella. La pittura ci offre esempi assai interessanti di come l’eccellenza della composizione possa far trascurare l’incongruenza storica della forma. La scuola di Van Eyck, ad esempio, ci ha dipinto Maria come una fanciulla tedesca che in una camera ben soffittata è in ginocchio davanti a un inginocchiatoio color noce e accoglie l’annuncio dell’angelo. Tappeti addobbano il pavimento; un vaso di gigli spicca in un angolo; attraverso la finestra si scorge la riva del Reno, coi suoi castelli. Tutta questa decorazione è oggettivamente impossibile dal punto di vista storico: la Palestina prima della nascita di Cristo non poteva naturalmente avere l’aspetto di una cittadina renana del medioevo. Pertanto tutto il paesaggio, il costume, la cintura di cuoio, la capigliatura biondo oro, gli


occhi azzurri, il profilo tedesco, sono tutti antistorici e scorretti. Ma – ci chiediamo – nella figura abbandonata in preghiera, nei tratti del volto, nello sguardo vi sono la sottomissione, la nobiltà verginale, la pia nostalgia della fede? Se troviamo tutto questo, e lo troviamo espresso nella sua correttezza naturale e psicologica, allora la convenzionalità storica è accessoria; l’idea del quadro è la verginità della concezione, l’antitesi cristiana alla concezione voluttuosa di una Danae, e quest’idea è realizzata. Nell’interesse della bellezza dobbiamo concedere all’artista anche la trasformazione dei miti e della storia, se facendo questo egli ne estrae idealmente il contenuto poetico e non – come avviene in Euripide – producendo con la trasformazione una deformazione. Nessun grande artista ha mai temuto di essere accusato di simili trasformazioni, perché è una colpa che ha il merito di essere la correzione estetica della tradizione storica. Il modo in cui Shakespeare, Goethe, Schiller hanno modificato la storia non ha offeso la verità storica nella sua essenza. Il Don Carlos di Schiller non è del tutto il Don Carlos storico, e tuttavia lo è, perché non solo rappresenta la tragica situazione di un principe così infelice per avere contro di sé, per il talento e l’animo, la diffidenza di un padre tirannico, e per amare la giovane matrigna, divenuta tale dopo essergli stata destinata in un primo tempo come sposa, ma rappresenta questa tragicità anche nell’individualizzazione dello spirito spagnolo e della sua etichetta di corte. Nel suo Don Carlos 56 , Fouqué ci ha dato il Don Carlos storicamente giusto, fedele ai dati empirici, storicamente corretto – per quanto ne sappiamo di lui, almeno – ma questo Infante di Spagna è rimasto sconosciuto, perché della storia gli manca l’elemento specifico: lo spirito. Benché l’arte goda di una certa libertà di movimento nell’elemento storico, nella misura in cui ne raggiunge la verità ideale ogni artista autentico si occuperà anche della fedeltà storica, e già per il fatto che essa gli offre un mezzo così felice di individualizzazione. Ne respingerà soltanto ciò che proprio lo ostacola nei suoi scopi artistici, e sottoporrà a trasformazione soltanto quello che nuoce all’armonia della verità ideale. Si scorrano le opere dei grandi maestri e si veda se le si può


incolpare di avere tralasciato il colore storico. Come è stato storicamente esatto Raffaello – e senza acribie timorose di sorta – nelle sue Stanze! Ci si provi a chiedere se Shakespeare non abbia tenuto fermo, nelle sue tragedie di argomento romano, alla verità storica; e non solo nel complesso, ma fino a toccare le relazioni più individuali. Ci si chieda ad esempio se la sua Cleopatra sia soltanto una donna bella, impetuosa, voluttuosa, grande regina, o non sia anche la donna egiziana, la «vecchia serpe del Nilo». Si veda come si esprimono gli storici, un Gervinus ad esempio 57 sul contenuto storico di queste tragedie. Si analizzi il Wallenstein di Schiller e si veda se la frattura del mondo europeo all’epoca della guerra dei Trent’anni non vi sia ritratta con le tinte che soddisfano il senso storico. Si osservino le tavole di Schinkel per le decorazioni teatrali 58 , se non abbia saputo accordare l’individualità storica con l’ideale estetico e con l’esigenza particolare del teatro. Ma la libertà nel trattare i suoi soggetti che dobbiamo concedere all’arte per ciò che riguarda la natura, e ancora di più lo spirito, la riconosceremo sempre a condizione che l’idealità in virtù di essa ne guadagni nel senso oggettivo del termine: senza questo accrescimento, che libera la tendenza propria dell’essenza manifestandola con chiarezza, la libertà sarà costretta a ricadere nella categoria dello scorretto, oppure diverrà comica. Come sempre e dovunque accade, anche qui il comico sta nel fatto che ciò che concettualmente è impossibile diventa apparentemente reale, e con la sua realtà empirica si fa beffe del nostro intelletto. Se, come abbiamo già detto, gli eroi e le eroine greche e romane un tempo facevano la loro comparsa sulla scena parigina con parrucche a ricciolini incipriate, con abiti da viaggio, scarpe a trampoli, spadini, ventagli, oggigiorno troviamo in questo costume una sciatteria ridicola. Ma quanto poco conti questa esteriorità per la cosa in sé, lo vediamo dal fatto che ora le tragedie di Corneille, Racine e Voltaire non vengono più recitate sulla scena del Théâtre français in quel costume di corte della monarchia assoluta, ma in fogge realmente antiche, senza che il cambiamento susciti una contraddizione con il contenuto. Se però pensiamo una scorrettezza storica intenzionale, essa ha per forza un effetto comico, perché non può


che manifestarsi come parodia. Ad esempio in una burattinata di Glassbrenner 59 , Il Paradiso, Adamo entra in scena con queste parole: Sono molto contento di essere stato creato. Non si può dire quanto sia bello. (Si guarda intorno.) Un giardino botanico graziosissimo! Anche la coperta blu qui sopra e la calda lanterna che vi sta dentro non sono male. A prescindere dal fatto che bisogna prendere quel che c’è qui come fait accompli, il tutto è, in realtà, abbastanza ben riuscito. Chi l’ha fabbricato ha diritto all’applauso del pubblico. Ora, almeno, l’inizio è stato fatto, è stata presa l’iniziativa per una creazione che con le misure adeguate di un governo forte può ancora svilupparsi e diventare un soggiorno davvero piacevole. (Getta sguardi da tutte le parti.) Veramente è stato fatto tutto il possibile, se si pensa che si avevano solo sei giorni. (Scuote il capo.) Del resto a uno solo che abbia fatto tutto questo non ci credo; devono essere stati in molti: un’unione. In ogni caso Radowitz deve aver dato una mano: senza di lui non può aver luogo nessuna creazione... È impossibile, esclamiamo noi, che Adamo abbia parlato così! Ma questo Adamo del teatro di marionette parla realmente così. Vediamo che la creazione qui ha inizio con un chiacchiericcio berlinese blasé, e non possiamo fare a meno di ridere sulla contraddizione tra il concetto del protoplasto e la realtà di un filisteo slavato che si alambicca coi suoi ragionamenti. In generale, il corretto sta nel tenere fedelmente conto della normalità positiva della natura e dello spirito. Tuttavia – come abbiamo visto – la libertà dell’arte non può trovare sufficiente soddisfazione limitandosi al corretto; a certe condizioni può diventare addirittura scorretta senza perciò contraddire il bello. Quando c’è un’intenzione parodistica, lo scorretto può diventare comico. Come dobbiamo giudicare quelle composizioni che appaiono fisicamente e spiritualmente impossibili, eppure, grazie alla mediazione dell’arte, ci vengono innanzi con tutta l’energia della realtà? Che rapporto hanno queste figure di sogno con il concetto di brutto? Certo l’arte non ha altra legge che la bellezza, ma la bellezza ha un rapporto necessario con il vero e il bene, che anche nelle più libere produzioni artistiche non può essere leso. Quest’identità è tanto poco un limite negativo dell’arte che, al contrario, solo grazie a essa diviene possibile il positivo compiersi del bello. Da essa occorre tuttavia distinguere la fedeltà, e questa è ciò che consente alla fantasia con la sua relatività di condurre un gioco di sogno con le figure della realtà empirica.


La fantasia si trova a suo agio nel suo impulso giocoso, in quanto si svincola quasi dall’ubbidienza che deve al positivo, nel riprodurlo grazie a una libera creazione di figure che appartengono soltanto alla sua forza creativa specifica. Si assicura della propria libertà con i saturnali del suo arbitrio. Scherza con la sua esuberanza. Crea piante che non compaiono in nessuna flora, animali che non compaiono in nessuna fauna, avvenimenti che non compaiono in nessuna storia. Si può ancora parlare, in presenza di questi esseri fantastici, di correttezza? Non sembra, perché con quali forme positive normali bisogna paragonare queste formazioni artistiche? Dovremo anzitutto ricordare che la natura e la storia stesse sono ricche di creazioni fantastiche. Se qui potesse operare solo l’intelletto, non comparirebbero, ma caso e arbitrio si diffondono nelle sfrenatezze più ardite; è vero alla lettera che le combinazioni empiriche possono gareggiare apertamente con le invenzioni della fantasia soggettiva. Stando al solo intelletto difficilmente ci sarebbero animali che esteriormente non si distinguono dalle piante, come il grande gruppo dei fitozoi. L’intelletto da solo non avrebbe prodotto quei giganteschi convolvoli antidiluviani di forme contraddittorie. Anche nell’attuale epoca organica della terra, non avrebbe sopportato l’esistenza di pesci volanti, lucertole alate, topi volanti, lucertole con lunghi rostri a forma di spiedo, roditori con code di pesce, mammiferi dal sangue caldo che ci beffeggiano uscendo come pesci dalle onde del mare, ecc. Più che dotata di intelletto, e ragionevole, la natura nella sua libertà è anche abbastanza lunatica e fantasiosa da unificare ciò che in apparenza si contraddice. Solo in apparenza, perché nell’intimo dell’organismo non vi può essere contraddizione, altrimenti non sarebbe vitale; nella forma esterna, invece, può apparire contraddittorio. L’estro fantastico dell’arte dunque, quando crea ibridi di toro e leone, di tori e aquile, grifoni, sfingi, centauri e simili, avrebbe analogie con la natura in sé. E altrettanto nella storia, giacché la libertà dello spirito crea in alleanza con il caso i più mostruosi, favolosi fenomeni, che sopravanzano infinitamente l’estro fantastico della natura. Lo spirito produce innumerevoli figure e prodigi fantastici, e le fantasmagorie più


audaci dell’artista appena oserebbero immaginare l’esistenza variopinta e cangiante. La vita di Napoleone i, la vita di un tenente d’artiglieria, di un generale, di un uomo di stato, di un conquistatore, di un esiliato: quale fantasia avrebbe avuto forza sufficiente per immaginare un simile poema? La vita del cercatore d’oro nelle miniere californiane e australiane: chi non l’avrebbe presa, anche solo un decennio fa, per una favola? La migrazione dei Mormoni da Nauvoo attraverso il deserto fino al lago di Utah: chi si sarebbe aspettato nella ragionevole America, mentre in Europa s’alzavano le barricate, una simile poesia, veramente vetero-testamentaria? Otello recitato da Ira Aldridge, un moro in carne e ossa: come se lo sarebbe potuto sognare Shakespeare? Ma smettiamo di citare ancora altri fatti. Fatti che appartengono al nostro secolo, al nostro presente, che non hanno ricevuto fulgore fantastico solo dalla lontananza remota, dalla canizie dell’antichità, dall’elaborazione poetica della tradizione. Lo spirito non esita ad andare oltre la ragionevolezza della conformità al fine, oltre il mero bisogno, la nuda utilità, quando si tratta di creare spazio al suo carattere specifico. Ma non bada nemmeno ai puri contorni della bellezza quando segue l’impulso di sottolineare la propria individualità: che stravaganze incontriamo nella moda dei popoli! Si pensi ad esempio a quelle calzature medievali con la punta rivoltata che terminano in un corno appuntito, ornato con un campanellino. Forse che la configurazione del piede richiedeva una forma del genere? No. Ci si aspettava una comodità particolare? Certamente no. Forse che questi corni potevano seriamente pretendere alla bellezza? Impossibile. Perché c’erano? Chiaramente per soddisfare una bizzarria dello spirito spavaldamente giocoso. Si pensi a quei costumi del Direttorio che Wattier ha così egregiamente dipinto in quel quadro nella galleria Moreau. Mentre le donne, le Merveilleuses, mettevano semplicemente in mostra collo e seno, le braccia e, attraverso gli spacchi laterali della tunica, qualcosa di più che i polpacci, mentre dunque disvelavano la natura, vediamo i dandy, gli Incroyables, che proprio all’opposto rendono quasi irriconoscibile la natura con stupefacenti crocchie di capelli, collari rigidi e larghi, falde stranamente appuntite. Si rammentino queste figure, e si


ammetta che spesso la storia, con le sue formazioni fantastiche, nel bel mezzo della solarità del giorno sembra traboccare nel mondo del sogno. Se torniamo a rivolgerci all’arte, dovremo riconoscere per la sua fantasia una frontiera estetica, non per quanto riguarda la fedeltà, ma la verità delle immagini. Esse debbono afferrarci con l’illusione di possedere non già, certo, un modello empirico diretto, ma una certa realtà. Questo rapporto lo chiamiamo verosimiglianza ideale. Esse contraddicono il nostro intelletto, e tuttavia debbono sottomettersi all’intelletto per un’unità presente nelle loro contraddizioni, per una naturalezza presente nella loro innaturalità, per una realtà presente nella loro im-possibilità. Dobbiamo riconoscere che tali creature della fantasia – Chimere, Briarei, Centauri, Sfingi ecc. – sarebbero anatomicamente e fisiologicamente impossibili, e tuttavia non possono che apparirci in tale armonia con sé stesse che al loro cospetto non ci assale affatto, immediatamente, un dubbio sulla loro realtà. Quel che è preda del diverso deve per forza essere conformato secondo la sua verità. Se non ci adeguassimo a questa esigenza, saremmo costretti a dichiarare che il fantastico è scorretto. Questa correttezza dell’unità, della simmetria e dell’armonia nell’eterogeneo, che l’arbitrio della fantasia ha legato, deve essere presente, altrimenti la struttura ha un esito brutto o comico. Una sfinge egiziana unisce una testa umana e un seno femminile al corpo di una leonessa. Dal punto di vista anatomico e fisiologico, è un’unità impossibile; ma la plastica ce la offre in un modo così preciso e chiaro che nell’istante in cui la guardiamo non pensiamo affatto a quello scrupolo d’ordine scientifico. Come riposa quieto il corpo disteso sulle zampe, com’è erto il collo, com’è profondo l’occhio che scruta davanti a sé! E dovremmo non dare categoricamente credito a questa esistenza nella nostra fantasia? Certo, se la testa di donna non fosse amalgamata con il corpo di leonessa, con un passaggio che appare naturale, se l’una fosse aggiunta all’altro solo come aggregato, se ciò che in sé è eterogeneo non trovasse una congiunzione intima, e senza costrizioni, allora troveremmo brutta la sfinge. Lo stesso vale per gli ibridi tra uomini e animali analoghi alla sfinge, per le piante fantastiche e anche per gli arabeschi. Un fiore di


fantasia deve simulare con la forma e la disposizione delle foglie, con il calice, l’apparenza della verità naturale; le sue proporzioni devono essere esteticamente possibili. Anche per lo spirito, per quanto si abbandoni alla fantasia, esigeremo la verosimiglianza nel senso dell’idea. Nel senso dell’idea, l’estro fantastico può in definitiva contraddire la ragionevolezza empirica, senza offendere leggi superiori. All’interno del suo vortice, l’eccentricità deve mantenere una certa possibilità; cioè non bisogna confondere – tanti, oggi, se ne compiacciono – l’assurdo con il fantastico. Alcuni autori della vecchia scuola romantica in Germania hanno fatto sfociare i loro sani esordi in una confusione priva di gusto, scambiandola per la vetta della profondità poetica, mentre in tal modo erano giunti all’assurdo, al nichilismo senza idee. L’ottima Dolores di Arnim60 , il Godwi ovvero la statua in pietra della madre di Brentano 61 ne sono esempi. Tra i pittori moderni, Grandville si è confermato come un colosso dell’arte fantastica. Come sono mirabilmente intessute di forme floreali le sue figure di fanciulle nelle Fleurs animées 62: talché non si sa più – si può dire – se siano state le fanciulle a diventare fiori o i fiori fanciulle! Il fiore è soltanto un ornamento, ma così corretto dal punto di vista botanico che il suo panneggio mostra lo stesso carattere della figura umana 63 . Nell’opera Un altro mondo, indiscutibilmente il punto culminante del suo genio, ha azzardato contraddizioni che lacerano la nostra fantasia. Qui siamo al confine della follia, e possiamo sopportarne appena la vista. Dove sta l’elemento tormentoso di alcuni di questi quadri? Nel fatto – crediamo – che Grandville, all’interno del fantastico, non solo è rimasto fedele alla verosimiglianza estetica, ma inoltre nell’assoluta libertà dell’arbitrio compositivo ha conservato una terrificante verità di natura. I Brueghel, i Teniers, i Callot hanno creato, per le loro Tentazioni di S. Antonio, figure di estrema fantasia, che però astraggono da qualsiasi fedeltà alla natura e posseggono solo un aplomb fantastico. Grandville invece nelle sue figure distorte non ha solo dipinto una tartaruga con la testa riccioluta, un orso con la testa di serpente, una locusta con la testa di pappagallo; non ha dipinto solo macchine come uomini, e uomini come macchine; ma tra


l’altro ha dipinto anche un serraglio di fronte al quale anche dei mostri antidiluviani si sarebbero spaventati: vi scorgiamo animali doppi che non sono semplicemente sintesi di forme discordanti, ma piuttosto forme che si escludono, che annientano in modo spaventoso l’illusione dell’unità. Vediamo ad esempio un bufalo con la coda che termina in una serpe a mo’ di coccodrillo, sicché ora due zoccoli del bufalo sono diretti in avanti, due zampe del coccodrillo all’indietro, uno scindersi di direzione che turba l’unità in modo folle. Oppure vediamo saltare da un albero un leone: la coda è un collo di pellicano, che inghiotte un pesce. È una cosa realmente brutta, e troppo orrida per avere un effetto comico. Con una piega comica, anche le contraddizioni più estreme diventano sopportabili. Così Grandville, nella stessa opera, ha dipinto un serraglio davanti alle cui gabbie si aggira un popolo d’animali d’ogni specie, curiosi da vedere. Vi scorgiamo il liocorno dello stemma inglese in gabbia, e davanti a lui una figura di cane con la testa e il cappello da marinaio, che fuma una pipetta. Davanti a una doppia aquila napoleo-nica vediamo accovacciarsi una sfinge, con la testa di balia alsaziana adornata con la famosa cuffia rialzata anziché con la calantica egiziana. Il cane-marinaio, la sfinge-balia sono fantastici e spiritosi senza essere brutti. Per irridere la cattiva inverosimiglianza di un falso estro fantastico, la comicità inventa bensì anche l’impossibile, ma lo espone con il tono della più dottrinaria probità: come fa Luciano nella sua Storia vera in modo impareggiabile, deridendo nello stesso tempo le fandonie dei viaggiatori e la pedanteria dei dotti 64 . A questo punto, si potrebbe citare ancora la fiaba, come genere in cui per essenza contraddizione e normalità della natura e della storia stanno insieme. Non brulica forse di figure e di avvenimenti che colpiscono in pieno viso la legalità positiva, e dunque sono impossibili, scorretti? Ma la vera fiaba non sarà mai scorretta nel senso che le sue impossibilità non siano simbolicamente probabili. I suoi fiori canteranno, i suoi animali parleranno, uomini si trasformeranno in animali e animali in uomini e accadranno miracoli su miracoli: ma grazie a quest’estro fantastico risuonerà un accento più profondo – verrebbe quasi da dire: santo – della verità naturale e storica. Gli involucri artificiali di cui la civilizzazione


riveste tutti i rapporti vengono spezzati dal carattere incondizionato del mondo della fiaba. Essa – come nel patrimonio favolistico orientale e nordico antico (meno in quello celtico) – rimane corretta all’interno dell’idea, e si convalida la naturale innocenza della fantasia infantile. Se fa sì che un uomo si trasformi in asino, lo fa però pur sempre pensare e agire come un uomo, ma mangiar paglia e cardi come un asino. Non cadrà mai nelle assurdità che ci ha offerto la nostra poesia favolistica più recente. Nella Favola dell’abete di Redwitz 65 , l’abete è un simbolo di Dio. L’abete ama il terreno pulito e sabbioso. Eppure Redwitz fa scaturire dalle sue radici una fonte: dovrebbe essere l’uomo che seguendo la forza naturale di gravità si perde nel mondo sterminato e alla fine è in pericolo di ristagnare e di prosciugarsi. Allora l’albero gli manda dietro un ramo salvifico... e il rivo rifluisce all’indietro alla sua sorgente. Il Redentore degli uomini simbolizzato dall’invio di un ramo d’abete! Che aridità da poetastri di conifere! Un rivo che scorre all’indietro! Che profondità! B – La scorrettezza negli stili particolari L’arte ha nell’idea della natura e della storia una norma generale per la correttezza delle sue creazioni. Ma in virtù della necessità che le è propria si dà anche delle norme a cui deve sottomettersi per realizzare le sue opere. Chiamiamo stile la forma particolare del suo procedimento tipico. Un’opera d’arte, allora, è corretta solo se adempie alla specificità di uno stile particolare. Una trascuratezza di questa identità diventa scorretta. Non è qui il luogo di derivare le diverse tendenze in cui l’ideale si divarica per realizzarsi tramite lo stile. Qui dobbiamo prenderle in considerazione solo per quel tanto che ne abbiamo bisogno per spiegare una forma particolare di brutto, che scaturisce dalla negazione dell’individualità di uno stile. Dall’idea stessa del bello risulta che un’opera d’arte può esprimersi in stile alto e rigoroso, in stile medio, oppure in stile leggero e basso. L’artista deve decidersi per una di queste tonalità. Ognuna di esse contiene in sé delle gradazioni che costituiscono momenti di passaggio all’altra tonalità,


ma ognuna ha una qualità estetica che spetta a una sola. L’arte deve consistere nel fatto che i suoi prodotti siano contenuti decisamente nell’una o nell’altra tonalità stilistica. Se vengono mescolate, come avviene in particolare nella forma del romanzo, entro la mescolanza compariranno per forza nella loro purezza per sé. Lo stile alto esclude da sé forme e versi che allo stile medio sono consentite. Lo stile medio ne esclude altre di cui lo stile basso può e deve servirsi. Lo stile alto tende verso il sublime; il medio si muove dignitoso e pieno di grazia; il basso va oltre, nel volgare ma più ancora nel burlesco e nel grottesco. Di conseguenza c’è scorrettezza quando in un’opera d’arte non viene mantenuto lo stile che la sua natura esige. La solennità dell’inno, l’animazione del ditirambo, l’impeto dell’ode escludono da sé, ad esempio, parole e versi che per il semplice canto in compagnia sono innocui. Viceversa, non meno scorretto sarebbe se la canzone si ammantasse nella pompa di espressioni magniloquenti. Rispetto alla purezza dello stile, la storia dell’arte ci offre lo stesso fenomeno che ci mostra la storia della scienza rispetto al metodo. Nella scienza sono estremamente rare le opere che posseggono consapevolezza del loro procedimento. La maggioranza delle esposizioni scientifiche non hanno chiaro a sé stesse se trattano l’oggetto analiticamente, sinteticamente o in modo genetico. Allo stesso modo, anche in molte opere d’arte riconosciamo un’analoga inconsapevolezza dell’artista circa il tono che egli avrebbe dovuto stabilire fin dall’inizio. Talune contraddizioni sorgono anche dal fatto che altre motivazioni, non solo d’ordine estetico, determinano l’espressione. Ad esempio le caricature grottesche che incontriamo nei capitelli di chiese gotiche e che notoriamente includono spesso soggetti molto cinici si possono sopportare come un lusso della fantasia che non è in grado di affievolire la potenza dell’impressione complessiva: non erano originati però da motivi estetici, ma da altre relazioni appartenenti in parte alla posizione sociale e alla tradizione dei capomastri. Non sono derivabili dallo stile dell’intero e sarebbero parse sconvenienti al senso d’armonia di un greco. Spesso le infrazioni non sono stridenti, ma tuttavia percepibili. Il canto conviviale di Hölty (Una vita come in Paradiso | ci procura il Padre Reno) 66 è


composto in stile medio, che ha risonanze di stile leggero. Ma quando alla fine Hölty canta: Viva ogni tedesco che beve il suo vino del Reno finché può reggere il calice e poi stramazza a terra! l’ultimo verso passa dal tono medio e leggero a quello basso. Bere fino a che si cade per terra: è brutale. Se la vita paradisiaca che il Padre Reno ci procura deve avere questo risultato, allora non è molto allettante. E fare anche un brindisi a un beone del genere neppure è attraente. Nella stessa strofa Hölty fa un evviva alla vendemmiatrice, che aveva eletto regina. Da qui non ci voleva molto a ottenere una chiusa totalmente diversa, più nobile, piuttosto che quella conclusione rozza che chiude troppo alla tedesca la giovialità del canto. La mescolanza non intenzionale degli stili, il saltare inconsapevolmente dall’uno all’altro, è brutta: diventa comica solo se viene parodisticamente sottolineata dall’ironia. Nei secoli xvii e xviii si sono fatti sulle e nelle chiese gotiche numerosi restauri, integrazioni, trasformazioni in uno stile arcaizzante la cui serena bellezza non s’accordava affatto con la tendenza al sublime dello stile tedesco: una contraddizione che si può trovare soltanto brutta, non comica, tanto più che la maggior parte di queste costruzioni supplementari erano in sé stesse mostruosità rispetto allo stile che dovevano esprimere. Ma quando il cadere da una tonalità all’altra è intenzionale, può diventare un mezzo fondamentale di comicità. Napoleone il Grande ricordava ai suoi soldati, in Egitto, che quaranta secoli li guardavano dalle piramidi. In un quadro scorgiamo Faustino i 67 che arringa la sua guarnigione seminuda all’ombra rada di alcune palme: «Soldati!, dall’alto di queste palme... quaranta scimmie guardano anche voi!». L’esordio solenne del discorso si contraddice con l’esito, ma in modo comico. Le leggi generali dell’ideale estetico vengono però individualizzate fino a ottenere una caratterizzazione particolare grazie allo stile nazionale, che nasce dalla razza, dall’ambiente, dalla religione e dall’occupazione a cui il


popolo principalmente si dedica. Quanto più il genio di una nazione si esprime in azioni, tanto più contenuto spirituale entra nel suo sentimento di sé e tanto più individuale può farsi il suo stile artistico. Una nazione non dispone liberamente del suo destino; è inserita nella sterminata connessione dell’intera vita del mondo e spesso è limitata, nella sua esistenza, da condizioni che le rimangono a lungo celate e le si fanno chiare, talora, solo nell’epoca tragica del suo declino. Nello stile nazionale, perciò, possono svilupparsi forme che corrispondono, certo, al carattere specifico della nazione, ma che nello stesso tempo sono cresciute così intrecciate con l’inevitabile, particolare limitatezza del suo sentimento di sé, che non s’accordano con le esigenze assolute dell’ideale e che, una volta diventate abitudine, pregiudizio generale, fissano l’arte a un livello imperfetto. Allora un popolo presuppone tacitamente che i suoi artisti imitino queste norme abituali; poiché il tempo ne consolida il dominio, esse diventano un ideale empirico su cui si misura la correttezza. Ciò che non viene prodotto entro i suoi limiti vale dunque, per un popolo, come scorretto. Per indicare la problematicità del giudizio che ne risulta, ci serviamo molto giustamente del termine “gusto nazionale”, al fine di indicare la tipicità individuale nell’arte di una nazione. Si capisce che il gusto nazionale può coincidere con le esigenze dell’ideale, ma altrettanto può succedere il contrario. In quest’ultimo caso è possibile che proprio perché è corretto nel senso più alto del termine, l’artista diventi scorretto nel senso dello stile nazionale. Devoto al precetto assoluto dell’arte, per questa sua obbedienza l’artista entra in contraddizione con l’ideale fissato empiricamente. In Cina, ad esempio, l’architettura si è sviluppata come costruzione lignea. Ora, per proteggere il legno – che per i cinesi è il quinto elemento – dalle intemperie, lo si è piastrellato di porcellana e tinto con vernice, e per rompere la monotonia si usano colori variopinti, vivaci. La lucentezza della lacca, accentuata dalla doratura, è diventata d’uso nazionale e ormai, nel senso cinese, sembra corretto solo ciò che corrisponde a questa luminosa varietà di colori. Oppure, si rammenti che i francesi presumevano che l’astratta unità di luogo, di tempo e d’azione fosse la regola aristotelica del dramma,


che elevarono tale teoria a norma assoluta: si capirà allora che a loro un’infrazione di una delle tre unità doveva apparire come scorretta. Si erano talmente immedesimati in quell’unità astratta, l’avevano adottata al punto che qualunque deviazione, per poetica che fosse stata, la sentivano come brutta. Ci si rammenti uno solo dei noti giudizi che Voltaire pronunciava, dal suo punto di vista nazionale, sul teatro inglese, giudicato barbarico perché qui, al contrario, il mutamento di luogo e di tempo e il passare dell’azione principale attraverso una libera varietà di azioni collaterali episodiche – che i francesi concedevano soltanto all’epica – si era sviluppato fino a diventare ideale nazionale. Se il carattere determinato dello stile nazionale si unisce a concezioni religiose può deprimere spesso per lungo tempo – se è scorretto nel senso dell’ideale assoluto – la pura creazione del bello. Non solo nella tecnica, ma in campi diversi, non direttamente connessi con quello religioso, l’arte può anche aver già raggiunto nella sua tensione ideali livelli superiori, ma si vede costretta entro il campo religioso a continuare ancora a riprodurre la forma tipica, per quanto possa essere addirittura brutta. Lo ha ben illustrato Gutzkow nel romanzo umoristico Maha Guru 68: i fratelli HaliDong, in Tibet, vengono sottoposti a un processo d’eresia perché hanno osato abbellire l’immagine riproducendo, nella loro fabbrica di divinità, la parte tra il naso e la bocca nella statua del Dalai Lama in una dimensione più estetica di quanto non lo consentissero le tradizioni consacrate. Così, nell’Islam, il divieto del Corano impedisce alla plastica e alla pittura di riprodurre una forma vivente. Esse restano dunque limitate al campo ornamentale, e sono state costrette a far traboccare nel regno esuberante dell’arte ornamentale la loro forza plastica di creazione. Nei vari stili nazionali, possediamo nello stesso tempo varie forme oggettive dell’ideale estetico. Essi sono pertanto il mezzo adeguato per esprimere certe situazioni, sensazioni, disposizioni d’animo. Farà quindi parte della correttezza trovare lo stile corrispondente a un particolare compito ed eseguirlo in modo conseguente, secondo le proprietà che gli sono inerenti. Ad esempio può essere commisurato alla verità estetica rappresentare un soggetto in stile cinese o greco o moresco ecc. In tal caso


si sarebbe scorretti a non applicare anche le forme giuste dello stile nazionale in questione. Si pensi alle Lettere di Montesquieu tra Usbek e Rica, che hanno indossato il costume persiano; allo Zadig di Voltaire, al Nathan di Lessing, al Divano occidentale-orientale di Goethe, alle Rose orientali di Rückert 69 e così via, tutte composizioni in cui domina lo stile orientale maomettano. All’interno di una nazione lo stile artistico attraversa, a sua volta, varie epoche evolutive, che assumono la forma di scuole. Una scuola fissa per un periodo un gusto specifico, che costituisce nella realizzazione dell’ideale una gradazione particolare e può quindi diventare, analogamente a quanto accade con lo stile nazionale, canone estetico relativo. In generale, è in una scuola che la tendenza di uno stile nazionale raggiunge l’espressione più pura. L’ideale dello spirito nazionale viene a coincidere con l’ideale di una scuola; le altre scuole della stessa nazione appariranno come momenti preparatori o successivi nello sviluppo della scuola principale. Uno stile di tal fatta potrà diventare in modo permanente, grazie all’universalità a cui si innalza, organo dell’arte: così oggigiorno, in campo pittorico, diciamo che un quadro è dipinto in stile italiano o olandese, ma specificando subito se è concepito secondo la maniera della scuola fiorentina o veneziana o senese ecc. Una volta stabilito questo presupposto, l’artista diventa scorretto se non si sottomette alle caratteristiche costitutive del gusto particolare della scuola. Non è impossibile che alcune di esse non siano corrette nel senso della verità di natura: l’artista sarebbe scorretto nel senso della scuola se non volesse, insieme con l’individualità, realizzarne anche gli errori giacché, secondo ogni probabilità, senza gli errori neppure raggiungerebbe le virtù che distinguono lo stile della scuola. È il momento di menzionare un concetto di cui Goethe si è molto occupato: il concetto di dilettantismo. Nel suo Saggio sulla pittura 70 Goethe si è opposto a Diderot, che scambiava la necessaria fedeltà con la verità estetica dell’ideale. Nella fondata polemica che opponeva alla pedanteria della rigidità accademica, Diderot divenne un apologeta incondizionato della natura, che a sentire lui non fa nulla di scorretto


perché ogni forma – sia bella o brutta – ha la propria causa e tra tutti gli esseri non ce n’è uno che non sia come deve essere. Dal canto suo Goethe, l’apologeta dell’arte che produce secondo regole, arriva al punto di osservare che, piuttosto, bisognerebbe dire: la natura non è mai corretta! La natura lavora alla vita e all’esistenza, alla conservazione e all’accrescimento delle sue creature, noncurante se siano belle o brutte. Una forma che dalla nascita era destinata a essere bella può essere lesa, per un caso qualsiasi, in una sua parte: e insieme ne soffrono, immediatamente, altre parti. Ora infatti la natura ha bisogno di forze per reintegrare la parte lesa e così sottrae qualcosa alle altre, disturbandone lo sviluppo. La natura non è più ciò che doveva essere, ma ciò che può essere. Sottolineando la selezione attraverso la scuola e il valore incalcolabile della sua esperienza, Goethe esclama poi: «Quale genio universale potrà, di colpo, semplicemente contemplando la natura, senza tradizione, decidersi per certe proporzioni, cogliere le forme genuine, scegliere il vero stile e crearsi un metodo onnicomprensivo!». È la linea che Goethe ha perseguito nel 1799 in un’opera di cui fa meraviglia che non abbia trovato compimento, nemmeno da parte di qualche entusiasta di Goethe. Quando da noi tedeschi si porta a compimento qualcosa, allora lo si ripete fino alla grettezza: ma andare avanti un passettino e continuare a portare avanti il lavoro, è cosa assai più rara. In nessuna nazione è di moda come da noi la comoda maniera di far stampare raccolte di frammenti e con questa pratica del florilegio farsi anche una fama letteraria. Il saggio a cui alludiamo si trova nel xliv volume delle Opere: Sul cosiddetto dilettantismo o l’amatorialità pratica nelle arti 71 . Esso contiene una disposizione completa, spesso assai dettagliata di argomenti, che vogliamo qui raccomandare e far prendere a cuore a qualche giovane talento. Goethe anzitutto stabilisce il concetto di dilettantismo in generale, lo mette in parallelo con l’abborracciato nell’opera manuale, lo specifica nelle singole arti, ne mostra l’utilità e infine il danno. Da queste osservazioni vogliamo estrarre ciò che si riferisce alla produzione del brutto. L’arte domina l’epoca, il dilettantismo ne segue l’inclinazione. Quando i maestri dell’arte


seguono il gusto falso, tanto più in fretta il dilettante si crede al livello dell’arte. Poiché il dilettante ha la vocazione dell’autonomo creare solo a partire dagli effetti che hanno su di lui le opere d’arte, scambia tali effetti con le cause e i motivi oggettivi, e ritiene di poter rendere praticamente produttivo anche lo stato di sensibilità in cui si trova, come se si pensasse di estrarre dal profumo del fiore il fiore stesso. Ciò che parla al sentimento, l’effetto ultimo di tutte le composizioni poetiche, che però presuppone il dispendio di tutta quanta l’arte, il dilettante lo vede come essenza dell’arte, e perciò vuol mettersi anche lui a creare. Ciò che propriamente gli manca è l’architettonica nel senso più alto, quella forza esecutrice che crea, plasma, costituisce. Egli ne ha solo una specie di sentore, ma si dà totalmente alla natura invece di dominarla. Si troverà che in definitiva il dilettante prende le mosse prevalentemente dalla lindura, che è la perfezione dell’esistente. Nasce di qui un’illusione: come se l’esistente fosse degno di esistere. Lo stesso accade con l’accuratezza e tutte le condizioni ultime della forma, che possono accompagnare altrettanto bene la negazione della forma. Il dilettante salta i gradi, si ferma a determinati gradi che ritiene siano lo scopo e crede di essere giustificato, a partire da qui, a giudicare il tutto, e si impedisce perciò la perfettibilità. Si pone nella necessità di agire secondo regole false, perché senza regole non può operare nemmeno in modo dilettantesco e non conosce le regole oggettive autentiche. Si distacca sempre di più dalla verità degli oggetti e si perde in errori soggettivi. Il dilettantismo sottrae all’arte il suo elemento e ne peggiora il pubblico, a cui toglie serietà e rigore. Ogni tipo di parzialità distrugge l’arte, e il dilettantismo introduce indulgenza e permissività. Il dilettantismo dà credito agli artisti che più gli sono vicini, a spese degli artisti autentici. Il dilettantismo poetico o trascura l’indispensabile elemento meccanico e pensa di aver fatto abbastanza quando mostra spirito e sentimento, oppure cerca la poesia esclusivamente nel fatto meccanico, dove può assicurarsi una certa destrezza artigianale, ed è senza spirito e senza contenuto. Sono entrambi dannosi, ma il primo danneggia più l’arte, il secondo più il soggetto stesso. Tutti i dilettanti sono plagiari. Già snervano e distruggono ogni originalità nel linguaggio e nelle idee, in quanto la ripetono e la scimmiottano e così rabberciano la loro vuotaggine. Così la lingua viene riempita di frasi e formule acciarpate che non dicono più niente e si possono leggere interi libri scritti in bello stile che non contengono assolutamente nulla. In breve, tutto il vero bello e buono della poesia autentica viene profanato, trascinato via e degradato quando il dilettantismo prende il sopravvento. C – La scorrettezza nelle singole arti Abbiamo dunque visto che in generale la scorrettezza consiste nella infedeltà, nel deviare dalla legalità implicita nella natura e nello spirito. In particolare, consiste nella disubbidienza e contraddizione verso la precisione ideale di uno stile, verso lo stile di una nazione, verso lo stile di una scuola. Se si applica al concetto di scorretto la distinzione di Kant tra esistenza ideale ed esistenza normale 72 si può dire che l’ideale estetico all’interno del gusto di una nazione, di una scuola, venga perfezionato e fissato a esistenza normale particolare. Allora una scuola o una nazione


identificano l’esistenza normale, sorta empiricamente dal processo storico, con l’ideale assoluto. Pertanto la correttezza – già ce ne siamo persuasi – può diventare un limite negativo della creazione estetica. Fortunatamente però ogni arte possiede, già in virtù della costituzione del suo mezzo espressivo, un impulso che le è proprio e che spezza tale angustia e produce scorrettezze innegabili nel senso dello stile convenzionale. Qui sta il mistero del perché le tendenze generali non riescono mai del tutto a rovinare la produzione artistica, anche quando hanno ottenuto un’autorità legislativa. Si tratta della correttezza individuale della singola arte, da cui prende le mosse quest’effetto, oggettivo al massimo grado. Tutte le arti devono esprimere il bello, ogni arte però lo può fare all’interno del suo medium specifico. Compito dell’estetica è di sviluppare nel sistema delle singole arti le regole del procedimento che ne risulta. Come già prima si è notato, qui sarebbe una goffaggine da parte nostra scendere fino al dettaglio: significherebbe soltanto dare una litania, aggiungendo a tutte le determinazioni positive la deviazione da esse, come offesa alla correttezza necessaria. Dobbiamo perciò contentarci di dichiarare alcuni punti generali che rendano visibile la scorrettezza che, in quanto pericolo di imbruttimento particolare, minaccia in modo specifico ogni singola arte. Le arti figurative ci fanno apparire il bello nello spazio, nella materia muta. L’architettura ha il compito di innalzare e sostenere la materia con la materia. È quindi costretta a tenere conto del centro di gravità. Se questo manca, diventa scorretta e non c’è bellezza ornamentale e pittoresca che possa compensare l’errore architettonico fondamentale. Allora la gravità stessa corregge l’errore, cioè quel che s’è costruito ricade giù; un modo costoso di correggere, ma assai in voga ai tempi nostri. Il centro di gravità può esser folle in apparenza, ma non di fatto. Così, la torre pendente di Pisa solo apparentemente è in contraddizione con la legge fondamentale dell’architettura; è un pezzo di bravura dell’ardimento tecnico, ma nessuno lo può trovar bello, perché anche nella massima audacia dei rapporti l’architettura deve produrre il sentimento della sicurezza e della durata. Solo quando si è adempiuto a


questa esigenza primaria si possono soddisfare anche altre esigenze architettoniche. Un edificio deve poggiare per terra ma, a meno che non sia architettura degli Ipogei, deve levarsi dalla terra in aria: la materia deve appunto sostenere la materia, la parete sostenere il tetto. Solo questa forza portante che dalla madre terra tende al cielo conferisce a ogni edificio il suo slancio caratteristico, la sua libertà. La considerazione del punto di gravità va dunque definita come la correttezza interna, centripeta; la considerazione del salir su dalla terra, correttezza esterna, centrifuga. Così ad esempio nella Gliptoteca di Klenz 73 , a Monaco, peraltro egregia, è scorretto il fatto che si innalzi così poco sulle fondamenta. Per la plastica, la scorrettezza caratteristica deriva dal venir meno dei rapporti naturali di misura della forma vivente, umana in particolare. Le opere della plastica ci si espongono come fenomeno che persiste nella pienezza di tutte le dimensioni spaziali, e perciò feriscono nel modo più sensibile il nostro sentimento per la mancanza o l’eccesso di misura, la falsità della conformazione, le positure impossibili, il celebre canone di Policleto deve la sua origine all’esigenza dell’arte di fissare come sostegno le proporzioni normali della figura umana. Ma proprio nella plastica troviamo anche deviazioni dai rapporti naturali positivi che, se prese in senso soltanto empirico, si potrebbero definire scorrettezze. Si tratta di quelle deviazioni che si giustificano con il bisogno di una superiore armonia, come si è notato in precedenza a proposito del concetto generale di scorretto. Certo, non sarà mai consentito di ledere una norma essenziale, ma sono permesse quelle delicate, lievi deviazioni dalla fedeltà alla natura che soltanto rendono possibile al contenuto spirituale di realizzare pienamente la sua specificità. Ad esempio, è noto che il ventre dell’Apollo Vaticano non è del tutto corretto dal punto di vista anatomico; ma non lo vediamo come un errore, perché la snellezza della figura acquista, grazie alla magrezza della vita, un’elasticità caratteristica che s’innalza volando dal suolo verso il cielo. Anche le forme colossali non sarebbero corrette nel senso della fedeltà empirica; ma per determinati scopi, per suscitare effetti sublimi, possono essere perfettamente corrette per l’arte.


Ciò tuttavia dipenderà dal grado della misura e dall’individualità del soggetto. Dalla misura, perché non può essere tanto grande che ne abbia a soffrire l’unità della figura; dal soggetto perché per essere bello deve avere in sé una forma nobile. I tori e i leoni colossali nei palazzi di Ninive sono belli, perché toro e leone offrono in sé una forma nobile; se però immaginiamo che un artista voglia raffigurare come opera plastica un ratto seduto sulle zampe posteriori – per quanto perfetto – sarebbe abominevole in qualunque circostanza. Lo stesso vale per il rimpicciolimento, che ha i suoi limiti tanto nella grandezza quanto nel soggetto. Anche nei singoli membri della figura la plastica può permettersi di temperare la normalità naturale, ma non le sarà consentito di tralignare nell’abnorme. Farà inturgidire in modo un po’ più teso o rilasciarsi più morbidamente di quanto non sarebbe possibile in natura un muscolo, per accentuarlo in una particolare relazione, dandogli però la giusta forma e posizione, perché la verità anatomica basilare se offesa si prenderebbe subito la sua vendetta estetica. I Greci hanno notoriamente forzato la conformazione naturale solita nel raffigurare l’orbita, ma solo nella plastica, per dare alla statua senza colori, con una collocazione più profonda dell’occhio, la forza dello sguardo; quindi l’apparenza ottica riequilibra la scorrettezza osteologica. Per la pittura, l’energia specifica sta nel colore e nella luminosità; invece il disegno, in quanto momento plastico, sta in secondo piano. I profili delle forme devono essere esatti comunque, ma poiché la pittura deve rendere la forma individuale nella vivezza della sua caratteristica tonalità cromatica, nel gioco scambievole di luce e ombra e nella trasformazione di proporzione dell’apparenza prospettica, qui un errore di disegno è più sopportabile che nella plastica. Quest’ultima ci offre le sue figure come forme piene, che hanno immediatamente in sé stesse il loro colore e ricevono luminosità dall’esterno. Nella plastica, all’inverso che in pittura, il colore è inessenziale, perché le deriva dalla forma in quanto tale. Il colore individualizzante è in contraddizione con la rigidità dell’opera plastica: qui applicarlo è una procedura scorretta, e lo si percepisce guardando statue e figure in cera dipinta. Nei chiostri e nelle cosiddette


stazioni della passione di Cristo, nei monti del Calvario, è talora possibile imbattersi in statue vicine alla naturalezza più di quanto avvenga con le statue dipinte, e ciò grazie all’applicazione di capelli e vestiti veri: con questa parvenza di vita immediata, la statua acquista qualcosa di spettrale. Quando ad esempio, a Salisburgo, si ascende per le stazioni del Monte dei Cappuccini fino al Buon Pastore, come appaiono atroci dietro il filo spinato della grotta le stridenti figure dei giudei, degli schiavi e del Cristo martoriato. Il corretto è propriamente quella bellezza che può venir appresa, la tecnica estetica. Ciò è evidente soprattutto nella musica: benché quest’arte esprima i moti più intimi del sentimento è però vincolata – e proprio per la natura del suono – alle regole di un’aritmetica rigorosa, e perciò se ne possono controllare le scorrettezze nel modo più preciso. Nella poesia la correttezza è più indeterminata perché qui, più ancora che nelle altre arti, dipende dalla profondità del contenuto spirituale e contemporaneamente questo contenuto può far perdonare più che altrove un’eventuale scorrettezza. Aristotele, Orazio, Boileau e Batteux hanno cercato di determinare le regole della poesia, e con esse il concetto di poeticamente corretto. Lindura di linguaggio, esattezza metrica, perfezione retorica e separazione dei generi sono esigenze di ogni opera poetica. La scorrettezza di cui soffre il nostro tempo sta soprattutto nell’ultimo punto: sovrabbondiamo di èpos senza battaglia, canzoni senza sentimento, drammi senza azione e il titolo di “novella” è particolarmente prediletto per i prodotti bastardi più privi di carattere. Un tipo specifico di scorrettezza sorge dall’indebita mescolanza delle arti. Esse possono e debbono sostenersi a vicenda, giacché sono di natura sociale, e il melodramma deve proprio alla cooperazione di tutte le arti la sua forza incomparabile. Ma è diverso quando oltrepassiamo – in avanti o all’indietro – la sfera delle singole arti e vogliamo suscitare effetti che a esse – in forza delle loro specificità – debbono restare preclusi. Ogni arte ha la sua forza solo all’interno della propria determinatezza qualitativa. Se la abbandona e tende a effetti che non sono possibili con il suo medium, ma solo con quello di un’altra arte, contraddice se stessa e con ciò cade


nel brutto. Dunque un’opera d’arte può essere corretta solo in quanto si mantiene all’interno della frontiera insita nel suo medium particolare. Se si tende troppo, certo non mancherà di fare effetto con quest’azzardo, giacché allora produce qualcosa che non dovrebbe produrre e che – in quanto fenomeno raro – può pur sempre essere interessante, ma comunque offende le leggi della vera arte. Si intenda esattamente. Che un’arte sostenga un’altra arte è bello; che però un’arte cancelli l’individualità di un’altra arte è brutto. L’architettura ad esempio può ben essere sostenuta dalla scultura, e anche dalla pittura, ma ciò non deve avvenire senza che l’architettura conservi la sua autonomia e serbi solo il rango di ornamento a ciò che scultura e pittura aggiungono alla sua opera. La policromia degli antichi – così pare stando alle relazioni di Semper e di Kluger 74 – ha tenuto accuratamente conto di questo limite. L’architettura prepara un domicilio alla scultura e alla pittura, ma se non bisogna schiacciare le opere di queste arti con le masse architettoniche, occorre che l’architettura, per predisporre alla statua il piedistallo, al dipinto la superficie parietale, sia particolarmente attenta a modificare allo scopo l’organismo dell’edificio. Lo stesso, musica e poesia possono sostenersi a vicenda, ma anche qui occorre che la musica, in qualità di musica strumentale di accompagnamento, non renda inudibile del tutto la parola e non costringa il cantante, come accade in tante opere moderne, a gridare e a cantare in fortissimo: dove non rimane ormai che starsene a bocca aperta davanti alla forza fisica, ma non c’è niente di bello da amare. È noto che Lessing, nel Laocoonte, ha cercato di determinare i confini della pittura e della poesia. Egli ha indicato le scorrettezze derivanti dal fatto che la pittura dimentica la sua condizione fondamentale – la coesistenza – e la poesia la sua – la successione. Gli errori che derivano dalla dimenticanza di questo fatto li ha indicati per la poesia come mania descrittiva, e per la pittura come allegorismo: Di quella s’è voluto fare una pittura parlante, senza sapere propriamente cosa possa o debba dipingere, e di questa una poesia muta, senza aver riflettuto fino a che punto possa esprimere concetti generali senza allontanarsi dalla sua destinazione e diventare una scrittura arbitraria. In tale ricerca, dalla sezione 23 alla 25, Lessing ha escluso il brutto dalla


pittura, rivendicandolo alla poesia. Ma è un errore, e con la sottigliezza che gli è propria Lessing stesso è indotto a dubitare se la pittura, per ottenere il ridicolo e l’orrido, non possa servirsi anch’essa di forme brutte: «Non voglio arrischiare di rispondere con un “no” netto», scrive. Lessing distingue a questo punto una bruttezza innocua per il ridicolo e una bruttezza nociva per l’orrido, e osserva che nella pittura la prima impressione del ridicolo e dell’orrido si dissolve presto e ciò che rimane è solo lo sgradevole e l’informe. Ma nel condurre la dimostrazione prende i materiali sempre e soltanto dalle opere della poesia, non della pittura e perciò – come vedremo più a fondo nella parte successiva della nostra indagine trattando del concetto di nauseante – ha confinato la pittura in limiti troppo angusti. Tra le arti appare un’interna connessione, che ci rappresenta il passaggio immanente dell’una nell’altra. Nel suo organismo più nobile, la colonna, l’architettura annuncia già la statua, ma non perciò, tuttavia, la colonna è una statua. Nel rilievo la scultura annuncia già la pittura, ma il rilievo in quanto tale non ha ancora alcun principio pittorico, perché non ha alcuna prospettiva e alcuna ombra che non sia quella determinata dall’illuminazione casuale. La pittura già esprime il calore della vita individuale con una forza tale che solo per caso sembra che manchi il suono, ma il gioco della luce, le tonalità cromatiche non sono ancora un suono reale. Solo la musica descrive con i suoi suoni i nostri sentimenti. Il simbolismo della sua onda melodica tocca la nostra sensibilità, ma quanto più ci tocca nell’intimo, dalla sua mistica profondità aspiriamo alla poesia, per giungere alla chiarezza nel carattere determinato della rappresentazione e della parola. L’aiuto fraterno che le arti si assicurano tra loro, e il loro interno passare dall’architettura fino alla poesia è cosa totalmente diversa dalla reciproca usurpazione. Quest’ultima non consiste in un naturale rafforzamento, ma nel fatto che, per usurpazione o degradazione, un’arte deve suscitare effetti che le sono inaccessibili, o almeno dovrebbero rimanere tali, stando alla qualità che le è propria. Se un’arte fa un’anticipazione ingiustificata, compie un atto di usurpazione; se si colloca più in basso di quanto concettualmente sta, si degrada. Ma


degradazione e usurpazione – la scienza dell’idea lo indica come legge universale – hanno per conseguenza la mostruosità. Siano concessi soltanto alcuni esempi, a mo’ di spiegazione. Per l’architettura non è possibile fare un passo indietro in un’altra arte; in avanti, essa non deve attenuare con la scultura e la pittura i suoi grandi rapporti. La scultura non deve tornare indietro e assumere il ruolo di colonna per l’architettura. Atlanti dal corpo erculeo sono certo più indicati a fare da cariatidi e a sorreggere trabeazioni e soffitti di quanto non lo siano delicate portatrici di ceste di frutta, ma questi supporti non saranno mai membrature architettoniche decisive, ma sempre una degradazione della figura umana, che è troppo nobile per servire soltanto da supporto d’un trave. Sorreggere l’intero globo terrestre come il gigantesco Atlante ha un senso poetico, perché in definitiva presuppone una forza infinita; ma compiere quel che una colonna farebbe altrettanto bene, o anche meglio, è contrario alla dignità della figura umana. Viceversa quando le colonne hanno – come molte colonne egiziane – una testa al posto del capitello, si tratta di un’usurpazione da parte della colonna, cioè di un’anticipazione esteticamente ingiustificata della statua. Se la musica cerca di ritrarre ciò che si può soltanto vedere, affatica inutilmente il suo mezzo. Il famoso passaggio della Creazione di Haydn «Sia la luce, e la luce fu» non può mai rappresentare la luce come luce, ma sempre soltanto l’immenso movimento che il suo apparire produce nell’universo. Nelle Stagioni sono le stesse varietà sonore degli eventi naturali e delle occupazioni umane che aiutano Haydn a farle diventare pittoriche nel suono; il richiamo del corno caratterizza il cacciatore, il suono della zampogna il pastore, il passo di danza del flauto il contadino. La musica può imitare lo scroscio della cascata, il mugghio della tempesta, il brontolio del tuono, ma i sentimenti possono avere un’espressione solo simbolica. Allorché spesso si cita come esempio di pittorica musicale il luogo, nelle Nozze di Figaro di Mozart, in cui si cerca la «povera, infelice spilletta» 75 , bisogna considerare che difficilmente senza la parola e la mimica si dedurrebbe dalla musica l’immagine: qui si cerca per finta una spilla perduta. All’inverso, la pittura non può esprimere ciò che può essere espresso solo


con la musica o la poesia, o addirittura solo con la prosa. Certo, con il medium della parola la poesia può esprimere tutto, nulla può sottrarsi alla sua forza descrittiva; invece la pittura può rappresentare solo ciò che può entrare nel dominio del visibile. Qui è molto difficile fissare qualcosa una volta per tutte; per giudicare concretamente se la pittura ha già oltrepassato i suoi confini oppure no, occorrerà attenersi ai casi particolari. Ciò che per antonomasia è interiore, lirico, o addirittura intellettuale, cessa di essere pittorico: per renderlo tale, la pittura è costretta a disporre il soggettivo in una situazione. Un pittore parigino, de Lemud, ci ritrae un pittore dallo sguardo fosco che siede su una panca davanti a un cavalletto posto, accanto a pennelli e altri attrezzi, su un piano rialzato; accanto a lui, con un gesto incoraggiante, una chiave in mano, un’anziana donnetta. Cosa significa mai questo quadro? Se non ce lo suggerisse il catalogo non l’indovineremmo mai. Rappresenta Jan van Eyck e sua sorella Margareta che scoprono, dopo essersi molto tormentati, la pittura a olio. Se il signor de Lemud avesse letto il Laocoonte di Lessing! Si può dipingere l’invenzione, o piuttosto la scoperta della polvere da sparo, perché si può rappresentare il monaco B. Schwarz mentre arretra spaventato davanti al mortaio che esplode. Qui l’esplosione rende chiara la scena; ma non si può dipingere la scoperta della pittura a olio: si può solo raccontarla, come ha fatto Schopenhauer 76 . La scorrettezza all’interno delle singole arti può – come ogni determinazione del brutto – convertirsi in comico solo nel caso in cui l’artista la pratichi intenzionalmente. Nell’architettura e nella scultura a causa del rigore e della semplicità di queste arti, e nella musica a causa del suo fondamento matematico, ciò è meno possibile; più possibile nella pittura, e al massimo grado nella poesia. Poiché quest’ultima rappresenta attraverso il linguaggio, qui la scorrettezza diventa mezzo eminente di comicità. Dal punto di vista della bellezza, scorrettezza di linguaggio, gergo e miscuglio linguistico sono certamente scorretti. Ma se applicati in modo intenzionale possono rappresentare in modo assai divertente la contraddizione dello spirito con se stesso e quindi la sua umoristica


superiorità, poiché il linguaggio resta pur sempre solo un mezzo. Allora quel che altrimenti è brutto diventa ridicolo al massimo, e la poesia drammatica fa perciò grande uso di questa forma di scorrettezza. Con infinito spirito, Shakespeare ha seguìto la scorrettezza di linguaggio in quasi tutte le note della sua immensa scala 77 . Anche la balbuzie si può definire una scorrettezza di linguaggio; gli italiani godono in modo così straordinario di quest’effetto comico che tra le maschere napoletane c’è sempre un balbuziente (“balbutore”). Benché corretto in sé, nei confronti di una lingua colta e dotata di scrittura, il dialetto può apparire scorretto. Perciò i comici lo utilizzano come contrasto: così in Aristofane, Shakespeare, Molière. Come sono profilati in modo delizioso nei loro dialetti il capitan Fluellen e il pastore Evans in Shakespeare! Il canto pastorale di Evans fa ridere anche nella traduzione di Tieck: Alla cascata del silente rivo risuona il madrigale dei becchi. Cospargiamo un peto di rosa e mille fiori agli odori di cucina. Il gergo è diverso dal dialetto: è una lingua saccheggiata da diversi territori linguistici che però è giunta, in sé, a una certa unità, come il furfantesco del linguaggio dei malfattori, l’argot dei bagno’s, il caos linguistico della plebe delle grandi città. Bulwer, Sue e altri ne hanno fatto ampio uso, a volte anche per rappresentare l’orrido, perché questo linguaggio separato ci fa uscire dalla società civile, con la sua costumatezza e cultura. Rabbrividiamo nel sentire il linguaggio della barbarie, che vive proprio in mezzo a noi nel buio della segretezza e per noi è il linguaggio dei nostri nemici. Il gergo berlinese ha conosciuto da alcuni decenni in qua un ampliamento così grande perché contiene un certo che di serena autoironia che lo rende, per così dire, socievole. Con Glassbrenner ha avuto il suo classico: egli ha reso popolari Nante Strumpf, Herr Buffey, Madame Pisecke, il figlio di Buffey, Willem ecc. così come, in precedenza, Bäuerle aveva reso popolare con il dialetto viennese Herr Staberl 78 . Che il gergo faccia anche errori di linguaggio, va da sé.


La mescolanza di lingue è diversa sia dal gergo sia dalla scorrettezza di linguaggio. Siccome ogni lingua dovrebbe costituire un tutto armonico, bisognerebbe censurare, a rigore, tutte le parole che vengono da altre lingue. Ma non si può spingere il purismo fino a tal punto. Laddove si producono lingue miste, come le attuali lingue romanze, o dove il cosmopolitismo della civilizzazione universale, come in Europa e in America, spinge i popoli allo scambio più intimo tra loro, l’unità di linguaggio è diventata un’impossibilità. Anzi, può addirittura essere un errore non usare, quando si presenti il caso, la parola straniera comprensibile a tutti. La mescolanza di lingue diventa brutta quando, come nella nostra letteratura alla metà del xvii secolo, nega l’unità estetica; un errore in cui cade spesso, da noi, anche Sealsfield, quando esagera la caratteristica delle varie nazioni mescolando le loro frasi abituali. Ma la mescolanza diventa comica non appena serve a esprimere un’interna contraddizione come nell’Horribilicribifax di Gryphius 79 o non appena fa il ridicolo tentativo di creare arbitrariamente, da due lingue, una nuova lingua autonoma, come è accaduto col cosiddetto linguaggio maccheronico 80 . Ma proprio quest’ultimo mostra nella sua storia che può avere buon fine là dove le lingue hanno una certa affinità, come avviene con l’italiano e il latino. È per questo che Teofilo Folengo rimarrà sempre il più grande poeta maccheronico. La mescolanza di lingue delle Epistolæ obscurorum virorum non è di tipo maccheronico: è solo ciò che si dice un germanismo in latino, vulgo latino di bassa cucina.


Parte terza Lo sfiguramento o deformazione Il brutto non è mera assenza del bello, ne è la positiva negazione. Ciò che concettualmente non appartiene alla categoria del bello, neppure può essere sussunto sotto quella del brutto. Un problema d’aritmetica non è bello, ma neppure brutto; un punto matematico, che non ha né lunghezza né larghezza, non è bello ma nemmeno brutto; lo stesso un pensiero astratto, e così via. Poiché il brutto nega positivamente il bello, non va assunto meramente come prevalere del sensibile sullo spirituale, secondo la miope definizione di alcuni teorici dell’estetica. Il sensibile in quanto tale è il naturale, e il naturale, come già abbiamo visto, concettualmente non è di necessità bello (tende infatti prima di tutto ad essere conforme a scopo e subordina alla sua unità teleologica la forma estetica); ma neppure è, concettualmente, di necessità brutto. Piuttosto, e senza contraddire il suo concetto, può essere bello, come mostra la natura inorganica nella sua conformazione elementare. Come può essere bella una montagna, una roccia, un lago, un fiume, una cascata, una nuvola! Se fosse vero che il sensibile costituisce il principio del brutto, quel che è soltanto naturale dovrebbe essere brutto. Altrettanto poco si può ritenere lo spirituale in sé principio del bello: al bello appartiene, come momento costitutivo, il sensibile. Nel suo isolamento astratto dalla natura, nella sua interiorità negativa di fronte al sensibile, lo spirituale non è un oggetto estetico. Tale diviene solo nel momento in cui entra con la mediazione della natura o dell’arte nella cerchia della manifestazione finita, percepibile coi sensi. Perciò nemmeno si può dire che il male o il sentimento della perdizione sia principio di brutto: benché il male e il sentimento di colpa possano diventare causa di brutto, ciò non è affatto necessario per antonomasia. La rappresentazione lo esprime


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