per grandezza e forza, come l’ippopotamo, il rinoceronte, il cammello, l’elefante, la giraffa. Talora la forma animale assume una piega comica, come in alcuni aironi, cornei, pinguini, alcuni topi e scimmie. Molti animali sono belli. Come sono belle certe conchiglie, farfalle, scarabei, serpenti, colombe, pappagalli, cavalli! Noi vediamo che le forme brutte si producono soprattutto nei punti di passaggio tra i regni animali, perché qui si annuncia, anche nella forma, una certa contraddizione, un oscillare tra tipi diversi. Molti anfibi ad esempio sono brutti perché animali d’acqua e di terra simultaneamente. Sono ancora pesci, e nello stesso tempo non lo sono più, un’anfibolia che si manifesta interiormente ed esteriormente, nella struttura e nel comportamento. Le smisurate forme preistoriche sono sorte soprattutto perché gli organismi giganteschi dovevano adattarsi alle situazioni estreme della forma del suolo e della temperatura. Lucertole acquatiche e d’aria, rettili giganteschi con zampe palmate potevano vivere solo in queste sterminate plaghe paludose, in quest’atmosfera riarsa e afosa. Lo stato ambiguo della terra preistorica doveva per forza lasciare un’impronta sull’ambiguità della forma animale. Ancor oggi, là dove la conformazione del territorio è ancora immatura e la vegetazione vergine, troviamo questi esseri ibridi, come gli ornitorinchi in Australia. L’animale, dunque, può essere brutto già nel suo tipo immediato. Ma può anche, se il tipo inizialmente è bello, diventare brutto: come le piante, può essere soggetto a deformazione, dall’esterno per mutilazione e dall’interno per malattia. In entrambi i casi supera di molto in bruttezza la pianta, perché il suo organismo è molto più unitario e concluso, mentre la pianta coi suoi tralci tende all’indistinto, e quindi è sottoposta nel contorno della sua forma a una certa casualità. La struttura dell’animale è determinata in sé e per sé. Se quindi si ferisce o se ne asporta un membro, l’animale ne viene imbruttito immediatamente. L’animale non può togliere nulla al suo organismo, eccettuato il sovrappiù vegetativo di peli, corna e simili, che è in grado di rinnovare. Da un roseto si può cogliere una rosa senza che la pianta in sé ne soffra, o se ne leda la forma. A un uccello non si può tagliare un’ala, non si può mozzare la coda a un gatto senza
renderlo deforme e pregiudicare la sua gioia di vivere. Viceversa la forma animale, a causa di un’articolazione che a priori è in sé conclusa, diventa brutta per un sovrappiù che concettualmente non le appartiene. Le membra dell’organismo animale sono esattamente determinate per numero e posizione, perché stanno in armonica relazione reciproca tra loro. Perciò un membro in più o disposto diversamente rispetto a come dovrebbe essere concettualmente, contraddice la forma fondamentale e la rende brutta. Se nasce una pecora con otto zampe, il numero doppio rispetto al necessario è una mostruosità, è brutto. L’esatta misura della forma animale, che si sviluppa dall’interno, comporta appunto che ogni membro ha la sua grandezza normale, che sta nel cosiddetto bilanciarsi degli organi e che dunque, se il membro s’ingrossa o diminuisce oltre tale misura, si produce una distorsione nei rapporti di tipo necessariamente brutto. Tale ingrossamento o diminuzione eccessivi di regola sono conseguenza di una malattia; essa può anche avere un’origine ereditaria, che si sviluppa a partire dal nucleo vitale profondo. La deformazione può avere inizio già nell’uovo, nel seme, nell’utero, durante il periodo fetale. La malattia distrugge l’organismo dapprima parzialmente, infine del tutto, e alla malattia in genere si accompagnano perdita di colore e deformità. Quanto più l’animale è bello secondo il suo concetto, tanto più brutta diventa allora la vista della sua forma incurvata, smagrita, enfiata, coperta addirittura di piaghe. Il cavallo è indiscutibilmente l’animale più bello, ma perciò è anche quello che malato, invecchiato, con gli occhi cisposi, la pancia che pende, le ossa sporgenti, le costole a vista, spelacchiato a chiazze, ha un aspetto oltremodo ripugnante. Da ciò che si è detto finora risulta che la bruttezza della forma animale, sia che la intendiamo come originaria oppure sorta per caso e per malattia, è spiegabile a sufficienza e non abbiamo bisogno di ipotizzare un elemento di innaturalità nella natura come causa del brutto, come fa Daub nel Giuda Iscariota 19 . La necessità della natura di unificare elementi contrastanti nell’unità dell’organismo, di gettare dei mammiferi in acqua – balene, foche, buoi marini – e lanciarli nell’aria – i patagi – e di attrezzare
chelidoni, sauri e batraci sia per la vita acquatica sia per la vita terrestre, è chiara appunto quanto la necessità del caso che mutua dall’esterno, con violenza, un animale, o lo deforma dall’interno con una malattia. È appena il caso di osservare che l’avidità di sangue dei carnivori e il veleno di certi animali – incluso il fetore che alcuni emanano per difendersi – sono connessi con la bellezza o la bruttezza tanto poco quanto il veleno di alcune piante con la loro forma. Se fosse vera l’ipotesi sovrannaturalistica dell’origine del brutto dal male, che avrebbe corrotto la natura, anche la maggioranza dei serpenti velenosi e degli animali da preda dovrebbero essere brutti; ma è tanto poco vero, che anzi i serpenti dai denti avvelenati e i gatti selvatici si distinguono per bellezza, anzi per magnificenza. Per la natura, l’innaturale non ha propriamente alcun senso: in quanto priva della libertà di coscienza e di volere, essa non è capace di trasgredire arbitrariamente una legge. Per gli animali non esiste legge della coscienza e della pietà, quindi nemmeno esiste il crimine contro tale legge. Onanismo, incesto e infanticidio sono concetti che appartengono soltanto al mondo dello spirito ed è un falso sentimentalismo inorridire su misfatti del mondo animale, che come tali non esistono affatto in esso. Di solito, quando si parla di bellezza e bruttezza della natura, nemmeno pensiamo a questi casi particolari: di solito, nella media dei casi, abbiamo davanti agli occhi la bellezza del paesaggio, che raccoglie in sé tutte le forme naturali in una unità caratteristica. Il paesaggio è monotono quando in esso predomina in modo elementare una delle forme naturali – la montagna, il fiume, il bosco, il deserto ecc.; oppure è contrastante, quando due forme si contrappongono l’una all’altra; o armonico, quando un’opposizione si risolve in un’unità superiore. Ognuna di queste forme fondamentali può percorrere col mutare del giorno e delle stagioni una varietà infinita di fasi. Soprattutto quando è illuminato, si vede che effetto estetico è in grado di produrre un paesaggio. Un deserto può essere sublime, terribilmente sublime quando il sole tropicale lo arroventa, come il Sahara basso sul livello del mare; malinconicamente sublime quando la luna della zona temperata vi splende sopra con la sua luce d’argento, come le alture del Gobi. Ma ognuna delle forme fondamentali di
paesaggio può assumere una forma bella o brutta. La monotonia, che ha la reputazione d’essere brutta, lo diventa veramente solo per l’indifferentismo della mancanza assoluta di forma, come avviene col mare plumbeo e stagnante sotto un cielo grigio nell’assenza totale di vento. Il brutto spirituale Se passiamo dalla natura allo spirito, dobbiamo innanzitutto dire che il fine assoluto dello spirito è la verità e il bene: a essi subordina la bellezza, così come la natura organica la subordina al suo fine assoluto, la vita. Cristo, l’ideale della libertà, non ce lo rappresentiamo certo brutto, ma neanche bello alla maniera greca. Ciò che chiamiamo bellezza dell’anima è il concetto del bene e della purezza della volontà; tale bellezza può risiedere anche in un corpo spiacevole, o addirittura brutto. La volontà in sé e per sé, nella solennità della sua santità, oltrepassa l’elemento estetico. La disposizione d’animo che ha un contenuto valido non si chiede come prima cosa in che forma appare. L’interiorità del sentimento colmo d’amore fa dimenticare in colui che agisce le maniere goffe, la povertà degli abiti, gli eventuali errori di linguaggio. Ma è naturale che la verità e il bene morale abbiano come conseguenza una dignità nell’atteggiarsi della persona che anche esteriormente penetra fin nella manifestazione sensibile: vale quindi il detto di Lichtenberg, che la virtù rende belli, il vizio brutti. Possiamo esprimere in modo ancor più generale questo detto, in sé giusto, affermando che se il sentimento e la coscienza della libertà imbelliscono, l’illibertà imbruttisce. Qui assumiamo il termine libertà solo nel senso dell’autodeterminazione in sé infinita, astraendo dalla verità del suo contenuto. L’organismo è fatto in modo che non ha nessun significato per se stesso; invece, in quanto strumento dello spirito, fa sì che lo spirito traspaia in lui. Possiamo osservare la verità di questo concetto nelle razze e nelle classi. Con l’accrescersi della libertà aumenta anche la bellezza esteriore. Le stirpi aristocratiche diventano più belle perché si sentono più libere,
perché sono emancipate dal vincolo che le lega alla natura, perché dispongono di più ozio e lo riempiono col gioco, l’amore, l’esercizio delle armi, la poesia. Gli isolani dei Mari del Sud erano belli fino a che vivevano di amore, di danza, di lotta e godendosi i bagni in mare. I negri del Dahomey e di Benin sono belli, perché uniscono al benessere fisico coraggio guerriero e intraprendenza mercantile. Per questo già prendono interesse alla bellezza. Il re ha un corpo di guardia di varie migliaia di Amazzoni, fanciulle veramente belle e valorose di cui Ami Boué ci ha lasciato i ritratti 20 . Chi riceve un regalo dal re esprime la sua gratitudine pubblicamente, di fronte a tutto il popolo, con una danza, dunque con un atto estetico. Anche l’uomo cattivo per certi aspetti, dal punto di vista morale, o addirittura malvagio, può mostrarsi bello, se accanto ai vizi e alle depravazioni possiede anche virtù e tempra morale. Spesso sarà libero formalmente, astuto, prudente, riflessivo, padrone di sé, perseverante: spesso i criminali si distinguono, addirittura, per un certo slancio cavalleresco e per nobiltà. In questo campo compaiono strane eccentricità. Una Ninon de l’Enclos era certamente bella, e galante non meno che bella; ma senza basse considerazioni accessorie: lo era con sentimento e grazia, e perciò rimase bella. Concedeva liberamente le sue grazie seguendo l’inclinazione, non le vendeva. Poiché il corpo in rapporto allo spirito può pretendere a un valore solo simbolico, si spiega com’è possibile che un uomo sia brutto nel corpo, cresciuto storto, con tratti irregolari del volto, butterato, eppure non soltanto possa far dimenticare tutto questo ma – più ancora – sia in grado di ravvivare queste forme disgraziate dall’interno, con un’espressione che ci rapisce in modo irresistibile col suo incanto. Si capisce perché il brutto Mirabeau sapesse appassionare le donne più belle non appena gli permettevano di parlare; perché Riccardo iii, in Shakespeare, sappia conquistarsi con tanta superiorità di spirito l’amore di Anna che prima lo malediceva, sulla bara di Enrico vi; perché nel Simposio di Platone Alcibiade dica che Socrate è brutto quando tace, bello quando parla. Che il male in quanto brutto spirituale debba imbruttire, quando diventa abituale, la fisionomia dell’uomo è cosa costitutiva della sua
natura, perché è quell’illibertà che scaturisce dalla libera negazione della vera libertà. L’abito e la fisionomia di popoli primitivi felici possono essere belli, perché essi godono di libertà, anche se per ora solo naturale. L’illibertà che sta nel volere il male pur sapendo che è male, contiene la contraddizione più profonda della volontà con la sua idea, una contraddizione che deve manifestarsi per forza anche esteriormente. Particolari perversioni e vizi acquistano una precisa espressione fisiognomica. Invidia, odio, menzogna, avarizia, lussuria, scavano le loro specifiche orme. Così nelle ladre si nota uno sguardo insicuro, che sfugge lateralmente, con un movimento che i francesi chiamano (dal latino fur) “fureter”. Quando si visitano grossi istituti carcerari e si entra nel capannone dove spesso sono riunite insieme a filare da sessanta a cento ladre si può percepire questo sguardo particolare dell’occhio malizioso e in agguato, caratteristico di quel genere di persone. La bruttezza diventa naturalmente ancora più grande quando si vuole il male in sé e per sé. Ma per quanto possa suonare paradossale, proprio il fatto che il male in questo caso si fissa come totalità ristabilisce una certa armonia della volontà, e quindi anche della manifestazione della volontà, che addolcisce esteticamente le forme. Il traviamento occasionale del vizio può avere spesso un’espressione molto più spiacevole, cruda che il male per antonomasia, il quale nella sua negatività è, daccapo, un intero. Il vizio grossolano è evidente nella sua unilateralità; la profondità – o piuttosto la non profondità – del male assoluto penetra con la sua intensità l’abito e il volto in uguale misura, e può esistere anche senza offrire occasione e materia particolari alla giustizia criminale. Uomini di società ricchi, affinati da ogni espediente di civiltà, schiavi d’ogni capriccio, viziati nelle più delicate raffinatezze dell’egoismo, che civettano corteggiando le donne, che nel tormento della loro alterigia diventano il tormento dei loro servitori, sono spesso caduti nell’in sé senza fondo del male. Guardando all’indietro, a paragone con la natura, qui riconosciamo la progressione per cui in alcuni animali la natura produce certamente il brutto in modo immediato e positivo, mentre l’uomo può deformare e sfigurare interiormente la bellezza naturale che gli viene data; un’opera, questa,
della libertà che si autodistrugge, e di cui l’animale è incapace. La causa del male e del brutto da esso mediato nell’aspetto esteriore dell’uomo è dunque la sua libertà, nient’affatto un essere trascendente che sta al di fuori di lui. Il male è azione propria dell’uomo, al quale appartengono anche le conseguenze. Ora, siccome l’uomo ha essenzialmente in sé l’aspetto naturale ne risulta che le determinazioni del brutto che abbiamo incontrato nella natura organica, e animale in particolare, sono possibili anche nell’uomo. Certo dal suo tipo ci si dovrebbe aspettare, stando all’idea, la bellezza della parvenza umana, ma la realtà empirica – poiché il caso e l’arbitrio sono qui fattori costitutivi – ci mostra anche forme brutte, e non solo nella forma di individui isolati, ma nella diffusione ereditaria in cerchie più ampie. Eppure forme siffatte non appartengono alla specie nel senso in cui vi sono animali brutti per nascita, animali che hanno già presenti nel loro concetto il brutto, il contorto e il contraddittorio. Di contro all’idea di uomo si mantengono ferme le casualità, che in senso empirico erano necessarie solo relativamente. Possono essere in parte di tipo singolare, in parte di tipo particolare. Singolare quando un organismo umano è deformato dalla malattia individuale, ad esempio la scrofola, una deformazione della spina dorsale, una frattura; particolare quando la deformazione si produce perché l’organismo deve adattarsi a un determinato ambiente. Nel caso dell’adattamento a una certa forma del suolo e a un certo clima l’uomo è costretto a percorrere gli stessi processi a cui sottostanno la pianta e l’animale. La diversità delle condizioni telluriche si esprime anche nella diversità dell’abito e della fisionomia, tanto più che esse determinano anche una diversità nel modo di vivere. L’abitante dei monti e quello della pianura, il cacciatore e il pescatore, il pastore e il contadino, l’abitante dei poli e quello dei tropici sono necessariamente diversi per carattere antropologico. Così è anche per il cretinismo, che sembra essere inerente a determinate località, cioè alle acque montane impregnate di soluzioni calcaree. Il cretino è anche più brutto del negro perché alla deformità della figura aggiunge l’ottusità dell’intelligenza e la debolezza dello spirito. Gli occhi spenti, la fronte bassa, il labbro inferiore pendulo, la
voracità indifferente a quel che ingolla e la brutalità sessuale lo mettono al di sotto del negro e lo avvicinano all’esistenza della scimmia – che esteticamente è superiore al cretino – non dell’uomo. Nel concetto di uomo, dunque, non c’è la bruttezza. Il suo concetto, in quanto concetto della libertà e della ragione, esige di realizzarsi anche esteriormente nella simmetria della forma, nella differenza tra piedi e mani e nella positura eretta. Se l’uomo – come il boscimano, il cretino – è brutto di natura, è perché in tale deformità si esprime anche l’illibertà determinata dall’ambiente e dalla ereditarietà relativa. La malattia è sempre causa di brutto quando comporta lo sformarsi di ossa, scheletro e muscoli, come il tumefarsi delle ossa nella sifilide, nelle devastazioni cancrenose. Lo è sempre quando tinge la pelle come nell’itterizia, quando copre la pelle di esantemi come nella scarlattina, nella peste, in certe forme di sifilide, nella lebbra, nell’erpete, nel tracoma. Le deformità più orrende le arreca senza dubbio la sifilide perché non causa solo eruzioni cutanee nauseanti, ma anche piaghe putrescenti e devastazioni ossee. Esantemi e ascessi sono assimilabili al vermicello della sabbia, che scava i suoi canali sotto la pelle; sono, in certa misura, individui parassitari, la cui esistenza contraddice alla natura dell’organismo come unità e in cui esso si disintegra. La vista di una simile contraddizione è dunque oltremodo brutta. La malattia è in generale causa di brutto quando modifica in modo abnorme la forma: è anche il caso dell’idropisia, della timpanite e simili. Ma non lo è quando – nella cachessia, nell’etisia, negli stati febbrili – dà all’organismo quella tinta trascendente che lo fa apparire etereo. Lo smagrimento, lo sguardo bruciante, le guance pallide o arrossate dalla febbre del malato possono far intuire in modo anche più immediato l’essenza dello spirito. Allora lo spirito è come già separato dall’organismo. Lo abita ancora, ma solo per renderlo puro segno. Il corpo nella sua trasparente “morbidezza” non ha già più significato per sé, è in tutto e per tutto espressione soltanto dello spirito che se ne va via da lui, indipendente dalla natura. Che spettacolo veramente luminoso offrono una fanciulla o un giovinetto sul letto di morte, vittime dell’etisia: niente del genere è possibile tra gli animali. Per gli stessi motivi, non è
affatto detto che la morte produca sempre un imbruttimento dei tratti del volto: può anche lasciare dietro di sé un’espressione bella, beata. Ora, se in certe circostanze la malattia può addirittura imbellire l’uomo, ancor più può diventare causa di bellezza quando scompare. Il graduale ritorno della salute dà allo sguardo libera chiarezza, tenero rossore alle guance. Il rigonfiarsi delle vene e dei muscoli e il gioco della forza che ricomincia a muoversi ricercando il piacere diffondono una bellezza straordinariamente potenziata e irrorano la forma di quell’incanto inesprimibile in cui lo stimolo del ringiovanimento ancora ha in sé la sua antitesi alla decrepitezza, la vita alla morte. Un convalescente è uno spettacolo degno degli dèi. Tuttavia a questo punto non possiamo ancora abbandonare lo spirito: in un altro modo ancora che non sia quello dell’abituale malattia esso può produrre bruttezza. Può cioè ammalarsi in sé esprimendo poi anche nel suo manifestarsi la contraddizione in cui entra con se stesso in quanto spirito. O meglio, il disturbo psichico stesso è, tanto quanto il male, il brutto vero e proprio nello spirito in quanto tale. Ma quella bruttezza dell’intimo si traduce anche esteriormente: idiozia, demenza, follia, frenesia rendono brutto l’uomo. Inclusa l’ubriachezza come acuta autoestraneazione dello spirito prodotta artificialmente. L’accortezza con cui lo spirito che è in sé connette insieme tutti i suoi rapporti sapendo se stesso, spirito singolo, contemporaneamente come natura razionale universale, conferisce allo spirito la giusta presenza e perciò anche il corretto dominio sull’organismo. Ma nel disturbo psichico l’uomo perde l’universalità del suo sentimento di sé, nell’idiozia oppure nella demenza la aliena in una finitezza oppure, nella follia, si sente annientato dalla potenza di una contraddizione da cui si salva solo fingendosi un altro, o rifugiandosi nella frenesia. In tutti questi casi il malato attribuisce falsi valori sia al reale sia all’immaginario. L’idiota sprofonda progressivamente in un’apatia animale; nel demente si sviluppa uno sguardo caratteristico che si distoglie dalla realtà degli oggetti e degli uomini per fissare l’indeterminato, una contrazione del volto in smorfie ripugnanti, una repellente mobilità o rigidezza, e anche nei folli che soffrono di una
profonda lacerazione del sentimento si nota che la solennità con cui spesso accompagnano la loro comparsa tradisce nella vuotezza e nella sconnessione del suo pathos un sentimento di sé spezzato. Il brutto artistico Come si vede, il regno del brutto è grande quanto il regno del fenomeno sensibile in generale. Del fenomeno sensibile, perché il male e la cattiva autoestraneazione dello spirito diventano un oggetto estetico solo mediante la manifestazione esteriore. Poiché il brutto è nel bello, può prodursi come negazione di ogni sua forma in virtù sia della necessità della natura sia della libertà dello spirito. La natura mescola assieme bello e brutto, καταβεβηκῶς come direbbe Aristotele: a caso. La realtà empirica dello spirito fa lo stesso. Per gustare quindi il bello in sé e per sé, lo spirito è costretto a portarlo alla luce e a rinchiuderlo in un caratteristico mondo per sé. Nasce così l’arte. Esteriormente si allaccia anch’essa ai bisogni dell’uomo, ma il suo motivo vero rimane la nostalgia dello spirito per il bello puro, non mescolato. Se recare alla luce il bello è il compito dell’arte, non compare qui la massima contraddizione, quando vediamo che l’arte reca alla luce anche il brutto? Se volessimo rispondere che comunque l’arte reca alla luce il brutto, ma come bello, chiaramente non faremmo che aggiungere una seconda contraddizione a quella notata prima, e una contraddizione – sembra – ancora più grande: come è possibile che il brutto possa diventare bello? Con tali questioni ci vediamo implicati in nuove difficoltà. Dal momento che esse si impongono da sole, abitualmente ci si difende con la tesi triviale che la bellezza ha bisogno della bruttezza, o perlomeno può servirsene per apparire come bellezza con maggiore intensità espressiva: come fare del vizio una condizione della virtù. Dallo sfondo oscuro del brutto si staccherebbe tanto più luminosa l’immagine pura del bello. Ma ci si può accontentare di quest’affermazione? La sua verità, che cioè il bello potrebbe venir sentito tanto più come bello di fronte al brutto, è
soltanto relativa. Se fosse assoluta, il bello dovrebbe desiderare sempre di essere in compagnia del brutto. Solo accanto a un Tersite, allora, la bellezza di un Achille sarebbe appieno ciò che deve essere. In quanto espressione dell’idea che si manifesta sensibilmente, il bello è in sé assoluto e non ha bisogno di un appiglio fuori di sé, di un rafforzamento mediante il suo opposto. Non diventa più bello mediante il brutto. La presenza del brutto accanto al bello non può elevare il bello in quanto tale, ma soltanto lo stimolo a gustarlo, in quanto di fronte al brutto sentiamo in modo più vivido l’eccellenza del bello. Così han fatto molti pittori dipingendo accanto a Danae che accoglie con desiderio e dolcezza la pioggia d’oro nel suo bel grembo una vecchia grinzosa e dal mento a punta, a lato o sullo sfondo. Ma ciò che è semplicemente bello e sublime ci fa, piuttosto, desiderare la sua esclusiva e incondizionata presenza. Basta tanto a se stesso che può fare a meno del brutto come elemento di contrasto: quest’ultimo anzi potrebbe anche avere un effetto di disturbo. L’assolutamente bello ha un effetto acquietante e fa sì che momentaneamente si dimentichi tutto il resto. Perché mai ci si dovrebbe distogliere dalla beatitudine della sua pienezza a favore di altro? Perché condirne il godimento pensando al suo contrario? C’è ancora spazio, nel santuario del tempio, per la statua di un demone malvagio accanto a quella del dio? Forse che l’uomo in preghiera vuol saziarsi di altro che non siano i tratti del dio? Siamo dunque costretti a respingere la validità illimitata della tesi secondo cui nell’arte il brutto c’è in vista del bello. Nell’architettura, nella scultura, nella musica, nella lirica, mantenere questa tesi sarebbe motivo particolare di impaccio. Il contrasto di cui spesso l’arte ha bisogno non è necessariamente prodotto dall’antitesi del brutto; il bello è abbastanza vario da darsi contrasti con le sue stesse forme. Così, ad esempio, nell’Ifigenia di Goethe non compaiono che caratteri belli; oppure nella Madonna Sistina di Raffaello non si trova che maestà, grazia, venustà, dignità, amorevolezza e assolutamente niente di brutto. Eppure in queste opere non mancano contrasti che, in quanto belli, apparecchiano quell’infinita meraviglia che è implicita nell’assoluto come divino senza
manchevolezze. La concezione teleologica del brutto non ha dunque alcuna giustificazione decisiva. Per quanto riguarda la natura ci siamo convinti che qui, dal punto di vista teleologico, si tratta essenzialmente della vita e solo in seconda istanza della bellezza. Anche riguardo allo spirito, abbiamo visto che in esso verità e bene precedono ogni esigenza estetica. È bello quando il vero e il bene sono anche belli, ma non è necessario che sia così. Che questo non vada inteso nel senso che verità e bene, quando non sono in grado di apparire in una bellezza ideale, debbano manifestarsi come brutti, lo abbiamo notato espressamente. Il brutto incondizionato non ha uno scopo esterno a se stesso né in natura né nello spirito. La natura non ci difende con forme e colori spaventosi dai veleni presenti in metalli, piante e animali; e lo spirito più amabile può avere il fatale destino di doversi accontentare per tutta la vita di una gobba come Esopo o di un piede zoppo come Byron. Ora, come è possibile che l’arte, il cui scopo deve essere solo il bello, raffiguri il brutto? È chiaro che il motivo deve stare più in profondità di quel rapporto riflessivo esterno: nella natura stessa dell’idea. L’arte ha necessità – ed è questo il suo limite di fronte alla libertà del bene e del vero – dell’elemento sensibile, ma in questo elemento vuole e deve esprimere la manifestazione dell’idea nella sua totalità. Appartiene alla natura dell’idea di lasciare libera l’esistenza della sua manifestazione, ponendo così la possibilità del negativo. Tutte le forme che possono scaturire dal caso e dall’arbitrio realizzano anche fattualmente la loro possibilità, e l’idea dimostra la sua divinità soprattutto per la potenza con cui mantiene intera l’unità della sua legge nell’intrico di fenomeni che si incrociano, nel duplicarsi da caso a caso, da impulso a impulso, da arbitrio ad arbitrio, da passione a passione. Se quindi l’arte vuol rendere intuitiva l’idea in un modo che non sia soltanto unilaterale, non può sottrarsi al brutto. I puri ideali ci impongono certamente il momento più importante del bello, il momento positivo. Ma se natura e spirito debbono esprimersi in tutta la loro drammatica profondità, il brutto di natura, il male e il demoniaco non possono mancare. Per quanto vivessero nell’ideale, i greci hanno avuto Briarei, Ciclopi, Satin, Graie, Empuse,
Arpie, Chimere, hanno avuto un dio zoppo, hanno fatto vedere nelle loro tragedie il crimine più orrendo (il mito di Edipo e di Oreste), la follia (Aiace), la malattia disgustosa (la piaga purulenta del piede di Filottete), nella commedia vizi e nefandezze d’ogni tipo. Ma con la religione cristiana, che è quella che insegna a riconoscere il male alla radice e a superarlo dal fondamento, il brutto è stato introdotto a pieno titolo nel mondo dell’arte. Per questo, per rappresentare la manifestazione dell’idea nella sua totalità, l’arte non può non raffigurare il brutto. Sarebbe una concezione superficiale dell’idea volersi limitare a ciò che è semplicemente bello. Da tale integrazione non consegue però che il brutto sia esteticamente allo stesso livello del bello. L’origine derivata e secondaria del brutto determina anche qui una differenza. Siccome riposa in se stesso, il bello può essere prodotto dall’arte anche in modo del tutto irrelato e senza ulteriore sfondo, mentre il brutto non è capace di uguale autonomia estetica. Dal punto di vista empirico, certo, va da sé che il brutto può comparire anche isolato, ma dal punto di vista estetico fissare esteticamente il brutto è inammissibile: esteticamente deve sempre riflettersi nel bello, nel quale trova la condizione della sua esistenza. Possiamo ormai riprendere la tesi che abbiamo prima stabilita per il bello e dire che siccome non riposa in se stesso il brutto ha nel bello il suo necessario contrasto. Possiamo bensì trascurare la brutta vecchia accanto a Danae, ma il pittore non la dipingerebbe da sola se non come elemento di contrasto, dove l’elemento estetico sarebbe costituito dalla collocazione, oppure come ritratto, sottoposto anzitutto alla categoria di verità storica. Anche qui, la dipendenza del brutto dal bello non va naturalmente assunta nel senso che il brutto possa diventare strumento del bello. Sarebbe un’assurdità. Il brutto può comparire accidentalmente accanto al bello, sotto il suo patronato, per così dire; può farci presente il pericolo a cui il bello è sottoposto nella libertà della sua mobilità, ma non può diventare oggetto diretto ed esclusivo dell’arte. Solo le religioni possono porre anche il brutto come oggetto assoluto, come mostrano tanti idoli spaventosi di divinità di religioni etniche, ma anche idoli di
sètte cristiane. Nella totalità dell’intuizione del mondo il brutto, come il malato e il male, costituisce soltanto un momento disparente, e nell’intreccio con questa grande connessione non solo lo sopportiamo, ma può anche diventarci interessante. Ma se lo si toglie dal contesto, non è più godibile esteticamente. Ad esempio nel Giudizio Universale di Danzica, di Van Eyck, scorgiamo un’anta, su un lato della tavola mediana, che ci rappresenta gli orrori delle figure infernali, la disperazione dei dannati e lo scherno dei diavoli occupati a infligger loro la pena: è chiaro che il pittore ha dipinto quest’oscuro gomitolo di smorfie ripugnanti solo in relazione all’anta opposta, che contiene l’ingresso dei beati nelle porte luminose del cielo, ed entrambe, a loro volta, le ha dipinte solo in rapporto alla grande tavola centrale, il giudizio, che soltanto spiega gli estremi delle tavole laterali e in gruppi simmetrici, in mirabili gradazioni crescenti e decrescenti di colore, fa da ponte tra di esse. Ma l’inferno, o addirittura un diavolo da solo, non l’avrebbe dipinto. Naturalmente, noi isoliamo a scopi didattici anche il brutto, ma l’artista che pur lo restituisce così fedelmente, a mo’ di ritratto, non penserebbe mai di aver creato con ciò un’opera d’arte. Chiunque può sempre immaginarsi il quadro di una testa di Cristo; non così la maschera di un Mefistofele. Una rappresentazione così isolata concederebbe al brutto un’autonomia che va contro il suo concetto, mentre il bello in pittura può essere isolato fino ad arrivare alla natura morta. Così, tutti i componimenti poetici che si sono scelti un oggetto brutto non hanno mai raggiunto, malgrado lo sfoggio di spirito, la minima popolarità: nessuno può trovarvi godimento. I francesi hanno poesie pedagogiche sulla pornografia e addirittura sulla sifilide; gli olandesi sulle flatulenze ecc., ma i possessori di simili versi si vergognano addirittura quando li si trova a casa loro. Quel principe di Palagonia di cui narra Goethe 21 voleva esprimere il brutto con una certa compiutezza sistematica attraverso l’arte che vi si ribella nel modo più deciso, cioè attraverso la scultura, e con tutto quel dispendio non ha fatto che produrre una curiosità disordinata, tragicomica. L’arte permette al brutto di esistere solo in combinazione con il bello: ma in questa connessione il
brutto può produrre grandi effetti. L’arte ne ha bisogno non solo per una comprensione completa del mondo, ma soprattutto per volgere un’azione al tragico o al comico. Ora, se l’arte rappresenta il brutto, l’abbellirlo andrebbe – sembra – contro il concetto stesso di brutto; in tal caso infatti il brutto non sarebbe più brutto. A prescindere poi dal fatto se l’abbellimento del brutto – in quanto artificio sofistico di una menzogna estetica – non produrrebbe un brutto in più per l’interna contraddizione di dipingere di nuovo come bello il brutto, dunque la negazione del bello, di attribuirgli quindi in modo menzognero qualcosa di positivo, che è contro la sua natura, e in definitiva creare una caricatura del brutto, una contraddizione della contraddizione. Sembra così, come s’è detto ed è vero, che l’arte debba idealizzare anche il brutto, trattarlo cioè secondo le leggi generali del bello, che esso vulnera con la sua esistenza; non nel senso che l’arte debba occultare, travestire, falsificare il brutto, addobbarlo con un ornamento a esso estraneo, ma nel senso di confermarlo, senza pregiudizio per la verità, secondo la misura del suo significato estetico. E ciò è necessario, perché l’arte procede in questo modo con ogni realtà. La natura che l’arte ci restituisce è quella reale, e tuttavia non la comune natura empirica. È la natura come sarebbe se la sua finitezza le consentisse quella perfezione. Ugualmente la storia che l’arte ci dà è quella reale, e tuttavia non la comune storia empirica. È la storia secondo la sua essenza, secondo la sua verità, come idea. Nella comune realtà non mancano mai le brutture più rivoltanti e spiacevoli: l’arte non può assumerle senz’altro così come sono. Ci deve offrire il brutto in tutta l’asprezza del suo disordine, ma deve farlo con la stessa idealità con cui tratta anche il bello. L’arte esclude dal contenuto del bello tutto quanto appartiene solo all’esistenza casuale; sottolinea i tratti significativi di un fenomeno e ne cancella quelli inessenziali. Lo stesso deve fare con il brutto. Deve evidenziarne le determinazioni e le forme che lo rendono brutto, ma deve allontanarvi tutto ciò che si introduce solo casualmente nell’esistenza del brutto, ne indebolisce o falsifica la caratteristica. Questa purificazione del brutto dall’indeterminato, dal
casuale, dal non caratteristico è un atto di idealizzazione che non consiste nell’aggiungere al brutto un bello estraneo ma nel mostrare in modo pregnante gli elementi che lo bollano come antitesi del bello e in cui sta, per così dire, la sua originalità, l’originalità della contraddizione estetica. Nell’idealizzazione del brutto i Greci raggiunsero – a tratti, almeno – un punto in cui superavano il brutto trasformandolo nel bello positivo: così con le Eumenidi e la Medusa 22 . Se spesso ci si è fatti l’idea che i Greci abbiano cercato la bellezza ideale nella serenità e nella quiete evitando come brutti la dinamicità e l’impeto espressivo, si tratta di un’idea troppo angusta della loro arte, derivata da singole opere di scultura. Una breve riflessione sulla loro poesia basterà ad ammetterlo; per la scultura, Anselm Feuerbach 23 ha dimostrato nella sua eccellente opera sull’Apollo Vaticano, che i Greci non temevano di affrontare lo spaventoso e la vitalità drammatica; per la pittura, ce lo mostra non solo un esame più approfondito degli affreschi di Ercolano e Pompei, ma anche la descrizione dei dipinti di Polignoto nelle lesche di Delfi e Atene. Anche Goethe, che pur onorava tanto la serenità, la quiete e la vitalità piena di misura, lo nota espressamente quando discute di Polignoto 24 . L’arte deve dunque purificare il brutto da ogni sovrabbondanza a esso eterogenea e dal caso che lo disturba, e sottoporlo a sua volta alle leggi generali del bello. Proprio per questo una rappresentazione isolata del brutto contraddirebbe il concetto di arte, perché in tal modo il brutto comparirebbe come scopo in sé. L’arte deve far scorgere la natura secondaria del brutto rammentando che esso in origine non ha esistenza per se stesso, ma solo nel e dal bello, come sua negazione. Una volta reso visibile in questa sua collocazione accidentale, bisogna avere per il brutto tutto il riguardo che gli spetta come momento inserito in una totalità armonica. Non può essere inutile, ma deve mostrarsi come necessario. Deve collocarsi in modo adeguato e subordinarsi, a favore dell’intero, alle leggi della simmetria e dell’armonia, che nella sua forma specifica esso vulnera. Non può spingersi oltre la misura che gli conviene secondo il contesto e deve possedere una forza d’espressione individuale che non ne faccia misconoscere il significato. Se prendiamo ad esempio l’arte
figurativa, la vista di un uomo che fa i suoi bisogni o che vomita è estremamente ripugnante. Eppure ci sono pittori che non hanno avuto paura di rappresentare tali tratti, dipingendo grandi gozzoviglie. Così va il mondo: quando qualcosa è squisito, ci si ingozza troppo. Per completezza l’artista non ha voluto trascurare questo momento, ma l’ha addolcito esteticamente rappresentandolo in un certo modo. È così, come è noto, che Paolo Veronese ha rappresentato le Nozze di Cana. Nel proscenio ha dipinto un bimbetto che piscia con fanciullesca innocenza. Un fanciullo in questa positura è sopportabile nel proscenio, tanto più che nel sollevare ridendo la vestina mostra i graziosi polpacci e le cosce. Ma collocato nello sfondo, dove appoggia a un muro il capo appesantito dal vino, vediamo l’uomo che vomita, un adulto che ha abusato del buon mangiare e del bere. Dal punto di vista musicale la dissonanza è la negazione della musica, la non musica. L’artista non può introdurla arbitrariamente, ma solo dove viene preparata, dove diventa necessaria: laddove prepara, dissolvendo la nota falsa, il trionfo dell’armonia superiore. Il poeta che ci presenta un Calibano, lo colloca in un’isola dell’Oceano sorta per incantesimo, e in questo contesto l’apparizione perde la sua stranezza. E l’abitante primitivo e barbarico di quest’isola selvaggia di cui l’intruso venuto dalla civiltà s’è fatto signore: il destino di tutti i popoli primitivi che vengono a contatto con popoli civili. Perciò, nei confronti di Prospero, Calibano ha un diritto primitivo di possesso, e lo sa: non è un semplice mostro, ma esprime un’idea storico-universale. Ma c’è di più. Per compensarlo esteticamente Shakespeare gli ha messo accanto Ariel: così da un lato spicca ancora di più la goffaggine e l’elemento animalesco del mostro ammansito, dall’altro ci sentiamo anche noi sollevati al di sopra della sua massiccia corpulenza dal contrasto del leggiadro spirito dell’aria. Qui l’architettura, con le sue rovine, potrebbe dar luogo a una problematica particolare. Dalla distruzione di un edificio ci si aspetterebbe il brutto, ma dipenderà in parte dall’edificio, in parte dal tipo di distruzione, secondo il caso. Anche come rovina l’edificio bello mostrerà
la grandezza della struttura, l’ardimento dei rapporti, la ricchezza e leggiadria dell’esecuzione e involontariamente la nostra fantasia tenterà di ricostruire, in base alle tracce che rimangono, l’edificio intero. L’edificio brutto può guadagnare dalla distruzione; se ne possono combinare con la fantasia i frammenti, a prescindere poi dal fatto che la distruzione del brutto ci assicura una soddisfazione estetica. Ma dipenderà, anche qui, dal tipo di rovina, da come sono disposte le macerie, dai ruderi che sono rimasti. Un monticciolo di macerie, un paio di muri nudi non hanno ancora un aspetto pittoresco. Le macerie di un granaio o di una stalla non ci interessano nemmeno sotto la luce lunare; ma un palazzo, un chiostro, un castello ci appaiono romantici. Che la rovina possa apparire bella è determinato infine non solo dai rapporti originari dell’edificio e dal tipo di distruzione, ma anche dalla circostanza che l’edificio concresca con la natura circostante e assuma esso stesso il carattere di opera della natura. Se tetto e finestre e porte stanno aperte cessa l’isolamento della chiusura, il muschio copre le pietre e le piante vi mettono radici, gli uccelli costruiscono i loro nidi e la volpe fa capolino guardando dalle finestre rotte, l’edificio è diventato proprio come un prodotto della natura, che spesso le si avvicina molto nelle sue formazioni basaltiche. Il brutto in rapporto alle singole arti Le arti hanno tra loro un’uguale disposizione rispetto alla possibilità di cadere nel brutto. Ogni arte può produrlo, e fino a un grado insopportabile. Tuttavia la specificità di ogni singola arte è di temperare in modo qualitativamente diverso questa possibilità comune a tutte. In base alla sua natura, ogni arte ha contenuto, estensione, modalità diverse. Possiamo concepire le varie arti come una via verso la liberazione estetica dello spirito, sulla quale da ultimo – nella poesia – esso si realizza compiutamente. Passando attraverso i materiali in cui il bello si realizza possiamo veder rappresentati i vari gradi della liberazione. Nella materia, nello spazio, nella vista, cioè nell’arte figurativa, lo spirito è ancora fuori di sé. Con il suono, con il tempo, con la sensazione, cioè nella musica,
entra in sé. Con la parola, con la coscienza, con la rappresentazione e il pensiero, nell’arte poetica giunge a compiuta interiorità e a piena idealità di forma. In questa successione graduale, con la crescente libertà, la maggior luminosità e l’estrema facilità espressiva, cresce anche la possibilità del brutto. Nell’architettura possono certamente esserci delle costruzioni orrende; lo mostrano non soltanto gli innumerevoli fabbricati nati per rispondere a un’esigenza limitata, ma anche molti edifici pubblici, e anzi proprio gli edifici che dovrebbero espressamente essere fastose opere d’architettura. Ma nell’arte di edificare è difficile essere orrendi fino in fondo. Quando Goethe ha detto che gli errori non andrebbero edificati, perché con la loro grandezza e durata offendono troppo dolorosamente il senso estetico, ha voluto dire che le opere architettoniche sono troppo serie e costose per poter essere prese comunque alla leggera. A causa del materiale che adopera, la corposità della materia, il costruire esige sempre una riflessione preventiva. La costruzione deve almeno essere sicura e corrispondere in qualche modo al suo scopo. Queste due considerazioni utilitarie fanno sì che automaticamente ci sia nell’opera una certa euritmia. Un fabbricato è tanto più bello quanto più esprime all’esterno la rassicurante solidità dei suoi rapporti e quanto più annuncia simbolicamente, già nella forma, lo scopo a cui è dedicato. Alcune case, soprattutto della prima metà del Xviii secolo, hanno un aspetto come se dapprima si fossero tirate su quattro mura, le si fosse coperte per necessità col tetto e poi, come nel municipio di Schöppenstadt, si fossero fatte finestre piccole e grandi, a capriccio e senza simmetria, gettando fuori il materiale dall’interno. Un edificio più grande denuncerà sempre una certa riflessione, e una mescolanza di stili costruttivi diversi secondo i vari secoli non farà una brutta impressione, ma anzi un’impressione imponente per la fantasia. Anche la scultura limita in modo straordinario il brutto con la refrattaria durezza e il costo del suo materiale. Va da sé, come dicono i fatti più clamorosi, che si possono scalpellare e fondere statue miserabili, ma la dispendiosità e la faticosità del lavoro freneranno sempre l’eccessiva
disinvoltura produttiva. Non è tanto facile avere un blocco di marmo di Carrara o un vecchio affusto di cannone per una statua. Solo molto lentamente il blocco cede alle migliaia di colpi di martello; solo con un procedimento molto complicato, che spesso ha bisogno di anni, il bronzo viene versato nella forma e poi cesellato ancora per mesi. Per questo non c’è arte dove la tradizione sia tanto potente come nella scultura. La novità spunta fuori più di rado, perché nel caso di fallimento troppe cose sono in gioco. Un errore scolpito nella pietra, fuso nel bronzo, è molto più evidente nella sua realtà plastica che non disegnato o dipinto. Perciò nessuna arte come la scultura, per l’idealità a cui la perseveranza delle sue forme induce, ha così poca tendenza a rappresentare il negativo nella malattia, nel dolore e nella malvagità. Invece, tra le arti figurative, la pittura è la più suscettibile a cadere nel brutto, perché deve simulare la vitalità individuale e l’apparenza prospettica. L’arte scultorea può fare in una statua singoli errori più o meno grandi, nella forma, nella posizione, nel drappeggio, eppure essere degna d’attenzione. Ma per l’economicità del suo materiale e la sua agevole fattura la pittura può indurre a un lavoro mal fatto. Già la sua possibilità è infinitamente più estesa di quella della scultura. Il paesaggio, l’animale, l’uomo: non le è precluso nulla di ciò che può entrare nel campo visivo. Nello stesso tempo ha vari condizionamenti: i profili delle figure, il colore, la prospettiva: bisogna fare attenzione a tutto, e farlo apparire come un’unità. Quindi fanno presto a comparire segno scorretto, falsa tonalità cromatica, errori di prospettiva. Come si fa presto a disegnare un disegno accorciato e a sbagliare tono di colore! A0 dimenticare un’ombra o un riflesso di luce! Perciò è fuori dubbio che i brutti quadri sono molto più numerosi delle brutte statue, e non c’è nemmeno bisogno di tirare in ballo i dipinti indiani ed egizi, brutti per principi religiosi. Con la musica la facilità della produzione aumenta, e con essa – nonché con l’interiorità soggettiva propria di quest’arte – la possibilità del brutto. Benché nella sua forma astratta – battuta e ritmo – quest’arte si basi sull’aritmetica, in ciò che soltanto la rende espressione vera e piena
dell’idea, la melodia, la musica è esposta alla massima indeterminatezza e casualità, e il giudizio su ciò che è bello e non bello qui è infinitamente difficile. Perciò qui, per la natura eterea, volatile, misteriosa e simbolica del suono e per l’insicurezza dei parametri critici, il brutto acquista più spazio ancora che in pittura. Infine nell’arte più libera, nella poesia, la possibilità del brutto tocca l’apice con la libertà dello spirito e della parola – così facile da dire o da scrivere – come mezzo di rappresentazione. Per il fatto di essere veramente adeguata all’idea, la poesia è l’arte più difficile, perché in minimo grado può imitare direttamente il dato empirico, piuttosto è costretta a elaborarlo idealmente, a condensarlo dalla profondità dello spirito. Quando c’è, ha acquisito solo un’esistenza letteraria, si è creata solo una tecnica poetica, sicché di nessuna arte è così facile abusare come della poesia perché – secondo il noto giudizio di un grande poeta – il linguaggio stesso già compone e pensa per noi. Nell’epos, nella lirica, nella poesia drammatica e didattica, sia per il contenuto sia per la forma c’è una variazione superficiale dello stesso materiale: la conformazione muta solo in apparenza. Spetta allora a un gusto coltivato e arricchito da un’esperienza poliedrica, basato su una conoscenza profonda, scoprire il brutto. In più c’è l’interesse che la poesia può suscitare per gli aspetti di tendenza, e allora a decidere il destino di una poesia non è il valore poetico, ma il pathos rivoluzionario o conservatore, razionalistico o pietistico, come ci documenta così spesso la nostra epoca. Da noi l’ideale divino è spesso offuscato, anzi scomparso di fronte agli ideali di partito. Nella poesia è possibile peccare con gran facilità e senza che lo si noti, ed è certamente in essa che si produce la maggior quantità di brutto. Il piacere del brutto Che il brutto possa piacere sembra un controsenso, come se il malato o il male suscitassero piacere. Eppure è possibile, sia in modo sano sia in modo malato. In modo sano, quando il brutto si giustifica come necessità relativa nella totalità di un’opera d’arte e viene superato dall’effetto
contrario del bello. Allora non è il brutto in quanto tale che determina il nostro piacere, ma è il bello che supera la sua negazione, la quale anch’essa si manifesta. Ma ne abbiamo già trattato. In modo patologico, quando un’epoca è fisicamente e moralmente corrotta, le manca la forza per concepire il bello autentico ma semplice e vuole ancora gustare nell’arte il piccante della frivolezza e della corruzione. Una tale epoca ama i sentimenti misti, che manifestano una contraddizione col contenuto. Per eccitare i nervi ottusi si combina assieme l’inaudito, il disparato e il ripugnante al grado estremo. La disarmonia degli spiriti si pasce del brutto, che per lei diventa l’ideale della sua negatività. Cacce, giochi gladiatori, intrecci lascivi, caricature, melodie effeminate, una strumentazione colossale, in letteratura una poesia di fango e di sangue (de boue et de sang come diceva Marmier) sono tratti caratteristici di questi periodi. Suddivisione Accantoniamo ora le questioni preliminari e cominciamo a sviluppare la suddivisione del concetto di brutto. Abbiamo già stabilito in generale la posizione che esso assume nella metafisica del bello. Abbiamo detto che è il termine medio negativo tra il concetto di bello in sé e il concetto di comico. Questa posizione si discosta da quella che nel brutto non vede affatto un momento particolare dell’idea del bello, ma lo tratta soltanto come determinazione collaterale e subordinata del sublime, nella forma dello spaventoso e dell’orrido, da un lato, e dall’altro del comico, nella forma del farsesco e del comico basso. Molti teorici dell’estetica odierna prendono il comico come antitesi del sublime e considerano il bello assoluto come unità del sublime e del comico. Ma il comico non si contrappone semplicemente al sublime, si contrappone in generale al semplicemente bello. O piuttosto, meglio ancora: non si contrappone a essi, ma è il rasserenarsi del brutto nel bello. Il brutto si contrappone al bello; lo contraddice, mentre il comico può essere nello stesso tempo bello, bello non nel senso del semplice bello, del bello positivo, ma nel
senso dell’armonia estetica, del ritorno della contraddizione all’unità. Nel comico è implicito il brutto come negazione del bello: una negazione che il comico a sua volta nega. Senza una contraddizione che si risolve in apparenza, poiché essa stessa non è che apparenza, non è possibile pensare il comico. Aristotele, e dopo di lui Cicerone, hanno concepito proprio così questa connessione 25 . Anche il concetto di sublime non va separato dal concetto di bello; va visto invece come una sua forma specifica. Ora, dal momento che il brutto non è nulla di assoluto, ma piuttosto solo un relativo, per determinarlo concettualmente bisogna ritornare all’idea del bello, da cui il brutto è condizionato. Il bello in generale – come qui, occupandoci del brutto, dobbiamo limitarci a presupporre – è la manifestazione sensibile della libertà naturale e spirituale in una totalità armonica. Pertanto, la prima cosa che il bello esige è notoriamente il bisogno di limite; il bello deve porsi come unità in sé, e le sue distinzioni come momenti organici dell’unità. Questo concetto dell’astratta determinazione formale costituisce in certa misura la logica del bello, perché astrae totalmente dal contenuto particolare del bello – quale che sia – e il materiale in cui si realizza e la realizzazione spirituale. La negazione di questa unità universale della forma è dunque l’assenza di forma. La mera assenza di forma non è bella, ma ancora non è brutta. Nell’illimitatezza della sua estensione, lo spazio non può essere definito brutto; e nemmeno il nero della notte, in cui non si distingue forma alcuna; né tantomeno un suono che continua a risuonare uniforme, e così via. L’assenza di forma diventa brutta solo là dove un contenuto dovrebbe avere una forma ma ancora ne è privo, oppure dove una forma c’è ma non ancora come dovrebbe essere in conformità al concetto del contenuto. Poiché con il termine informalità indichiamo anche l’indeterminatezza del limite, l’informalità può essere anche la forma necessaria di un contenuto: così la esige ad esempio l’infinità dello spazio, giacché avere una forma, e quindi una delimitazione, andrebbe contro il carattere di spazio assoluto; cioè lo spazio può avere come sua forma soltanto l’assenza di forma. Ma se un contenuto deve avere una forma ed essa non c’è, noi confrontiamo il
contenuto con la forma da esso e per esso presupposta e ne sentiamo la mancanza come bruttezza. Dal punto di vista metafisico è giustissimo che non possa esistere contenuto senza una qualche forma, ma in senso relativo si può asserire l’assenza di forma, così come si asserisce l’assenza di contenuto. Immaginiamo ad esempio un paesaggista che per la fretta riesce solo a schizzare fuggevolmente una contrada e ad aggiungervi qualche striscia di colore per ricordarsela: il paesaggio avrà una forma assai imperfetta. Il dipinto ci offre, anziché la vera tonalità cromatica, solo punti di colore senza forma, che hanno relazione soltanto con l’esecuzione futura, e questo aggregato di colori sarebbe pertanto ancora informe e quindi brutto. Possiamo anche immaginarci il dipinto come se fosse finito, e quindi fallito e mancato: allora la sua esecuzione e dunque la forma compiuta ci sarebbe, ma non come dovrebbe essere. Al suo posto ne sarebbe nata una più o meno estranea al concetto della cosa, quindi una forma non corrispondente al contenuto. Ci sarebbe di conseguenza una contraddizione positiva di forma e contenuto, e quest’informalità della forma sarebbe a sua volta brutta. Il bello esige dunque unità di contenuto e forma in determinati rapporti che, da un punto di vista astratto, sono rapporti di misura. Ma il bello ha essenzialmente in sé anche un lato sensibile, perché proprio in quanto forma fa parte della natura. Per essere bello, anche al contenuto più spirituale occorre la mediazione della manifestazione sensibile. Da questo punto di vista la natura contiene la verità della individualizzazione concreta, in cui l’esistenza del bello deve passare. Nella sua realtà essa è, al tempo stesso, qualcosa di determinato idealmente, ma questa determinazione è comunque legata alla natura, perché solo attraverso la natura l’idea può farsi finita e realizzarsi come fenomeno particolare. Senza la natura non esiste forma bella, ed è perciò che l’arte ha bisogno dello studio della natura per potenziare le sue forme; in questo senso l’arte deve imitare la natura, e con coscienziosa fedeltà, perché in ciò dipende dalla natura. Questa proposizione è vera quanto quella che l’arte non deve imitare la natura, se per imitare s’intende un mero copiare, per quanto esatto, gli oggetti empirici, casuali. Così come il formalismo dei
rapporti astratti di misura non basta ancora a creare il bello, così non basta il realismo astratto. La copia del mondo fenomenico non è ancora arte, perché l’arte deve prendere le mosse dall’idea, ma la natura, in balìa di ogni esteriorità e casualità nella sua esistenza, spesso non può raggiungere il concetto che le è proprio. Spetta all’arte realizzare la bellezza a cui la natura aspira, ma che spesso la sua esistenza nello spazio e nel tempo le rende impossibile: l’ideale della forma naturale. Ma per rendere possibile la verità ideale delle forme naturali bisogna studiare scrupolosamente la natura empirica, come fanno del resto tutti i veri artisti: solo i falsi idealisti se ne vergognano. La verità delle forme naturali dà al bello la correttezza. La correttezza in generale consiste nel non fare errori nel rappresentare la forma naturale necessaria. Il bello non può fare a meno di questa fedeltà. Se una forma urta contro la legalità della natura, questa contraddizione produce immancabilmente il brutto. La natura stessa perde bellezza se per qualche errore abbandona la sua legge. Ma ancor più l’arte, perché non ha la scusante di cui beneficia la na-tura: di non aver potuto evitare la congiuntura che produce mostri, albini, idrocefali ecc. Immaginiamo ad esempio che la scultura voglia rappresentare un’elefantessa con un elefantino che succhia il latte, un corrispettivo del vitello che succhia il latte da una mucca di Mirone. Allora bisognerebbe applicare alla disposizione del gruppo i rapporti astratti di misura, ma il momento della correttezza consisterebbe nel far allattare l’elefantino così come, per natura, è possibile all’elefantessa. La femmina dell’elefante ha le mammelle tra le zampe anteriori (una tendenza verso i seni della specie umana) e l’elefantino non succhia con la proboscide – con cui pure l’elefante aspira anche l’acqua per spruzzarsela poi in gola – ma con le labbra della mascella inferiore. In caso di inosservanza, ne nascerebbe una scorrettezza, e con essa una bruttura, perché tutti i rapporti della forma dell’elefante sono calcolati in base a questo modo di succhiare. Si capisce che anche un cosiddetto abbellimento della natura dall’esterno, che ne àltera la verità ideale, ricade nel concetto di scorrettezza. Altrettanto, la correttezza servile, che non esce da una penosa fedeltà per toccare la
verità ideale, richiede una revisione estetica. Ma si capisce anche che un consapevole discostarsi dell’arte dalle forme date naturalmente a vantaggio di un’impressione estetica particolare, o in immagini fantastiche, non può valere come scorrettezza. Un particolare àmbito di correttezza è costituito dalla stessa misura convenzionale, che si fissa come espressione storica di una forma dello spirito. All’origine tale forma è connessa, in grado maggiore o minore, con una misura naturale, o almeno con un bisogno reale. Nel corso del tempo però può allontanarsi anche molto dalla natura, perché l’uomo per realizzare in modo ben visibile la sua libertà fa spesso violenza alla natura. Il selvaggio mostra l’impulso a distinguersi dalla natura con barbariche mutilazioni o trasformazioni del corpo, attaccando ossa e anelli al naso, ai lobi delle orecchie o alle labbra, con tatuaggi ecc. Non si accontenta, come fa l’animale, della libertà data: come uomo vuol mostrare la sua libertà contro la natura. Dopo un certo periodo i popoli acquisiscono un abito distintivo e un costume di comportamento saldamente improntato. In corrispondenza al carattere locale e nazionale, acquistano forme caratteristiche di abbigliamento, abitazione e arredamento. Se dunque l’arte deve trattare un soggetto storico, per essere corretta deve rappresentarlo secondo la forma positiva storicamente data. Anche qui, non è un’acribia scrupolosa che conta, conta la considerazione di ciò che accrescendone la specificità rende la forma anche un oggetto esteticamente più individuato. Il labbro inferiore tirato all’ingiù e allargato del botocudo, i ventri grassi e i piedi nani delle dame cinesi, i volti mascolini e le taglie brevilinee delle donne nelle Alpi della Stiria ecc. sono certamente brutti. Un errore nel riprodurre tali forme guadagnerebbe certamente il plauso dal punto di vista estetico. Ma se si tratta di rappresentare una dama proprio come una bellezza cinese, non rimane appunto che farla cinese, senza risparmiarle quindi il ventre grasso né il piede nano. L’arte sarebbe in grado di addolcire tali forme, ma non di ignorarle. L’epoca ingenua di un’arte si preoccuperà poco della precisione storica, attenendosi soprattutto all’universalmente umano, ma l’arte giunta allo stadio della riflessione non potrà liberarsi del riferimento
alla correttezza storica. È noto che il teatro francese sotto Luigi Xiv e Xv metteva in scena eroi ed eroine greche e romane con parrucche e crinoline, con lo spadino da cicisbeo. In tal modo gli attori erano più vicini al pubblico, che capiva meglio un’azione con quell’abbigliamento. Ma poco a poco ci si inquietò di simile licenza: si vollero restituire al passato i suoi diritti. Sotto Luigi Xvi una rivista apposita, corredata di incisioni molto istruttive, i “Costumes et Annales des grands Thêatres de Paris” 26 , ebbe come scopo quello di descrivere con fedeltà storica l’abbigliamento celtico, greco, romano, ebraico, persiano e medievale, e di adeguarlo alla prassi teatrale. L’assenza di forma sarebbe dunque la prima forma principale del brutto, e la scorrettezza la seconda. Ma rimane ancora quella forma che, in senso proprio, contiene in sé il fondamento di entrambe: la deformazione interna, che si esprime anche esteriormente in disarmonia e innaturalezza, perché è torbida e confusa in se stessa. Per il bello l’autentico contenuto è la libertà: libertà in senso generale perché con questo termine non si intende solo la libertà etica del volere, ma anche la spontaneità dell’intelligenza e il libero movimento della natura. L’unità e l’individualità della forma spesso diventano compiutamente belle per autonoma determinazione. Qui bisogna assumere questo concetto di libertà in generale, perché altrimenti si restringe senza necessità il campo estetico. La metafisica del bello non vale solo per l’arte, ma anche per la natura e la vita. Nell’epoca moderna è diventato usuale, a proposito del bello, parlare subito del contenuto spirituale della forma sensibile. Ciò può significare che anche la natura in sé e per sé ha un’origine spirituale, che, anch’essa opera dello spirito creatore, poi lo irradia da sé, e quindi lo spirito nel suo intuire intuisce insieme la libertà della natura. Come s’è detto, quella concezione può anche avere un significato di questo tipo. Ma se come spesso avviene si limita soltanto all’arte, ne sorge una riduzione immotivata e ingiustificata del concetto di bello, e quindi anche di brutto. Il concetto di libertà non è pensabile senza quello di necessità, giacché il contenuto dell’autodeterminazione, che ne è la forma, sta nella natura del soggetto individuale che si determina. Vogliamo evitare di entrare qui
nelle difficili e spesso ventilate indagini sull’origine e il fine della libertà. Le possiamo lasciare ad altre scienze. Se qui ci accontentiamo della prospettiva estetica, ne risulta che la libertà, in quanto necessità che si autodetermina, costituisce il contenuto ideale del bello. Per sua natura, la libertà ha in sé la possibilità di un duplice movimento: può salire oltre la misura media del fenomeno verso l’infinito, oppure scendervi al di sotto, nel finito. In sé e per sé essa è l’unità dell’infinità del suo contenuto e della finitezza della sua forma, e in quanto unità di tal fatta è bella. Ma se supera la finitezza della sua autolimitazione, con quest’atto diventa sublime. Se invece pone la sua finitezza, si limita, diventa comprensibile e piacevole. Il bello assoluto riposa nell’infinità che gli è propria: non tende all’illimitato né si perde nel piccolo. Il vero opposto del sublime non è il brutto come pensano Ruge e K. Fischer, né il comico come pensa Vischer, ma il piacevole. Nell’idea del bello occorre distinguere l’antitesi tra il bello in generale – quindi anche il sublime – e il brutto, e l’antitesi positiva tra il bello sublime e le forme avvenenti e leggiadre del bello piacevole. Grazie alla mediazione che il brutto offre al comico, quest’ultimo può anche essere opposto, in senso relativo, al sublime, ma bisogna considerare che il comico, capace com’è di umorismo, può a sua volta passare al sublime. Ciò che si diceva alla caduta di Napoleone i: «Du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas», e quel che si diceva quando Napoleone iii salì al trono: «Du ridicule au sublime il n’y a aussi qu’un pas», può essere assunto come regola estetica generale. Spesso Aristofane è così sublime che qualunque tragico può invidiarlo. Ma all’interno del brutto l’illibertà costituirà in modo conseguente il principio da cui prende le mosse la caratteristica estetica, o piuttosto inestetica, individuale. Illibertà intesa in senso generale, che non coinvolge solo l’arte, ma anche la natura e la vita in genere. L’illibertà, in quanto mancanza di autodeterminazione o contraddizione tra autodeterminazione e necessità della natura di un soggetto, produce il brutto in sé, che poi come fenomeno diventa lo scorretto e l’infernale. Consideriamo ad esempio l’essere vivente nello stato di malattia: la sua possibilità di ammalarsi è necessaria, ma non per questo è affatto
necessario che si ammali realmente. La malattia lo disturba nella libertà di movimento e di sviluppo; esso è dunque vincolato dalla malattia, le cui conseguenze alla fine, dopo averne frugato di nascosto l’interno, debbono rivelarsi anche nella deformità e imbruttimento esteriori. Oppure, consideriamo la volontà: la frivola negazione della sua necessità la rende positivamente schiava, e diventa cattiva. Il male è l’eticamente brutto, che avrà come conseguenza anche il brutto estetico. L’illibertà teoretica dunque, la stupidità e la limitatezza non potranno che riflettersi in una fisionomia stupida e molle. La vera libertà è sempre la madre del bello, l’illibertà del brutto. Ma il brutto – come il bello, in quanto suo sosia negativo – svilupperà l’illibertà in due direzioni: da un lato l’illibertà pone un limite là dove, secondo il concetto di libertà, non dovrebbe essercene alcuno; dall’altro lato l’illibertà nega un limite là dove, secondo il concetto di libertà, dovrebbe esserci. Nel primo caso produce il volgare, nel secondo il ripugnante. L’illibertà infine, confrontando se stessa nella forma di un giudizio apodittico con la sua essenza – che ovviamente essa rovescia a inessenzialità – confrontandosi cioè con la necessità della libertà, diventa distorsione della libertà e della bellezza, caricatura. Originariamente essa è brutta, perché sia nel contenuto sia nella forma è la manifesta e consapevole contraddizione della libertà e bellezza con se stessa. Ma nella caricatura la potenza del brutto viene a sua volta spezzata, in virtù del riflesso che si determina nel suo modello può nuovamente raggiungere una relativa libertà e bellezza, perché non solo ricorda l’ideale che contraddice, ma può farlo anche con una certa autosoddisfazione, che nell’apparenza del piacere positivo della nullità assoluta diventa in se stessa comica. L’antitesi del sublime è dunque il volgare, del piacevole il ripugnante, del bello la caricatura. Senza dubbio il concetto di caricatura è molto ampio: lo adoperiamo, visto che concentra in sé tutte le pieghe del brutto, quasi con lo stesso significato del brutto, come concetto generico. Inoltre, e giustamente, contrapponiamo la caricatura all’ideale, che viene rovesciato. Per questa determinata relazione con il bello, la caricatura può costituire il passaggio al bello, e attraversare tutte le tonalità di
manifestazione: esistono infatti caricature piatte e profonde, serene e cupe, volgari e sublimi, atroci e vezzose, ridicole e spaventose. Per quanto in sé determinate, alludono sempre nello stesso tempo al loro retroterra positivo e fanno immediatamente comparire, assieme, il loro contrario. Di ogni brutto bisogna dire che, attraverso di sé, pone, insieme, anche la relazione con il bello che esso nega. L’informale esige la forma; lo scorretto rammenta subito la sua misura normale, il volgare è volgare perché contraddice il sublime; il ripugnante perché contraddice il piacevole. Ma la caricatura non è solo la negazione di determinazioni estetiche generali, bensì, come deformazione di un’immagine che in origine era sublime, affascinante o bella, ne rispecchia in sé in modo individuale le qualità e le forme. Può quindi, come si è detto, apparire in senso relativo perfino bella, ma per suscitare un effetto tanto più energico per il fatto che in essa il bello va perduto. Prendiamo ad esempio il Don Chisciotte di Cervantes. Il nobile della Mancia è un fantasioso che con sforzo artificioso e malsano si comporta ancora come un cavaliere del Medioevo, dopo che tutto l’ambiente intorno a lui se ne è già tratto fuori ponendosi in contrasto con un modo di agire così avventuroso. Ormai non esistono più giganti, castelli, maghi; la polizia si era ormai assunta parte degli obblighi cavallereschi, lo Stato si è fatto difensore legale delle vedove, dei vecchi e degli innocenti; ormai la forza e il valore individuale sono diventati indifferenti di fronte alla forza del fucile. Eppure Don Chisciotte agisce come se tutto questo ancora non esistesse e perciò non può che imbattersi in mille conflitti, dove diventa una caricatura, perché essi rendono tanto più manifesta l’impotenza inevitabile del suo comportamento quanto più egli si richiama, per giustificare e rafforzare il suo agire, ai modelli gloriosi di un Amadigi di Gaula, Lisuarte e altri. I presupposti reali in cui agivano questi modelli di cavalleria non esistono più, e il fingerne l’esistenza deforma fino alla follia la visione del mondo del nostro hidalgo. Ma nello stesso tempo questo pazzo possiede realmente, nella sua sbrigliata fantasia, tutte le qualità di un autentico cavaliere. È valoroso, coraggioso, pietoso, pronto a correre in soccorso, un amico degli oppressi, innamorato, fedele, credulone e bramoso di
avventura. Siamo costretti ad ammirare le virtù soggettive e sentiamo con piacere la poesia del suo discorso, quando straripa di sublime filantropia. Nel Medioevo sarebbe stato un degno commensale della Tavola Rotonda di re Artù, un pericoloso rivale degli “Infedeli”. Proprio per questi suoi elementi positivi diventa una caricatura tanto più significativa: le sue qualità, in sé preziose, sfociano in un capovolgimento, che annienta se stesso, che con torbido entusiasmo spreca il suo valore in un mulino scambiandolo per un possente gigante, libera dei galeotti prendendoli per oppressi innocenti, fa uscire dalla gabbia un leone perché è un animale regale, venera in un bacile di barbiere l’elmo dell’immortale Mambrino ecc. Giunto a questo punto di autodistruzione della sublimità del suo pathos, noi ridiamo di lui; dalla caricatura, che altrimenti ci muove persino a mestizia, erompe il comico. Don Chisciotte, misero, macilento, errabondo, non è mai volgare o ripugnante, ma diventa informe. Il suo Ronzinante è un destriero da combattimento molto scorretto rispetto al tipo originario; il suo modello, la cavalleria ideale, si tramuta, proprio a causa della nullità pratica del suo metodo, in caricatura, e nello stesso tempo Cervantes ha saputo far sua la grande arte di descrivere nel fantastico cavaliere e nel suo compagno di buon senso tendenze eterne della natura umana, ha inteso l’arte di fare di questa caricatura, in cui i sentimenti più puri e le intenzioni più nobili crollano, una critica delle carenze della società borghese, e non solo di quella spagnola, dove sopravvive ancora l’affabile “don”. Dobbiamo concedere al poeta che malgrado lo stato, la polizia, l’illuminismo, la comparsa spontanea di una personalità piena di forza e magnanima spesso sarebbe un bene per la pigra immobilità delle situazioni. Tanto grande, poliedrica, significativa può essere una caricatura, grazie al genio!
Parte prima L’ assenza di forma L’astratta determinazione fondamentale di tutto quanto è bello è, come abbiamo già visto, l’unità. Come manifestazione sensibile dell’idea, il bello ha bisogno di delimitazione, perché solo in essa vi è la forza della distinzione, e la distinzione è impossibile senza l’unità che si disgiunge. Il bello deve sempre rappresentarsi come unità, non però separarsi come mera unità verso l’esterno, ma piuttosto distinguersi a sua volta in se stesso da sé come unità. La distinzione, in quanto distinzione determinata, può diventare duplicazione, ma la duplicazione – la lotta dell’unità con se stessa – è costretta a ritornare nel suo processo all’unità, anche se il decorso empirico non giunge mai effettivamente a tanto. L’unità si propone come armonia producendo la sua distinzione e risolvendola. Sono tesi basilari della metafisica del bello. Siamo costretti a ricordarle, perché da esse risulta che il brutto come negativo del bello: (1) costituisce la non unità, non conclusività e indeterminatezza della forma; (2) quando pone la distinzione, la produce o come falsa irregolarità, o come falsa identità e non identità; (3) anziché la riunificazione della forma con sé, produce il passaggio della duplicazione alla confusione dei falsi contrasti. Queste diverse forme dell’informe le potremmo anche designare, usando espressioni della nostra lingua, come “assenza di forma”, “difformità” e “disunione”. Ma per la tecnica scientifica sarà più comodo usare termini greci, che noi tedeschi abbiamo in comune coi popoli romanzi e che per l’estensione del loro uso linguistico posseggono anche una maggior precisione. Possiamo così definire “amorfia” l’opposto della forma in genere, “asimmetria” l’opposto della disposizione ordinata delle distinzioni e “disarmonia” l’opposto dell’unità vivente.
A – L’amorfia L’unità è bella in generale perché ci dà un tutto che si riferisce a se stesso; per questo l’unità è la prima condizione di ogni forma. L’opposto dell’unità, come astratta non unità, sarebbe quindi anzitutto l’assenza di delimitazione verso l’esterno, e di distinzione verso l’interno. L’assenza di delimitazione verso l’esterno è l’assenza di forma estetica di un essere. L’illimitatezza può far parte della natura di un essere: lo spazio, il tempo, il pensiero, la volontà in sé vanno pensati come privi di confine. Si fa però notare in modo sensibile là dove concettualmente dovrebbe esserci una distinzione verso l’esterno che invece non c’è. L’illimitatezza in generale non la si può definire né bella né brutta. Al suo confronto però il limitato è più bello perché rappresenta un’unità che si riferisce a sé: è noto che Platone dà la preferenza al πέρα anziché all’ἂπειρον 27 . Pertanto essa non è semplicemente brutta in sé, perché nel suo nulla offre la possibilità della delimitazione. Ma nel momento in cui la delimitazione non è reale, neppure è bella. C’è differenza tra questa assoluta mancanza di forma e l’assenza di forma che asseriamo in senso relativo, dove è bensì presente una forma, e dunque unità e delimitazione, ma in sé priva ancora di ogni distinzione. Una forma del genere è dunque informe al suo stesso interno, per il suo carattere indistinto. La mancanza di distinzione diventa noiosa e spinge tutte le arti ad armarsi contro di essa. Ad esempio l’architettura ricorre all’ornamento – con linee a zig-zag, meandri, rosette, cerchi, dentellature, fusaiole, piegature in dentro e in fuori, ecc. – per poter produrre differenziazioni anche là dove altrimenti non ci sarebbe che la monotonia di una superficie semplice. In sé, la nuda e indistinta identità non è ancora positivamente brutta, però lo diventa. La purezza di un determinato sentimento, di una determinata forma, di un suono, nell’immediato può essere perfino bella. Ma se ci si manifesta sempre e solo quest’unità senza cesure, senza mutamento ed opposizione, ne deriva una triste povertà, uniformità, monotonia cromatica e sonora. La vuota indistinzione, che ancora è il nulla d’ogni forma, si è qui già risolta; dall’abisso ancora
indistinto della possibilità di forma si è già pervenuti alla realtà e alla precisione della forma, del colore, del suono, della rappresentazione. Siccome però, a questo punto, ci si accontenta di una determinatezza che equivale all’unicità, col fissarsi della mera identità si produce un’altra bruttezza. All’inizio, accogliamo ancora con benevolenza un’impressione in sé così determinata, perché l’unità e la purezza, specialmente se unite all’energia, hanno qualcosa di piacevole. Se però rimane in quest’astratta unità diventa brutta e intollerabile a causa dell’indistinzione. Vale per l’estetica ciò che Goethe dice della vita in generale, che niente è più difficile da sopportare di una serie di buone giornate. Il purismo in sé indistinto, ripetitivo, che si distingue solo nei confronti del nulla dell’assenza di forma, il purismo della univocità di forma e di colore, di suono e rappresentazione, diventa brutto, intollerabile. Il verde è un bel colore, ma il verde da solo senza il cielo azzurro sopra, senza acqua scintillante che lo attraversi, senza il bianco di un gregge di pecore, senza un tetto di tegole rosse che fa capolino dagli alberi, diventa noioso. A Parigi, nel 1830, il parti des ennuyés andò in estasi allorché il fuoco degli squadroni e il tuono del cannone ruppe la monotonia del rumore delle carrozze sui boulevard. Ma il secondo giorno, che la battaglia continuava, e poi il terzo quando gli spari non accennavano a finire, i mai disannoiati esclamarono: «Oh, que c’est ennuyant!». Dunque l’unità che è solo unità diventa brutta, perché appartiene al concetto dell’unità autentica di distinguersi rispetto a se stessa. A questo punto, all’unità la forma può contrapporre in sé la differenza che deriva dalla propria dissoluzione. Tale dissoluzione può essere bella, perché implica il divenire come svanire, dunque un distinguere, sebbene si tratti di un distinguere che termina nel nulla. L’interesse di questo fenomeno consiste appunto nel fatto che con la forma è presente simultaneamente il divenire dell’assenza di forma, il puro trapassare in altro. Ci si immagini un monte le cui cime boscose si perdono come in sogno nella nebbia della lontananza. Immaginiamo la spuma di una cascata dagli spruzzi che si disperdono e che il ciclone lancia in aria con furia giubilante: allora il passaggio della colonna d’acqua appena nata alla distruzione è bello.
Oppure immaginiamo un suono che rimanendo uguale a se stesso si estingue a poco a poco: questo morire è bello. Paragonato al deserto dell’identità senza mutamento ogni movimento è bello, anche il morire. Ma ciò che in tal modo è bello diventa brutto quando la dissoluzione compare dove non dovrebbe esserci, dove piuttosto ci aspetteremmo la precisione e la conclusività della forma; dove dunque la forma anziché guadagnare da questa sua dissoluzione ne viene sconvolta, deformata e sbiadita. Nasce allora ciò che nell’arte chiamiamo il nebuloso e l’ondulatorio, la mancanza di precisione e distinzione là dove dovrebbero esserci. Lo stesso elemento viene alla luce, nella poesia epica e drammatica, come mancanza di struttura; nella musica invece, con espressione eufemistica, lo definiamo il selvaggio. Il selvaggio può anche diventare bello, ad esempio in una musica militare, ma in senso negativo designa l’assenza di forma. L’esitazione e l’insicurezza nel delimitare contraddicono al concetto di forma, e tale contraddizione è brutta. La mancanza di inventiva e di forza si celano spesso sotto queste forme tentennanti e dai contorni soltanto accennati. Ma non si scambino queste forme molli, amorfe, con lo schizzo. Il vero schizzo è il primo progetto per un’esecuzione, ma nelle sue linee preparatorie può già farci sentire – come avviene coi disegni di grandi pittori e scultori – la bellezza possibile. Nel dialogo Il collezionista e i suoi familiari Goethe ha discusso ed esaminato con finezza tutte le relative distinzioni 28 . Il nebuloso dunque non è la bella nebbia in cui una forma può invilupparsi; l’ondulatorio non è la morbida linea d’onda in cui una forma può confondersi, e non è lo sfumato in cui può smorzarsi un suono. Al contrario, è la fiacchezza nel delimitare là dove una decisa delimitazione sarebbe necessaria; la non chiarezza della distinzione là dove invece dovrebbe esserci; l’oscurità là dove l’espressione dovrebbe accentuare la sua chiarezza. Nella scultura e nella pittura sono soprattutto le forme simboliche e allegoriche che inducono a ciò. E anche con la migliore intenzione gli artisti spesso non sono in grado di ottenere una caratterizzazione precisa quando debbono rappresentare astrazioni come “la patrie”, “la France”, “le choléra morbus”, “Paris” e simili. Ci si può
accontentare quando ci danno, in questo caso, una bella forma femminile. La vecchia scuola pittorica di Düsseldorf 29 soffrì per tutto un periodo di questa mancanza di forma, perché a causa del predominare di una maniera sentimentale, da album, s’ingannò sulla distinzione tra pittorico e poetico e collegandosi ai poeti si fidò troppo che la loro parola illuminante venisse in aiuto alle sue forme esistenti, problematiche. Nella poesia, dopo la comparsa di grandi geni, troviamo assai spesso un periodo di imitatori, nei quali l’informe impera sovrano. Nell’epica esso inclina alla teoria di Schlegel: che l’azione, come mero frammento di un contesto più grande, possa procedere all’infinito senza intima unità 30 . Nella lirica si caratterizza di solito per l’eccesso di predicati di cui correda i soggetti. Siccome un predicato soffoca sempre l’altro, questa congestione produce anziché l’immagine ricca che si aveva di mira una completezza che non dice nulla, che mescola l’inessenziale con l’essenziale. Nel campo drammatico indulge al cosiddetto poema drammatico, che astrae a priori dalla rappresentabilità e perciò rinuncia per principio all’azione vera e propria, a completare dei caratteri, alla veridicità, e spesso non contiene altro che una serie poco compatta di monologhi lirici. Da noi, poiché non ci sentiamo una nazione e di conseguenza neppure abbiamo un teatro nazionale, i due terzi delle produzioni drammatiche sono costituite purtroppo da puri (di una purezza impossibile) drammi teatrali di questo tipo: è dunque superfluo indicare esempi particolari. Quando spesso si fa il nome di Goethe come progenitore di questo ibrido, in quanto autore del Faust, si sbaglia, perché la prima parte del Faust ha sostenuto brillantemente la prova teatrale, e anche la seconda – se anche solo venisse composta per essa la musica necessaria – la sosterrebbe, perché è pensata in modo teatrale, ed elaborata secondo i canoni della scena operistica non meno della prima. Finora abbiamo preso in considerazione l’origine dell’informe brutto; ora ne dobbiamo indagare anche il passaggio al comico. Qui l’effetto comico viene prodotto in parte dal fatto che, in luogo della distinzione determinata che ci si potrebbe attendere, ritorna invece sempre la stessa cosa; in parte perché una forma viene proiettata all’improvviso dallo stato
iniziale del suo movimento in un finale del tutto diverso, e antitetico. L’indeterminatezza della forma – per il fatto che nella vuota infinità nessuna forma ancora è presente – non può essere dichiarata né bella in senso positivo né brutta in senso positivo, giacché non entis nulla sunt prædicata. E, in quanto territorio ancora neutrale, nemmeno possiamo definirla comica. Invece l’indistinta determinatezza presente nel ritorno incessante della stessa frase può avere un effetto comico. Anziché procedere a un altro predicato, ricade sempre di nuovo nello stesso. La mera identità, continuità senza fine, ci annoierebbe. Se anche dovesse farci ridere all’inizio, ben presto ci disgusterebbe e diventerebbe brutta: così accade con le brutte commedie, nelle quali la povertà dell’autore mette in bocca a un personaggio un discorso già sentito e che – poiché ci viene servito in tutte le salse, à tort et à travers – qualche volta suscita in noi una secca risata, ma si logora presto e produce l’impressione deplorevole di una mancanza di spirito che vuol essere spiritosa. Il vero artista sa usare con misura l’effetto comico della ripetizione (con che, naturalmente, qui non si intende il refrain, che si basa su leggi diverse): così, ad esempio, Aristofane nelle Rane, per mostrare la miseria dei prologhi euripidei si serve di Eschilo e gli fa aggiungere a tutti i trimetri iniziali una parola, come pelle di montone, ampollina, sacco d’avena. Qui, dopo ogni inizio, ci si può aspettare una prosecuzione diversa, ma a ogni inizio l’inesorabile Eschilo aggiunge la distruttiva ampollina. Droysen ha tradotto 31 liberamente «fece fiasco con la vecchia musica | fu bocciato con la vecchia musica | non resse all’esame della vecchia musica». Il senso è comunque questo, ma rende in modo astratto il risultato a cui mirava Aristofane: Euripide: Suona gran fama che dal mare Egitto, Coi cinquanta suoi figli un giorno ad Argo Ratto scendendo. Eschilo: L’ampollina ci ruppe. Euripide: Coi tirsi Bacco, e di cervine pelli Coperto in sul Parnaso, infra le tende Salterellando. Eschilo: L’ampollina ci ruppe. Euripide: Esser felice non può l’uomo in tutto
Ottimo spesso egli difetto ha d’oro Ove meschino. Eschilo: L’ampollina ci rompe. 32 Qui la vis comica è data dal continuo aggiungere qualcosa a una forma che muta e dal continuo ricadere nella forma che già c’era, e la farsa sa trarne vantaggio con felicità e forza: lo stesso si può osservare in ogni pagliacciata di acrobati e cavallerizzi. L’assenza di forma può consistere anche nel passaggio al contrario positivo rispetto allo stato iniziale della forma. Ci viene annunciata una forma, ma al posto di quella che ci si attendeva compare il contrario, un dissolversi della forma iniziale nell’esito opposto. In qualche modo avrà naturalmente una forma, ma sarà la distruzione della prima. Il pagliaccio ad esempio prende uno slancio enorme per saltare un ostacolo. Precedendolo con la fantasia noi già vediamo l’audace salto e lui, a ridosso dell’ostacolo, improvvisamente si ferma e lo attraversa passandoci tranquillamente sotto o fa dietrofront come se fosse a passeggio. Ridiamo perché ci ha ingannato. Ridiamo perché l’antitesi più perfetta tra la massima intensità del movimento e la quiete flemmatica ci coglie di sorpresa. Oppure: il pagliaccio deve imparare a cavalcare. Si mette lì con un’aria stupida. Con diligenza si esegue davanti a lui l’esercizio che deve compiere e lo si persuade a salire in sella. Alla fine salta sul cavallo, ma... al contrario, prendendo in mano la coda anziché la briglia. Anche l’arte del giocoliere ci diverte soprattutto perché dal nulla sa far comparire magicamente qualcosa. L’intelletto dice a se stesso che dal nulla non può venire nulla eppure, a suo scherno, vediamo i maghi estrarre da un cappello vuoto un mazzo di fiori dopo l’altro. Ci stupiamo ma ridiamo, perché mentre lo si contraddice così apertamente, il nostro intelletto silenziosamente si dice che, tuttavia, in sé ha ragione. Proprio questa contraddizione, l’essere ingannati essendone consapevoli, ci diverte. Anche il passare degli ubriachi dal parlare al mero balbettare, al suono inarticolato, il riflesso della confusione in cui è caduta l’intelligenza, può essere, fino a un certo punto, comico. A Berlino l’attore Gern junior sapeva produrre in modo eccellente e con effetto immancabile questi suoni alla ricerca di una forma, borbottati, schiacciati,
gorgoglianti, miagolanti, intercalati da frammenti di parole. B – L’asimmetria In senso immediato l’asimmetria è la totale indeterminatezza di forma. Questa si eleva a unità di forma, ma le fa difetto la distinzione all’interno di se stessa sicché, a causa dell’indistinzione, è in sé priva di forma. Ovvero, la distinzione compare nella forma, ma sta nella dissoluzione della forma. L’unità di una forma può ripetersi in semplici distinzioni, e procedere secondo una certa regola. E questa è la regolarità. Tra la regolarità e l’unità vi è però ancora l’alterità immediata delle esistenze, la diversità, la cui variopinta molteplicità può essere molto piacevole dal punto di vista estetico. È per questo che in modo del tutto istintivo ogni arte aspira alla varietà, per interrompere la medesimezza dell’unità formale. Ma questa varietà, che in sé ha un effetto piacevole per la sua opposizione all’identità astratta, si converte in brutto allorché diventa un disordine sregolato delle varie esistenze. Se dal loro groviglio non si istituisce di nuovo un certo ordine di raggruppamento, ci diverrà ben presto fastidiosa. Perciò l’arte si sforza fin dai suoi esordi di ridiventare padrona del caotico – in cui la diversità cade tanto facilmente – tramite astrazioni di rapporti uguali. Prima abbiamo ricordato che il gusto dei popoli si è sforzato fin dagli esordi di animare il vuoto di una vasta superficie. All’inizio si aiuta con forme che sono poco più che cerchi o punti, linee variopinte o macchioline, ma ben presto inizia a dar loro un po’ d’ordine. Il quadrato, lo zig-zag, il viticcio, la dentellatura, la banda intrecciata, la rosetta diventano le forme fondamentali di ogni ornamento, che ancora intesse la nostra tappezzeria. Il brutto nella diversità sta dunque nella mancanza di un legame comprensibile che riconnetta il pullulare delle sue particolarità in una struttura. Solo nel comico l’intrico senza regola ridiventa piacevole. La volgare realtà brulica di confusioni che dovrebbero offenderci esteticamente, se per fortuna non ci facessero ridere. Le guardiamo
attraverso gli occhi di un Jean Paul o di un Boz Dickens, e acquistano subito un’attrattiva comica. Non possiamo andare per strada senza trovare materia inesauribile per queste osservazioni umoristiche. Qui ci viene incontro un carro di mobilia con accatastati sofà, tavoli, suppellettili di cucina, letti, quadri, secondo un criterio che a un giudizio abituale loro stessi riterrebbero impossibile. Oppure, laggiù quella casa ci mostra al pianterreno un ciabattino, nel parterre una rivendita di sigari con l’immancabile birreria, al piano superiore un sarto parigino alla moda e sopra ancora, nella mansarda, un pittore di fiori all’orientale. Come è significativo quest’intrico combinato dal caso! Oppure: entriamo in una libreria e sul banco d’esposizione vediamo a contatto, nelle combinazioni più spiritose, classici, libri di cucina, libri per bambini, opuscoli di fuoco in polemica tra loro, come solo potrebbe desiderare la vena satirica di un Washington Irving 33 o di un Gutzkow. E poi il robivecchi! Che maestro di umorismo nel candore senza intenzioni con cui mescola a casaccio ritratti di famiglia abbandonati e pellicce mangiate dalle tarme, vecchi libri e seggette, sciabole e scope di cucina, valigie da viaggio e corni da caccia! Mercati, alberghi, campi di battaglia, postiglioni brulicano di queste improvvisazioni di buffo guazzabuglio. L’eterogeneità delle varie esistenze muta, quando esse vengono a contatto, il valore consueto delle cose, con relazioni che si impongono alla nostra vista. Certo il caso può essere molto prosaico e senza spirito, ma può essere anche molto poetico e spiritoso. Cose che altrimenti sarebbero molto distanti tra loro, che si sarebbero ritenute profanate dal fatto di essere accomunate, si trovano spinte grazie al caso in una prossimità sorprendente. I moderni hanno spinto molto avanti, e spesso molto felicemente, questo spirito di bizzarria. La gran copia di contenuti empirici che c’è nella coscienza odierna ha reso possibile la produzione di innumerevoli collegamenti che, nel loro casuale incontrarsi, ci dilettano riflettendosi l’uno nell’altro. L’isola britannica, la Londra che solca i mari, l’epoca elisabettiana, l’immaginazione universale di Shakespeare hanno soprattutto eccitato questo gioco della fantasia. Hogarth lo ha introdotto in pittura, benché egli non vada esente – anche se il suo modo di caratterizzare, soprattutto
nelle fisionomie, è squisito – da una certa intenzione, che tradisce un’esagerata, insistita attenzione a non lasciar trapelare nessuna delle relazioni che egli calcola. Nella letteratura poetica più recente questa maniera è stata introdotta soprattutto dai romanzieri umoristici, che non solo vi si sono adagiati spesso molto comodamente, ma l’hanno artificiosamente estenuata fino a renderla un’insulsaggine. La mera confusione delle rappresentazioni è brutta. Alcuni dei nostri umoristi forzati spesso non sono meglio dei malati del manicomio che soffrono di confusione mentale. La libera varietà è bella finché racchiude in sé una certa sensatezza di raggruppamenti. Se pensiamo la tendenza a ordinare il diverso come un’unità astratta che si ripete nella varietà, abbiamo il concetto del regolare, cioè del ripresentarsi del diverso secondo una regola fissa che lega sotto di sé le sue disparate differenze. Così gli stessi intervalli della battuta, la stessa distanza degli alberi di un viale, le stesse dimensioni delle parti affini di un edificio, il ritorno del refrain nella canzone ecc. Questa regolarità è bella in sé, ma soddisfa soltanto le esigenze dell’intelletto astratto e perciò tende a diventare brutta non appena la forma estetica si limita a essa, e al di fuori di essa non offre nulla che esprima un’idea. La regolarità stanca per la sua stereotipa eguaglianza che ci presenta la distinzione sempre al solito modo, e per uscire dalla sua uniformità noi aspiriamo alla libertà, anche se si trattasse, all’estremo opposto, di una libertà caotica. Nell’introduzione al Phantasus Tieck ha difeso la maniera olandese di disporre i giardini con le sue siepi, alberi tagliati e aiuole circondate da bosso, che sarebbe molto adatta alla conversazione di chi passeggia 34 . Là dove la società è scopo a se stessa, in una corte brillante, questi sentieri larghi su cui è stata sparsa soffice sabbia, queste mura di verde, questi alberi che marciano a passo di parata, questi boschetti a guisa di grotte vanno benissimo. È la maniera, appunto, che Lenôtre portò alla massima perfezione sotto Luigi Xiv. Gli imitatori lo copiarono a Schönbrunn, Kassel, Schwetzingen ecc. Qui la natura non deve manifestarsi nella libertà del suo sviluppo, ma piuttosto inchinarsi alla maestà e predisporre con servizievole grazia nient’altro che un piacevole
salotto in cui splendono i drappeggi di seta, le uniformi coperte d’oro. Ma se il giardino ha piccole dimensioni e non fa da scenario agli spettacoli di corte, tra siepi a forma di cubo e alberi che la cesoia ha potato fino a farne sfere e piramidi, ben presto ci assale un sentimento di costrizione e di esistenza compassata, e per uscire da questa monotonia aspiriamo all’irregolarità di un giardino inglese o, meglio ancora, alla libertà del bosco. Qui ci troviamo implicati in determinazioni schiettamente dialettiche. Non basta semplicemente dichiarare e porre delle determinazioni: esse trapassano l’una nell’altra. Come momento, la regolarità può essere giustificata e bella; come regola assoluta del sorgere dell’oggetto estetico, può diventare brutta. Però non si può concludere che il contrario della regolarità, l’irregolarità, debba in generale essere bella. Può esserlo, a seconda dei rapporti; ma nel posto sbagliato e se degenera in confusione può anche diventare brutta. Un bell’esempio di attraente irregolarità in campo architettonico è il castello di Meillant nel dipartimento del Cher, costruito senza simmetria alcuna in una specie di stile rinascimento 35. Nel rappresentare quella noncurante irregolarità che siamo soliti chiamare négligé par excellence e in cui le cameriere appaiono spesso ancor più eccitanti delle loro padrone, pittori e poeti sono stati abbastanza felici, e non è necessario ricordare esempi. Nel secolo scorso comparvero in Germania, a sedicente imitazione della poesia ebraica, degli antichi cori, canti dei bardi e dell’Ossian, liberi canti ritmici, che in un’irregolare selvatichezza si erano emancipati dalla prigione del metro. Qualcosa di eccellente c’era, come in alcuni barditi 36 di Klopstock e in alcune composizioni di Goethe. Ma poi in altre composizioni – che si muovevano non solo in un vuoto profluvio di parole, ma anche in masse sonore totalmente aritmiche, sprovviste di musicalità, che incespicavano le une sulle altre – questa irregolarità fa una ben misera riuscita. Proprio perciò, se contrapposte, regolarità e irregolarità possono diventare comiche. La prima, ad esempio, quando diventa pedanteria; la seconda nell’irrisione della pedanteria. La pedanteria ama rinserrare la vita nelle sue regole, e perfino a una tempesta non concede, se non a
tempo opportuno, di fare la sua cortese riverenza. Poiché la costrizione che esercita sulle cose non ha alcuna utilità e deriva da un capriccio ostinato, diventa comica, e come giusto persiflage della follia che contro il concetto stesso di vita osa trattare la vita come una macchina, nelle vesti di un malizioso coboldo che disturba le delimitazioni di campo diligentemente tracciate dalla pedanteria, l’irregolarità diventa comica. Se unità e differenza vanno unite, ciò non può che avvenire, anzitutto, perché l’unità si ripete, ma contemporaneamente, nel ripetersi, in quanto inversione si inverte. La ripetizione della forma è l’identità della regolarità, il rovescio dell’ordine è la differenza dell’irregolarità. La forma dell’identità – identica pur nella disuguaglianza – è la simmetria vera e propria. Così, gli antichi hanno rappresentato i Dioscuri in bella simmetria: entrambi trattengono un cavallo che si impenna, l’uno con la mano destra, l’altro con la sinistra; l’uno mette avanti il piede sinistro, l’altro il destro; le teste dei cavalli sono rivolte o verso l’interno o verso l’esterno. In entrambi i lati c’è la stessa cosa, eppure diversa; non è puramente un semplice altro, ma l’una cosa è l’inverso dell’altra e quindi relazione a essa. Dunque la simmetria non rappresenta una mera unità, una pura diversità o una semplice differenza, non una mera regolarità o irregolarità, bensì una unità che nella sua identità contiene l’ineguaglianza. Eppure, anche la simmetria non è ancora la perfezione della forma, anch’essa si subordina come un momento alla superiore creazione della bellezza che, a certe condizioni, la oltrepassa. Se non c’è dove ce la aspetteremmo, tale assenza ci colpisce: tanto più se era già presente e ora è distrutta, o quando è in abbozzo ma non è giunta a esecuzione. Presa in astratto, la simmetria non è che l’uniformità in generale. Ma più esattamente è un’uniformità che contiene un’antitesi di sopra e sotto, destra e sinistra, grande e piccolo, alto e profondo, chiaro e scuro; o più esattamente ancora, che nella ripetizione dell’uguale racchiude in sé l’invertirsi della disposizione, ciò che chiamiamo appunto inversione. Gli occhi, gli orecchi, le mani, i piedi dell’organismo umano hanno un rapporto simmetrico di questo tipo. Lo sdoppiarsi dell’identico può essere in relazione con un punto identico per entrambe le parti, come
le disposizioni delle finestre rispetto a una porta, come due semicerchi di colonne in rapporto a due passaggi che le tagliano, come nel distico la metà ascendente e quella discendente del pentametro in rapporto all’esametro. Sono tutti ordini simmetrici che nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nella musica e nell’arte orchestrale, nella poesia troviamo specificati secondo il contenuto proprio di tali arti. Se nel caso specifico la simmetria viene negata si crea una sproporzione, che è brutta. Se manca in generale, se non è presente affatto, tale assenza è più sopportabile di un’infrazione positiva. Se a un rapporto che per sua natura deve essere simmetrico manca un lato, l’esistenza della simmetria è imperfetta. Allora la nostra fantasia vi supplisce e in base al lato esistente aggiunge quello che ancora manca: in tal modo la mezza simmetria è sopportabile, in quanto simmetria concettualmente esistente, soltanto non condotta a termine nella realtà. È ciò che sentiamo di fronte a molte chiese gotiche, in cui spesso solo una torre campanaria è costruita mentre l’altra manca del tutto o è arrivata solo fino a un piano inferiore. Guardando la facciata dal lato delle torri, il campanile mancante è chiaramente un difetto estetico giacché, secondo la disposizione dell’edificio, dovrebbe esserci. Poiché tuttavia è implicito nel concetto di torre – costruzione che pretende la preminenza – che possa in certo modo stare da sola, sopportiamo abbastanza facilmente la mancanza; non solo, ma la completiamo, quando è evidente, con la nostra immaginazione. Quando la simmetria è completa ma contiene in sé delle contraddizioni, viene sottratto spazio al gioco della nostra fantasia, perché siamo frenati da qualcosa di positivo. Allora non possiamo sostituire qualcos’altro al posto di quel che c’è, completarlo idealmente e con l’idea; dobbiamo piuttosto sottometterci a quel che esiste empiricamente e prenderlo così com’è. L’identità può esserci in un modo che in sé è contrario, ma non inverso. Allora quel che si offre non è il correlato simmetrico o sinfonico, ma l’identico che dovrebbe fungere da termine corrispondente si esprime in un modo qualitativamente diverso. Immaginiamo ad esempio che secondo il progetto primitivo una chiesa gotica dovesse avere due torri; che una delle due sia stata edificata per prima e che poi ne sia stata
aggiunta una seconda, ma di stile diverso: la simmetria esisterebbe, visto che dovevano esserci due torri, ma nello stesso tempo ci sarebbe in un modo che non corrisponde al concetto dell’intero, che anzi ne contraddice qualitativamente l’unità. Nei teatri quando il guardaroba è insufficiente capitano spesso cose assai spassose in questa forma di asimmetria. Oppure la simmetria può corrispondere qualitativamente all’unità della forma, ma infrangere quantitativamente la proporzione, e anche questa deformità è brutta. Nelle arti figurative si compiono molti errori di questo tipo. Concettualmente, quando ci sono due torri parallele una non dovrebbe essere più alta dell’altra; in due ali di un edificio una non dovrebbe essere più lunga dell’altra; in due serie di finestre divise da un portale il numero dell’una non dovrebbe superare quello dell’altra; in una statua un braccio non dovrebbe essere più lungo dell’altro, e così via. Chiamiamo storpiatura questa mancanza di simmetria, come quando un braccio o un piede sono rattrappiti o deformi. L’asimmetria non è semplice assenza di forma, è decisamente deformità. In un dramma fantastico, The Transformed Difformed 37 , Byron ha narrato i tormenti di un gobbo dall’animo forte. Anche la madre lo ha rinnegato, egli cerca la morte e in quello stesso istante viene interrotto da un estraneo misterioso che gli offre in dono la possibilità di assumere qualsiasi altra forma e gli dice: Se io rimproverassi al bufalo la sua zampa fessa o all’agile dromedario la sua alta soma, si rallegrerebbero gli animali per via del complimento. Eppure l’uno e l’altro sono più agili, robusti, operosi e pazienti di te e di tutti gli esseri più alteri e belli della tua razza. La tua forma è in natura: solo, essa si è ingannata nei suoi doni, largendo a un uomo quel che ad altre creature era destinato. Ma Arnold – così si chiama il deforme – sente tutto il peso della bellezza, e prosegue: Non chiedo d’esser prode: la bruttezza è per se stessa audace. Fa parte della sua natura il cercare di mettersi al livello degli altri uomini, e anche sorpassarli,
col cuore e con la mente. Poiché la bruttezza nella sua negatività è qualcosa di positivo, si sente sola, e questo sentimento è la sua pena più grande. Dice Arnold: Se nessuna potenza mi avesse offerto la possibilità di cambiare, avrei fatto tutto quanto era in me per aprirmi una via, malgrado il peso scoraggiante, penoso della mia bruttezza, che come un monte opprime il mio cuore e le mie spalle, e che mi fa turpe e maledetto agli occhi di quelli più felici. Allora avrei guardato la bellezza del sesso, che è il modello di tutto quanto conosciamo e sogniamo come bello più del mondo che esso adorna, con un sospiro non d’amore, di disperazione, e avrei forse rinunciato anche se avvampavo tutto d’amore, all’idea di piacere a quella che non può riamarmi per questa forma ingobbita che mi rende così solo. Con tanta tetraggine si esprime il dolore della deformità. Eppure essa può diventare un grande mezzo di comicità. Certo, nell’assenza di simmetria non c’è ancora nulla di comico, ma nella confusione già si fa sentire, perché qui una forma soppianta e cancella l’altra. Nella semisimmetria la disposizione a realizzarsi, che non giunge alla fine, ha anche – prescindendo del tutto dalla particolarità del contenuto – una tinta comica. Ma l’asimmetria positiva, che non è congruente pur nella sua congruenza, e nell’identità delle sue parti è tuttavia disuguale, questa asimmetria in sé asimmetrica contiene già di fatto la comicità, se è vero che il ridicolo è la contraddizione tra l’impossibile come cosa empiricamente reale e la realtà come dev’essere concettualmente. Se concettualmente dovrebbe essere impossibile che un braccio sia più lungo dell’altro eppure di fatto un braccio è più lungo dell’altro, la realtà che contraddice al concetto, la realtà che non deve essere, è reale, e tale contraddizione diventa comica: proprio come, riguardo ai piedi, lo zoppicare ha in sé qualcosa di comico. La comicità coinvolge anche la professione a cui gli uomini si dedicano, che può avere come conseguenza un rattrappirsi o un apparente accorciamento di un braccio, e ci
rappresenta scrittore, sarto, ciabattino, falegname ecc. nei loro movimenti comici. Una comicità particolarmente piacevole emerge nel dramma quando al decorso tragico dell’azione principale viene contrapposto un simmetrico decorso comico di un’azione collaterale. Tutti gli avvenimenti positivi della prima sfera si ripetono nella nullità della sfera comica e attraverso il parallelismo rafforzano l’effetto patetico. È una maniera che domina nel teatro inglese, ma soprattutto in quello spagnolo. Shakespeare l’ha esclusa dalla tragedia alta, ma Calderón, dovendo in genere risolvere problemi di aritmetica morale-convenzionale, la applica quasi dovunque. Anche nel dramma teologico, come Il mago dei prodigi 38 , Calderón fa riflettere lo sviluppo tragico nel rilievo della comicità. Le stesse determinazioni dell’asimmetria che diciamo brutte quando pretendono di avere carattere positivo, diventano comiche quando tale pretesa non è che apparenza. Qui, dove ci occupiamo del brutto, non dobbiamo seguire oltre gli sviluppi della comicità, accontentandoci di accennare al risolversi del brutto nel ridicolo. Dobbiamo invece mostrare che l’asimmetria diventa disarmonia per il falso contrasto con la leva a essa antagonistica: la simmetria. Nella simmetria, come pure nell’asimmetria, la relazione dei membri inversi è ancora, in generale, in uno stato di quiete. Se la contrapposizione entra in tensione, diventa contrasto. Si tratta, com’è noto, di uno dei mezzi estetici privilegiati. Dal punto di vista qualitativo non può che consistere di determinazioni che si contraddicono, ma dal punto di vista quantitativo può avere molte gradazioni, può essere debole e forte, smorto e netto. Quale sia il contrasto necessario in un dato caso, dipende dalle circostanze prossime. Per uno stesso essere sono possibili varie contraddizioni, secondo i vari aspetti; ma in forza della sua specificità, l’essere ha anche una contraddizione assoluta in sé, che ne contiene la negazione totale; alla vita si contrappone come assoluta contraddizione la morte, alla morte la vita, alla verità la menzogna, alla menzogna la verità, al bello il brutto, al brutto il bello e così via. Alla vita, invece, la malattia si contrappone solo come contraddizione relativa – e così l’errore alla verità, il comico al bello – e
perciò queste stesse determinazioni ne hanno ancora altre come loro contraddizione assoluta. La malattia è un ostacolo e una diminuzione della vita: la contraddice, specialmente perché la vita, stando al concetto che le è proprio, dovrebbe essere sana. La contraddizione assoluta della malattia è quindi, nella vita, la salute. Così la certezza oggettiva è contrapposta in modo assoluto all’errore, e il tragico al comico. Con tali distinzioni è possibile mettere a contrasto tra loro anche le determinazioni che per sé stesse, sia in senso assoluto sia in senso relativo, non stanno in contraddizione, ma tra le quali una contraddizione si istituisce solo artificialmente, ora come assoluta, ora come relativa. Formalmente, l’assoluto può venire in contraddizione con l’assoluto, l’assoluto col relativo, il relativo col relativo: nella realtà tali rapporti possono rivestirsi di molteplici aspetti. Qui non è il luogo per esaminare più da vicino questi concetti generali, che appartengono parte alla metafisica e alla logica in generale, parte alla metafisica estetica in particolare. Siamo stati costretti a ricordarli solo nella misura necessaria a distinguere il falso contrasto-brutto dal giusto contrasto-bello. Il falso contrasto insorge anzitutto perché in luogo dell’opposizione che dovrebbe esser posta compare il mero diverso, e quest’ultimo non è che differenza indeterminata, non ancora capace di tensione. La variopinta molteplicità del diverso può essere pienamente giustificata in senso estetico; ma se la si fa comparire là dove dovrebbe esserci contrasto rimane insufficiente. Nessuna diversità, per quanto le si accumuli, è in grado di sostituire l’interesse che ci ispira l’opposizione determinata. Quando in un romanzo compare una quantità di personaggi, si sviluppano avvenimenti in gran copia ma non c’è un contrasto che leghi i personaggi e il loro destino e dòmini con energia su tutta la serie delle situazioni, la varietà ci stancherà presto, e alla fine ci disgusterà. O quando in un dipinto risplendono diversi colori ma non c’è un’antitesi cromatica decisa, ben presto l’occhio rimarrà intorpidito dal puro e semplice miscuglio cromatico. Senza che venga meno l’attrattiva della varietà, la contrapposizione può emergerne benissimo. Solo la contrapposizione positiva e negativa produce contrasto.
L’identità, cioè, deve diventare disuguale con se stessa, e può arrivare fino al conflitto e alla collisione. Il differente deve essere, in qualche modo, contemporaneamente identico; tramite l’unità deve essere in una situazione di reciprocità con se stesso. Tanto più si esprime in azione reciproca, tanto più è bello. Se a un certo punto deve comparire l’opposizione determinata e invece, anziché l’identico negativo, si pone solo qualcosa che è altro – capace anche di relazione, ma mai immanente – allora abbiamo a che fare con un mero diverso. Così ad esempio nell’opera Roberto il Diavolo 39 il diavolo è soltanto diverso da suo figlio: come diavolo dovrebbe odiarlo, ma questo “straniero” ama, contro la sua natura di diavolo e seguendo la natura di padre, il figlio, cioè con l’amore per il figlio l’idea del diabolico è negata. Egli non può contrastare col bene, benché lo debba; un diavolo sentimentale è ridicolo. Si tratta di un contrasto mancato. Al posto della contrapposizione che ci dovrebbe essere, c’è la pura e semplice diversità. Il contrasto non è solo smorto, è sbagliato. Il contrasto diventa brutto, inoltre, quando la contrapposizione va oltre la tensione. Chiamiamo ricerca dell’effetto questa forma di disposizione delle parti a contrasto. L’arte non fa affidamento sulla verità ma rafforza gli estremi per eccitare senso e sentimento. Vuole ottenere l’effetto a ogni costo e quindi non può lasciare libertà alcuna a chi la gusta, che deve ed è costretto a essere sopraffatto: per la sua sconfitta – perché qui a parlare di vittoria dell’arte si userebbe una espressione errata – il contrasto è un mezzo essenziale. La preoccupazione che potrebbe essere ignorato o inascoltato da un’umanità troppo sazia e ottusa fa sì che ci si sforzi di renderlo interessante, come si dice oggigiorno. Si fa netto, stridente. Il confine del vero naturale viene scavalcato in modo vertiginoso per tendere in modo infallibile, attraverso sovreccitazione (surexcitation), i nostri nervi. Questa forma d’arte – specialmente nella deformazione della nostra musica moderna – è brutta. Voltaire agiva con questo tipo di cattivo gusto quando rielaborava il Cesare shakespeariano adattandolo alla scena francese 40 . Non gli bastò che Bruto, in quanto repubblicano, fosse in contrasto con Cesare, console e dittatore che aspirava a un potere
personale: fece inoltre di Bruto il figlio di Cesare; fece in modo che entrambi i personaggi lo sapessero; rafforzò l’omicidio dell’avversario politico mutandolo in parricidio e infine, per coronare l’opera, eliminò la battaglia di Filippi, dove l’ombra di Cesare ottiene contro Bruto giustificazione storico-mondiale. Il vero contrasto, dicevamo, deve contenere la contrapposizione come disuguaglianza dell’uguale. Così rosso e verde sono identici nel loro esser colori; bianco e nero nella natura acromatica; bene e male nella libertà; solido e fluido nella materialità; e così via. Il falso contrasto invece prende le mosse dalla generalità qualitativa e produce la contrapposizione apparente: al grande non viene contrapposto il piccolo, o una diversa grandezza, ma il misero o il debole. Ma la vera contrapposizione del misero è l’importante, il nobile, il puro; del debole il forte, il potente. Siccome queste forme hanno tra loro una certa connessione, siccome possono diventare sinonimi, si spiega perché qui l’errore si possa insinuare anche negli artisti migliori. La nostra lirica moderna, seguendo la lingua nella direzione che le ha dato il taglio sfaccettato dell’oratoria brillante di Anastasius Grün, ha prodotto molti contrasti ibridi di questo tipo. Ma se ne può scoprire l’origine nello stesso Grün, e perfino nelle sue poesie migliori. Anche nella bella poesia L’ultimo poeta 41 , a ragione così amata, si insinuano queste falsificazioni, ed esempio nei versi: «Fino a che il bosco ancora stormisce | e rinfresca il viandante affaticato». Alla stanchezza si contrappone il riposo, all’aria fresca l’aria infuocata. Ma stanchezza e freschezza sono due termini che non si adattano. Lo stormire che caratterizza il bosco contrasta con il silenzio della pianura senz’alberi, oppure del bosco. Si vede che qui Grün ha voluto abbracciare molte cose assieme. Il bosco deve rinfrescare con lo stormire dei suoi rami chi si è stancato nella calura della piana aperta; ma l’immagine è espressa in modo imperfetto. Invece il contrasto acuto rafforza la tensione con mezzi che rivolgono la giusta contrapposizione, che in sé è presente, verso aspetti che aprono la via d’accesso a un interesse ancora diverso, distogliendoci quindi dalla relazione sostanziale anziché – come era nelle intenzioni – rafforzarla.