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Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

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Published by shllakua, 2023-07-14 18:55:56

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

uomo ha la follia di ritenere folle sua moglie, ma lui stesso è folle, perché vaneggia di aver ucciso qualcuno gettandolo in mare. Se uno sciocco si cimenta nella difficile impresa di descrivere la follia viene alla luce l’aspetto più abominevole dell’insulsaggine, di solito così misera coi suoi molti punti esclamativi e sospensivi che non ci si può nemmeno ridere, ma si sente la vicinanza opprimente nell’idiozia. Potremmo dire che il tragico ha a che fare con la dissonanza della ragione, la comicità con le contraddizioni dell’intelletto. Essa può fare dell’insulso un uso positivo, assai felice. Per essa lo sciocco, l’insensato, il pazzesco, il folle può non essere abbastanza assurdo. Calderón ha parodiato, con questa spassosa esuberanza della stramberia, nella farsa Cefalo e Procri, il suo dramma Gelosia anche dell’aria uccide. Ma il puro e semplice assurdo non è ancora ridicolo; lo diventa solo quando, in determinate relazioni, si nega come un che di impossibile in sé che tuttavia in apparenza è reale. La follia, in sé, può essere spesso sublime, come in Don Chisciotte, e tuttavia diventare comica nel suo articolarsi, invece la pazzia può essere estremamente comica anche in sé, come vaniloquio, sbadataggine, fantasia stravagante. I pazzi sono i beniamini prediletti della comicità; l’ardimento dell’intelligenza può anche giocare con l’assurdo. Di questo genere fanno parte anche quelle concatenazioni di pensieri eterogenei che in tedesco antico si chiamavano “favola menzognera”, “favola miracolosa” e oggigiorno si chiamano “non-senso fiorito”, e in francese “coq a l’âne”. Appartengono al genere le krähwinkeliadi 176 , le barzellette sugli ebrei, le arlecchinate, soprattutto quelle di Turlupino col cerretano. Nelle fiere di Parigi quest’ultimo aveva un ruolo fondamentale 177 . Un vecchio coq à l’âne chiama questo tipo di insulsaggine – una continua contradictio in adjecto – «quasi vaneggiare» (O. L. B. Wolff, Altfranzösische Volkslieder, Leipzig 1831, p. 118): Je m’en allay à Bagnolet, Où je trouvay un grand mulet, Qui plantoit des carottes. Ma Madelon, je t’aime tant Que quasi je radotte. Je m’en allay un peu plus loing,


Trouvay une botte de Foing, Qui dansoit la gavotte. Ma Madelon, je etc. Le guasconate dei francesi sono per l’appunto ilari assurdità del genere, come quelle raccolte, in un tutto non molto coerente, nell’antica arlecchinata (che si vede pur sempre volentieri) che dal francese ha attecchito anche da noi, Il bugiardo e suo figlio. Padre e figlio si superano in invenzioni insulse. Il signor de Crac ha ottenuto un albero di punch, avendo innestato un fusto di limone su un arbusto di riso, e avendolo annaffiato con del rum; il figlio racconta di aver posseduto uno schioppo con cui poteva sparare ad angolo, a crocicchio e così via. Da noi queste facezie si sono concentrate prima nell’Eulenspiegel e poi, attraverso Burger e Lichtenberg, nel Münchhausen. Münchhausen pretende di arrampicarsi fino alla luna su un viticcio di fagiolo, di tirarsi su dal pantano attaccandosi al suo codino. Un portone che si chiude porta via metà del corpo al suo cavallo, la parte anteriore se ne sta bella ferma e beve senza fine da una fontana, giacché l’acqua esce di continuo da dietro. Il suo cane da caccia si accorcia le gambe trasformandosi così da levriero in una specie di bassotto. Spara un nocciolo di ciliegia in testa a un cervo. L’anno dopo lo incontra di nuovo e il cervo ha tra le corna un ciliegio. Insensato! esclamiamo a sentire queste bugie di cacciatore, ma sono un passatempo divertentissimo. Nel Münchhausen Immermann ha parodiato le millanterie dei cacciatori, ma ha fatto anche del barone la deliziosa figura emblematica dell’universale millanteria che c’è nello spirito – o dovremmo dire piuttosto: perversione dello spirito – della nostra epoca. Come quando Münchhausen persuade il vecchio barone di Posenmuckel a impiantare una fabbrica di pietre d’aria perché – argomenta – tutto il mondo materiale è fatto dei quattro elementi chimici fondamentali; siccome questi ultimi sono contenuti nell’aria, nell’aria c’è il materiale – ottimo, a buon mercato e disponibile ovunque – per far pietre. Naturalmente il comico basso si serve con straordinaria ampiezza dell’assurdo, facendo con balbettii, lapsus, fraintendimenti, storpiature di una lingua straniera, e soprattutto dileggiando con divertimento le


assurdità della magia. Da questo punto di vista nel teatro di marionette del Faust, Caspar è una delle figure più divertenti. Deride tutto quanto lo studio della negromanzia e della magia, non si fa impressionare dai diavoli, anzi dà loro la baia con divertita crudeltà con il suo «Perlippe, Perlappe». b. Il nauseante – L’insulso è il lato ideale dell’orrendo, la negazione dell’intelletto. Il nauseante è il lato reale, la negazione della bella forma del fenomeno attraverso una deformità che nasce da corruzione fisica e morale. Seguendo la vecchia regola a potiori fit dominatio definiamo ripugnanti anche gradi inferiori del repellente e del volgare, perché ci nausea tutto ciò che offende il nostro sentimento estetico con la dissoluzione della forma. Ma per il concetto di nauseante in senso stretto dobbiamo aggiungere la determinazione della corruzione: essa contiene quel divenire della morte che non è tanto uno sfiorire e un morire, quanto piuttosto l’imputridire del già morto. L’apparenza di vita in ciò che è già morto è l’elemento infinitamente ripugnante implicito nel nauseante. L’assurdo nel suo disordine alogico suscita anche ribrezzo se non è volto al comico; ma in virtù del suo elemento intellettuale non ha un effetto violento come quello del nauseante. Quest’ultimo pretende che i nostri sensi gustino un essere ad essi ostile, e lo si potrebbe definire anche l’assurdo sensibile. Anche quando si tratta di un cumulo di cocci dell’intelligenza, nell’assurdo si può ancora trovare un interesse critico, mentre il nauseante fa rivoltare i nostri sensi e ci respinge per antonomasia da sé. Il nauseante come prodotto della natura – sudore, muco, escrementi, ascessi ecc. – è una cosa morta da cui l’organismo si separa abbandonandola quindi alla corruzione. Anche la natura inorganica può diventare relativamente nauseante, ma solo relativamente: per analogia o in connessione con la natura organica. Il concetto di corruzione, però, in se stesso non è applicabile alla natura inorganica e perciò non si possono assolutamente chiamare nauseanti pietre, metalli, terre, sali, acque, nubi, gas, colori. Li si può definire così solo in senso relativo, rispetto all’olfatto e al gusto. Un vulcano che butta melma,


l’esatto contrario dello spettacolo maestoso di un monte che erutta fuoco, diventa ripugnante per noi perché l’emissione di effluvi torbidi per analogia ci ricorda l’acqua, soltanto che qui viene fuori un liquame di terra, torbido, frammisto a volte di pesci morti in putrefazione, una specie di terra putrefatta. Si veda la descrizione di un effluvio di melma simile nelle Vues des Cordillères di Alexander von Humboldt 178 . Nauseante al massimo è anche l’acqua pantanosa nelle fosse della città, dove si raccolgono le immondizie delle fogne, dove convergono in un orrendo amalgama resti vegetali e animali d’ogni tipo, cenci e frammenti di prodotti decomposti della civiltà. Se fosse possibile mettere a testa in giù una grande città come Parigi, in modo che gli strati più sotterranei venissero alla superficie, in modo da far comparire non solo il liquame delle cloache ma anche gli animali che temono la luce – topi, ratti, rospi, vermi che vivono di roba putrefatta – ne risulterebbe un’immagine spaventosamente nauseante. Che da questo punto di vista l’olfatto abbia una preminenza sensitiva, è cosa certa. Il consueto odore degli escrementi li fa comparire nella loro pura naturalità ancor più ripugnanti di quanto non appaiano rispetto alla forma. Un coprolite ad esempio, la lordura pietrificata di animali preistorici, non ha più nulla in sé di nauseante, e lo collochiamo tranquillamente accanto ad altri fossili nelle nostre raccolte di minerali. Tra i magnifici dipinti del Camposanto di Pisa vediamo anche una superba compagnia di cacciatori che passano cavalcando accanto a un sepolcro aperto, che mostra il cadavere, e si turano il naso con la mano: lo vediamo, ma non lo annusiamo. Il sudore del lavoro che gronda dalla fronte, gocciola dal petto è certamente molto onorevole, ma esteticamente non lo è. Se il sudore s’immischia addirittura al piacere, la cosa è francamente ripugnante, come quando ad esempio Heine canta a una giovane coppia per lo sposalizio: Dio vi guardi dal troppo calore dal troppo forte battere del cuore da un sudore troppo odoroso da uno stomaco troppo pieno. Sterco e lordume sono esteticamente ripugnanti. Quando l’imperatore


Claudio morente esclama: «Vae! puto concacavi me!» distrugge tutta la sua maestà imperiale. Quando Jordan nel suo Demiurgo 179 motiva la separazione di Enrico da Elena col fatto che lui una volta ha sorpreso la moglie intenta ai suoi bisogni, la cosa è nauseante, volgare, impudica senza limiti, e non si riesce a capire come uno scrittore indiscutibilmente fornito di vasta e versatile cultura possa diventare così privo di gusto quando fa ridere di cuore anche Lucifero su questa raffinatissima delicatezza. Questo mysterium si accompagna generalmente con manifestazioni ciniche del tipo più stridente; noi resistiamo tuttavia alla tentazione di estrarne ulteriori esempi di nauseante. Il grossolano vigore del linguaggio popolare ama fare ricorso alla lordura come ultima ratio dell’ingiuria, per esprimere l’assoluta nullità di qualcosa e per indicare il massimo dell’avversione. All’incirca come anche Goethe, nelle Xenien, giustifica il fatto che ignora il suo avversario: «Dimmi del tuo nemico, perché non vuoi saperne? | Dimmi, e se ti ci imbatti là dove si c..?». Ma la poesia può farne uso solo per la comicità grottesca: abbiamo già citato come esempio al riguardo Blepiro nelle Ecclesiazuse di Aristofane. In una commedia di tipo aristofanesco, Gli imbriglialuna, Hoffmann 180 sbeffeggia la dialettica della filosofia moderna, ponendo ai filosofi in disputa il compito di definire il concetto primo di “merda”. L’uno vuol dimostrare, ad esempio, che non si è mai compreso il significato di “merda” perché non se ne è mai colto giustamente il genere: Soggetto e oggetto, sono assolutamente identici A è uguale a B e non c’è differenza B, l’oggetto, è la merda. Non è pura verità? Che io, A, sono il soggetto, è chiaro ed evidente e perciò io stesso identico, io stesso merda anche se è un controsenso, è dimostrata verità. Se poniamo qualcuno vi ha fatto della merda ne consegue che costui ha creato se stesso. Ora, dico che questo prodotto non ha genere: se dico “il”, dico “la”, faccio una cosa illecita. Piuttosto, per concludere in una sola parola d’ora in poi sol questo è giusto: ammettere che la merda è l’io. Si potrebbe dire che con la religione cristiana la corruzione è diventata


soggetto artistico positivo, e la pittura si è cimentata nella resurrezione di Lazzaro, di cui la Scrittura stessa dice che già maleodorava. Ma anzitutto non si dimentichi che la pittura non rappresenta affatto quell’odore, e poi che si deve pensare solo a un superficiale inizio di corruzione. Il momento specificamente positivo in questo soggetto rimane pur sempre la concezione del superamento della morte attraverso la vita divina che viene da Cristo. Lazzaro avvolto nel sudano che esce dal sepolcro spalancato è in efficacissimo contrasto pittorico con il gruppo dei vivi che circondano il sepolcro. Nella figura un po’ umbratile e nel pallore dei tratti Lazzaro deve tradire il fatto che era già preda della morte, ma deve mostrare nello stesso tempo come in lui la potenza della vita ha già superato di nuovo la morte. Abbiamo già trattato della malattia nella Introduzione. In sé, non è necessariamente repellente o addirittura ripugnante. Lo diventa solo quando distrugge l’organismo nella forma della putrefazione oppure il vizio stesso è causa di malattia. Naturalmente in un atlante di anatomia e patologia anche le cose più orripilanti sono giustificate per scopi scientifici, invece l’arte può rappresentare la malattia ripugnante solo a condizione di concepirla al tempo stesso con un contrappeso di idee etiche o religiose. Un Giobbe coperto di piaghe è sotto il riflesso della teodicea divina. Il Povero Enrico di Hartmann von der Aue 181 certamente un soggetto quasi brutale ed è difficilmente comprensibile perché mai i tedeschi lo abbiano ristampato tanto spesso offrendolo in mille salse – nell’originale e nelle rielaborazioni più varie – alla gioventù: eppure vi è ancora mantenuta l’idea del libero sacrificio, anche se in circostanze concomitanti assai ripugnanti. Il lebbroso di Aosta di Xavier de Maistre, un quadro estremamente impressionante dell’abbandono in solitudine dell’uomo, si basa sull’idea della rassegnazione assoluta. Il Filottete antico ha una ferita al piede perché il serpente l’aveva morsicato sull’altare eretto da Giasone a Cryse presso Lemno, affinché egli lo indicasse ai Greci, ecc. L’arte deve escludere malattie nauseanti che hanno una base di immoralità. La poesia si prostituisce quando le descrive: così, Sue ha inserito nei Misteri di Parigi una precisa descrizione medica del St. Lazare,


e una scrittrice tedesca, in un romanzo intitolato Frauenloos, la descrizione esatta del reparto per sifilitici di un lazzaretto. Si tratta di perversioni di un’epoca che in base al suo interesse morbosamente patologico per la corruzione ritiene poetica la miseria della demoralizzazione. Anche malattie che non sono certo infami, ma hanno soltanto il carattere di curiosità – che si annuncia in rare deformità ed escrescenze – non sono soggetti estetici: come ad esempio l’elefantiasi, che gonfia come un otre un piede o un braccio, cosicché la loro forma propria va totalmente perduta. L’arte può ben rappresentare, invece, malattie che come una forza elementare mietono la vita di migliaia di persone e in parte possono apparire come destino di una forza meramente naturale, in parte come una punizione divina. In questo caso la malattia, anche se ha in sé forme nauseanti, assume addirittura un carattere di orrida sublimità. Le masse dei malati danno subito la visione dello straordinario e nascono contrasti pittorici di sesso, età, classi sociali. Dal punto di vista estetico però il tipo canonico per tutte queste scene sarà dato dalla risurrezione di Lazzaro, e la vita dovrà comparire in vittorioso contrasto col morire, come eterna potenza della morte. Lo spettacolo del morire in massa – come nel quadro di Raffet che ha per soggetto il tifo che colpì l’armata repubblicana francese a Magonza – ci opprimerebbe, ma il raggio della vita che viene dalla libertà divina dello spirito fa superare la malattia mortale e l’agonia. È così che i pittori hanno dipinto gli ebrei nel deserto: colpiti dal male, guardano la serpe bronzea che Mosé mostra loro per ordine di Jeova allo scopo di risanarli. Qui la malattia è la punizione per essersi lamentati di Dio e di Mosé, e la guarigione per il morso del serpe infuocato è il premio per il pentimento. Nel quadro di Rubens in cui San Rocco risana gli appestati il passaggio dalla morte alla vita è la poesia che libera esteticamente dal nauseante gli orrori dell’orribile malattia. Un altro eccellente quadro che appartiene a questa sfera è quello di Gros, Napoleone tra gli appestati a Jaffa. Come sono spaventosi questi malati coi loro bubboni, i colori lividi, le tinte grigio-bluastre e violette della pelle, gli sguardi infuocati e riarsi, i tratti sfigurati dalla disperazione! Ma sono


uomini, sono guerrieri, sono francesi, sono soldati di Bonaparte! Lui, che è la loro anima, appare tra loro, non si cura del pericolo che viene dall’insidia della più tremenda delle morti: la condivide con loro, così come ha condiviso la pioggia di pallottole in battaglia. Quest’idea esalta quei coraggiosi. Le teste fiaccate, cupe, si sollevano, gli sguardi semispenti o scintillanti di febbre si rivolgono a lui, le braccia fiacche si rianimano e si tendono verso di lui, un beato sorriso di gioia serpeggia sulle labbra dei moribondi, e nel mezzo di queste figure si erge compassionevole il gigante Bonaparte e tocca con la mano il bubbone di un malato che seminudo si è sollevato di fronte a lui. E con che bravura Gros ha rappresentato il fatto che dall’arco a volta del lazzaretto si guarda fuori nello spazio libero, che dal caldo soffocante dell’ospedale si ha una vista affrancatrice sulla città e il monte e il cielo. Analogamente Shakespeare, nella chiusa dell’Amleto, allorché i corpi avvelenati di una stirpe corrotta giacciono tutt’intorno, fa squillare con forza la tromba e fa comparire il giovane e puro Fortebraccio, inizio di una nuova vita. Ospedali in cui giacciono soltanto feriti non hanno il carattere nauseante di simili scene e quindi sono spesso dipinti senza difficoltà. Prima, abbiamo già menzionato anche il vomito. Sia esso un’incolpevole affezione morbosa, sia conseguenza della crapula, è sempre estremamente nauseante. E tuttavia poesia e pittura lo hanno rappresentato. La pittura può alludervi con la pura e semplice posizione, anche se Holbein nella Danza macabra non si è fatto specie di mettere in primo piano il ghiottone che rimangia il pasto già degustato una volta. Neanche gli olandesi ci sono andati con mano leggera nelle loro scene di fiere e locande. L’ammissibilità di questi tratti ripugnanti dipenderà molto dagli altri tratti della composizione, e dallo stile in cui li si mantiene, giacché è possibile anche una versione comica, come nella Compagnia del punch di Hogarth o in quella pittura vascolare greca in cui Omero, steso su un giaciglio, vomita in un recipiente a terra. Una figura femminile, che rappresenta la poesia, gli tiene il capo divino. Intorno al recipiente c’è una gran quantità di figure nane che si rimettono in bocca con fervore quel che Omero ha vomitato: sono i poeti greci successivi che si nutrono del superfluo del


grande poeta, rigettato con cinismo. Ancora un’apoteosi di Omero 182! Ma se la poesia si spinge fino al punto che non si limita a raccontare il vomito, ma lo porta sulla scena, allora questo è un travalicare la misura estetica, che non può avere un effetto neanche in versione comica. È stato l’abbaglio di Hebbel nel Diamante 183 . L’ebreo che lo ha inghiottito lo rivomita sulla scena, e non solo lo vomita, ma per far ciò ficca addirittura il dito in bocca. È troppo ripugnante! In quanto atto naturale necessario, il parto non ha questo carattere repellente, anche se non viene volto in versione comica, come nella Narren Scheyden di Hans Sachs e nella Camera politica per puerpere di Prutz. Si rende esteticamente impossibile il nauseante anche quando lo si mescola all’innaturale. Epoche blasées nella vita dei popoli e degli individui solleticano i nervi svigoriti con gli eccitanti più violenti e perciò, non di rado, più nauseanti. Com’è orrendo il nuovo passatempo alla moda dei perdigiorno londinesi, la lotta dei ratti! È possibile immaginare qualcosa di più nauseante di uno stuolo di ratti che si difende impaurito a morte contro un cane inferocito? Si direbbe di sì, che è possibile: gli scommettitori che, orologio alla mano, stanno tutt’intorno alla fossa murata! Ma Pückler-Muskau nelle prime, immortali Lettere di un morto 184 racconta una cosa ancora più ripugnante, di avere visto a Parigi, sul boulevard Montparnasse, dei borghesucci sparare a un topo legato a un’asse, sicché l’animale correva avanti e indietro disperato nel piccolo spazio. Per il piacere di sparare su un topo! E nauseante in modo infernale. Petronio ha una certa grandiosa franchezza, una certa asprezza affine a quella di Giovenale, che conferisce alle sue rappresentazioni della depravazione blasée una tetra attrattiva. Una scena del suo convito di Trimalcione descrive – simbolicamente, in certa misura – l’intima depravazione di quel mondo. Viene servito un maiale che poco prima era stato mostrato vivo agli ospiti. Non gli sono state tolte le interiora. Il padrone di casa, infuriato, fa venire il cuoco per fargli scontare con la morte la dimenticanza, per l’offesa arrecata agli ospiti. A un cenno del padrone il cuoco, tremebondo, si accinge a sventrare il maiale, e cosa sono mai le sue viscere nauseanti? Si scopre che sono gli insaccati più


eccellenti, ai quali però è stata lasciata la forma naturale degli intestini. Ne sono tutti entusiasti. Si fanno i complimenti al padrone di casa che ha un simile cuoco e il cuoco non solo ha salva la vita, ma viene incoronato con un serto d’argento e premiato con un bacile di bronzo corinzio. Fai diventare leccornie le interiora di un maiale e sarai un grand’uomo per quest’epoca nauseante. Essa giustizierà un Peto, ma incoronerà te di alloro 185 . Il cinismo dei rapporti sessuali consente ancora, tra natura e decisa innaturalezza, uno spazio di scabrosa piacevolezza nella quale, qui, ancora non ci addentriamo 186 . La stessa comicità quando la volge in burlesco con sconcezze, non riesce tuttavia ad eliminarvi l’aspetto brutto. Collochiamo qui, ad esempio, la scena di suprema comicità della Lisistrata di Aristofane in cui Mirrina eccita all’estremo il desiderio di Cinesia per poi lasciarlo a bocca asciutta 187 . Se a situazioni del genere si aggiunge ancora l’elemento della vecchiaia, il ripugnante aumenta. Così Orazio nell’ottava ode degli Epodi 188 . L’innaturale come perversione della legge di natura determinata dalla libertà, o meglio dalla sfrontatezza della volontà umana, è assolutamente nauseante. La sodomia, la pederastia, i modi lascivamente raffinati di coire (ad esempio, presso gli antichi, arma, φιλότης) ecc. sono cose orrende. I pornografi rappresentano anche queste scene erotiche, dette libidines o sphyntheria e sulle quali si possono vedere le dotte ed eleganti dissertazioni di Raul Rochette aggiunte al Musée secret di Ercolano e Pompei, di Ainé e Barré (Paris, 1840). Secondo quanto riferisce Plinio, ad esempio, Tiberio acquistò a enorme prezzo un quadro di Parrasio per appenderlo nella camera da letto. Il quadro rappresentava Atalanta che in modo nauseabondo ed osceno soddisfa con la bocca le voglie di Meleagro. Vedere in questo una parodia, come fa Panofska, ci sembra troppo azzardato 189 . c. Il male – L’insulso è l’orrendo teoretico; il nauseante è l’orrendo sensibile, che però è già connesso nei suoi estremi innaturali – come abbiamo visto – con l’orrendo pratico, il male. La volontà malvagia è eticamente brutta. Come volontà per sé ricade nella pura interiorità. Ma per diventare possibilità estetica deve in parte riflettersi simbolicamente,


da sé, nella bruttezza della forma, in parte esprimersi come azione e diventare crimine. Già Omero ha descritto Tersite in modo da far apparire in una figura conforme la sua natura rissosa (Iliade, ii, 214 [trad. di Vincenzo Monti]): Avea costui di scurrili indigeste dicerie pieno il cerebro, e fuor di tempo, e senza o ritegno o pudor le vomitava contro i re tutti, e quanto a destar riso infra gli Achivi gli venia sul labbro, tanto il protervo beffator dicea: Non venne a Troia di costui più brutto ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso di raro pelo. Capital nemico del Pelide e d’Ulisse... Per la nostra indagine, siamo costretti a far precedere la prospettiva estetica rispetto a quella etica. Non ci si attenda quindi, in questa sede, un saggio sul concetto di male: questo spetta all’etica e l’estetica non può che presupporlo occupandosi solo della forma del suo manifestarsi ed esaminando in che modo e fino a che punto essa riesca ad esprimere il contenuto moralmente brutto in una maniera adeguata e compatibile con le leggi del bello. Qui sono in questione i concetti di criminoso, di spettrale e di diabolico. Il criminoso è la realtà empiricamente oggettiva della volontà malvagia. Ma questa realtà, confrontata con l’idea della volontà come bene, è l’irrealtà del suo concetto. Reale in quanto fenomeno, la sua natura è il nulla del disordine. La certezza di questa nullità nel soggetto che agisce è la sua cattiva coscienza. La consapevolezza di aver prodotto, nel momento stesso in cui offendeva positivamente l’idea del bene, qualcosa in sé di nullo, è inseparabile dalla colpa del malvagio, e questa esistenza apparente del male è lo spettrale che c’è in esso. Dalla colpa l’immaginazione del criminale produce l’idea di un essere inquietante, trascendente, oscuro, vendicativo. Se infine il volere si autorappresenta come volere sostanzialmente cattivo, che si presenta come il creatore di un mondo del nulla e prova in ciò un piacere


ripugnante, allora diventa diabolico. Una volontà di tal fatta è diabolica nella sua negatività, e nel suo manifestarsi questo elemento demoniaco è lo spettrale. a. Il criminoso – Che nel fondamento più profondo il bello sia uno con il bene non è solo un’idiosincrasia del Platone retore, è proprio la verità. Dunque, altrettanto vero è che il brutto in sé e per sé è identico al male: il male è il brutto radicale, assoluto, etico, religioso. Se però si estende quest’identità fino al punto di porre in generale la causa del brutto nel malvagio, allora abbiamo un’esagerazione del suo concetto che condurrà inevitabilmente ad astrazioni false e forzate. Come si è mostrato nella Prefazione, infatti, il brutto può nascere dalla libertà dell’esistenza anche in molti altri modi. Si scambia il brutto in quanto tale con il punto massimo del suo manifestarsi – che certo può prodursi solo tramite il male – perché il male è la contraddizione più profonda dell’idea con se stessa. Il male come menzogna originaria dello spirito può essere interessante per l’intelletto e per la fantasia, ma anche in questa forma susciterà necessariamente l’avversione più profonda. La volontà cattiva si dà attraverso l’azione malvagia un’esistenza oggettiva, e il suo arbitrio immotivato spezza l’assoluta necessità della libertà, in vista della quale soltanto esiste l’intero universo. Il crimine non può scrollarsi di dosso la connessione con la libertà necessaria: solo in virtù del suo consapevole contraddirla è crimine. Grazie a tale connessione il crimine diventa possibile come soggetto estetico, giacché con esso non può non venire alla luce la sua antitesi immanente, la vera libertà rendendo manifesto nel crimine il suo carattere di vuotaggine e menzogna. Su tale connessione si basa anche l’esigenza, da Schiller 190 in poi così spesso ribadita, che per diventare esteticamente possibile il crimine deve essere grande, perché allora esige coraggio, astuzia, intelligenza, forza, perseveranza non comuni, e in tal modo possiede per lo meno l’aspetto formale della libertà. I concetti qui indicati sono ormai stati discussi così spesso a partire dalla Poetica di Aristotele e – da ultimo con Vischer – in modo così esaustivo,


che non c’è punto del nostro tema che sia stato elaborato in egual misura e sia come questo accessibile a tutti. Pertanto ci limiteremo qui a poche annotazioni. Dal punto di vista del contenuto, non riescono ad essere soggetti estetici tutti quei crimini che ricadono nella categoria di volgarità dell’abituale per il loro carattere quotidiano e insignificante e per la scarsa applicazione di intelligenza e volontà che occorre per commetterli. L’egoismo meschino che sta alla loro base e che serve solo a riempire i verbali di polizia e del tribunale correzionale è troppo di bassa lega perché l’arte se ne possa occupare. Spesso i suoi crimini non possono nemmeno essere definiti azioni, tanto scaturiscono, spesso, da una cerchia di rozzezza e incultura, pigrizia e necessità materiali, ristrettezza e bassezza ormai abituali. Accessoriamente, in connessione con motivazioni superiori, come episodio, anello concomitante di una concatenazione più grande, il crimine comune può ben acquistare possibilità estetica perché allora appare entro il più ampio contesto come un momento di storia del costume. Odio, brama di vendetta, gelosia, passione del gioco, ambizione, sono già più estetici che non il furto, l’imbroglio, la truffa, la rozza impudicizia, il delitto compiuti solo per avidità e per piacere. Essi assumono quindi immenso spazio nella letteratura d’intrattenimehto epica e drammatica. Il crimine in sé, naturalmente, è degno di avversione, ma in virtù dell’intreccio storico-culturale, psicologico ed etico in cui si manifesta già acquista un maggior interesse. Gli inglesi da sempre sono maestri in questo genere. Possiamo incontrare un tratto di criminosità già nelle loro antiche ballate. Il teatro precedente e successivo all’età shakespeanana pullulava di simili drammi, tra i quali alcuni – addirittura di autori ignoti, come la tragedia Arden of Feversham191 – si sono conservati a lungo. Più tardi presso gli inglesi è stato il romanzo a incaricarsi di questa missione. Il Paul Klifford, l’Eugen Aram, Dalla notte al mattino ecc. di Bulwer o l’Oliver Twist di Boz sono soggetti di questo genere. Nel Pelham Bulwer ha descritto nel modo più ampio e circostanziato l’aristocrazia più alla moda, ma al tempo stesso la più estrema abiezione del mestiere sistematico di ladro e brigante. Dopo gli


inglesi i francesi a partire dalla Rivoluzione di Luglio si sono compiaciuti di simili temi. La tirannia brillante e la congiura di corte, l’amore e la dissolutezza come galanteria raffinata e come orgia erano stati fino ad allora i loro temi prediletti. Solo con la coscienza della comparsa storica del proletariato sulla scena del mondo si è rapidamente sviluppata anche da loro la tendenza a poeticizzare il crimine e anche qui – per la loro natura sociale – dapprima nel dramma poi nel romanzo. Germain Delavigne, Alfred de Vigny, Alexandre Dumas, Victor Hugo e Eugène Sue sono diventati i classici di questa tendenza, che però include ancora una caterva di quei drammaturghi di secondo e terzo ordine che lavorano per i teatri di boulevard, soprattutto quello della Porte St. Martin e l’Ambigu Comique, come Dumanoir, Pjat, Mélesville e altri. D’Arlington, Il dottore nero, Il patto della carestia, Marie Jeanne, Il mercato di Londra, Il cenciaiolo, I due forzati o il mulino di St. Alberon, Marie Lafarge, La camera ardente, L’uomo dalla maschera di ferro e così via sono tutti drammi orripilanti del genere in cui i contrasti più stridenti mettono in tensione per ore i nervi del pubblico. Stato di necessità che arriva fino alla fame, criminalità per leggerezza ma anche per il calcolo più freddo, barare al gioco, falso in cambiali, omicidio in tutte le forme fino all’avvelenamento e al suicidio, gozzoviglia, efferatezza, furto infantile, incesto, adulterio, tradimento: tutti gli orrori della brutalità sono rappresentati in questi drammi, che in gran parte sono stati adottati anche nel repertorio tedesco. Ma siccome i tedeschi non hanno potuto lasciare questi horreurs in tutta la loro crudezza francese, dalle rielaborazioni sono venuti fuori prodotti ancora più nefasti. Infatti la motivazione infernale di queste azioni sinistre – che in tedesco di solito viene accorciata o addirittura soppressa – conferisce loro ancora, per lo meno, una giustificazione psicologica, e l’estrema ignominia che vi si scorge acquista interesse solo per il modo originale e assolutamente infame di compierla. Abbiamo già dovuto toccare così spesso per singoli aspetti il cosiddetto romanzo sociale della Francia odierna – che sotto il regime della dinastia di Luglio ha prodotto tanti fiori velenosi – che qui ci basta appena menzionarlo. Fortunatamente il prodotto più orribile di questa sfera


letteraria – Il nome di famiglia di Auguste Luchet – a quanto ci consta non è stato tradotto in tedesco. L’infantile avidità dei tedeschi nel tradurre i romanzi inglesi e francesi (nell’ultimo decennio degenerata in un’emulazione scandalosa per una grande nazione) mentre quei romanzi sono ancora in pubblicazione e prima ancora che sia possibile un giudizio sul loro valore etico ed estetico, spiega forse perché noi tedeschi siamo deboli in questo campo. Solo nel romanzo cavalleresco e di briganti anche noi commettiamo pur sempre i crimini più indegni con una certa originalità spontanea, che però è troppo priva di gusto per suscitare l’interesse dei francesi e degli inglesi e per infondergli la voglia di tradurli 192 . Se usciamo dalla sfera della società civile, il crimine diventa estetico, di nuovo, grazie a motivi desunti dai campi superiori dello stato e della religione; con questa motivazione infatti il singolo viene strappato dalla cerchia limitata di impulsi meschinamente egoistici e di casualità subordinate. Materialmente i crimini che vengono commessi sono gli stessi che nella sfera borghese: tradimento, adulterio, violenza, omicidio. Ma poiché prendono origine da situazioni più generali, si acquistano il diritto di una certa necessità, e poiché sono legati alla vita di personalità eminenti, soprattutto di stirpe principesca, che hanno immediatamente a che fare con grandi trasformazioni dello stato e della società, la nostra partecipazione aumenta. Con l’intricarsi delle grandi potenze della vita diventano possibili conflitti che rendono colpevole il singolo ma, nello stesso tempo, non colpevole nel senso della criminalità comune. Qui sono possibili tre casi. Il crimine può venire commesso non come crimine: si tratta di una colpa, ma in quanto è stata commessa, non come crimine. Oppure il crimine può essere commesso con la più perfetta coscienza della sua malvagità. Infine la colpa può consistere nell’innocenza che viene sacrificata alla brutalità. L’esempio più famoso del primo caso è l’Edipo sofocleo, del secondo il Riccardo iii di Shakespeare, del terzo l’Emilia Galotti di Lessing. Siamo così giunti al tragico, la cui natura non abbisognava di una discussione a parte. Il crimine nel primo caso diventa esteticamente possibile perché, pur essendo opera della libertà del


singolo, non è propriamente azione sua. Propriamente, viene compiuto dalla necessità del nesso causale pragmatico e proprio questo toglie al crimine ogni carattere che lo rende personalmente brutto. Nel secondo caso il crimine diventa esteticamente possibile grazie all’esatto contrario, cioè la più perfetta e consapevole libertà. Il malvagio, naturalmente, non può che suscitare orrore in noi per il contenuto del suo agire; ma attraverso la forma del suo agire vediamo il lato formale della libertà – l’autodeterminazione – all’apice del suo virtuosismo. Che un tale scellerato in tutto quanto il complesso delle circostanze, anche attraverso il suo agire ingiusto possa diventare nello stesso tempo, in una diversa relazione, un organo della giustizia divina, non lo renderebbe ancora sopportabile dal punto di vista estetico. Ma la sua intelligenza straordinaria e la gigantesca forza della sua volontà producono un’impressione demoniaca: il virtuosismo della libertà soggettiva in contraddizione col suo contenuto negativo ci fa giudicare – come fece Cristo nella parabola del fattore infedele – che in sé sarebbe degna d’essere imitata. Nel terzo caso il superamento del brutto nel crimine avviene perché purezza, virtù, innocenza gli vengono sacrificate. Qui la bruttezza del crimine appare tanto più orrenda quanto più assedia inutilmente la libertà dell’innocenza. La vittoriosa consapevolezza di sé di quest’ultima è ciò che ci fa respirare liberamente al cospetto del crimine, anche quando esteriormente essa viene distrutta. In questo caso la tragedia esclude da sé qualcosa che ancora è consentito alla rappresentazione epica, perché può accogliere in sé tutta l’ampiezza della mediazione laddove invece il dramma è costretto a procedere in modo epitomatico ed epigrammatico. Vogliamo chiarire con un esempio anche questo punto. Nel poema drammatico I Cenci Shelley ha fatto mostra di un’arte rara per rappresentare una materia ripugnante al massimo con respiro poetico, inadeguato però per il dramma. Il vecchio Cenci, il tiranno dei suoi familiari, viene a sapere durante un banchetto della morte di due figli e ne ringrazia pubblicamente il cielo. Tutti si allontanano con orrore. Il vecchio decide di disonorare sua figlia Beatrice per corromperla nell’anima e nel corpo. Beatrice e suo fratello Giacomo, d’accordo con la


matrigna Lucrezia, lo fanno uccidere dai banditi. L’omicidio viene scoperto e i colpevoli giustiziati. Questo in poche parole il contenuto principale di quella famosa e orribile storia. La materia non è adatta al dramma, non solo per l’innaturalezza – il padre diabolico che vuole disonorare la figlia – ma anche perché solo il racconto è in grado di rappresentare tutte le orribili circostanze concomitanti che avevano reso assolutamente eccezionale la situazione di questi infelici; che avevano fatto dei tormenti con cui il vecchio Francesco martirizzava i suoi un inferno senza pari; che avevano portato alla scoperta e avevano fatto sì che il papa confermasse la condanna a morte di Beatrice, Lucrezia e Giacomo malgrado l’intercessione di tanti romani eminenti e anche di alcuni cardinali. Su questi punti Shelley ha dovuto accontentarsi di allusioni che rendono estremamente affannoso il terzo atto, dove si giustifica la decisione di Beatrice di far uccidere il padre. Per lo stesso motivo neanche la pittura ci può rendere alcuni crimini, accessibili appena alla recitazione epica. Gli antichi hanno lodato il pittore Timomaco per aver saputo dipingere il furore sanguinano della follia di Aiace e di Medea prima di uccidere i figli, così come la rappresenta anche un affresco di Ercolano. I fanciulli siedono giocando a dadi sul tavolo sotto lo sguardo del pedagogo, mentre Medea se ne sta in un canto e lancia occhiate tenebrose, in lotta con se stessa e sguaina la spada nefasta. Se al pittore è concesso di rappresentare una serie di scene che si chiariscono a vicenda, anche a lui sarà possibile una certa epicità, come negli affreschi di Schinkel portati a termine da Cornelius nell’atrio del museo di Berlino, o nella serie di quadri di Hogarth che rappresentano la vita dell’idle e dell’industrious prentice. Si tratta di un romanzo a quadri in cui possiamo capire i singoli momenti attraverso la loro connessione. Seguendo la sua maniera – spingere il caratteristico fino al culmine – Hogarth non ha risparmiato atrocità nella parte che rappresenta il pigro apprendista ed ha dipinto con i colori più crudi la miseria del criminale, come ad esempio nella scena in cui il pigrone giace a letto con una sgualdrina in una soffitta sporca, con un vaso da notte in mezzo ai resti di un pranzo, un gatto che balza per il camino su un topo che scappa via


nella tana, e il pigrone fa un balzo dallo spavento mentre la sgualdrina osserva gli orecchini rubati con un’espressione di gioia e di vanità ottusa. Di solito, quando le teorie estetiche affrontano il concetto di tragico parlano solo della tragedia, ma bisognerebbe includervi anche la rappresentazione epica del tragico, che ha assunto una estensione così grande nella ballata e nel romanzo. È altresì acquisito tradizionalmente che una certa cerchia dell’orrido faccia parte del tragico, mentre esso ha un’estensione molto più grande e varia. A proposito del crimine abbiamo distinto in primo luogo il crimine comune, prosaico per eccellenza, che può a mala pena suscitare interesse grazie alla psicologia più accurata, come ha tentato di fare Auerbach in alcune delle sue Storie di villaggio 193 . In secondo luogo abbiamo distinto il crimine così come nasce dai grovigli della società borghese, dalle passioni dell’egoismo. In terzo luogo il crimine tragico, che trova una parziale giustificazione nelle situazioni pubbliche della società, dello Stato e della Chiesa, giustificazione che non possiamo negare nemmeno ad un Riccardo iii o ad un Macbeth. Quanto più il crimine è amalgamato profondamente con i grandi interessi della società, dello Stato e della Chiesa, tanto più terribile diventa bensì per le sue conseguenze, che coinvolgono migliaia di persone, ma acquista anche in idealità e grazie a questo pathos cessa di essere brutto. Appare meno come intenzione di un egoismo limitato, piuttosto come risultato di un errore che per le circostanze si è imposto all’eroe, come in Fiesco, Wallenstein, Macbeth, Pugatscef’ 194 ecc. Dal punto di vista materiale i crimini della tragedia alta sono gli stessi che nella sfera del comune dramma borghese: si tratta sempre di rapina, omicidio, adulterio, tradimento. Ma perché nel primo caso sembrano nobili? O, se l’espressione è eccessiva, perché sembrano in ogni caso rispettabili? Perché il furto di una corona è pur qualcosa di diverso dal furto di un paio di cucchiai d’argento? L’unico motivo, chiaramente, è che la natura dell’oggetto rende necessario un pathos totalmente diverso e, coinvolgendo una lotta per la vita o per la morte, ci trasferisce in relazioni che non possiamo avere con le meschine passioni private. Ciò che nel crimine è l’immorale non può essere volto in comico quando


non si astragga in misura maggiore o minore dal suo significato etico e non se ne rappresenti il verificarsi da altri punti di vista. Occorre sottolineare soltanto l’elemento intellettuale, come quando ad esempio la menzogna compare come esagerazione della fantasia sbrigliata, come menzogna dettata dal bisogno, come birichinata e scherzo: in questo caso le viene preventivamente sottratta la gravità dell’elemento etico e ce ne dilettiamo esclusivamente dal lato intellettuale. Il soldato millantatore come compare in Plauto e in Terenzio non compie alcun crimine allorché, soggetto in sé molto inoffensivo, ci diverte con la balorda invenzione delle sue smargiassate, che contraddicendosi si giudicano subito da sole. La menzogna è e resta immorale, ma in quanto buffonata inoffensiva com’è anche in un Falstaff, un Münchhausen e figure analoghe, diventa ridicola. Con felice invenzione Benedix 195 ha basato una commedia – La menzogna – sul fatto che un uomo molto amante della verità che sorprende la fidanzata a pronunciare qualche menzogna da femmina, alla fine proferisce per puro capriccio, per provare anche lui una volta a mentire, una menzogna all’apparenza assolutamente inoffensiva. Ma quel nonnulla – dice di essere andato a cavalcare in un boschetto, la sera, in groppa ad un cavallo bianco – produce le conseguenze più amare, tanto che lo si vuole addirittura mettere in galera. A questo punto lui assicura di avere solo inventato quella cavalcata per vedere se veramente il mentire sia proprio quell’arte che si dice: solo che, siccome lo si è sempre conosciuto come l’amico più fedele della verità, all’inizio non si vuole assolutamente credere che stavolta abbia mentito davvero. Se qualcuno mente per leggerezza, senza l’intenzione di recar danno ad altri, come nella commedia di Schmidt Il bugiardo a cuor leggero, la menzogna appare più come qualcosa di naturale che non come una deficienza morale. Diventa quello che chiamiamo vizio caratteriale. Per essere comico il tradimento va trattato come la menzogna: come birbonata sleale. L’intrigo gioca un tiro per prendere nelle sue reti la debolezza e la boria, la falsa coscienza di sé e l’ipocrisia. Quando Madame Orgon nasconde suo marito sotto il tavolo e si mostra apparentemente ben disposta alle sfacciate profferte dell’ipocrita Tartufo per convincere il consorte dell’infamia dell’ipocrita


bacchettone, noi ci rallegriamo eticamente ed esteticamente di vederlo smascherato. Vecchi tutori che in vista del patrimonio vogliono costringere alle nozze le loro giovani e belle nipoti, come il dottor Bartolo nel Barbiere di Siviglia, meritano di essere come lui beffati e contro l’avido vecchio noi simpatizziamo subito con tutte le astuzie che gettano il disonore sulle sue spregevoli macchinazioni. L’adulterio, se è autentico adulterio, non consente alcun trattamento comico, ma solo tragico 196 . In una infinità di brevi storie medievali, contes francesi, novelle italiane 197 , celie tedesche l’adulterio è stato rappresentato solo nel suo aspetto intellettuale, cioè per superare gli impedimenti che ostacolano gli amanti. Il momento etico è completamente ignorato, e certamente quest’astrazione rende possibile la comicità. Certo, Kotzebue nella commedia Misantropia e pentimento ha rappresentato l’adulterio in un modo che non è né comico né tragico. Per come va empiricamente il mondo, lo perdona... per via dei figli. Meinau e Eulalie si rivedono dopo quattro anni. Il loro abboccamento si conclude con l’impressionante decisione di separarsi di nuovo. Accorrono i bambini – questi veri eroi di Kotzebue – e riuniscono padre e madre. Qui Kotzebue non ha fatto che esprimere un fatto tristissimo, ma molto consueto: che molti matrimoni interiormente finiti sarebbero spezzati anche esteriormente se il pensiero di avvelenare il senso di pietà nei bambini con la confessione pubblica della colpa non tenesse uniti i genitori in una tollerabile unione apparente. È stata incontestabilmente questa motivazione, di mitigare la rassegnazione tragica, ciò che ha guadagnato a questa rappresentazione un successo senza precedenti in tutta Europa, facendo addirittura diventar di moda tra le signore i cappellini alla Eulalie. L’omicidio, infine, può essere comico solo come parodia. Viene reso un gioco buffonesco: in tempi recenti abbiamo sentito rammentare molto questi fatti truculenti, raccapriccianti nei “Fliegende Blätter” di Monaco, nei “Musenklänge aus Deutschlands Leierkasten”, nei “Düsseldorfer Monatshefte” ecc. Se il termine non fosse ancora troppo benevolo, li si potrebbe definir tragicomici.


b. Lo spettrale – Per sua natura la vita sfugge la morte. Abbiamo già trattato del morto. Esso diventa spettrale allorché, contro natura, riappare come vivente. La contraddizione per cui il morto sarebbe tuttavia ancora vivente costituisce l’orrore della paura degli spettri. La vita morta in quanto tale non è spettrale: possiamo vegliare imperturbabili accanto a un cadavere. Ma se un alito di vento ne muovesse il sudano o il vacillare del lume ne rendesse incerti i tratti, allora l’idea pura e semplice della vita nel morto – un pensiero che forse al di fuori di questa situazione ci può essere assai caro – in primo luogo avrebbe in sé qualcosa di spettrale. Per noi con la morte l’aldiqua finisce; l’apparire dell’aldilà attraverso un trapassato ha il carattere di spaventosa anomalia. Il morto, appartenente all’aldilà, sembra obbedire a leggi che noi non conosciamo. Con l’orrore di fronte al morto in quanto essere preda della decomposizione, con la venerazione per il morto come essere consacrato si mescola l’assoluto mistero del futuro. Per i nostri scopi estetici dobbiamo pensare separatamente ombra e spettro, analogamente a quanto facevano i romani per Lemuri e Larve. L’idea di spiriti che appartengono originariamente a un altro ordine ha certamente in sé qualcosa di straordinario e di raccapricciante, ma nulla di spettrale. Demoni, angeli, coboldi sono così come sono fin dall’inizio, non sono diventati così con la morte. Stanno al di sopra delle ombre. Tra lo spettro e il vivente si colloca l’idea particolare del vampirismo. Il vampiro viene rappresentato come un morto che a periodi abbandona il sepolcro con una vitalità apparentemente completa per afferrare la vita giovane e calda e succhiarle il sangue. Il vampiro è già morto, eppure, contro la sua natura di morto, ha ancora voglia di nutrirsi, e di vita fiorente. La sposa di Corinto di Goethe, il racconto di Byron e l’opera di Marschner Il vampiro 198 hanno reso abbastanza nota anche da noi questa fantasia sepolcrale. Come leggenda, è la stessa tra i popoli greci e serbi, ed equivale alla leggenda dei lupi mannari (loups garoux) nei popoli romanzi. Nelle novelle delle Mille e una notte compare anche l’immagine di uomini che bramano cibarsi di cadaveri, di satollare dunque la vita con la corruzione della morte: sono i cosiddetti Gulen. Queste Lamie orientali sono ancora più ripugnanti dei vampiri, perché


ancora più innaturali. Il morto che appare come semplice ombra può fare un’impressione di estraneità, ma non è affatto necessariamente brutto. Nell’essenziale può avere la stessa figura che aveva in vita, solo che si perde un po’ nel pallore e nell’assenza di colore. Nei Persiani di Eschilo l’ombra di Dario risale dagli Inferi per lamentarsi, e quando appare di fronte al coro e ad Atossa il poeta fa dire al coro: «II terrore m’assale a vederti | il terrore m’assale a sentirti | o vecchio re onorato!», ma non c’è parola che lasci intendere che vi sia qualcosa di ripugnante nell’apparizione in quanto tale. Lo stesso avviene con le ombre che nell’Odissea dall’Ade si assiepano sulla fossa sacrificale di Odisseo. Lo stesso per l’ombra di Samuele che l’evocatrice di morti di Endos fa apparire a Saul. In un’osservazione, assai importante per il nostro tema, sul “Sepolcro della danzatrice” 199 Goethe ha discusso in modo così eccellente la natura dell’umbratile, del lemurico, che non possiamo fare a meno di citare il brano che segue. Si tratta di tre tavole, una trilogia ciclica. «L’artistica fanciulla compare in tutte e tre. Nella prima per incantare gli ospiti di una persona facoltosa invitandoli a godere in modo elevato la vita; la seconda la mostra mentre continua stentatamente le sue arti nel Tartaro, nella regione dove regna la corruzione e la semidistruzione; la terza la mostra, in apparenza di nuovo come prima, giunta all’eterna beatitudine delle ombre». La prima tavola rappresenta la danzatrice in un banchetto, nel ruolo di fanciulla bacchica, che suscita ammirazione in ogni età. La seconda tavola la coglie nel momento di passaggio al mondo degli Inferi. Mentre nel primo l’artista ci appariva piena e ricca di vita, esuberante, in movimento, graziosa, ondeggiante e fluente, ora la vediamo nel triste regno dei lemuri, il contrario di tutto ciò. Si tiene sì su una gamba, ma preme l’altro piede alla coscia della prima, come a cercare sostegno. La mano sinistra poggia sull’anca, come se per se stessa non avesse forza sufficiente: troviamo qui l’inestetica forma a croce, le membra seguono una forma a zig-zag, e all’espressione deve contribuire anche il braccio destro sollevato che si muove in una posizione che doveva essere, altrimenti, graziosa. La gamba che poggia sull’altra, il braccio che si sostiene all’anca, le ginocchia serrate, tutto esprime lo stazionario, il mobile-immobile: un’autentica immagine dei tristi lemuri, ai quali rimangono ancora tendini e muscoli quel tanto che basta per muoversi a stento, per non apparire del tutto come diafane carcasse e stramazzare a terra. Ma anche in questa infausta situazione l’artista non può che avere ancora un effetto vivificante, piacevole ed artistico sul suo attuale pubblico. Il desiderio della


folla che accorre, il plauso che gli spettatori silenziosi le dedicano qui sono simboleggiati con molta delicatezza da due figure semispettrali. Ogni figura per sé e tutte tre insieme si compongono in un eccellente effetto unitario, in un’unica espressione. Che significato? Che espressione? L’arte divina che sa nobilitare ed elevare tutto è anche capace di non rifiutare l’infausto, l’atroce. Proprio qui vuole esercitare con forza la sua maestà, ma per farlo ha un’unica via: non può padroneggiare il brutto, se non trattandole in maniera comica. Così, Zeuris rise fino a morime sulla sua Ecuba raffigurata coi tratti più brutti. Se si riveste questa presenza di lemure mostruoso con la giovanile pienezza dei muscoli femminili si vedrà apparire una di quelle positure comiche con cui Arlecchino e Colombina hanno saputo a lungo rallegrarci. Si proceda ora allo stesso modo con le due figure laterali e si troverà che qui si allude alla plebe che soprattutto è sedotta da rappresentazioni del genere [...]. Mi si perdoni se sono stato più prolisso di quanto forse era necessario, ma non capita sempre di vedere, e proprio al primo sguardo, questo antico tratto di genio umoristico; con esso, con la sua magica forza, un’arlecchinata lemurica si inserisce tra una commedia umana e una tragedia di spiriti, e il ridicolo tra il bello e il sublime. Confesso volentieri, del resto, che non mi è facile trovare qualcosa di più ammirevole della coesione estetica di queste tre situazioni, che contengono tutto ciò che l’uomo può sapere, sentire, fantasticare e credere sul suo presente e sul suo futuro [...]. L’ultima immagine, come la prima, si esprime da sé. Caronte ha trasportato l’artista nel regno delle ombre e già si guarda alle spalle, se ci possa essere qualcuno sull’altra sponda da andare a riprendere. Una divinità propizia ai morti e che perciò espleta il suo ufficio nel regno dell’oblio guarda con piacere una pergamena con la lista dei ruoli in cui l’artista fu ammirata in vita. Cerbero tace al suo cospetto, ella ritrova nuovi ammiratori, forse quelli d’un tempo che l’hanno preceduta in queste nascoste regioni. Non le manca nemmeno un’ancella: anche qui ce n’è una che la segue e continuando le funzioni di un tempo ha pronto lo scialle per la sua padrona. Le immagini di contorno sono raggruppate e disposte in modo meraviglioso e significativo e tuttavia, come nelle tavole precedenti, fanno solo da cornice all’immagine vera e propria: la figura che qui come altrove compare come figura decisiva. Qui essa appare piena di forza, in un movimento da Menade che potrebbe ben essere l’ultimo e concludere la rappresentazione bacchica: al di là, non c’è che deformazione. Nell’entusiasmo dell’arte che anche qui la anima, l’artista sembra sentire la diversità dello stato attuale rispetto a quello che ha appena lasciato. Positura ed espressione sono tragiche, e qui potrebbe altrettanto bene rappresentare una persona disperata o agitata potentemente dal Dio. Così come nella prima tavola sembrava stuzzicare gli spettatori sottraendosi intenzionalmente ad essi, così qui è realmente assente; i suoi ammiratori le stanno di fronte, l’applaudono, ma lei non presta attenzione, rapita a tutto il mondo di fuori, completamente immersa in se stessa. E così conclude la sua rappresentazione con una disposizione d’animo muta, ma chiara a sufficienza nella pantomima, e veramente pagana, che condivide con l’Achille dell’Odissea: meglio essere tra i vivi un’ancella che porta lo scialle che l’artista più eccellente tra i morti. 200 Come dice già il suo nome, l’ombra è inafferrabile. È bensì visibile e udibile, ma non si può prendere e quindi non è turbata dai limiti materiali. Va e viene ovunque e dal punto di vista temporale ha un tenue legame con l’oscurità ad essa favorevole della notte. La rappresentazione a


tinte fosche vi rispecchierà l’elemento sepolcrale: le ballate hanno una particolare predilezione per gli scheletri e i panni mortuari ma a volte – ad esempio nella Lenore di Bürger 201 – fanno comparire l’ombra nella forma apparente della piena realtà. In tutti i popoli i colori acromatici nero, bianco e grigio sono i colori del mondo delle ombre, giacché tutti i colori veri appartengono alla vita, al giorno e al mondo. L’ombra diventa spettro, larva, quando ancora c’è una connessione etica che la lega al mondo dell’aldiqua e la riporta quindi indietro, nell’interesse della storia, dal mondo dell’aldilà, dove doveva trovar pace, negli affari di questo mondo. Può trovare assoluta, libera quiete e beatitudine solo lo spirito che ha superato la storia. Quando l’uomo non ha ancora vissuto fino in fondo la sua storia la fantasia lo fa ritornare indietro dalla tomba affinché compia il suo dramma nel mondo dei vivi. Non riserva all’epoca imprecisata d’un Giudizio Universale il compito di regolare ciò che resta della sua storia, ma lo risolve già qui, come giustizia poetica. Il morto ha fatto qualcosa o qualcosa gli è stato fatto, qualcosa di iniziato che bisogna portare a termine, o una colpa da scontare. Esteriormente la morte l’ha distolto dal contesto storico ma l’unità della necessità interiore ancora non lo lascia ed esso riappare per cercare il suo diritto, la sua espiazione. Di notte, quando il sonno avvolge i vivi, sguscia fuori dal grembo della terra – che non può tenere sempre celato quest’essere che ancora non è stato giudicato – e si avvicina al letto di quelli che sognano o sono nel dormiveglia. Mostra alla moglie o al figlio la ferita insanguinata infertagli, lontano da loro, da una mano perfida; tormenta l’assassino imponendogli il tormento della propria vista; esige dai suoi familiari vendetta per l’offesa subita; fa cenno di seguirlo in posti dove ha lasciato per i viventi segni importanti o tesori; oppure rivela anche crimini che ha commesso in segreto e supplica – per scioglierlo dalla sua colpa – di aiutarlo a fare penitenza. Il morto infatti è ormai incorporeo e senza forza: timoroso della luce, non può più intervenire di persona nella realtà del giorno, può solo supplicare, chiedere, implorare che nemmeno da morto gli venga meno la giustizia e l’amore da parte dei vivi. Lo spirito del morto può mettere di fronte al vivente la colpa che ha commesso in modo


assolutamente silenzioso, come fa l’ombra di Banquo sedendosi alla mensa di Macbeth, oppure può parlare con voce rimbombante come il padre di Amleto, ecc. Cos’è dunque lo spettro? È il riflesso della coscienza della colpa, l’inquietudine della propria dissonanza interiore che si proietta nell’immagine dello spirito che ci molesta: come quel pittore che spiritosamente ha dipinto il mandato di cattura come sosia dell’assassino a cui dà la caccia. L’omicida fugge nell’oscurità della notte; gigantesco, il mandato di cattura lo segue ma, se lo si guarda più dappresso, non è a sua volta che l’omicida stesso, è il riflesso infinito della sua colpa: l’omicida fugge da se stesso e scrive lui stesso il mandato. Questo momento etico dà allo spettrale la sanzione ideale; nella sua umbratilità esso deve tuttavia far sentire il peso di quella necessità che riposa nell’eterno fondamento delle potenze morali. Nello spettro deve manifestarsi un interesse che sta al di là di ogni opinione, scherno e attentato da parte del vivo: l’altezza in cui si colloca lo spettro del Commendatore ucciso di fronte a Don Giovanni, criminale per leggerezza. Perciò la rappresentazione dello spettrale è straordinariamente ardua. Nella Drammaturgia (x-xii) 202 Lessing ha fornito la teoria estetica dello spettrale. Una nativa disposizione a credere agli spettri c’è in tutti noi, massime in coloro per cui il poeta drammatico scrive. Dipende soltanto dalla sua arte far germogliare queste disposizioni, dipende solo da certi accorgimenti, se riesce a tratteggiare rapidamente e a dare vivacità, rendendone credibile la realtà. Se è capace di questo, qualunque cosa crediamo nella vita di tutti i giorni, a teatro siamo costretti a credere a quel che vuole lui. A questo punto Lessing contrappone Voltaire e Shakespeare. Il primo non avrebbe colto la natura dello spettro, il secondo l’ha esattamente intesa e magistralmente rappresentata, in ciò, secondo Lessing, quasi unico e solo. Nella Semiramide Voltaire aveva fatto uscire dal sepolcro l’ombra di Nino in pieno giorno, in mezzo a un’assemblea delle classi del regno, accompagnata da un tuono. Dove ha mai sentito Voltaire che gli spettri siano così arditi? Qualunque vecchia signora avrebbe potuto dirgli che i fantasmi rifuggono la luce del sole e non visitano per niente volentieri i grandi


assembramenti. Del resto, Voltaire lo sapeva sicuramente, ma era troppo timoroso e schifiltoso per utilizzare queste circostanze comuni: voleva mostrarci uno spettro, ma doveva essere uno spettro di genere più nobile, e così ha rovinato tutto. Lo spettro che si permette cose contrarie ad ogni usanza, contrarie a tutte le buone costumanze degli spiriti, mi pare che non sia un vero spettro; e tutto quanto non agevola l’illusione, qui la disturba. Lessing si limita al confronto tra Nino e il padre di Amleto. Egli nota con finezza che il fantasma di quest’ultimo non opera tanto per se stesso, direttamente, ma attraverso il modo in cui Amleto ci descrive l’effetto che l’apparizione ha su di lui. Lo spirito di Nino ha lo scopo di impedire l’incesto e vendicarsi della sua morte. C’è soltanto in qualità di deus ex machina, mentre il padre di Amleto è un personaggio che agisce veramente e al cui destino noi partecipiamo, che suscita orrore, ma anche compassione. Secondo Lessing l’errore principale di Voltaire sta nel fatto che egli intende l’apparizione dello spirito come un’eccezione alle leggi dell’ordine del mondo, un miracolo, mentre Shakespeare vi scorge un avvenimento del tutto naturale, «giacché è indiscutibile che è molto più conveniente alla natura dell’Essere sapientissimo non aver bisogno di queste vie straordinarie e che noi pensiamo la glorificazione del bene e la punizione del male inserite nella catena ordinaria delle cose». E ciò che abbiamo voluto indicare prima dicendo che solo la necessità delle eterne potenze morali può dare allo spettrale la sanzione ideale. L’impulso che è proprio dello spirito deve spezzare dall’interno le barriere del sepolcro. Possiamo ben permetterci, però, una piccola osservazione contro Lessing. Qui egli non ha distinto tra ombra e spettro. Non ha pensato al fatto che lo spirito di Banquo si siede a tavola, e vi si siede in pieno giorno: e nello stesso poeta che egli loda – a ottimo diritto del resto – come il maestro nel descrivere l’orrore presente nello spettrale. Egli rimprovera come sconvenienza il fatto che Voltaire faccia apparire uno spettro agli occhi di una gran massa di gente. «Scorgendolo, tutti quanti debbono esprimere paura e terrore, insieme e in modo diverso, se la scena non deve avere la fredda simmetria di un balletto. Ora, ci si provi una volta ad addestrare a questo un gregge di stupide comparse; e quand’anche si siano addestrate nel modo migliore si rifletta quanto debba spezzare l’attenzione quest’espressione diversificata dello stesso affetto, distogliendola dai


personaggi principali. E se a questo punto Lessing avesse pensato al fantasma di Dario nei Persiani di Eschilo? Non appare forse a tutto il coro oltre che ad Atossa? Ma Dario appunto non appare come uno spirito; non si parla affatto di colpa tra lui ed Atossa: essa vuole soltanto lamentare presso di lui, il grande re, l’incommensurabile sventura. Lo spettro – e qui Lessing ha ragione – si rivolge solo ad uno o a pochi personaggi perché ha con loro un rapporto preciso. Con profonda psicologia Shakespeare ha tenuto costantemente conto di questa relazione esclusiva. Amleto vede lo spirito del padre, la madre no. Banquo viene visto da Macbeth, non dagli ospiti. Uno dopo l’altro, tutti si allontanano dalla tenda di Bruto; rimane solo un fanciullo, ma è vinto anche lui dal sonno; Bruto è solo, e allora a lui, l’omicida, appare lo spirito di Cesare quando albeggia il giorno della battaglia decisiva. Se la natura etica ed eterea dello spettrale viene maneggiata con goffaggine cade ad un livello inferiore, il genere delle apparizioni di fantasmi prediletto dai romanzi tedeschi di cavalieri e briganti: Pantolino o lo spaventoso fantasma di mezzanotte, Don Alojso o l’apparizione improvvisa al crocevia, ecc. Mediamente si tratta di un genere assurdo sia per contenuto sia per forma. Il fantasma si fa beffe dei vivi con cose inquietanti, assurde, che civettano più che essere veramente in connessione con l’aldilà. La nostra scuola romantica ha fatto degenerare lo spettrale soprattutto in questa direzione. Le sciocchezze più strane, l’insulsaggine più ridicola passavano per geniali. Per conseguenza era possibile tener fermo all’elemento etico – quando ancora ci si pensava – solo in quanto lo si assimilava al fatalismo e quindi sempre solo in una forma orrenda e repellente, come ad esempio il dito infantile mozzato nella Famiglia Schroffenstein di Heinrich von Kleist. Quando nell’Orestea Clitennestra appare col pugnale nella ferita infertale dal figlio, si tratta di un fantasma che sconvolge per la sua verità; quando però come in Febbraio di Werner 203 , il fantasma deve essere di nuovo ucciso con un coltello perché è già stato ucciso una volta con quello, si tratta di un nesso irragionevole, che appartiene al genere inferiore della letteratura sui fantasmi. Perciò questa tendenza ha una grande predilezione per


bambole, schiaccianoci, automi, figure di cera ecc. Lo schiaccianoci di Hoffmann 204 si tirò dietro tutta una serie di figure analoghe, così che nel Münchhausen Immermann ancora poteva inserire una loro satira con le fanfaronate del grosso Ruspoli. Quanto più questi casi diventavano vuoti e senza contenuto tanto più venivano presi, spesso, per fantastici. Era una fortuna che però si trovassero già elaborati dalla fantasia polare certi elementi, in cui almeno il lato pauroso del fantasma era concepito più correttamente e messo in accordo con l’idea. Per un intero periodo Arnim impose la moda dei Golem205 , figure di fango che acquistano una parvenza di vita grazie ad un foglietto attaccato alla fronte, con proverbi del principe degli spiriti Solomo. Ma il vertice in questo campo l’ha raggiunto la moglie di Shelley in un voluminoso romanzo che si intitola Frankenstein, o il moderno Prometeo 206 . Esso merita qui di essere menzionato, tanto più che vi è anche elaborata in modo interessante l’idea del brutto. Uno scienziato ha perfezionato con immense fatiche un automa dalle sembianze umane. È giunto il gran momento in cui la macchina deve diventare automa, vedere, sentire, parlare, muoversi. È uno spettacolo che il suo creatore non ha la forza di sopportare: si rifugia nella sua camera da letto e qui si addormenta, malgrado la tensione febbrile per la stanchezza. Quando finalmente si risveglia e torna nel laboratorio, lo trova vuoto. Nel frattempo l’automa è davvero diventato vivo e, come un uomo perfettamente formato, ha velocemente percorso tutta la scala delle sensazioni così come la descrive Condillac nella sua famosa statua senziente. Alla luce lunare, con un abito di Frankenstein, esce dalla camera all’aperto e si perde nella solitudine dei monti, nel folto dei boschi, evitato dagli uomini ed anche dagli animali, essere eterogeneo per antonomasia. Benché secondo l’intenzione del suo creatore sia stato fatto non solo forte ma anche bello, come essere vivente ha l’aspetto di un mostro ripugnante. Il movimento della vita ne sfigura in modo spettrale tutte le forme e i tratti. Alla fine, mostra interesse per la famiglia di un predicatore che vive isolata, e la osserva di nascosto. Nasce in lui il bisogno di esprimere la propria simpatia ed egli lo fa trasportando nottetempo della legna. Un mattino, all’inizio dell’inverno, ci si accorge


del mostro benefico, che standosene nascosto a spiare ha imparato a leggere, oltre che a parlare, ma si ha paura di lui, la casa brucia e tutti fuggono nella notte. Qui ci asteniamo da ogni critica psicologica: benché Mrs. Shelley abbia basato l’opera proprio sulla psicologia, e con molta circospezione, a un’opera che fin dall’inizio si basa sulla finzione e la cui storia ha piuttosto carattere simbolico non spetta una riflessione più seria sui nessi causali. Perciò tacciamo anche delle altre manchevolezze estetiche e proseguiamo col nostro resoconto. Da una lettera nell’abito di Frankenstein che aveva indossato quando era scappato, il mostro viene a conoscenza – a che scopo altrimenti avrebbe imparato a leggere? – del segreto della sua nascita. Un sentimento di vendetta verso il suo creatore, che l’ha fatto così miserabile, lo spinge ad ucciderne il figlio. Sui monti si incontra, solo, con lo stesso Frankenstein, lo rinchiude in una capanna e gli estorce la promessa di creargli un essere femminile, ugualmente brutto per essere adatto a lui, in caso contrario ucciderà tutti i suoi cari. Il moderno Prometeo si rimette al lavoro ed è già prossimo un’altra volta a compiere l’opera allorché sorge in lui lo spaventoso pensiero che creando la femmina darà forse vita a un’orribile razza. Poiché sa di essere sorvegliato durante il lavoro dagli occhi investigatori del mostro, che lo spiano di nascosto, esplode in lui una furia infinita durante la quale distrugge di nuovo la sua creazione, mette i pezzi dell’automa in una cesta, poi in un battello e prende il largo da solo. Qui affonda la sua opera, ma nel far questo ha la sensazione di compiere un crimine, benché si tratti solo di una donna meccanica. Più avanti, in un finale molto fantastico, che però qui non ci interessa, il mostro uccide l’amata di Frankenstein e poi si perde nella nebbia del Nord. Questa composizione confusa, femminilmente enfatica, ha qualcosa di acuto e profondo che la rende attraente. Quando vuole rivaleggiare con l’atto miracoloso del creatore il prodotto più maturo della tecnica umana diventa, proprio nell’ottenere artificialmente la vita, un mostro che sente l’estrema miseria del suo isolamento assoluto, di non avere affinità naturale con nessun altro essere. Proprio nel momento in cui Frankenstein si avvicina al trionfo nel suo faticoso lavoro, trema di fronte a ciò che ha creato: la


prima volta se ne allontana, la seconda lo distrugge. E nella distruzione prova paura, non solo delle conseguenze per lui: rabbrividisce come se commettesse un omicidio. E con questa sensazione che termina qui la descrizione del genere dei fantasmi. Essa non consiste solo nel fatto che i morti si muovono come se fossero vivi, ma soprattutto nel fatto che cose morte – manici di scopa, coltelli, orologi, quadri, bambole – diventano vive, e una potenza superiore esiste oramai solo per il fatto che risuonano suoni strani, che racchiudono rari, inconsueti, impronunciabili misteri. Se ancora è presente una certa connessione etica, come nella Mendicante di Locarno di Kleist – dove in certi momenti dall’angolo di una stanza esce un rantolo acuto perché una volta si è fatta languire lì una povera mendica e da quel momento, alla stessa ora, il gemito della morte si fa sentire come per sollecitare alla compassione – ciò è ancora troppo razionale. Solo il suono del tutto privo di contenuto, evanescente, è veramente romantico per questi romantici alla Hoffmann, così come il loro fiore non è la rosa o la mammola, ma “il fiore azzurro”. Quanto più astratto, tanto più enigmatico. La moglie di Shelley ha realmente, allora, fantasie più profonde. Come è grande l’idea che fa balenare a Frankenstein che la nuova razza a cui egli darebbe esistenza costituirebbe per sempre la base, nella specie umana, di un insanabile dissidio, cioè tra l’uomo naturale creato da Dio e l’uomo artificiale costruito col calcolo! Come è profondamente motivata la necessità che all’uomo brutto sia di conseguenza attribuita una donna brutta e quindi il brutto sia posto come norma, come ideale della specie! È superfluo stare a dimostrare in dettaglio come il genere dei fantasmi possa facilmente diventare comico: è una canzonatura abbastanza frequente quella della satira rivolta contro le visioni di spettri 207 . Ma l’arte ha utilizzato spesso, anche al di fuori della satira, lo spettrale e il genere dei fantasmi per allestire gli intrecci più ridicoli: la canzone finale del Don Giovanni di Byron ne dà la rappresentazione più elegante, la più consequenziale dal punto di vista scenico e psicologico. Don Giovanni è deciso a vedere il monaco, la cui ombra abita nel castello. Una stanza gotica arredata all’antica, chiaro di luna, due pistole sul tavolo,


mezzanotte, strani sussurri nel corridoio; si avvicina: è lui, il monaco! Due occhi di fuoco guardano da un cappuccio. Don Giovanni sobbalza, il monaco si dilegua nel corridoio più buio, il cavaliere l’insegue, afferra il fantasma, lotta con lui e: Lo spirito – se spirito era – sembrava l’anima più soave mai rannicchiatasi dentro un cappuccio. Un mento colla fossetta e una gola d’avorio mostravano qualcosa che somigliava assai a una creatura di carne e sangue. La tunica nera e la cocolla alfine caddero e allora – era mai possibile? – lo spirito si rivelò col seno rigoglioso e i polpacci bene in carne come la pazzerella Sua Grazia, duchessa di Fitz-Fulke. c. Il diabolico (il demoniaco, lo stregonesco, il satanico) – Abbiamo preso in considerazione il male anzitutto come criminoso. Come puro atteggiamento negativo, senza esprimersi simbolicamente in una figura deforme o oggettivamente in un’azione, non diventerebbe soggetto estetico. Abbiamo tuttavia scelto di chiamarlo criminoso, anche perché voleva indicare che attraverso un affetto ibrido, attraverso la passione, attraverso il conflitto delle circostanze l’uomo può farsi trascinare a un’azione malvagia senza per questo essere in tutto e per tutto né sostanzialmente cattivo in sé, né diabolico. Edipo, Oreste, Medea, Otello, Karl Moor 208 ecc. compiono crimini senza che si possa attribuire loro malvagità, piacere del male. Al delittuoso abbiamo fatto seguire lo spettrale perché esso, essenzialmente, è mediato da qualche nesso con la colpa. L’abbiamo distinto dal regno dei démoni e l’abbiamo anche distinto dal regno delle ombre in genere. L’apparizione di uno spirito, come lo spirito della Terra nel Faust di Goethe, o di un’ombra, come quella di Dario nei Persiani di Eschilo, può suscitare orrore ma nello stesso tempo essere di sublime bellezza. L’ombra diventa spettro quando un morto non ha ancora esaurito nella vita la sua storia, quando dunque è ancora inviluppato nel pragmatismo della continuazione. Per prudenza ci siamo serviti anche qui di una determinazione più comprensiva per non escludere quelle apparizioni che non sono direttamente suscitate dal male. Dal male, cioè, come qualcosa di inerente ad esse: lo stesso Banquo ad


esempio non è cattivo o delittuoso, eppure appare. Abbiamo sottolineato l’assenza di quiete nel morto, che un qualche interesse importante rimanda nell’aldiqua. Quando lo spettrale diventa fantasma, non per questo entra nell’ambito del male, ma piuttosto in quella regione dell’assurdo che abbiamo preso testé in considerazione. Lo spettrale come riflesso della disarmonia interiore può diventare esteticamente bello appunto perché suscita, come dice giustamente Lessing, orrore e tuttavia compassione. In quanto connesso all’idea della morte, della corruzione, della colpa, del male, suscita in noi orrore, è repellente; ma in quanto legato agli interessi etici e in quanto rappresenta la dignità della giustizia che continua a reclamare i suoi diritti anche oltre la morte, viene liberato nello stesso tempo dal brutto, come mostra in modo incomparabile la figura umbratile del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart. Indiscutibilmente la follia ha in sé, nel suo vaneggiare, qualcosa di spettrale. All’inverso del morto, il folle è estraniato in un’idea. Cioè lo spettro torna dall’aldilà all’aldiqua, compiendo l’enorme balzo dall’uno all’altro regno, mentre il pazzo vive ancora ma la sua follia lo sottrae alla realtà, è patologicamente morto agli interessi vitali della realtà positiva. L’incommensurabile grandezza di Shakespeare, che ha scrutato a fondo il cuore umano in tutte le sue altezze ed abissi, ci fornisce anche qui gli esempi più puntuali. La sua Lady Macbeth, che di notte s’alza dal letto e sonnambula vuol lavar via dalla piccola mano le macchie di sangue, è un’apparizione vicinissima allo spettrale, che ci fa raggelare il sangue nelle vene. Coscienza della colpa, sonnambulismo, iniziale disfacimento dello spirito si mescolano qui in un effetto di immensa potenza. Quando il suo Re Lear, con una corona di paglia, appoggiandosi a un ramo pronuncia in aperta campagna discorsi da folle, fa una impressione spettrale. Ma in queste scene c’è pur sempre razionalità, per la forte connessione in cui sono inserite. Il fantasma invece diventa insulso e inquietante. Sarebbe tuttavia molto unilaterale negare anche ad esso la sua giustificazione estetica. Anche nel fantasma la fantasia ha saputo raggiungere una meravigliosa bellezza, in parte nelle favole popolari e in parte nelle creazioni artistiche di grandi maestri, come nelle splendide leggende Il


biondo Egberto, Il monte delle Rune, Il boccale, nel Phantasus di Tieck. Questo sviluppo chiarisce bene la falsa unilateralità di quella determinazione concettuale che identifica il brutto con lo spettrale e questo a sua volta con il male. Nella sua teoria Weisse si è fatto trascinare dalla rappresentazione dell’inferno nella fantasia religiosa dei popoli all’errore di vedere negli abitatori dell’inferno (nei diavoli) i veri spettri: cosa illegittima esteticamente. Le figure di questo abisso sono gli spettri, che simulano un’esistenza autonoma o oggettiva, svincolata dalla soggettività della fantasia e grazie a questa menzogna minacciano di trascinare giù nello stesso abisso di abiezione gli spiriti finiti a cui appaiono dispiegandosi in una infinita particolarità 209 . Pertanto attributo generale del brutto è di essere un che di spettrale e perturbante, espressioni queste che si possono contrapporre alla natura misteriosa o familiare della bellezza. Come natura spettrale, il brutto penetra in tutte le forme di bellezza guastandole perché al posto del loro vero significato – che ad ognuna assegna la sua specifica collocazione dialettica – sostituisce l’impulso senza contenuto della fantasia che si mette al posto dell’Essere supremo. Poiché del resto questo uscire della fantasia spettrale dalla sfera del suo errore, cioè a dire della sua nullità, è una frantumazione delle forme nelle quali sta essenzialmente l’idea della bellezza, la ragione ultima e sufficiente di quest’evento non va ricercata all’interno, ma all’esterno e al di là di quest’idea, cioè nella sostanza e nel concetto di male. Non solo non abbiamo nulla in contrario, ma siamo del tutto d’accordo a vedere nel male la menzogna assoluta, e quindi anche un momento di spettralità, ma assumere lo spettrale solo come menzogna e il brutto solo come spettrale ci pare una confusione in questo teorico dell’estetica. La falsità ditale confusione viene chiaramente in luce con il suo epigono Ruge e, un’altra volta, con il suo rifinitore Kuno Fischer 210 . Per poter procedere oltre e passare al diabolico dobbiamo ancora discutere con un altro filosofo, Hegel. Infatti secondo un passo esplicito e molto citato della sua Ästhetik 211 il male è incapace di suscitare interesse estetico. Per l’importanza della cosa in sé e il valore che attribuiamo alle idee di Hegel ci sarà consentito citare le sue parole facendole seguire da alcune osservazioni. Dice Hegel: «La realtà del negativo può certo corrispondere al negativo e alla sua essenza e natura; ma se il concetto e il fine interni sono in se stessi già nulli, la bruttezza già interna ancor meno ammette nella sua realtà esterna una bruttezza autentica». Che il negativo non possa avere la forma del positivo è naturale. Altrettanto naturale che


il suo interno, in quanto brutto, debba riflettersi anche esteriormente in una forma corrispondente. A questo punto però, dal punto di vista estetico ci vuole una distinzione. Quando l’arte raffigura l’esterno in conformità all’interno, nel cattivo quest’esterno non potrà certamente essere bello nel senso in cui è bello nel caso del buono e del vero. Ma dobbiamo pensare perciò che l’artista che rende visibile il negativo in modo del tutto conforme alla sua natura non lo rappresenti come bello? Non bello con forme sublimi o piacevoli, ma volgari e ripugnanti, che però egli ha saputo cogliere, unificare e conformare in modo tale che esse rappresentano l’interno negativo manifestamente come un brutto. Forse che la descrizione del male è così facile che qualunque imbrattacarte ne è capace? La sofistica della passione – continua Hegel – può sì cercare con l’abilità, il vigore, l’energia del carattere, di immettere lati positivi nel negativo ma noi ne traiamo lo stesso la visione di un sepolcro imbiancato. Infatti ciò che è solo negativo è in generale in sé scialbo e piatto, e quindi o ci lascia vuoti O ci respinge, sia che venga usato come movente di un’azione o semplicemente come mezzo per provocare la reazione altrui. Ciò che è crudele, infelice, l’asprezza nell’uso del potere, la durezza della prepotenza, possono ancora essere messi insieme e tollerati nella rappresentazione, se sono appoggiati ed elevati dalla consistente grandezza del carattere e del fine, ma il male come tale, l’invidia, la viltà e la bassezza d’animo sono e rimangono solo repellenti. Il diavolo per sé è perciò una figura cattiva, inutilizzabile esteticamente; infatti egli non è altro che la menzogna in se stessa, e quindi un personaggio prosaico al massimo. Fermiamoci un istante. Che il male sia eticamente e religiosamente biasimevole, va da sé. I neoplatonici l’hanno addirittura inteso – a prescindere dalla sua esistenza empirica – come il non essere. Anche noi consentiamo che il male sia esteticamente ripugnante, a tal punto che tutta la nostra trattazione del ripugnante culmina nel concetto di malvagio e diabolico. Ma questo vuol forse dire che il male sia inutilizzabile esteticamente? Forse che nel mondo dei fenomeni il negativo non è sempre intessuto col positivo, il bene col male, in un intreccio che illustra sempre la natura dell’uno col manifestarsi dell’altro? Ora, Hegel dice, e non senza cautela: il diavolo per sé è una figura malvagia esteticamente inutilizzabile. Ma diavolo per sé è come dire diavolo da solo, avulso dal contesto complessivo del mondo, soggetto isolato dell’arte. Contro questo non vi è nulla da obiettare. Abbiamo già discusso nella Prefazione il fatto


che il male e il brutto possono essere pensati solo come momenti che scompaiono nella totalità del grande ordinamento divino del mondo. Ma entro tale condizione il diabolico è anche così assolutamente inestetico? Chi volesse affermarlo sarebbe costretto a chiedere all’arte soltanto esibizioni morali, sarebbe costretto a non esigere assolutamente da essa di riflettere nelle sue creazioni l’immagine del mondo in modo che noi scorgiamo attraverso la lotta dei fenomeni il fondamento eternamente uguale a sé dell’idea affermativa per eccellenza. È giusto dire che il male ci lascia vuoti, che ci urta respingendoci da sé; è giusto che la sofistica della passione non possa nascondere la vuotaggine del cattivo. Ma la rappresentazione del cattivo, che fa sì che noi pronunciamo quel giudizio, può non essere esteticamente interessante? È esteticamente inutilizzabile lo spirito formale che persegue ipocritamente il male, l’energia formale con cui persegue i suoi scopi, la grandezza tirannica con cui cumula senza riguardo crimine su crimine? È inutilizzabile esteticamente tutto ciò? Com’è che tutta l’arte drammatica del Medioevo ha potuto trarre gran profitto da questo elemento “prosaico”? Com’è che anche la scena classica inglese ha potuto passare dai Misteri ai Moralplays, e da questi alla commedia e tragedia vere e proprie solo attraverso una metamorfosi del diavolo e del suo buffone, the Vice? Ma moderiamo le nostre domande, il seguito del testo ci darà forse un chiarimento. Continua Hegel: «Parimenti le Furie dell’odio e tante allegorie successive sono, sì, potenze, ma prive di autonomia affermativa e di sostegno ed inadatte alla rappresentazione ideale. Va tuttavia fatta, anche a questo riguardo, grande differenza tra quel che è permesso e quel che è proibito alle arti particolari e al modo in cui presentano immediatamente o meno all’intuizione il loro oggetto». Se le «Furie dell’odio» dovessero significare proprio le Eumenidi, Hegel si sarebbe decisamente sbagliato giacché esse, in quanto custodi del delitto di sangue, sono potenze essenzialmente affermative che vendicano l’offesa inferta al diritto e alla santità dei costumi. Nel loro aspetto terrificante sono state rappresentate come sublimemente belle, anche se il dio della luce le chiama mostri e megere della notte. Qui Hegel deve aver pensato più che ai greci ai romani e ai


francesi, per esempio all’Henriade di Voltaire, che è riccamente illustrata come una specie di mitologia. Ma il motivo per cui queste allegorie riescono esteticamente fiacche e spoglie non va ricercato appunto nella natura dell’allegoria? Forse che le virtù espresse in isolamento allegorico sono migliori dei vizi? Forse che il genio più fecondo e ricco di forme, come quello di un Albrecht Dürer, di un Rubens, non è a malapena capace di superare la prosaicità dell’allegoria? Hegel concede qualcosa: che le diverse arti potrebbero qui comportarsi in modo diverso. Certamente, ma proprio per questo la poesia può dare una forma interessantissima al male, perché è in grado di mostrare la particolare follia che il male produce nella sua genesi ultima. Non ha bisogno di aiutarsi, come l’arte figurativa, con mezzi allegorici e simbolici, ma può far esprimere la profondità negativa propria dell’autocoscienza malvagia. La grandezza del Mefistofele di Goethe non sta forse nell’ironica chiarezza con cui si esprime l’astuzia che nega in permanenza? «Ma il male – continua il nostro filosofo – è in generale in sé spoglio e senza contenuto, perché da esso niente altro nasce che negativo, distruzione e infelicità, mentre l’autentica arte deve a noi presentare in sé l’aspetto di un’armonia». Accogliamo, di nuovo, l’avvertimento generale che il male è senza contenuto, ma ne respingiamo la giustificazione attraverso le conseguenze. Forse che non può venire anche dal bene, nel modo più vario, infelicità e distruzione? Non vi è in ogni tragedia un’infinità di miseria, e forse che essa ne impedisce l’armonia estetica? «Specialmente la bassezza d’animo – argomenta Hegel – è disprezzabile, perché scaturisce dall’invidia e dall’odio per ciò che è nobile e non esita a volgere anche quel che è in sé legittimo a mezzo per la propria malvagia e vergognosa passione. I grandi poeti e artisti dell’antichità non ci presentano quindi l’immagine della malvagità e della perversità; invece Shakespeare ci presenta nel Re Lear, per esempio, il male in tutto il suo orrore». A questo punto Hegel rimbrotta il vecchio per essere stato così insensato da dividere il suo regno e da misconoscere Cordelia, e trova congruente che un agire così irragionevole debba avere per conseguenza, alla fine, la pazzia. Vogliamo prescindere dal fatto se già il grande Omero non ci


abbia dato di vedere con Tersite quella bassezza che scaturisce da gelosia e odio contro ciò che è nobile. Vogliamo prescindere da alcuni caratteri di Euripide, poiché probabilmente Hegel annovera questo poeta tra i grandi dell’antichità. Ma dovremmo credere sul serio che Hegel abbia voluto contrapporre tra loro Shakespeare e i grandi poeti dell’antichità nel senso che quegli presentandoci «il male in tutto il suo orrore» abbia potuto rendersi colpevole di un delitto estetico? Un’opinione che sarebbe contraddetta dagli innumerevoli passi della Ästhetik in cui Hegel si fa in quattro per mostrare la sua ammirazione per Shakespeare (e per il caso che abbiamo sottocchio, ciò che dice precisamente nel iii libro, p. 571 ss.). Cosa dobbiamo pensare? Dobbiamo indubbiamente ammettere che Hegel ha dato un valore poetico incondizionatamente superiore all’azione in cui la collisione prende le mosse da potenze assolutamente legittime eticamente, affermative rispetto all’azione in cui il negativo viene assunto come leva. Proprio per questo motivo la sua ammirazione per Antigone è illimitata: per lui è «l’opera d’arte più eccelsa, più soddisfacente» che ci sia (Ästhetik, iii, p. 556). Dobbiamo inoltre ammettere che egli era bensì il nemico più dichiarato di ogni moralismo d’accatto, segnatamente della ciancia sofistica propria della morale senza nerbo e avida di perdono di un Iffland e di un Kotzebue, tuttavia – e proprio per questo – era un uomo di estrema gravità etica che, in affinità con il genio platonico, s’indignava dinanzi all’immorale fino all’insopportabilità, e per il quale non aveva senso il trattamento comico del male formatosi durante il Medioevo cristiano. Anche l’ironia della scuola romantica per lui cadeva essenzialmente in «scherzi insipidi». Presso di lui, solo la pittura olandese di genere aveva il privilegio di poter prescindere dall’altezza e dalla dignità del contenuto, sulle quali altrimenti insisteva di continuo. Gli antichi, su cui Hegel mette l’accento anche qui, a causa dell’idea di destino non potevano ancora rappresentare il male nella libertà della forma soggettiva; i moderni, come Hegel ha mostrato molto bene altrove, dovevano necessariamente accogliere nella cerchia della rappresentazione il male, in virtù dell’idea di libertà da cui prende le mosse con la mediazione del cristianesimo la loro visione del mondo. E ciò perché


l’aspetto soggettivo della libertà si manifesta come esclusivo proprio nel male, e con la sua negatività si appronta da se stesso un destino di morte attraverso le potenze affermative del bene. Presso gli antichi l’infamia dell’invidia, che Hegel trova tanto abominevole, ricadeva nel φθονερών degli dèi stessi, presso i cristiani nel diavolo. Perché mai altrimenti sarebbero stati diligenti a descrivere il male non solo come criminoso e spettrale, ma anche come diabolico proprio i massimi artisti Orcagna, Dante, Raffaello, Michelangelo, Pierre Corneille, Racine, Marlowe, Shakespeare, Goethe, Schiller, Cornelius, Kaulbade, Mozart 212? Il male come diabolico si distingue dal male di una passione particolare, di una particolare cattiveria, di un affetto passeggero perché odia sostanzialmente il bene, fa della negazione di esso lo scopo assoluto e prova piacere nel fare il male. Nella consapevolezza – inseparabile dal suo concetto – della sua opposizione al bene sta il motivo del suo passaggio alla caricatura. Esso è possibile solo come consapevole caricatura del modello divino che dovrebbe esservi contenuto. Ricorda subito il bene, che esso gioisce a distruggere; lo guarda sogghignando come un controsenso e gli digrigna i denti contro... ma non può liberarsene, perché se non ci fosse il bene anch’esso non esisterebbe affatto: perciò il male è folle. Ora, il diabolico ripete il criminoso nel pensiero di uomini posseduti da demoni diabolici e da questi costretti a un comportamento orrendo. Il posseduto dà in smanie, finge, gozzoviglia, si dà alla fuga e addirittura cade fino alla franca bestialità del bruto. Ciò che agisce propriamente in lui deve essere, secondo l’idea che se ne fa, il demone, oppure i molti demoni che ne hanno preso possesso. Eppure, ancora più propriamente, è l’uomo stesso a fare tutto questo, giacché il pensiero riconduce tuttavia l’illibertà del suo stato alla sua libertà mostrandogli che ha commesso un qualche fallo, che ha consentito l’accesso a un qualche demone – sete di dominio, lussuria ecc. – a cui poi, dal momento che i vizi sono solidali tra loro come le virtù, se ne sono ben presto uniti altri. La possessione rimane quindi colpa dell’uomo che non esclude da sé il male come dovrebbe con la sua libertà, e in vista di essa. Il diabolico ripete l’elemento dello spettrale nella stregoneria. La cosiddetta magia nera ha per scopo di costringere al suo


servizio la potenza di demoni infernali, sacrificando la vera libertà e beatitudine, di soddisfare tutti i frivoli desideri di un mostruoso egoismo. Nella magia l’uomo non perde la libertà soggettiva, che tramonta nello stato di possessione. Egli vuole con chiara coscienza il male e conclude patti col diavolo. Il diabolico in sé e per sé, che si vuole e si riconosce apertamente e liberamente per tale e che prova piacere nello scardinare con malignità l’ordinamento di Dio del mondo, possiamo definirlo il satanico. Non dimentichiamoci che qui non dobbiamo considerare queste situazioni in una prospettiva psicologica ed etica, o addirittura di filosofia della religione, ma estetica. Nell’idea di possessione vi è ancora un dualismo di umano e divino. Il posseduto viene rappresentato come se dei demoni ne avessero preso possesso ed esercitassero su di lui un dominio arbitrario. Questa dualità di personalità diverse nello stesso organismo può naturalmente non essere bella. Da un lato è presente la quieta (per così dire) figura del posseduto, dall’altro l’eccentrica mobilità creata dalla forza del demone che possiede l’uomo. Se dunque la pittura o la poesia ci fanno vedere questa dilacerazione, debbono distinguere tra la forma naturale e quella per così dire artificiale creata dai demoni. Dal momento però che i demoni non avrebbero potuto prendere possesso dell’uomo se egli stesso non avesse dato loro accesso, fondamentalmente la distinzione riscompare. Tutte le religioni sono d’accordo su quest’idea. Anche la religione indiana presuppone per un caso del genere la colpa, dunque la libertà dell’uomo. Nalas, il principe di Nischada, il raggiante consorte di Damajanti, ha suscitato l’invidia degli dèi perché la bella lo ha preferito a loro. A lungo essi stanno in agguato per potergli nuocere: gli dèi indiani non sono meno invidiosi e vendicativi degli dèi greci. Inutilmente. Il valoroso adempie rigorosamente a tutti i doveri della sua casta. Alla fine, dopo vent’anni, urinando dimentica di purificarsi secondo la prescrizione, entra col piede nell’erba bagnata d’urina e così dà al demone malvagio l’occasione per entrare in lui. Il maligno Kalis che già da sempre lo circuiva si impossessa di lui e lo spinge anzitutto a giocare d’azzardo. Qui si può cavillare sul fatto che una religione prescriva cose così assurde. I


traduttori tedeschi di Nalas e Diamanti 213 hanno anche omesso, senza alcun diritto, questa che per gli indiani è una vera catastrofe. Nella sua traduzione del 1838 Bopp la riporta pudicamente in nota ma poiché anche qui può cadere sotto gli occhi di una signora, con parole latine: «Qui fecerat urinam et eam calcaverat, crepusculo, sedebat Nalshadu, non facta pedum purificationem; hac occasione Calis eum ingressus est». Ma la purificazione del corpo non è per niente una cosa insignificante e non c’è motivo che religioni che ancora mirano all’educazione complessiva dell’uomo non le assegnino un gran valore. Una volta inoltre l’adempimento del dovere richiedeva la realizzazione di tutti i doveri. Facendo commettere a Nalas un’infrazione assai piccola, di fatto, della legge, il poeta indiano vuol prendersi a cuore la sua santità perché nulla, anche la cosa più piccola, deve essere indifferente in lui, e nello stesso tempo vuole collocare Nalas in alto: perché è caduto soltanto in un peccato così leggero, in un pecatillum. L’arte potrà rappresentare con la maggior chiarezza d’effetto la liberazione dai demoni là dove, grazie all’influenza di una potenza redentrice, la desolazione della vita, la follia dello sguardo, la convulsione delle membra, l’oscurarsi della coscienza cominciano a cedere alla soave aurora di un rientrare in sé pieno di spirito, capace d’amore; gli occhi sono ancora per metà velati ma già la bocca si apre per dare spazio allo spirito che se ne fugge via. Con esso scompare la bruttezza dei tratti sfigurati. Così Raffaello e Rubens hanno trattato questo soggetto. Nella Trasfigurazione di Cristo di Raffaello si vede in cima al monte la figura di luce del Redentore che s’alza a volo; sotto, ai piedi del monte, un gruppo che sta intorno ad un indemoniato che i parenti e in primo piano la madre inginocchiata presentano perché lo risanino agli apostoli, che lo indicano verso l’alto a colui che solo è in grado di liberarlo. Nel diabolico vi è anche un tratto spettrale, perché esso si oppone in modo sostanziale all’ordinamento affermativo del mondo. Questo tratto assume una forma particolare nella stregoneria, che va ancora distinta dal magico in genere. Come abbiamo visto, il magico racchiude in sé l’assurdo, ma del resto si combina anche con la bellezza degli artefici di


malìa, addirittura con intenzioni utili, con fini buoni, e può essere rappresentato come magia bianca, una scienza diversa la cui arte rende possibile saltare i nessi intermedi a cui l’agire comune si vede costretto. Così il Pater Baco di Robert Green, Prospero nella Tempesta di Shakespeare, Merlino nella leggenda di Artù, Malagis nella leggenda carolingia, Elberich in Otnit, Virgilio nella leggenda dell’area romanza e italiana. La magia in quanto tale può essere anche trattata con serenità, come un affare grazioso: così vengono descritte alcune donne nelle Mille e una notte; così, la padrona di Lucio nell’omonima storia di Luciano si trasforma in modo assai attraente in uccello per volare dal suo amato, mentre lui diventa un asino usando un unguento sbagliato. Con la stregoneria le cose sono totalmente diverse. In un ambito più vasto dobbiamo includervi la cosiddetta magia nera, che tende ad ottenere l’aiuto di spiriti malvagi, infernali, per opere malvagie. Questa magia vuole consapevolmente il male e chiama i demoni a cooperare con le sue nere azioni. Inconsapevolmente o semi consapevolmente, sempre senza volerlo, la debolezza apre l’accesso ai demoni, ma chi si è dato alla magia si distoglie consapevolmente dall’umano e si lega alle potenze dell’abisso. È un’idea che troviamo già negli antichi, ma attraverso il dualismo del Medioevo cristiano fu elaborata a formale sistema delle più orrende fantasie. In Oriente e presso gli antichi la vecchia maligna – donnaccia che è il contrario della onorevole matrona – era già diventata il tipo della strega che col suo sguardo cattivo, le sue bevande e formule magiche preparava sventure. “Hexe” [strega] deve derivare da Ecate, l’antica dea della notte. La vecchia malvagia, come già la descrive tanto spesso Aristofane nelle Tesmoforiazuse, nelle Ecclesiazuse e nella Lisistrata, è orrendamente brutta non solo per le sue guance cascanti, la fronte coperta di rughe e il biancore dei capelli ma perché compare come un essere infame che invidia la felicità e bellezza della gioventù, come ruffiana che corrompe con gioia satanica la soave verginità, perché malgrado l’età è ancora tormentata da desideri impuri e mira a soddisfarli. La vecchia malvagia mette in atto un’orrenda vendetta, con ruffianeria, su ciò che è naturalmente fresco ed essa considera suo nemico naturale, e


con la costrizione della magia cerca di ottenere un godimento che la natura, liberamente, non sarebbe più disposta a concederle. Questa – si può ben dire – personalità infame è ciò che costituisce il fondamento della strega. A questo punto, però, si aggiunge l’idea che si sia concessa ai diavoli, anzi al diavolo per antonomasia. La fantasia ortodossa della chiesa cattolica e protestante faceva della stregoneria un culto diabolico. Le assemblee dei Valdesi su cime isolate dei monti furono il primo pretesto per l’idea del sabba delle streghe, che in Francia veniva chiamato anche Vauderie e che la leggenda nord-tedesca collocava sul Brocken. Qui, nella Synagoge diabolica si doveva parodiare col cinismo più nauseante l’intera messa cristiana. Satana si fa formalmente adorare in forma umana, ma con la testa di caprone, con gli artigli delle mani, con piedi di oca o di cavallo. Gli si baciano i genitali e il posteriore. Si sbeffeggiano il battesimo e l’eucaristia battezzando rospi, porcospini, topi e simili. Invece dell’ostia, il diavolo porge qualcosa di nero, aspro, duro, simile a una suola di scarpa; ciò che dà da bere è ugualmente amaro, nero, nauseabondo. Inoltre Satana in una certa misura fa sacrificio di sé per parodiare anche la morte sacrificale di Cristo: in forma di caprone arde con gran fetore. La chiesa diabolica celebra la sua devozione nell’orgia, in danze e accoppiamenti lascivi, i quali però hanno la particolarità che il seme dei diavoli è freddo perché essi, in quanto soggetti maledetti da Dio, non sono fecondi; quindi debbono giacere in posizione di succubus con un mago, dopo aver assunto la forma di donna, per ricevere il seme e solo dopo in posizione di incubus, in forma virile, possono soddisfare la lussuria animalesca delle loro meretrici. Selvaggia gozzoviglia e crapula e lussuria d’ogni genere, sconvolgimento sistematico dell’ordine divino, consapevole rinnegamento di Dio è quindi ciò che l’arte ha tentato di esprimere nelle forme e nelle fisionomie delle streghe, così come le ha disegnate Teniers, ma soprattutto Dürer. A Vienna, nella raccolta di disegni dell’Arciduca Carlo, si trovano alcuni inestimabili fogli di Dürer in cui delle streghe, coi loro capelli ritorti, l’occhio cisposo, il petto incavato, la bocca frastagliata dai denti spezzati e l’espressione piena di gioia maligna e di sfrenata lascivia, suscitano orrore. La poesia ha elaborato il tema della stregoneria


soprattutto nell’antico dramma inglese, nella Strega di Middleton, nella Strega di Edmonton scritta assieme da Rowley, Decker e Ford, nel Macbeth di Shakespeare e nelle Streghe del Lancashire di Heywood 214 . In quest’ultima opera viene offerta, in certa misura, una galleria d’ogni specie di eccessi con cui le streghe mettono scompiglio nella società. Così, ad esempio, fanno in modo che in una famiglia venga rovesciato l’ordine morale della casa. Padre e madre temono il figlio e la figlia, il figlio teme il servo, la figlia la serva e così via. Nel libretto per balletto Faust 215 , Heine ha fatto proprio lo scenario del sabba delle streghe. L’infondatezza della supposizione che esistano veramente delle streghe, e quindi il carattere terrificante del processo alle streghe, sono rappresentati a tratti molto vivi in un eccellente racconto tedesco, Veit Fraser, che si trova nelle Nachtseiten der Gesellschaft, eine Galerie merkwürdiger Verbrechen und Rechtsfälle (1844, voll. ix-xi). Possiamo fare a meno di dilungarci ancora sull’argomento delle streghe, giacché negli ultimi decenni i molti commentatori del Faust di Goethe non hanno mancato di diligenza nel raccogliere svariate notizie e osservazioni sulla magia, la cucina della strega e la notte di Walpurga sullo Harz: ciò nel più esauriente dei modi negli studi sul Faust di Goethe di Eduard Mayer 216 . Ora, benché dal punto di vista estetico non si possa immaginare nulla di più orrendo del sabba delle streghe, pure la conformazione del diabolico come satanico va ancora più a fondo dal punto di vista spirituale. La stregoneria con il suo apparato di stravaganze si muove soprattutto in un ambito di desideri rozzamente sensuali, in una sfera di femmine lascive e maligne, in un fantastico mondo apparente. In essa il satanico è sì il punto centrale del culto, ma più che altro come parodia della messa cristiana: il contenuto spirituale è esiguo. Il satanico vero e proprio, invece, fa risaltare la coscienza della sua perversa volontà. Non è determinato da potenze relativamente estranee per debolezza, come il posseduto; non è spinto ad abbandonarsi al male per cattive voglie come la strega; trova il suo massimo piacere nel produrre in modo consapevole e libero il male. Concettualmente l’assoluto male è certamente anche l’assolutamente non libero, giacché consiste solo nel negare l’autentica libertà, nel volere il non


volere il bene: perciò prima abbiamo chiamato perversa la sua volontà, in quanto volontà che vuole il nulla. Ma in questo abisso del volere senza sostanza si sente, se così si può dire, libero, perché sente soltanto se stesso, solo il suo egoismo esclusivo per antonomasia. Ricorda il bene come santo fondamento d’ogni cosa soltanto nel frantumare tutte le barriere create da Dio, nel minare ogni ordine della natura, nel distruggere con derisione ogni disciplina e pudore dello spirito. Giustamente quindi ci si può aspettare da esso il massimo della bruttezza, ma per quanto suoni paradossale tuttavia è vero che l’astrazione metafisica presente in questa prospettiva torna ad attenuare la bruttezza. Il soggetto satanico ha un certo entusiasmo della scelleratezza che conferisce al suo apparire – per quanto orrendo – una certa libertà formale. Essa fa sì che diventi un oggetto più estetico di quanto si potrebbe, in prima istanza, pensare. Per quanto possa sforzarsi di mettersi al posto di Dio, il diavolo non può creare nulla, se non il miracolo mostruoso del suo “Sì-No”, della sua assoluta contraddizione e, a causa dell’inanità a priori del suo affaccendarsi per essere originale, è sempre e solo una figura grottesca. La sua pretesa maestà è subito convertita nella comicità del “povero e stupido” diavolo. La fantasia ha rappresentato il diavolo in modo: (1) sovrumano, (2) subumano, (3) umano. Sovrumano, come facente parte di un mondo di spiriti decaduto dal vero Dio per invidia ed orgoglio. La fantasia religiosa ha immaginato in forme colossali questi soggetti satanici. Nelle religioni naturali inferiori la potenza del male veniva collocata ancora accanto agli dèi superni, e perciò la figura degli idoli veniva apprestata in modo da ispirare paura ed orrore per il suo carattere colossale. Come ci guardano con occhi spalancati e terribili il Changor mongolo, l’Uitzipochtli messicano! Come ci fissano in modo orribile questi occhi penetranti, e come anela verso di noi assetata di sangue, dalla bocca, questa lingua brutale, come sfavillano minacciosi questi denti aguzzi, con che bestialità quelle zampe massicce ci mostrano la loro cieca e irresistibile forza, che effetto sconvolgente ha quel corpo, un conglomerato promiscuo di forme umane e animali, com’è atroce quell’addobbo fatto di teschi umani e cadaveri triturati! Questa


fisionomia di animale da preda scompare nelle religioni superiori. Menzogna, invidia e orgoglio compaiono come tratti costanti degli spiriti satanici, l’omicidio solo come conseguenza. La spiritualizzazione dell’immagine rende più indeterminata la figura e ne elabora più che altro le azioni cattive, come nel Kalis indù, nell’Escem del Parsismo, nel Set egiziano, che veniva raffigurato panciuto e con la testa di ippopotamo, e che i greci chiamavano Tifone. Tra i greci il male venne concepito come negazione della misura naturale e morale, ma non concentrato in una individualità particolare. La bruttezza del negativo venne distribuita in diversi soggetti secondo momenti diversi 217. I Briarei dalle molte membra, che ricordano le divinità indù, in quanto potenze titaniche erano in lotta con le nuove divinità, ma non erano malvagi. I selvatici Ciclopi con un solo occhio erano rozzi più che cattivi. Le Graie erano fanciulle dalle belle guance con capelli canuti, Forcide aveva un dente solo, le Arpie erano nauseanti, le Lamie e le Empuse bramavano il sangue dei bei giovani, che esse ammaliavano, i Satiri datisi al bere e alla lussuria avevano il piede caprino, ma tutti questi esseri favolosi non erano malvagi nel senso che diamo noi al termine. I figli della notte che Esiodo enumera nella Teogonia dopo la descrizione del Caos erano orribili ma non malvagi. Nel mito di Prometeo si rappresenta l’origine della sciagura, non del male. Insomma, quale che sia la profondità morale che troviamo nei greci, siamo tuttavia costretti a concludere che a loro l’idea del male satanico è rimasta estranea. La loro ἀσέβεια non arriva fino a quel punto di perversa follia. Invece nella mitologia scandinava l’idea del male è già molto concentrata nella figura di Loki. Loki odiava in modo veramente satanico il buono ed affabile Baldur. Nella petulanza e sfrenatezza del gioco gli dèi decisero di fare di lui un bersaglio. Tutte le cose però giurarono preventivamente di non fargli del male, ma l’astuzia di Loki aveva saputo eccettuare soltanto una verga di vischio, ed essa divenne il fatale gioco mortale. Loki la diede al dio cieco Hödur perché colpisse Baldur. Gli dèi punirono sì Loki incatenandolo a uno scoglio e facendo stillare su di lui doloroso veleno di serpente. Ma con la morte di Baldur il buono, la catastrofe del mondo era cominciata, non se ne poteva più arrestare la


decadenza né salvarlo dalla lotta delle ase. Quest’idea che il mondo non può più continuare ad esistere dopo la morte del dio buono sacrificato dalla malvagità è insolitamente bella e profonda. Nel monoteismo ebraico Satana, che riceve da Jahvé la missione di perseguitare Giobbe, è solo un angelo e nient’affatto un essere diabolico staccatosi da Dio. Solo più tardi gli ebrei accolsero dal Parsismo l’idea dell’Escem, il dio alato ecc. Anche nell’Islam, Iblis è in buoni rapporti con Allah. Gli giura di sedurre al male tutti coloro che non volessero convertirsi al maomettanesimo, in modo da poterli condannare all’inferno. Il Karageuz (gargousse) dei turchi e di tutta l’Africa settentrionale, e personaggio principale nel gioco cinese delle ombre, è bensì un diavolo, ma solo come soggetto sfacciato e motteggiatore 218 . Solo nella religione cristiana si perfeziona, con la profondità assoluta della libertà, anche il male nella forma di un’autocoscienza assolutamente negativa, che si isola in sé. Al cospetto del Dio che appare in forma umana, anche il male assoluto non poteva che apparire in forma antropologica, anche se ancora, anzitutto, nella forma di un potente angelo alato che si distingue quasi soltanto per il colore grigio e cupo dagli altri angeli. Così si presenta Satana ad Abraxas e in antiche miniature. Anche come trinità del male il diabolico venne raffigurato in tre ripugnanti persone, uguali, armate di corazza, con la corona e lo scettro, che tirano fuori la lingua, riprodotte da Didron nella sua Iconographie chrétienne 219 . Più tardi i pittori trasformarono le ali anche in ali di pipistrello come nel Camposanto pisano, fino a che la tendenza a contrasti energici condusse l’arte a utilizzare anche altre forme animali. Nell’Inferno Dante si è servito di un gran numero di figure fantastiche. La conformazione antropologica come tendenza dominante per rappresentare il sovrumano diede luogo nel Medioevo anche al mito di Merlino: imitando Dio, il diavolo voleva procreare un figlio. S’accoppiò dunque con una carmelitana molto pia, a sua insaputa, per unire così le forze del bene con quelle del male. Merlino, il frutto di quest’unione, concepito e nato da una santa vergine, doveva ora, come figlio del diavolo, distruggere il regno del figlio di Dio. Successe naturalmente il contrario. L’antica storia francese di Merlino è stata tradotta in tedesco,


come è noto, da Friedrich Schlegel 220 . Un delizioso dramma, La nascita di Merlino di Shakespeare e Rowley 221 , ha delineato in modo eccellente la figura del diavolo, non senza una certa sembianza di maestà infernale, che però non impedisce affatto al figlio di trattare senza alcun riguardo il suo signor padre, un vero pendant rispetto al trattamento sentimentale del figlio da parte del padre nel Roberto il Diavolo di Scribe, già citato da noi un paio di volte. Il Merlino di Immermann 222 non ha concepito con sufficiente profondità l’idea del diavolo; il poeta non è penetrato abbastanza nel significato cristiano del mito ed è rimasto troppo fermo alle fantasie cosmogonico-gnostiche. La forma subumana del satanico ha preso essenzialmente le mosse dall’antica maschera satiresca, della quale il semplice caprone non era che una conseguenza. Lo ha dimostrato J. Piper nella sua Myhthologie und Symbolik der christlichen Kunst von den ältersten Zeiten bis in’s sechszehnte Jahrhundert (1847, i, pp. 404-06) 223 . Nel suo primo Giudizio nel pulpito di Pisa del 1260, Nicolò Pisano raffigurava Belzebù come Satiro. Fino allora ci si era accontentati di questo sembiante. Nel xiv secolo lo ritroviamo nel Camposanto pisano, nella storia di San Ranieri, e da questo momento sempre con maggiore frequenza. Anche il leone e il drago (cocodril, drago, serpente squamato, dragone) divennero simboli del satanico. In seguito non si mescolarono solo forme animali, ma anche cose inanimate come botti, boccali di birra, pignatte con teste e forme umane, e tutto nel modo più inconsueto. In queste composizioni musive si voleva allegorizzare l’infinita assurdità e dissonanza del male. Che serie di figure straordinarie di sogno, bizzarramente grottesche hanno creato in questo campo Jeronimus Bosch, i Brueghel, Teniers e Callot! Si applicava questa fantastica deformità anche alla rappresentazione delle tentazioni dei santi da parte dei demoni che vogliono impossessarsi di loro, e ugualmente alla rappresentazione dell’inferno, per dare l’impressione visiva dei tormenti dei dannati. Si era inesauribili nel rappresentare simbolicamente i vizi e le loro punizioni. C’è ancora molto dell’antichità nell’inferno di Dante, e salta bene agli occhi nei disegni di Flaxmann per


l’Inferno. Qui domina ancora una maniera plastica di vedere e raggruppare le figure. All’inverso, Brueghel ha trasferito al suo arrivo di Proserpina al Tartaro forme dell’inferno cristiano. Nelle predilette storie della tentazione di S. Antonio i coboldi, larve, diavoli e diavolesse che lo corteggiano, e che debbono rappresentarci oggettivandolo il conflitto interiore del santo, hanno il loro centro di riferimento nel diavolo che in forma di bella femmina cerca di eccitare l’eremita alla lussuria. Ma questa seducente bellezza deve avere piccoli tratti caratteristici che tradiscono la patria da cui proviene: di qui il corno che sporge dai riccioli, la coda che fa capolino dallo strascico della veste di velluto, il piede di cavallo che s’intravede attraverso l’abito. Ma ancor più di questi attributi simbolici sono la posizione, i gesti, i tratti, lo sguardo della donna mentre porge all’eremita un boccale che devono disvelare la natura apparente della bella infernale, che cela in sé morte e miseria. Callot ha affrontato questo soggetto 224 con una esuberanza di belle invenzioni. Ha dipinto un grande dirupo in fondo a un paesaggio tormentato da vampate di fuoco e inondazioni. A destra, rispetto a noi, vediamo stretto in un angolo sant’Antonio che si difende dai vizi che vogliono legarlo con catene e portarlo via. Sembra aver appena riportato la vittoria sul demone della lussuria. In un angolo buio della roccia si alza un animale dalla forma di ratto con gli occhiali sul muso, e spiana un’arma per colpire insidiosamente in agguato. Su una spianata del dirupo, sopra la grotta dell’eremita, si è raccolta una strana compagnia. Una figura nuda a forma d’uccello, con un ventre grasso e il collo lungo e un volto non umano, e tuttavia umano, legge da un messale. Non ci si può immaginare nulla di più ipocrita. Intorno a questo prete ci sono diavoli di ogni tipo, nessuno uguale all’altro e tuttavia simili tutti quanti in un tratto ripugnante della più volgare sensualità. Uno sta a mani giunte, un altro ginocchioni sulla groppa di un mulo sembra annunciare un’indulgenza. Alcuni suonano il clarinetto coi loro nasi allungati, altri al posto della faccia hanno un deretano su cui battono il tamburo. All’estrema sinistra del quadro rispetto a noi scorgiamo una roccia che s’inarca a gradoni verso l’alto. Su un davanzale di roccia c’è un essere bizzarro dalla testa ai piedi, che


guarda verso l’alto, da dove un mostro gli fa cadere escrementi nella bocca aperta e soddisfatta. Si sente felice per questa affabile trasmissione. In primo piano un quadrupede oblungo, fatto tutto di pezzi di corazza ed armature, dalla cui bocca spalancata sprizzano fuori frecce, fucili, lance, palle d’ogni tipo, dà in smanie perché un giovanotto sventato gli ha appiccato fuoco al didietro con una miccia. Davanti, un granchio con una lanterna fumante. Ma nel bel mezzo appare un orrendo carro trionfale. Sul collo e sul capo d’uno scheletro di animale sta seduta una figura nuda, con uno specchio. Sarebbe una Venere? Due esseri stranissimi tirano lo scheletro: uno tutto marezzato e legnoso, un vero mostro; l’altro con un piede da elefante e una zampa che tiene una stampella. E sopra tutti questi parti della fantasia più sfrenata si libra il drago infernale sputando creature diaboliche che nell’aria subito si moltiplicano, al modo stesso in cui un cattivo pensiero ne produce altri all’infinito. La forma sovrumana del satanico è in fondo semplice quanto la subumana è varia. Ma per quanto quest’ultima si abbandoni alla fantasia, è cosa che riguarda pur sempre la libertà dell’uomo il determinarla come caduta dalla sua necessità divina. Perciò la pittura ha dato un corpo umano con una fisionomia astutamente lusingatrice, malignamente amabile, anche al serpente in paradiso, mentre scivolando giù dall’albero della conoscenza spiega i suoi sofismi alle prime creature. Poiché alla fin fine per noi non esiste altra forma che l’umana per scrutare la personalità dello spirito, per l’arte il fatto di rappresentare il diabolico in forma semplicemente umana, come alla fine fa, non è che una conseguenza inevitabile. Fondamentalmente, quella del diavolo come angelo malvagio non è, in fondo, nient’altro che forma umana. Nella fantasia anche l’idea che il diavolo possa assumere ogni forma, anche quella umana, costituisce il passaggio all’umanizzazione. E, sembra, come se qui vi siano stati nell’arte due diversi punti di partenza. Il primo rappresentava il satanico nella figura di un monaco, il secondo nella figura di un cacciatore: la forma ecclesiastica e la forma mondana nazionale. La prima la incontriamo ad esempio – tra i dipinti della collezione Boisserée 225 – in una Tentazione di Cristo di Patinjer dove al diavolo vestito d’una tonaca


sono rimasti come simbolo solo i piccoli artigli della mano, e per il resto tutta l’energia dell’espressione diabolica è affidata all’individualizzazione della figura e della fisionomia: un lavoro naturalmente più difficile che non una rappresentazione che si sostiene su una spiegazione attraverso attributi. Anche il pittore olandese Cristoph van Sichem ha dipinto il diavolo di Faust nelle vesti di un francescano, una figura tarchiata con un volto energico e grassoccio pieno di sensualità e malignità e con una mano piccola ma sgradevole per le sue dita corte, grasse e carnose 226 . Il Mefistofele dell’antica leg-genda di Faust specula a lungo col dottore di teologia, sull’origine del mondo, le gerarchie degli spiriti, la natura del peccato e tutte le comodità dell’aldilà, e a queste meditazioni la figura di monaco si adatta benissimo. Nel libretto per balletto Faust, Heine osserva (p. 87) che Goethe sembra non aver preso in considerazione quest’aspetto dell’antica leggenda, ancora visibile nella tragedia Faust dell’inglese Marlowe, perché avrebbe preso gli elementi per il suo Faust solo dal teatro di marionette, e non dal libro popolare: «Altrimenti non avrebbe fatto comparire Mefistofele in una maschera così oscenamente spassosa, così cinicamente sterile. Mefistofele non è un povero diavolaccio dei soliti, è uno spirito sottile, come si definisce egli stesso, molto distinto e aristocratico e di posizione elevata nella gerarchia degli inferi; fa parte del governo infernale, dove è uno di quegli statisti da cui può uscire un cancelliere». Quest’appunto è molto erroneo, perché al Mefistofele di Goethe manca bensì la teologia dottrinale, ma non è affatto privo di un tratto metafisico. L’altro punto di partenza – quello mondano – sembra rientrare nell’immagine del selvaggio cacciatore che compare, in dipinti della scuola alto-tedesca, in un costume verde e stretto, col cappello a punta e una piuma d’urogallo; egli ha una faccia color cuoio, magra, astuta, pungente, che dà nel satiresco, come quelle mani lunghe e secche e le membra sottili, scheletriche che grazie ai quadri di Retzsch, Ary Scheffer e le rappresentazioni teatrali su quel modello sono diventate da noi una sua maschera stereotipa. Neanche Seybertz, nelle sue illustrazioni al Faust di Goethe 227 , si è sottratto al modello del “Baron mit falschen Waden” 228 .


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