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Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

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Published by shllakua, 2023-07-14 18:55:56

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

con cui sono fatti. Si veda la panoramica della vasta letteratura romanzesca relativa nella Geschichte des Romans di O. L. B. Wolff 129 . In pittura i pornografi che rappresentavano i vari τρόποι τῆς᾽Αφροδίτης cominciarono nell’età alessandrina. Nel mondo moderno le basi per queste rappresentazioni sono state poste da Pietro Aretino e dalle figure disegnate da Giulio Romano e incise dal Raimondi. Nel romanzo Petronio ha dato, con il suo Satyricon, la base di queste descrizioni oscenamente lascive, e con una certa grandezza di visione, che manca ai suoi epigoni. Ma niente è più caratteristico per questo genere infame del fatto che Sadé 130 , il cosiddetto re degli schiavi delle galere, è diventato qui il classico più eminente. I nervi blasés di quei libertini che hanno gustato tutti i piaceri ancora si eccitano nella fantasia con raffinatezze di tal fatta. È un triste fenomeno dell’età moderna il fatto che questi scritti e immagini oscene trovino una diffusione sempre più ampia e, come racconta il turista Kohl, nelle strade di Londra circolino già tra le mani dei giovani. Anche il balletto moderno è inficiato di questi elementi e perciò dal punto di vista estetico è sceso così in basso che non cerca di rappresentare simbolicamente la passione dell’amore, ma gli spasimi della lascivia. Queste piroette e figure da mulino a vento, questo sfrontato distendere le gambe che grida vendetta al cielo e il disgustoso incrociarsi di danzatori e danzatrici, li si giudica un trionfo dell’arte. Qui non si può più parlare di bellezza e grazia ideali, ma solo di prurito volgare. Il chahut e il cancan sono, nella danza dell’attuale società, le conseguenze inevitabili di un simiile punto di vista, che può essere superato soltanto dalle forme seminude o nude nei quadri viventi di un Quirinus Müller. Il francese Chicard era, fino a qualche tempo fa, l’apice di questa tendenza oscena. A. Stahr (Zwei Monate in Paris, 1851, vol. ii, p. 155) così lo descrive: Nessuna traccia dell’esser trascinati nel vortice dei sensi e del sangue, in quell’ebbrezza della passione che reca in sé la sua giustificazione, nessuna sfrenatezza di gioventù che fa esultare la forza traboccante nel ritmo selvaggio del movimento corporeo. Nulla di tutto ciò: una fredda, consapevole, intenzionale raffinatezza del brutto e dell’infame. Questo Chicard era il genio della morale poliziesca che ironizza su se stessa. Le guardie che gli stavano a lato gli servivano soltanto ad aumentare, dandogli spicco, lo splendore dei suoi trionfi. Ogni interesse infatti stava essenzialmente nel vedere fino a che punto si sarebbe spinto nel rappresentare lo scellerato, lo scostumato prima che i guardiani della moralità si credessero legittimati a interrompere le sue


prestazioni artistiche allontanandolo dalla scena dei suoi trionfi. Era l’irrisione della morale in uniforme, dell’eticità gallonata, con la sciabola, della difesa della virtù affittata per denaro, a cui andava tutto l’interesse in questa danza. Chicard osava l’estremo e ne usciva vincitore. Ma questa piccante descrizione è molto unilaterale; la si confronti con la particolareggiata descrizione di Chicard fatta da Taxile Delord nei Français peints par eux-mêmes 131 . Con il loro senso artistico profondo ed eticamente genuino i Greci mitigavano l’osceno assegnandolo in gran parte ad esseri semiumani come satiri e fauni. Se poi questi individui, che nella parte inferiore si presentano con piedi di capro, prendono anche l’aspetto di caprone, non possiamo meravigliarci per così poco. Varie immagini pompeiane ci mostrano dei satiri che sorprendono una ninfa nel bosco, che s’è adagiata in tutto lo splendore delle sue nivee membra sul cuscino di muschio. La bella si presenta di solito in posizione semisupina e più spesso è coperta da un velo, che il satiro avido di piacere solleva. Con le membra tremanti per la voluttà, perse nell’irrigidirsi dell’estasi dei sensi, qui la bruttezza che ricade nell’elemento animale sta di fronte alla bellezza semiaddormentata. Che diverso aspetto hanno queste immagini esuberanti, in cui l’oscenità è mitigata dalla decenza, da quelle scene erotiche nei cubicula Veneris delle case pompeiane dove gli amanti, nelle posizioni più varie, sono occupati in funzioni naturali, e di solito vi è accanto uno schiavo che porge la bevanda afrodisiaca e la cui presenza suscita la viva sensazione dell’osceno. Ripugnante! Per mitigare l’osceno, lo spirito usa l’astuzia dell’ambiguità, cioè l’allusione più o meno celata e mascherata a funzioni inevitabilmente ciniche o ai rapporti sessuali dell’uomo. L’ambiguità è un guardare in modo indiretto ciò che ci incute vergogna. Essa stessa nasce chiaramente dal pudore: nello stesso tempo lo contraddice accondiscendendo ai rapporti sessuali, ma cela quest’impudicizia con forme che di primo acchito sembrano implicare un altro significato e tuttavia si lasciano facilmente tradurre in una versione diversa. Il gioco della fantasia può quindi mettersi in mostra proprio con analogie umoristiche. Si rammenti ciò che dice Schopenhauer sul rapporto tra i due sessi 132 e si capirà perché in tutte le civiltà e le classi sociali di tutte le epoche l’ambiguità


sessuale sia stata, in quanto anfibologica par excellence, l’occupazione preferita dell’umanità. Con la civilizzazione il piacere riposto in essa aumenta fino a che ne sorgerà l’ancor più elevata, pura, ideale cultura. Le religioni, nei loro tratti osceni, non occultano mai i rapporti sessuali, e la vera natura di un Fallo, Lingam o Priapo non la si può esaurire solo nella interpretazione simbolica. Le religioni vi riconoscono la santa, divina forza della natura e dichiarandola schiettamente tolgono forza al tentativo di sfruttarla diversamente. Nelle immagini, nei rilievi, nelle gemme dell’antichità 133 che ci rappresentano sacrifici offerti da giovani donne a Priapo non si troverà nulla di licenzioso, ma piuttosto un atteggiamento di rigore. Scultura e pittura possono diventare oscene e licenziose, ma sono molto meno sottoposte alle corruttele dell’ambiguità che la mimica e la poesia. La musica poi non ne è affatto capace. L’ambiguità occupa la nostra fantasia e il nostro intelletto ad un tempo, e grazie all’allusione non si identifica con la sconcezza. Quest’ultima può a sua volta rappresentare un’ambiguità, mentre viceversa un’ambiguità non necessariamente è una sconcezza. La sconcezza ha una crudezza, sfacciataggine e volgarità dalle quali l’ambiguità si tiene lontana, perché è obbligata all’umorismo. La sconcezza – elemento fondamentale del cosiddetto comico basso – ama soprattutto avere a che fare coi bisogni corporali. Essa ride dell’uomo per il fatto che un essere tanto privilegiato non può fare a meno di orinare o di andare alla seggetta. Come formicola di sconcezze ed è avaro di ambiguità Rabelais! E come è ricco di ambiguità Shakespeare, e povero di sconcezze! È tipicamente sconcio, in Rabelais, il fatto che il suo eroe ad esempio si occupi seriamente di indagare a fondo i vari tipi di torchecul, e perciò fa una lunga serie di esperimenti che vengono scrupolosamente elencati in un catalogo e si concludono col risultato che il dorso dei pulcini appena usciti dall’uovo è il più comodo per il nostro posteriore. Si capisce bene che, di passaggio, trattando questo tema Rabelais vuole sbeffeggiare la scienza sterile, che tanto spesso si occupa seriamente di cose da nulla. La sconcezza può essere usata dalla satira come correttivo della pruderie, per ricordare all’affettazione, con la sua schiettezza, che l’angelicità da essa ostentata è una menzogna. Quando l’insulso rigorismo


dei puritani del Nord America vieta di usare alla presenza di signore la parola “camicia” o “mutande”, il termine “inexpressibles” dimostra nel migliore dei modi che si sa molto bene cosa siano le mutande. Un titolo come quello del romanzo di Willbald Alexis, I pantaloni del Signor Bredow134 , in Nord America avrebbe escluso per sempre il suo autore dalla buona società. Molto dipende da come la sconcezza è preparata, arte in cui Heine è maestro. Si ricordi la sua polemica con Platen nelle Impressioni di viaggio 135 , le Memorie del Signor von Schnabelowski, il finale della Favola d’inverno 136 in cui la grassa Harmonia gli comanda di scoperchiare la seggiola esenterica di Carlo Magno. Invece l’ambiguità si muove soprattutto nell’ambito di allusioni sessuali più o meno celate. Il xvii e il xviii secolo vi si sono abbandonati in modo straordinario: Ronsard, Voltaire, Crébillon, Gresset e altri. Come vertice della letteratura francese equivoca dell’epoca si è soliti citare un’opera di Diderot, I gioielli indiscreti. Ma si farebbe un grosso errore se la si ponesse – come abitualmente la si rammenta – nella classe delle trovate sotadiche. Gli storici della letteratura continuano a pronunciare giudizi predeterminati senza conoscerne l’oggetto. Una frase quasi banale aderisce come predicato stereotipo a un libro. Per il loro contenuto, I gioielli indiscreti sono una prosecuzione delle Lettere persiane di Montesquieu, una satira della illimitata dissoluzione e corruzione politica dell’epoca, un giudizio morale sui vizi più segreti e gli scandali della società del tempo condotto con tutto lo spirito di un Diderot ma – è innegabile – non senza una trama frivola e una certa compiacenza per le scene erotiche. Nel sultano Mangogul e nella sua favorita Mirzoza, Diderot ha contrapposto con finezza i più teneri rapporti a cinismi stravaganti, che vengono scoperti grazie all’anello magico del saggio Cucusa; egli ha tenuto rigorosamente distinti amore e tenerezza da lussuria e volgarità; non oltrepassa mai un certo limite, ma s’interrompe là dove un autore che avesse voluto solleticare i sensi si sarebbe buttato a capofitto; fa gustare per tutto il libro l’amara consapevolezza che lo stesso sultano riassume in queste parole (Œuvres de Diderot, a cura di A. Denis, ed. Naigeon, vol. x, p. 126): «Que d’horreurs! une époux déshonoré,


l’état trahi, des citoyens sacrifiés, ces forfaits ignorés, récompensés même comme des vertus: et tout cela à propos d’un bijou». E tuttavia il libro suscita avversione, perché la finzione basilare usata per scoprire gli abissi delle passioni umane in definitiva è brutta. La volgarità di questo presupposto ha per tutta la serie dei racconti un effetto analogo a quello che ha la base della trama drammatica nell’Epicöne di Ben Jonson o nella Stumme Frauenzimmer tradotta da Tieck e raccolta in Sämtliche Werke, vol. xii 137: che un contratto matrimoniale vada revocato propter frigiditatem. Uno specifico gruppo del brutto è dato ancora da quelle rappresentazioni che non sono impudiche nel senso della lascivia o dell’ambiguità, e che tuttavia offendono in profondità il sentimento del pudore perché vogliono render poetico un contenuto che, se offertoci dalla Musa della Storia, avremmo accolto con imparziale severità. C’è una franchezza della corruzione che diventa il rovescio dell’innocenza. Non si può fare a certe rappresentazioni il rimprovero di rendere più piccante la lascivia nascondendola o viceversa di farne sfoggio per stimolare i sensi. La loro fedeltà nel dipingere le depravazioni fisiche e morali, la loro anatomia penosamente esatta della volgarità non ci consente di rivolgere loro il rimprovero di sedurci con stimoli semipalesi o soggiogarci con colori frivoli. Ma proprio perché manca questa scusa, l’effetto di tali prodotti è ancor più ripugnante. Quando uno Svetonio e un Tacito con oggettivo amore per la verità ci informano di tali argomenti, proviamo un brivido per la brutalità a cui l’umanità può arrivare; ma quando vediamo propinati simili orrori con la pretesa di trovarvi della poesia, ci sentiamo annichiliti eticamente ed esteticamente ad un tempo. Beaumont e Fletcher hanno commesso spesso questo errore; è anche l’errore dei drammi di Lohenstein; è l’errore di tanti prodotti del moderno iper-romanticismo francese, come ora nella Signora delle camelie di Dumas il giovane; l’errore di Sue in molte parti dei suoi Misteri di Parigi, per esempio nella descrizione – corretta dal punto di vista di un manuale di medicina – dell’amor furens. Tutta la fantasia non basta a neutralizzare la spaventosa prosaicità che c’è nella cosa. Anche Diderot, nella Religiosa, ha aggiunto


alla lista uno scoraggiante documento. Dal punto di vista della storia della civiltà questo libro è certamente uno dei lasciti più importanti del xviii secolo perché in quanto a conoscenza intima degli spaventosi segreti dei conventi monacali è addirittura superiore alla storia della Monaca Nera di Montréal in Canada. E che esposizione semplice, ammaliante! Ma dal punto di vista estetico questa descrizione è totalmente da respingere perché una badessa grassa e lasciva che costringe le sue monache a peccare di lesbismo è un mostro impoetico. Certamente Diderot potrebbe obiettare che siamo noi ad imporgli la pretesa di averci dato un romanzo, un’opera d’arte; ma lui stesso, come ci informa Naigeon 138 , si era convinto, anche senza avere questa pretesa, della pericolosità di quelle rappresentazioni e voleva addirittura censurarle: glielo impedì la malattia che lo portò alla tomba. Anche in Jacques il fatalista troviamo frammista nel testo una sorta di giustificazione per le nudità che vi appaiono. La letteratura romanza ha una propensione per il lubrico, l’osceno, l’ambiguo, il lascivo che dal Medioevo, dai contes et fabliaux, dalle avventure galanti dei cavalieri di Artù arriva fino alle Chansons di un Béranger. Autore che, se si pensa al suo Frétillon, non si può dichiarare immune dalla particolare compiacenza dei francesi per le rappresentazioni frivole e sensuali, quale che sia l’umorismo e la grazia con cui sa trattare anche una materia così brutta. La finzione di un certo fatalismo dell’amore, che già troviamo nella saga di Tristano e che nelle Affinità elettive di Goethe è volta al tragico e quindi all’eticità, è adoperata dai francesi per giustificare, in modo insufficiente, rappresentazioni molto ambigue. Da loro uno dei romanzi più amati è pur sempre la Manon Lescaut di Prévost. Qui due amanti sono magicamente incatenati l’uno all’altra e si restano fedeli fino alla morte, attraverso tutti i casi del destino, spesso molto aspri. Ma in che modo? Quando la necessità materiale diventa impellente, la bella e amabile Manon ricorre regolarmente all’espediente di gettarsi con l’approvazione del suo innamorato nelle braccia di un ricco qualsiasi per sfruttarlo come si deve e poi, coi tesori guadagnati prostituendosi, affrontare di nuovo una vita senza preoccupazioni per sé e il suo amante. Manon gli resta fedele: tanto


fedele da prostituirsi per lui! E lui, il signor cavaliere Des Grieux? Lui si guadagna la vita barando al gioco! Queste situazioni sono certamente piccanti, e certamente sono anche francesi come dimostrano le molte edizioni della Manon Lescaut che continuano ad uscire. Ma è anche certo che sono esteticamente ed eticamente basse e volgari. In seguito i due amanti vanno in America, diventano molto virtuosi e vi muoiono in pace (è il modello per l’Atala di Chateaubriand): ma questa non è una giustificazione bensì un errore estetico ed etico, perché questa Manon e questo Des Grieux non sono più gli stessi personaggi sul suolo americano. Nel Leone Leoni George Sand ha voluto darci un pendant della Manon, con la differenza che Julie è casta e non conosce l’attività di Leoni, che è anche lui un baro. Ma George Sand è caduta totalmente nel brutto, perché ciò che in Prévost diventa, per l’aperto accordo degli amanti, un’innocenza perversa – come abbiamo detto prima – qui diventa per la perfidia e la coercizione che Leoni esercita su Julie, venduta nel più brutale dei modi a un inglese, una cosa insopportabile. La fedeltà di Manon non ha nulla di innaturale, ma l’affetto appassionato di Julie per un mostro morale che l’ha potuta svilire a mezzo di guadagno e l’inganna nel modo più disonorevole, è indegno 139 . Tutta questa regione della volgarità sessuale può essere emancipata esteticamente solo dalla comicità. In questo caso il lato etico deve essere ignorato, e mantenuta solo la contraddizione effettiva presente nella situazione come tale. La comicità deve rivolgersi esclusivamente all’avvenimento in quanto tale: ogni concezione più profonda la turberebbe. Nel Don Giovanni Byron ha messo in opera questa comicità in scene molto piccanti, che ci fan ridere senza indignarci. Julia, la voluttuosa spagnola, quando il marito entra in camera con l’Alguazil ficca Don Giovanni sotto la coperta del letto e fa al marito una predica che lo fulmina: come si può essere così impudichi da spingersi fino al suo letto? Si fruga ovunque, fin sotto il letto, e non si trova niente di sospetto, mentre il colpevole suda dentro il letto. O ancora: Don Giovanni viene comprato come schiavo a Costantinopoli, dalla sultana, viene vestito da donna e messo nell’harem, ma siccome non c’è un letto per lui,


provvisoriamente per la prima notte viene assegnato come compagno di letto a un’odalisca, che poi sogna un sogno così strano e vivido che il suo grido porta scompiglio in tutto il dormitorio. In questo caso, come s’è detto, la comicità deve astrarre da qualsiasi critica morale, ma la possibilità dell’astrazione deve essere presente anche in tutto il restante complesso della situazione. Così ad esempio qui, in un harem, non ci sorprenderemo dell’oblio dei postulati etici da parte di un Don Giovanni, vestito da fanciulla, che a sua insaputa viene assegnato come compagno diletto ad una odalisca. Nel ritrarre il suo Don Giovanni Byron non usa mai colori lascivi, come invece fa Wieland, che si compiace di degustare la sensualità. Tra i moderni, Paul de Koch soprattutto ha conservato la fresca spensieratezza che è necessaria, e senza la quale questo genere diventa assolutamente ripugnante. Così, fa immaginare ad una vecchia zitella tutta la possibile scostumatezza sessuale che può derivare dal fatto che tante cameriere non portino le mutande. Perciò a casa sua non tollera presenze femminili senza mutande. Se prende a servizio una fanciulla, questa deve promettere di portare le mutande. Entrata in casa, deve presentarsi, alzare le gonne, e mostrare che ha delle costumate mutande addosso. Prende in casa una nipote. La giovinetta è costretta prima di tutto ad indossare dei calençons, visto che il portare le mutande coincide per la rispettabile signora con la decenza e la moralità, e tiene alla giovine noiosi sermoni sull’importanza di questo principio morale. Un giorno, la nipote è seduta in giardino con il cugino su una panca. La panca si solleva di lato, i giovani cadono a terra e il caso fa sì che il cugino scopra che la cugina porta delle mutande graziosissime. Infelice scoperta, perché già si prevede che può avere conseguenze del tutto opposte alle nobili intenzioni della saggia pedagoga. Abbiamo già detto, prima, che in generale Paul de Koch per la sua comicità, che tende al grottesco e al burlesco, è molto meno pericoloso di altri autori. Egli ha molto felicemente sviluppato quest’umore gioviale soprattutto in un romanzo, La casa bianca. Delle sue molte situazioni comiche ne citeremo, per chiarire il nostro tema, alcune. Robineau, un parvenu, ha comprato un castello in provincia e vi organizza una festa campagnola. Tra gli altri


svaghi c’è anche un “Mât de Cocagne”. Ma tutti i giovanotti desiderosi di vincere scivolano giù dall’albero liscio e sembra già che nessuno riuscirà a raggiungere il premio. Appare a questo punto l’arzilla cuoca, piega ben bene la gonna, s’arrampica su – tanto decente quanto fortunata – afferra il premio e inizia la discesa. Ma nel frattempo le vesti si sono agganciate alla sommità del palo e si ripiegano inopinatamente sulla sua testa, cosicché il pubblico ha agio di guardare le natiche rotonde e senza mutande della vincitrice. Questa situazione ridicolissima è condotta da Koch assolutamente senza affettazione. I concetti finora introdotti come forme della rozzezza hanno in comune la dipendenza della libertà dal sensibile. Se ne distingue la brutalità, che gode della coercizione fatta alla libertà altrui. L’azione maestosa può anche far soffrire gli altri, ma solo quando lo esige la giustizia; la maestà appare ancor più sublime quando può dispensare la sua grazia. Invece la volgarità perfeziona la sua rozzezza, che produce dolore negli altri per soddisfare il suo egoismo. Il termine “brutale” già è caratterizzato dalla sua origine etimologica, anche se il brutto, appunto perché brutto, non può essere brutale. Solo l’uomo può diventare brutale, perché in base alla sua libertà può perdersi in una violenza che assume carattere animalesco. Quando un gatto, un cinghiale divorano i loro piccoli, è un fatto innaturale, ma non brutale, perché l’animale è incapace di pietà. L’assenza di riguardo con cui procede l’impulso animale è proprio la natura del brutale; l’animale lo segue senza darsi pensiero, ma l’uomo dovrebbe sottometterlo alla volontà. La brutalità è rozza perché procede contro la libertà con arbitrio violento, quindi in modo efferato, e perché contemporaneamente prova piacere in questo comportamento. Nel brutale l’efferatezza diventa voluttà, la voluttà efferatezza. Quanto più la violenza è calcolata nella sua ferocia, e il godimento raffinato nella sua voluttà, tanto più diventano brutali e brutti esteticamente, perché tanto più cade la giustificazione dell’avventatezza causata della passione e tanto più il brutale si manifesta come opera della volontà libera consapevole di sé. La brutalità abusa del potere del forte sul debole, dell’uomo sulla donna, dell’adulto sul bambino, del sano sul malato, dell’uomo libero sul


prigioniero, dell’armato sull’inerme, del signore sullo schiavo, del colpevole sull’innocente. La costrizione esercitata dalla forza preponderante ed egoistica sul debole, è ciò che nella brutalità grida vendetta al cielo. Quanto alla forma, tuttavia, la brutalità può essere più rozza o più raffinata. Più rozza quando il dolore che produce assume una diretta espressione sensibile, come avviene con le cacce con animali, combattimenti di tori, supplizi, torture e così via; più raffinata quando il dolore sta piuttosto in una costrizione psicologica. La prima forma è quella che domina nei drammi sulla criminalità, nei romanzi sui cavalieri e sui banditi, nelle novelle sui proletari, nelle storie di schiavi. Da quando Eugène Sue ha scritto I Misteri di Parigi quante brutalità del tipo più rozzo non hanno accumulato i suoi epigoni! Sue ha un talento straordinario per descrivere il brutale; spesso è eccessivo, ma a tratti è veramente plastico. La storia di Gringalet e Coupe-en-deux nei Misteri è un capolavoro. Coupe-en-deux appartiene ancora in tutto e per tutto al tipo di Barbablù, questo cupo tiranno sanguinano che esce dall’epoca feudale. Ha organizzato una menagerie di piccoli indigenti che di giorno manda in giro, l’uno con una tartaruga, l’altro con una scimmia. Guai a loro se la sera tornano indietro senza un abbondante guadagno: allora li attendono ingiurie, maltrattamenti, percosse e fame, con l’efferatezza più spaventosa. La forma più raffinata di brutalità, la costrizione psicologica, non ha mai raggiunto la profondità che ha nel dramma di Calderón, la cui dialettica di fede, amore e onore suscita anche negli altri i martiri più inauditi, giacché lo strazio che uno si può infliggere non lo si può chiamare brutalità, anche se è come in Origene autocastrazione, come in Suso portare un cinto di spine, dormire su una croce di legno ecc. La grande fantasia del poeta spagnolo e l’interesse religioso, cattolico, che ad essa è legato hanno fatto sì che nel considerarne le opere se ne riconoscesse – e si notasse, almeno – con difficoltà l’elemento brutale. Ora però abbiamo un lavoro che con molta solidità e penetrazione s’è dato la pena di dimostrare, nei drammi più celebri di Calderón, l’inumanità – un’inumanità che muove a sdegno – in cui degenera la dialettica di fede,


onore e amore. Alludiamo alla Geschichte der Romantik in dem Zeitalter der Reformation und der Revolution di Julian Schmidt (1848, vol. i, pp. 244-302). Vogliamo soltanto indicare, traendole dalle conclusioni di questa penetrante argomentazione, ciò che si riferisce al nostro tema (ibidem, pp. 290-91). Julian Schmidt scrive 140: Dietro questa mitologia dell’onore, della fede e dell’amore, di questi segni lussureggianti della fantasia, si nasconde un astratto egoismo freddamente calcolatore. L’esteriorità della celebrazione religiosa lascia libere tutte le forze naturali e il fosco impulso della superstizione perverte la vita facendone un’arena desolata di spiriti maligni. Chi ammira in Calderón il rigoglio della fantasia creativa non dimentichi che in questa fantasia si nasconde la parola del mistero occultante la rovina della Spagna. Questo linguaggio lussureggiante festeggiava con lo stesso fasto di autodafé dell’Inquisizione, copriva con i suoi dolci sussurri l’urlo dell’eretico dentro le fiamme, si diffondeva come nebbia di incenso arabico nascondendo gli indegni luoghi sacrificali del fanatismo. L’essenza del fanatismo sta nello straniarsi in un’astrazione che si contrappone come negatività assoluta a ogni concreto. In tal modo la vita è, nel senso più pieno del termine, un sogno, sognato da un essere astratto. La realtà è sottomessa all’attimo, perché non è riconosciuta dall’assoluto. Perciò non è nemmeno delimitata dall’assoluto: non conosce misura alcuna. La natura irrompe nel fuoco della passione, irriflessa e senza briglia, mugghiando dalla fonte oscura del sentimento impuro, e distrugge oggi ciò che ieri amava. Non vi è nulla di saldo, se non l’aldilà. In tutte le forme gioca questa passione, questa soggettività concentrata su di sé, non spezzata dalla santità dell’astrazione. Il singolo è senza limiti nell’odio come nell’amore, nella magnanimità come nella malvagità. Il fuoco della vita, non alimentato da nessuna sostanzialità, brucia con violenza tanto più indomabile nell’interiorità dell’uomo. La giustificazione dell’uomo è che astrae da sé e dalla realtà: ha vuotato fino alla feccia la coppa del piacere terreno e così per miracolo si solleva sulle ali dell’astrazione nella beatitudine celeste. Poiché l’effetto redentore di questa forza cieca è tutto esteriore, senza interiore dissidio, l’uomo va incontro a questo desolato destino imperturbato e senza darsi pensiero, nella sua nuda natura selvaggia. Da un lato la brama di sangue della tigre, l’impazzare che smania intorno a sé, dall’altro la santità che ha realizzato l’astrazione dal mondo e si muove nel puro sovrasensibile. Tutte queste figure sono astrazioni perché non conoscono dissenso né sviluppo; trascinano il sentimento perché l’animale o il divino si fa valere, in quanto natura, contro lo spirito. Se l’uomo tende alla conoscenza dell’assoluto, si dà alla magia; se ha luogo una rinascita, è per miracolo. Ciò che Schmidt definisce astrazione noi lo chiamiamo, in Calderón, costrizione psicologica, giacché la motivazione delle azioni deriva sempre dal calcolo se la vita sia da posporre all’amore, l’amore all’onore, l’onore alla fede. Quando, ne La bimba di Gómez Arias la moglie, dopo i misfatti terribili del marito, che addirittura la vende schiava ai Mori, tuttavia gli sorride, è la potenza dell’amore che come passione assoluta della donna le consente di subordinargli l’onore. Nella commedia, divenuta celebre da


noi, Il medico del suo onore, Don Gutierre uccide ferocemente la moglie solo perché la sospettava di aver trasgredito la fedeltà coniugale per una relazione con un principe; quando si scopre che il sospetto non aveva alcun fondamento egli non si turba, anzi sposa un’altra donna: qui è la passione dell’uomo per l’onore che gli ordina di sacrificare all’onore l’amore. Nel Principe costante l’Infante Fernando in prigionia, benché amato dalla figlia del re del Marocco e pur avendo la possibilità di tornare in libertà cedendo Ceuta, sopporta la suprema miseria, l’estrema ignominia e muore in carcere: perché la fede esige da lui, in quanto cristiano, che di fronte alla sua magnificenza amore, libertà, vita siano stimate per cose da nulla. In questa dialettica la brutalità del disonore, dell’omicidio, del misfatto, del martirio ha il suo metodo. Anche talune delle nostre tragedie moderne sono inficiate da questa brutalità più raffinata, la brutalità della costrizione psicologica: ad esempio la Griseldis di Helm141 . Paragonandola al modo in cui un tema analogo viene trattato nel Cymbeline di Shakespeare, comprendiamo che qui l’amore autentico non fa emergere un pathos tragico né da parte di Parzival né da parte di Griselda: perché altrimenti sarebbe stato impossibile che Parzival arrivasse a una brutalità tanto feroce nel tormentare la sua donna e che Griselda nella dedizione per lui si lasciasse cadere fino a una bassezza così disonorante. Il fascino del linguaggio dotto e l’aumentare delle prove a cui il tracotante Parzival sottomette la fedeltà della sua donna, ci trascinano senza elevarci. Quando la rozzezza del potere compie misfatti contro l’innocenza, la brutalità della costrizione diventa tanto più brutta quanto più l’innocenza è o quella del bambino, che ancora non si è assuefatto all’intrico della storia sempre macchiato dalla colpa, e che ancora non è diventato colpevole per azione propria, o ancor più l’innocenza è la maestà consapevole di sé dell’eticità liberatasi dalla generale corruzione. Appartiene ad esempio a questo genere l’infanticidio di Betlemme, che i pittori hanno raffigurato così volentieri e che è stato cantato dal Marino 142 . L’analogo può esprimersi nella forma di una più sottile barbarie: nella Matilde Sue ha descritto gli infami tormenti con cui


Mademoiselle de Maran tortura sistematicamente la piccola Matilde fingendo di darle una meticolosa, scrupolosa educazione. Che brutalità senza limiti nella scena in cui lei, sdraiata sul letto, taglia alla piccola i suoi bei capelli! Nella famigerata Chouette dei Misteri di Parigi. Sue non ha fatto che darci un calco già caricato e schizzato grossolanamente di questo egoismo diabolico. Il contrasto tra la maestà consapevole di sé e la brutalità è stato assunto come soggetto artistico soprattutto nella storia della passione di Cristo. Nell’arte antica questa opposizione non aveva ancora fatto la sua comparsa. Niobe, Dirce, Laocoonte sono colpevoli di hybris, Edipo e Oreste di azione involontariamente volontaria; Marsia, colpevole di hybris verso il dio, può suscitare compassione per la pena a cui è sottoposto, perché contrasta coi nostri sentimenti attuali che un dio in persona, anche se giustificato, esegua una punizione del genere: togliere la pelle con un coltello all’avversario vinto. Perciò antiche rappresentazioni in rilievo mitigano questo spettacolo brutale: mostrano solo Apollo che avanza con il coltello verso Marsia legato a un albero. Nella passione di Cristo invece vediamo il rapporto diametralmente opposto tra innocenza e brutalità che le si contrappone in forme più raffinate e più rozze. La pittura ha colto assai precocemente questo contrasto e specialmente l’antica scuola tedesca dava ai farisei, agli scribi e ai soldati fisionomie diaboliche molto brutali 143 . Passando dalla storia di Cristo alla storia dei martiri e dei santi, il contrasto fu sviluppato in tutti i suoi aspetti. Qui la derisione di Cristo da parte dei soldati, che lo battono con le verghe, lo incoronano di spine, gli mettono sulle spalle la croce, veniva ripetuta con mille sfumature diverse. L’attanagliare le carni con ferri roventi, l’inchiodare alla croce, in Pietro addirittura a testa in giù, l’arrostire su una graticola, lo scorticare, lo strappare i visceri e la decapitazione, lo strappare le membra sui banconi di tortura, il bollire nell’olio, il sotterrare vivi ecc. sono brutalità che meritano maledizione esteticamente non meno che eticamente. Per quanto il genio dell’artista si sia sforzato di conciliare tale materia con le esigenze della bellezza, ciò gli è riuscito di rado nella realtà. Non si dica che anche il quadro di una battaglia ci dà lo spettacolo dell’omicidio e del tormento della morte in


svariate forme. Nella battaglia la violenza si contrappone a violenza; il guerriero lotta col guerriero; l’assalito è anche l’assalitore. E tuttavia il pittore tratterà con parsimonia gli orrori della guerra; dipingerà feriti e moribondi d’ogni tipo, ma esiterà a offrire alla nostra vista certe mutilazioni. Anche la pittura antica ha rappresentato senza timore l’orrido, ma solo quando era necessario, e Goethe dice, osservando le pitture di Filostrato 144 , che si tratta di ciò che si confà al soggetto. Nel vol. xxxix, p. 65, delle Opere scrive, a proposito di Abdero dilaniato: In queste immagini l’elemento significativo non è mai mitigato, ma presentato con forza allo spettatore. Troviamo così le teste e i teschi che il brigante appende come trofei al vecchio albero; neppure mancano le teste della festa ippodamia appese nel palazzo del padre, e che atteggiamento dobbiamo prendere poi verso i fiumi di sangue che in tanti dipinti scorrono e ristagnano frammisti a polvere! Possiamo ben dire che il principio supremo degli antichi era il significativo, ma il supremo risultato di un’esecuzione felice era il bello. E non è lo stesso presso noi moderni? Dovunque volgiamo gli occhi, nelle chiese e nelle gallerie, non ci costringono forse dei maestri compiutamente padroni dell’arte a guardare con gratitudine e piacere un così ripugnante martirio? La brutalità che procura ai santi inermi raffinati dolori può diventare oggetto estetico solo nella misura in cui la rappresentazione mostra la vittoria della libertà interiore sulla violenza esteriore. I carnefici quindi debbono avere corpi muscolosi, facce dure, insensibili, ghignanti, tutta la persona deve essere in armonia con la loro atroce occupazione, mentre la figura e il sembiante dei santi devono colpirci per la dignità e la bellezza. L’impotenza della brutalità nei confronti della libertà deve imporsi senza lasciare adito a dubbio nel trasfigurarsi della fisionomia e nella nobiltà del comportamento dei martirizzati. La maestà consapevole di sé della fede deve, non diremo farsi beffe – perché questo implicherebbe ancora un certo impaccio, una finitezza nella contrapposizione – ma in definitiva essere superiore alle catene e ai tormenti, alla morte e all’oltraggio, e trionfare soffrendo e sentendo il dolore. Alla vista di questa quiete sublime, l’orrore delle azioni brutali deve scomparire come fosse un nulla. Senza questo passaggio dell’orrendo alla grandezza e forza della disposizione divina dell’animo la vista anche solo del lavoro del carnefice diventa insopportabile, e con questa visione d’orrore ci tormentano quei pittori e scultori che rappresentano Cristo, gli Apostoli e i santi come se


fossero irochesi, che si divertivano opponendo ai tormenti con cui i loro nemici li martirizzavano il disprezzo di un’astratta insensibilità. L’immortalità dello spirito pronto a sacrificarsi per la verità assoluta deve consumare in sé l’efferatezza. E tuttavia scene del genere sono pur sempre più favorevoli all’arte figurativa, per i loro contrasti pieni d’effetto, che alla poesia, perché il quadro e il gruppo scultoreo ci danno simultaneamente ciò che, diluito e diffuso nella descrizione, non può che risultarci ripugnante. Ciò sembra essere in contrasto con il canone di Lessing, ma chiunque conosca quelle leggende medievali in cui i martini dei santi sono descritti con una precisione protocollare sarà d’accordo con noi: non c’è cosa più noiosamente brutta. Taluni soggetti di questo genere sono stati prediletti in modo straordinario dai pittori perché offrono l’occasione per contrasti acuti, ma si situano su un confine scabroso e per questo l’esecuzione li ha spesso fatti cadere nel brutto. Come è stato sfigurato a ripugnante carneficina l’infanticidio di Betlemme da alcuni pittori! Altri hanno dipinto Erodiade come se recasse un mazzo di fiori o addirittura una succulenta portata nel piatto. Il Medioevo sentiva uno iato nel fatto che gioventù, bellezza, piacere mondano, leggerezza potessero resistere in modo così spietato e insensibile alla dignità, alla rinuncia, sottomissione alla volontà divina e perseveranza, e perciò inventò la storia dell’amore della bella danzatrice per il profeta: egli l’aveva disdegnata e lei voleva vendicarsene facendolo morire. Per addolcire, nella brutalità, l’orrore del suo manifestarsi, la situazione più favorevole resterà sempre l’istituzione di un legame tra i violenti e la giustizia, perché allontana l’idea di mero arbitrio e casualità. In precedenza abbiamo notato che l’arte antica in questi casi ha tenuto fermo il filo nero della colpa. Gli scultori Apollonio e Taurisco hanno rappresentato nel celebre gruppo del Toro Farnese, ora a Napoli, Dirce legata da Anfione e Zete alle corna di un toro che s’impenna in una corsa che le fracassa le membra. Com’è bella la donna! Ma la sua bellezza non commuove i giovani pieni di forza. Non è che provino piacere per questa brutalità, ma eseguono, in base ad antichi concetti, un dovere: vendicano la loro madre. Fanno la stessa cosa fatta da Apollo e Artemide quando


uccisero i figli di Niobe. La mancanza della cosiddetta giustizia poetica la sentiremo dunque come brutalità irresponsabile. Anche qui la moderna arte tragica francese, col principio “le laid c’est le beau”, vi ha provveduto. Victor Hugo ad esempio ha fatto questo errore in una tragedia intitolata Le roi s’amuse. Con Triboulet ha contrapposto alla maestà di un re bello e cavalleresco, Francesco i, un buffone brutto e gobbo. Ma degrada il re a una canaglia dissoluta che fa la corte a tutte le gonnelle e travestito insegue fin nelle bettole più sordide anche le più volgari donnacce. Un re di tal fatta non è un re perché dall’orgia in cui lo incontriamo la prima volta fino alla ripugnante avventura nella spelonca in cui dovrebbe essere ucciso non si può scoprire in lui traccia di nobiltà. Ma questo Triboulet che scaglia improvvisazioni velenose su chiunque, che dà consigli così malvagi, che dileggia l’infelice Saint Vallier per la figlia che il re gli ha disonorato, contemporaneamente deve essere anche un padre affettuoso e possedere, accanto all’attività di buffone che per lui è solo un affare, una coscienza veramente pretesca, umana. Per sua sfortuna ha una bella figlia che piace al re. Il re, che l’ha vista in chiesa, non sa che Blanche è la figlia del suo buffone di corte. Travestito, la segue di nascosto. Dei cortigiani, offesi dai sarcasmi di Triboulet, assalgono sua figlia, l’imbavagliano, la rapiscono e la conducono al re, che la porta piangente e implorante nel suo gabinetto, chiude la porta e la disonora “con amore”, mentre i cortigiani montano di guardia alla porta e la difendono da Triboulet che ha intuito la cosa e vuol entrare. Ci si può immaginare una situazione più brutale? A questo punto il buffone vuol fare uccidere il re da uno zingaro, Saltabadil, per venti monete d’oro, ma quello per un caso e per lo scompiglio uccide la figlia di Triboulet, che ama il re anche se è stata disonorata da lui. Saltabadil infila il cadavere in un sacco; Triboulet pensa che ci sia il cadavere del re e vuol gettare il sacco nella Senna. Ma per soddisfare la sua sete di vendetta vuole vedere ancora una volta l’ucciso. In una notte nera come la pece sarebbe certamente impossibile, ma il poeta compiacente fa subito scoppiare un temporale per illuminare a tratti la scena con la luce dei lampi. Triboulet apre il sacco con un pugnale e riconosce la figlia, che ancora respira e che,


infilata a metà dentro il sacco, fa ancora dei discorsi commoventi pieni di passione sentimentale per il re. Questi avrebbe dovuto essere ucciso nella bettola dove s’era recato per passare la notte con Magelone, sorella dello zingaro. A questo punto Blanche muore. Un chirurgo accorso in tutta fretta spiega al padre, con sentenze professionali, che la figlia è veramente morta. Triboulet non si uccide, ma perde solo la ragione mentre il re, salvato da Magelone senza avere sentore di ciò che gli accadeva intorno, ben riposato e canticchiando se ne va via! L’impunità è chiaramente la peggior brutalità in questo pezzo teatrale, un vero campionario di volgarità. L’occuparci ancora di altri drammi di questo poeta ci porterebbe troppo in là; ci contentiamo di osservare che da Victor Hugo in poi l’offesa alla giustizia poetica è diventata cosa tutt’altro che rara nei francesi. Uno dei ruoli più splendidi della Rachel è quello di Adrienne Lecouvreur, che Scribe ha scritto apposta per lei. Adrienne, un’attrice a cui il maresciallo di Sassonia fa la corte, riceve dall’amante gelosa del maresciallo, una duchessa sposata, un mazzo di fiori avvelenato che la uccide, mentre la signora duchessa la fa franca. Ma il punto saliente non è affatto questo dissidio, bensì la rappresentazione, esatta dal punto di vista della patologia medica, della morte dell’infelice. Tutte le fasi dell’avvelenamento vengono fin troppo fedelmente seguite nei loro orrendi passaggi fino all’esalazione dell’ultimo respiro. Anche nella Signora delle camelie di Dumas figlio la fedele descrizione della morte di Lorette è diventata per il pubblico la brutalità più interessante. Benché il nostro compito sia quello di sviluppare il concetto del brutto, non possiamo fare a meno di confessare che, pur con tutto il coraggio scientifico, ci risulta impossibile inoltrarci ancora in quella forma del brutale che nasce dall’unione di efferatezza e lascivia e dall’innaturalità della lascivia. Purtroppo gli annali della storia dell’arte sono ricchissimi di prodotti simili. Ci limitiamo a ricordare, nella letteratura tedesca, l’Agrippina di Lohenstein 145 . Lo stupro, quello più rozzo e quello più raffinato, è naturalmente la brutalità prediletta in questo genere. Il brutale può essere usato anche nella comicità. Ciò avverrà, il più delle volte, come parodia. In tempi moderni i “Fliegende Blätter” di


Monaco 146 hanno sbeffeggiato in modo spesso delizioso, in ballate per cantanti di piazza e in brevi azioni tragicomiche, il brutale e il teatro delle marionette di Londra e Parigi 147 flagellava con intenzione parodistica l’innaturalezza delle situazioni e il pathos falso, affettato in cui cadeva talora la tragedia. Tuttavia la svolta comica può essere possibile anche senza parodia. Il ratto delle Sabine in sé è un atto di violenza; l’assalto improvviso alle vergini è brutale, ma poiché qui interviene il rapporto primitivo tra i sessi, paura e terrore ne vengono mitigati! Perciò gli scultori e i pittori hanno rappresentato molto volentieri quest’avvenimento, dato che con esso hanno l’occasione di ingentilire a un tempo gli atteggiamenti terrorizzati con l’espressione di una dolce paura e la ritrosia del pudore con l’involontaria dedizione: essere rapite dai baldi romani in fondo non è così brutto. Lo stesso accade con il ratto di Proserpina, di Europa ecc. Quando Reinecke stupra la donna di Isegrimm davanti ai suoi occhi sul ghiaccio è senz’altro una scena brutale, ma diventa comica per le circostanze prossime 148 . Vi sono anche azioni che sono violente senza che si possano dire brutali, e queste solo come azioni comiche possono diventare soggetti artistici. Ne fanno parte tutti quei quadri della scuola olandese che rappresentano dei cavadenti affaccendati con giovanotti babbei che gridano e smaniano o con contadini che si apprestano come poveri peccatori al supplizio. Abbiamo finora considerato l’osceno e il brutale come forme della rozzezza. Rimane una forma – il frivolo – che per il suo arbitrio assoluto contraddice il sublime come santità, e quindi offende il più intimo sostegno dell’universo. Natura e storia hanno un senso, in definitiva, solo sul presupposto della verità del morale e del divino. Frivolo non è chi nega l’esistenza di questa verità perché non ne è convinto ma colui che per sfrontatezza immotivata deride la fede nella santità. Lo scettico che diventa ateo non è affatto perciò stesso frivolo, ma l’egoista per il quale la santità diventa un’arlecchinata perché trova scomoda la realtà della sua esistenza, è frivolo. L’arbitrio profana con la sua derisione l’Essere che è il fondamento di ogni libertà e della stessa necessità, mentre l’ateismo scientifico, che può essere il triste risultato di seri sforzi di ricerca, può


recare l’impronta di una disperazione religiosa. La frivolezza è brutta perché è la scimmia della maestà divina, da cui trae vita ogni maestà naturale e storica. Essa pone se stessa come assoluto. Per la natura quindi questa forma di brutto è impossibile perché essa, essendo priva di coscienza, non può schernire la sua propria necessità. Tra le arti, la poesia è la più adatta a rappresentare il frivolo perché è in grado grazie al linguaggio di immergersi nei pensieri. La frivolezza espone al ridicolo la santità come fosse una nullità in sé; per lei la pietà nel matrimonio, amicizia, amor di patria, religione sono stupidaggini e debolezze sulle quali lo spirito forte si solleva trattandole come pregiudizi della plebe. Ma questa forza dello spirito non è altro che l’arbitrio che a suo libito soggettivo disprezza il divino come nullità meramente immaginaria e così dichiara volgare ciò che tra i popoli avanza l’oggettiva pretesa di essere onorato come supremo e degno di venerazione. Bisogna distinguere molto bene tra la fede umana nell’esistenza dell’Assoluto e gli errori a cui nello stesso tempo gli uomini possono sottostare perché sono liberi e perché si contrasterebbe la natura del divino se si costringessero gli uomini ad avere fede. Nel particolare, gli uomini non avranno affatto sempre la verità assoluta a contenuto della loro fede; potranno scambiare la verità con l’illusione e addirittura idolatrare quest’ultima come falsa religione. Nel particolare, le religioni hanno contenuti diversi, ma sono identiche nel loro essere religione e nel porre l’uomo in rapporto con l’Assoluto. Il buddista, il giudeo, il maomettano autentici sono lieti di morire per la verità della loro fede tanto quanto il cattolico, il luterano, il metodista autentici. I popoli sono diversi anche nella particolarità dei costumi, ma per ciascuno il proprio costume è santo. Dal suo punto di vista morale, il selvaggio si premura di offrire all’ospite la figlia, la moglie come compagna di letto, cosa che per un altro punto di vista è un disonore. I costumi dello stesso popolo sono diversi in tempi diversi e ancora, nel xviii secolo, da noi, nel fatto che i figli si fossero arrischiati di dare del tu ai genitori si sarebbe vista una frivola sovversione d’ogni autorità: oggi lo fanno addirittura i membri delle famiglie principesche. Poiché il costume è la forma assunta dalla


volontà di un popolo nel contrarre un’abitudine, i popoli si conformano ai loro costumi, per quanto possano essere divergenti tra loro, e si ritiene giustamente frivolo deridere per questo il singolo, che è nato ed è stato educato nella loro necessità generale. È possibilissimo un conflitto con il costume e con la fede di un popolo, e non è affatto detto che sia di necessità frivolo, può anzi scaturire dalla più profonda eticità e religiosità: è il caso di tutti i grandi riformatori. Frivola è solo la mancanza di serietà che mostra di provar piacere nel rappresentare il rispetto per un costume, la fede in una divinità come assurdità e impostura, illusione e autoinganno. La frivolezza non è la santa lotta di quella scepsi sublime che scaturisce dalla veracità più intima dello spirito; è il puro piacere dello sperpero spirituale, che si è emancipato dall’assoluto come stupido spettro ed è molto soddisfatto che caso e arbitrio, visti come unici fattori di ogni avvenimento non permettano nient’altro che un’effimera vita di godimento. Esteticamente dunque la frivolezza si caratterizza per il piacere lascivo della ferocia con cui malignamente gode nel distruggere la fede come una limitatezza, il costume come una perversione. Ma, in riferimento al fenomeno concreto, spesso è molto difficile giudicare se qualcosa è frivolo, perché nella storia dello spirito può assumere la parvenza di frivolezza la conoscenza del vero in conflitto con ciò che è riconosciuto come falso, e l’esercizio della virtù in conflitto con vizi privilegiati. La polemica, legittima in sé e per sé, dell’eternamente vero e buono contro la trivialità e la nequizia che spesso si spacciano empiricamente per verità e bontà, viene diffamata come frivola appunto da queste ultime. È naturale che quella polemica non possa sempre assumere l’espressione malinconica del dolore infinito per l’infelicità morale e spirituale dell’umanità; poiché è umana, non può fare a meno di scoppiare a ridere dell’intemperanza dei suoi avversari e di replicare loro con la satira, che allora sarà immancabilmente biasimata come frivolezza. Qui, ancora una volta, per il caso particolare si impongono dei limiti, perché è molto facile che la polemica, in sé seriamente motivata, si possa spingere per il piacere della battuta ad espressioni che già di per sé sanno di frivolo. Lo sdegno iconoclasta di un Aristofane è nello stesso tempo


ricolmo del piacere che la derisione dell’avversario gli infonde, e l’elemento comico lo trascina a certe locuzioni, che per il greco esalano una caustica frivolezza 149 . La risata per la scostumatezza e la mancanza di fede dei suoi avversari involontariamente colpisce anche i costumi e la fede. Proprio per questo Heine è spesso così volgare: non può resistere al piacere di sacrificare alla battuta, con rozzezza irrispettosa, anche la santità e di diventare realmente frivolo. Senza queste escrescenze di frivolezza la sua poesia sarebbe molto più poesia 150. Nella frivolezza la sua verità si caratterizza per una certa brutalità, con cui distrugge ciò che per una persona o per un popolo vale come santo e prova piacere nell’avvilire la santità a smorfia ridicola. Perciò il concetto di frivolezza è bensì determinato in tutto e per tutto nelle linee generali, ma calato nella particolarità è un concetto relativo, e lo vediamo in modo assolutamente positivo nelle legislazioni che stabiliscono delle pene per la frivolezza. Ciò che da un punto di vista limitato viene ritenuto e giudicato perciò frivolo, da un punto di vista superiore e più libero non ha più questo significato. Il nostro compito qui riguarda solo il lato estetico della questione. Esso riposa sul fatto che il bello autentico può realizzarsi solo in unità con il bene autentico, cosicché una creazione estetica che contraddice questo principio non può nemmeno essere realmente bella, sarà quindi più o meno brutta. Che un costume o una fede da un altro punto di vista siano sentiti come ridicoli non costituisce ancora frivolezza; si diventerebbe frivoli solo a voler deridere l’adempimento di una costumanza da parte di coloro che vi si affidano. Abbiamo già visto che nel Dahomey e nel Benin chiunque riceve un regalo dal re – anche un ministro o un generale – deve danzare pubblicamente davanti a lui. Per quanto ridicolo potesse apparire tutto questo all’inviato francese Boué, egli si guardò bene dal riderne. Quando le etere russe si danno a qualcuno, si preoccupano di coprire con un velo l’immagine di San Nicola, perché si vergognano davanti a lui. Chi in presenza di quest’espressione del santo sentimento del pudore oserebbe schernirlo, per quanto possa apparire ridicolo? Non si può mai essere abbastanza prudenti nel giudicare e nel comportarsi in materie tanto delicate. Ma se non si concedesse alla comicità la legittimità di


trattare come ridicole contraddizioni con la verità e la libertà dello spirito i costumi di nazioni straniere o di tempi passati, idee religiose di altri popoli o forme di educazione superate, si capisce che non solo l’arte ma anche la scienza sarebbero costrette a vivere nella trappa. La celia deve soffrire sia per colpa dei galantuomini dalla moralità angusta sia dei devoti stupidamente bigotti, perché la miopia di entrambi vede dovunque nel suo mobile gioco un attentato pericoloso al buon costume e alla vera fede. Stando a loro, saremmo costretti a soffocare nella stagnazione della prosa più casereccia. Da questo lato, dell’apprezzamento spregiudicato delle opere di poesia, nulla è stato più dannoso dell’abitudine di isolare singoli passi, accentuare singole parole. La storia della poesia possiede dei documenti notevolissimi su questi conflitti nei processi a cui Béranger fu sottoposto all’epoca della Restaurazione, e dove Marchagy e Champanhet istituirono l’accusa con un’intelligenza pari alla difesa di Dupin, Barthe e Berville, che risposero riferendosi, con argomenti interessantissimi, alla storia della chanson in Francia. Se qui dovessimo trattare soltanto il concetto di frivolo non mancheremmo di approfondire l’analisi, ma per noi il frivolo non è che un momento in un tutto assai più grande 151 . Ci limitiamo a illustrare con alcuni esempi la discussione condotta finora. Quando Heine, nella poesia intitolata Disputa 152 , fa dire al monaco in difesa della fede cristiana, contro il rabbino: I tuoi spiriti non possono nulla contro di me nulla i tuoi cupi scherzi infernali perché in me c’è Gesù Cristo ho gustato il suo corpo sulla base delle circostanze d’allora – la Spagna, il Medioevo – non c’è nulla da obiettare. Ma quando il monaco prosegue: Cristo è il mio piatto preferito è molto meglio del Leviatano con la salsa bianca d’aglio forse cotta da Satanasso l’espressione «piatto preferito» è frivola e non è giustificabile con la volgarità del fanatismo che qui Heine vuole descrivere. Da Heine non si


può pretendere che faccia del sacramento dell’eucaristia un momento della propria fede, ma la poesia deve pretendere che non copra di scherno ciò che è santo per migliaia di ascoltatori a cui egli si rivolge. L’aridità, il semplicismo dottrinale con cui si esprime non fanno che aumentare l’offesa. Nelle Romanze di Vitzliputzli 153 , tanto ricche delle più grandi bellezze poetiche, il suo odio verso il cristianesimo, contro l’eucaristia, erompe in questi versi: “Sacrificio umano” si chiama la rappresentazione la materia è antichissima così come la favola nel modo come la tratta il cristianesimo lo spettacolo non è poi così orrendo perché al sangue fu sostituito il vino e al cadavere di prima un’ostia misera e sottile. Qui vogliamo astrarre del tutto dalla prospettiva religiosa. Adoperiamo un metro di misura esclusivamente poetico, e con esso giudichiamo questi versi dei cattivi versi: cosa avrebbero di poetico? Non suonano forse, nella loro legnosità, come se fossero copiati dal famigerato saggio di Daumer 154 sull’antropofagia cristiana? Heine non pronuncia una sola parola di ribrezzo, di disprezzo; riferisce con l’accuratezza di uno storico, ma che smisurata frivolezza in queste parole fredde che parlano di un mistero religioso come se fosse un argomento culinario! Come già abbiamo osservato, si può fare grande ingiustizia a un poeta se non lo si guarda nell’insieme: allora gli si può addebitare una frivolezza là dove c’è solo in apparenza. Nei versi citati la seconda strofa potrebbe mancare del tutto e la poesia non ne perderebbe per nulla, anzi ne guadagnerebbe molto. Sempre da Heine, però, vogliamo dare un esempio di come gli si potrebbe rendere ingiustizia. In una poesia intitolata Il Creatore 155 narra come Dio ha creato il sole, le stelle, i giovenchi, i leoni, i gatti, e prosegue: Per popolare la regione selvaggia subito dopo fu creato l’uomo e sulla dolce immagine dell’uomo modellò, dopo ancora, le scimmie. Satana vide e rise.


Ah, il Signore si copia sul modello del bove alla fine fa vitelli. Chiunque riconosce subito in questi versi la satira delle religioni in cui domina la zoolatria, la satira al vitello d’oro attorno a cui danzarono anche gli Israeliti. Si potrebbe trovare frivola la derisione di Dio da parte di Satana. Ma la poesia è fatta di quattro poesie più piccole. Nella seconda Dio replica: E Dio rispose al diavolo: Io, il Signore, mi copio, copio il sole e faccio stelle, copio i buoi, faccio vitelli. Dal leone colle zampe faccio piccoli gattini. Copio l’uomo e faccio scimmie. Tu però non crei un bel niente. Questa è la risposta che spetta a Satana e che va aggiunta alla derisione di prima, come sua divina negazione. Ma, per cogliere bene la malizia di Heine, bisogna guardare alla conclusione di tutta quanta la composizione. Nella quarta poesia di questo piccolo ciclo, dove passa sempre dal più grande al più piccolo, da ultimo mette in bocca a Dio queste parole: Ma il creare è un vano moto in così poco tempo, è facile che si pasticci. Soltanto il piano, l’idea mostrano il vero artista. Per trecento anni, da solo, ci ho pensato su ogni giorno come fare i gran dottori e le pulci: e tutto al meglio. Questa battuta è rivolta a Goethe, che aveva scritto un saggio giuridico sulle pulci, pubblicato nel 1839 a Berlino 156 . Molto chiaramente la frivolezza riunisce nichilismo etico e religioso rafforzandoli reciprocamente. La maggior parte delle opere di letteratura oscena sono materialistiche ed ateistiche ad un tempo. Una certa apatia ottusa e tetra, l’antitesi più diretta di una nobile malinconia vi ristagnano, e il più delle


volte nelle sue disperate riflessioni fermenta una semifollia. È il caso soprattutto del famigerato romanzo Thérèse philosophe 157 . La letteratura francese è colpevole di avere spinto fino all’estremo l’unione di lascivia e ateismo. La Pulzella d’Orléans di Voltaire è l’esordio, e la Guerra degli dèi di Evariste Parny 158 l’apice di questa tendenza. Si può concedere ad entrambi gli scrittori la derisione della bacchettoneria, delle aberrazioni dei conventi, delle perversioni della superstizione e del fanatismo ecclesiastico. Ma si dovrà sempre sollevare l’accusa di frivolezza contro il modo in cui dilaniano la fede stessa in Dio, le idee fondamentali del cristianesimo. Il virtuosismo del loro elegante linguaggio, lo scintillio della loro intelligenza, la ricchezza delle loro trovate ridicole e infernali, l’esattezza delle loro descrizioni non permettono tuttavia di superare il sentimento di volgarità con cui ci avviliscono. Parny ha fatto combattere gli dèi greci con le persone della trinità cristiana, e queste ultime le ha fatte sconfiggere quasi dai brutali e colossali dèi scandinavi. S’è fatto beffe degli dèi pagani, ma solo per deridere ancora di più la mitologia della fede cristiana. Che Cristo venga rappresentato come un agnello addobbato con un nastro azzurro, lo Spirito Santo come una graziosa colomba, Maria come una “dolce Signora” come si diceva nel Medioevo, c’è naturalmente da aspettarselo, giacché la contraddizione tra l’elemento sensibile e il concetto di Dio in quanto spirito dà ricco alimento al suo intelletto astratto. Egli rappresenta il Dio Padre come un dio dei giudei un po’ stupido, che a tratti dà segni di debolezza senile. Per guardar bene sulla terra deve servirsi di occhiali; le sue saette sono già un po’ logore, il suo braccio non è più sicuro. Un bel giorno suo Figlio vede un brigante che vuole uccidere un sacerdote, e lo spinge a intervenire col lampo: egli scaglia il dardo mortale ma anziché il brigante colpisce il sacerdote, e così via. Gli dèi cristiani, in quanto dèi nuovi, suscitano sempre di più la curiosità degli dèi antichi, e per fare la loro conoscenza li si invita a un diner sull’Olimpo. In tale occasione Maria, curiosa, visita il palazzo degli Olimpi, Apollo la segue di nascosto e le usa violenza. Lo stupro è la passione di Parny, vi si diletta nelle occasioni più varie: nel bel mezzo del combattimento degli dèi l’Arcangelo Gabriele usa violenza ad Artemide.


Questo spirito impuro fa sì che egli rappresenti col massimo interesse la vecchia leggenda apocrifa per cui Cristo sarebbe un figlio illegittimo di Maria e del cavaliere romano Pantera; gli fa immaginare che Priapo si faccia battezzare coi Satiri per poter fare da monaco una vita grassa e di piacere. Se un Fauno poetasse, poeterebbe come Parny. È grazie a Priapo che si ristabilisce finalmente la pace tra gli dèi da quando, sotto Costantino, tanti uomini si erano disabituati agli dèi olimpi e si erano rivolti agli dèi cristiani: «Ici l’on plaide, et l’on juge là-bas: | L’homme a jugé: bien ou mal, il n’importe». Ma Parny non se ne accontenta e scrive un epilogo in cui, per essere metodicamente pedante nella sua beffa frivola, assume l’aria di un cantore sacro dal cuore puro, dalla lingua schietta, descrive la fine del mondo e il giudizio universale con i colori più vivi e infine colloca se stesso in Paradiso: Moi qui, plus sage, ai cru sans examen, Au Paradis, radieux, je m’élève: J’éntre; et tandis qu’auprès de Geneviève Je suis assis dans le céleste Eden, L’enfer reçoit nos soldats téméraires, Qui de Jésus houspillent les Vicaires, Les persiffleurs du culte de nos pères, Et les amans des filles de nos mères, Et les frondeurs de mes rimes legères In sæcula sæculorum; amen! Ci si contenterà di quest’unico esempio di autentica frivolezza, perché ci ripugna inoltrarci ancora in un campo in cui l’umorismo si riduce alla miseria delle battute ad effetto più insulse e il bello alle nudità stereotipate di un’autentica fantasia da bordello. Anche noi tedeschi a volte ci siamo misurati col frivolo, ma al cospetto dei francesi siamo stati soltanto i loro timidi scolaretti. Anche quando ostentiamo il razionalismo più arido e l’ateismo più dottrinario non possiamo impedire che il sentimento si faccia sentire con ingenua inconsequenzialità: come a un lago di montagna la cui superficie limpida sembra stagnare, polle sotterranee conservano in profondità una vita nascosta. Un poeta moderno, Rudolph von Gottschall, ha celebrato ad esempio la dea della


Grande Rivoluzione, la déesse de la raison 159 . Ma come la intende in modo casto, romantico, tragico; come si è sforzato di approfondire in sé, attraverso una dolorosa e lunga esperienza, la dea della ragione, che così non appare soltanto come un bel fantasma della sensualità, ma piuttosto vuole mostrarsi degna del titolo di dea con lo spirito e col cuore e nel momento dell’immancabile disillusione, allorché Robespierre decreta la fede in Dio come essere supremo, cade in folle disperazione; e come motiva in modo genuinamente tedesco la sua decisione di esporsi a tutto il popolo per amore verso il suo sposo, che spera così di riscattare dalla morte. È noto che questo poeta si colloca, dal punto di vista filosofico, in una prospettiva feuerbachiana, ma c’è un’intima frattura nel suo pathos antropologico-rivoluzionario, che si perde parte nei toni più dolcemente elegiaci, parte in trasporti ditirambici di scettico vaneggiamento. La sua dea della ragione Marie unisce alla bellezza di Afrodite nata dalla spuma del mare la nobiltà e profondità di sentimento di una Madonna, giacché: Attorno ai nobili tratti che recano lo stampo dell’Ellade l’idea sognante ha gettato un oscuro manto. Come uno splendore di Madonna le guizza intorno al capo una parvenza di gloria e annuncia i tormenti del pensiero e della vita e la pena del cuore. Il frivolo può trasformarsi in comico quando ha una giustificazione di verità, dunque solo in apparenza è un misfatto contro la santità. Allora scopre la contraddizione che può esserci tra l’essenza e la forma. Le opere che nascono da questo elemento possono anche apparire frivole a quelli che ne vengono offesi, senza però esserlo. Paleseranno incongruenze nella rappresentazione del divino, ma non offenderanno mai la moralità. Luciano possiede una forza particolare nella serenità con cui rivela senza riguardi le interne contraddizioni dell’antico Olimpo. Per noi le sue parodie degli dèi sono un momento necessario nella dissoluzione del paganesimo, ma per un greco di allora potevano anche essere frivole. Nel suo Zeus tragedo 160 fa contendere pubblicamente Timocle, uno stoico,


con Damide, un epicureo, circa l’esistenza degli dèi e la provvidenza. Lo stoico adduce i soliti argomenti teleologici, lancia violente invettive contro la malvagità del suo avversario ma alla fine, quando il suo paragone tra l’universo e una nave governata da un nocchiero naufraga sugli scogli della dialettica di Damide, non sa fare altro che rifugiarsi nella conclusione che siccome esistono altari, debbono pur esserci degli dèi. Zeus si interessa molto alla disputa perché i sacrifici diminuiscono per il crescente illuminismo. Perciò Hermes è costretto ad invitare tutti gli dèi, anche gli dèi barbari, a consiglio. Arrivano e vengono disposti secondo il valore del materiale di cui sono fatte le loro statue, sicché gli dèi barbari, d’oro e d’argento, ottengono i primi posti rispetto agli dèi degli Elleni, che sono soltanto di marmo o di bronzo. Si esaminano le proposte più varie e nelle repliche si deride il lato debole della divinità dei vari dèi: in Apollo l’oscura ambiguità dei suoi detti oracolari, in Eracle la rozzezza della sua forza fisica, e così via. Allorché i due filosofi, ad Atene, riprendono la loro disputa, il padre degli uomini e degli dèi per paura dell’esito che essa può avere alla fine non sa consigliare altro se non che gli dèi preghino insieme a lui per il difensore della loro esistenza, Timocle, che sembra aver perduto il comprendonio: «Facciamo almeno quel che possiamo, e preghiamo per lui, ma tra di noi e in silenzio, che Damide non senta!». B – Il ripugnante Nell’esporre l’ultima determinazione concettuale, il volgare, siamo stati costretti a rammentare già il concetto di ripugnante, come struttura esteticamente ancora più brutta rispetto al volgare. L’antitesi positiva del bello sublime è il bello piacevole. Il sublime tende all’infinitezza, mentre il piacevole si adagia nei limiti della finitezza. Il primo è grande, forte, maestoso; il secondo grazioso, giocoso, attraente. L’antitesi negativa del sublime, il volgare, contrappone al grande il meschino, al forte il debole, al maestoso il vile. L’antitesi positiva del bello piacevole è il ripugnante, che contrappone al grazioso il goffo, al giocoso il vuoto e il morto,


all’attraente l’orrendo. Il bello piacevole ci invita a gustarlo, in quanto fin dall’inizio ci viene incontro e non senza intenzione mette in mostra tutti gli aspetti sensualmente piacevoli per attirarci. L’inaccessibilità del sublime ci strappa dai limiti comuni e ci riempie di meraviglia e venerazione. Lo stimolo del piacevole ci attrae a sé per goderne e ci lusinga in tutti i nostri sensi. Il ripugnante invece ci respinge da sé perché suscita in noi disgusto per la sua goffaggine, orrore per il suo carattere mortuario, ripugnanza per il suo carattere orrendo. Una carenza nell’unità della forma, nella disposizione simmetrica, nell’euritmia armonica è brutta, ma non ancora ripugnante. Una statua ad esempio può essere mutilata e poi restaurata. Se il restauro non è felice arreca nella forma un tratto estraneo, se la misura delle sue parti non ha un rapporto di proporzione perfetta con l’originale e le parti restaurate si distinguono in modo troppo stridente da ciò che resta dell’originale, una dualità di questo tipo non sarà bella, ma ce ne corre perché sia ripugnante. Ripugnante diventerebbe solo se il restauro negasse senz’altro l’idea originaria. Una forma può anche essere scorretta ed essere più o meno in contraddizione con la normalità che in essa dovrebbe esprimersi, ma non per questo produce necessariamente un effetto repellente. Grandi scorrettezze possono addirittura essere bilanciate da grandi bellezze a loro connesse per altri aspetti, fino ad essere dimenticate. Lo scorretto diventa ripugnante solo quando smembra la totalità della forma, quando tradisce un carattere di generale abborracciamento che ci indigna con l’assenza di misura, posto che non diventi ridicolo. Il volgare è brutto perché nella sua meschineria, debolezza e bassezza rappresenta l’illibertà che potrebbe sollevarsi oltre i suoi limiti ma invece rimane nella trivialità del caso e dell’arbitrio, nella miseria dell’impotenza, nella bassezza del sensibile e del rozzo. Il volgare è brutto ma non perciò è ancora ripugnante, e addirittura la frivolezza si sforza di prenderci al laccio con la magia dei sensi e di renderci ben disposti alla sua derisione della santità con una formale amabilità. Il ripugnante viene dal bello piacevole come sua contrapposizione negativa. Come opposizione positiva del sublime in senso quantitativo il


piacevole è quel piccolo, ben visibile nella sua totalità dall’esecuzione delicata nelle sue parti, che noi tedeschi chiamiamo “niedlich”, grazioso. Il piccolo in quanto tale – una casa piccola, un albero piccolo, una poesia piccola e così via – non perciò è ancora grazioso: lo è solo quel piccolo che mostra delicatezza e lindura di conformazione nelle sue parti. Con che grazia la natura ha formato alcuni gusci di lumache e di molluschi! Come sono graziose le foglie e i fiori di molte piante, perché nella loro piccolezza si mostrano delicate anche nei rapporti particolari! Come sono graziosi pappagalletti, canarini, pesciolini rossi, cagnolini bolognesi, cani grifoni ecc., perché queste bestiole hanno varietà di struttura e sono delicate nei dettagli. L’opposizione positiva del sublime dinamico è il piacevole, il giocoso. Il sublime in quanto potenza esprime la sua infinità nel creare e nel distruggere il grande, e si può dire non senza ragione che nell’assoluta libertà del suo fare esso giochi, per così dire, con la sua potenza: teologi e poeti hanno definito la stessa creazione un gioco dell’amore divino. Il gioco come puro gioco implica un movimento a cui manca la serietà dello scopo: così il vento gioca con le nuvole, le onde e i fiori. Nel gioco l’inquietudine della trasformazione passa di forma in forma al solo scopo di cambiare. È un movimento solo accidentale che non muta nulla nella sostanza; assicura il godimento dolce e semisognante della superficie dell’esistenza, mentre questa rimane identica a sé nelle sue fondamenta. Il processo del gioco deve quindi escludere da sé il pericolo; una tempesta, che piega e spezza gli alberi giganteschi di un bosco, gioca solo per modo di dire con loro, in terribile serietà, mentre un tiepido vento di ponente gioca veramente coi fiori, accarezzandoli; le onde del mare infuriate, che sollevano le navi fino al cielo per poi riprecipitarle subito nell’abisso spalancato, giocano con loro solo per modo di dire, mentre l’onda che batte dolcemente sulla spiaggia gioca realmente con la sabbia della riva. Ogni gioco, piacevole in quanto privo di scopo e di pericolo, si trastulla con il cambiamento, perché rimette subito serenamente in questione la trasformazione che produce, come fosse un nulla. Anche quando incute paura vuole soltanto suscitare piacere, anzi far ridere, come avviene soprattutto in quelle grottesche mascherate che i


popoli selvaggi amano così appassionatamente, non meno dei popoli civilizzati. Il giocoso è bello perché ci mostra i vari aspetti di un essere nella parvenza di una trasformazione, il cui movimento ne lascia inviolata l’unità. Infine l’opposizione positiva del sublime maestoso, all’interno del bello piacevole, è l’attraente. Va da sé che anche il grazioso, anche il giocoso può essere attraente; ma l’attraente in quanto tale unificherà la delicatezza della forma con il gioco sereno del movimento. È strano vedere che prevenzione ci sia in alcuni teorici dell’estetica verso l’attraente. Spesso lo disdegnano perché inserisce nell’estetico, con la sua sensualità, un richiamo pratico. Secondo noi questo rimprovero è ingiustificato perché in senso cinico anche la bellezza più ideale, anche una Madonna può diventare attraente. Non v’è dubbio che il sublime, anche quando appartiene alla natura, fa scomparire il sensibile nell’effetto della sua infinitezza, mentre l’attraente fa risaltare con grazia seducente l’aspetto sensibile del fenomeno del bello. Ma forse che quest’attrazione non può essere innocente? Forse che il sensuale deve essere identico al male? Non esiste nessun godimento innocente del bello sensibile? Sembra che molti possano pensare l’attraente solo al modo in cui Delacroix ha dipinto una bellezza nuda, che si pettina la chioma fluente mentre alle sue spalle, travestito da ricco ereditiero, ornato per sovrappiù di corna eleganti, il diavolo ammonticchia un rotolo di monete d’oro. Come ha spaventosamente guastato tutto il quadro con questo particolare il pittore! Se avesse rappresentato la bella con l’attrattiva delle sue membra in modo spregiudicato, ci si sarebbe estasiati delle sue pure e nobili forme. Con quella grinta nascosta nel buio – un’allegoria che, col tipico cattivo gusto dei francesi, pretende anche di essere virtuosa – ci costringe a pensare alla lascivia della cupidigia, alla venalità dell’innocenza. I grandi scultori e pittori hanno rappresentato sans phrase il fascino di bellezze nude e proprio perciò sono stati casti; al tempo stesso hanno saputo darci il sensibile in una situazione in cui esso riconosce tuttavia la superiorità dello spirito. Tiziano ad esempio ha dipinto Filippo ii con la sua amante che posa tutta nuda su un giaciglio; il re siede arretrato, al suo fianco;


sullo sfondo un paesaggio bello e libero. Ma come ha dipinto gli amanti? Fanno musica; lui suona la chitarra e la guarda teneramente per darle il segno dell’entrata musicale, mentre lei ha lo spartito posato accanto sul cuscino e solleva il flauto. Questo quadro è infinitamente attraente ma l’attrazione aperta e libera non suscita alcun desiderio giacché l’aspetto sensuale della bellezza – per quanto qui compaia fortemente – rimane pur sempre subordinato allo spirito e al sentimento degli amanti. Se il sensibile ci lega in quanto tale, se diventa tendenza, l’attrazione viene turbata nella sua semplicità, e alcuni prodotti artistici – quelli che vengono dalla moderna scuola pittorica parigina – oscillano già pericolosamente in questa direzione. Così la celebre Odalisca di Ingres. La figura è incomparabile, e così l’esecuzione, ma tutta la situazione non trasuda che sensualità. Una stanza chiusa, stretta, cuscini e tendaggi di seta pesante, nessuna possibilità di guardar fuori nella natura libera; sopra un tappeto accanto al giaciglio – su cui la bella voluttuosa e vellutata s’è distesa completamente in ozio – vi sono dolciumi, frutta, bicchieri; sulla parete di fronte è appesa una pipa da oppio. La Venere dell’harem ha fumato! Ingres può dire di aver dipinto tutto questo seguendo con assoluta fedeltà i costumi orientali; è vero, ma ciò non toglie al quadro l’impressione opprimente di mostrarci solo una schiava, non una bellezza libera. Quest’odalisca è soltanto una preda imprigionata, in gabbia; se fa qualcosa – perché in genere non fa assolutamente nulla – è per mangiare, bere e fumare. Com’è spirituale, com’è bello al paragone della pipa da oppio quel flauto in mano all’amante di Filippo! L’attraente, in quanto è una delle forme necessarie del bello, si connette naturalmente con tutte le altre e si dispiega in gradazioni assai varie: perciò noi facciamo un uso molto ampio del termine “attrattiva” e definiamo senza difficoltà attraente anche il grazioso e il giocoso. Per essere più esatti, tuttavia, ammetteremo l’attrattiva solo là dove predomina il fattore sensibile del bello; esattamente come, all’inverso, la sublimità della maestà cresce quanto più affonda nelle profondità dello spirito, nella libertà assoluta: per tal motivo troviamo la primavera, la giovinezza, la donna più attraenti dell’autunno, della vecchiaia e dell’uomo. Per aumentare l’energia dei sensi, l’attraente


ama il variopinto e soprattutto il contrasto: così ad esempio una statua di marmo bianco si distacca in modo tanto più attraente dal verde di un prato. Anche un velame accresce l’attrattiva: ce lo mostra con una certa agacerie perché lo nasconde. Analogamente, gli antichi poeti romani già cantavano che la bella fuggitiva è la più attraente. L’antitesi al bello piacevole è il ripugnante, e precisamente: (1) come negazione del grazioso, il goffo; (2) del giocoso, il vuoto e il morto; (3) dell’attraente, l’orrido. Il goffo è la mancanza di articolazione, di sviluppo nella bellezza delle parti; il morto la mancanza di movimento, l’indistinziòne dell’esistenza; l’orrido è l’attiva distruzione della vita attraverso il negativo che si manifesta per giunta in forma brutta. Dal punto di vista del sublime il goffo si contrappone al grande, il morto al potente, l’orrido al maestoso. La suprema distinzione del sublime esclude da sé ogni volgarità, mentre il ripugnante l’accoglie in sé; il sublime trasfigura il finito nell’idealità della sua infinitezza, mentre il ripugnante si sprofonda nella sporcizia del finito; il sublime ci esalta con forze divine fino all’eroismo mentre il ripugnante, con la sua informalità e impotenza, ci abbatte fino all’ipocondria. 1. Il goffo – Il grazioso è il piccolo che ci piace per la sua delicatezza, il goffo è ciò che ci dispiace per l’informità della sua massa o la pesantezza del suo movimento. Poiché il grazioso è accuratamente elaborato nelle sue parti, lo definiamo anche “fine”, così come definiamo “grezzo” il goffo per la carenza di sviluppo nelle distinzioni. Il goffo quindi non è informe; ha forma, ma una forma sgraziata in cui predomina la massa. Può anche muoversi, ma i suoi movimenti sono pesanti, sgraziati, grossolani. Un tronco di salice tozzo dai rami spezzati e che manca perciò di forma ha un aspetto goffo. Il coccodrillo, l’ippopotamo, il bradipo, il leone marino ecc. sono animali dal movimento goffo perché alla loro massa manca articolazione e elasticità. Né la grandezza della massa né la semplicità della forma sono cause di goffaggine, bensì la sproporzione e l’informe. Una piramide egiziana è una massa grande e di estrema semplicità senza goffaggine alcuna. Le dagopi (o stupa’s) invece, nel cui edificio a cupola si


voleva imitare la cavità celeste, appaiono goffe per le loro massicce e ottuse proporzioni. Gli dèi cabiri con le loro pance, i piedi corti e larghi, l’assenza di collo, le posture accasciate, sono goffi. La forza può correre il pericolo di cadere nel goffo nell’esprimere la sua energia, come è accaduto nell’arte figurativa con Eracle e Sileno. Anche il vigore rasenta questo pericolo, come appare a volte in Rubens. A dispetto delle sue forti figure di eroi, anche le sue figure femminili dovevano certo aver preso qualcosa del tipo delle Fiandre, spalle larghe, seno prominente, fianchi gonfi, lombi e braccia piene; nel turgore, tuttavia, v’è un’intimità di vita, un’articolazione, un’agilità, una tensione nervosa che fa sì che il decisamente goffo ancora non compaia. Per convincercene, lo possiamo paragonare a Martin de Bos, nelle cui figure l’esuberanza della carne nasconde la struttura, cosicché i rapporti appaiono grevi e pesanti. Il goffo in quanto movimento sarà naturalmente connesso, in definitiva, alla forma goffa in quanto statica. Da un ippopotamo, da un coccodrillo, da un pinguino, da un orso bianco, da un grosso allocco non ci si può aspettare altro che movimenti goffi. Ma anche da una forma bella e leggiadra può prodursi un movimento goffo, che in quanto contraddittorio con la forma deve apparire tanto più brutto. Proprio come, all’inverso, il movimento leggiadro di una massa in sé goffa – per esempio un elefante che danza sulla fune, come lo addestravano i romani – non può che mitigare, necessariamente, l’impressione di goffaggine nella forma. Quanto più un elemento è già predisposto a dispiegare finezza di forma, facilità, perfino eleganza di movimento, tanto più lo sentiamo ripugnante quando invece rozzezza e grossolanità predominano. È il caso soprattutto dell’elemento dello scherzoso e dell’umoristico. Lo scherzo e l’umorismo goffi sono brutti perché già nel concetto di scherzo e di umorismo come gioco c’è la facilità in quanto predicato ad essi essenziale. La volgarità di un Morolfo, ad esempio, si manifesta in una goffaggine di questo genere. Spesso il goffo viene chiamato anche zotico. Ma si sbaglierebbe di molto a confonderlo col contadinesco. Il contadinesco può essere massiccio, pieno di forza, ma non necessariamente è grossolano. Nella gerarchia di


una struttura per classi l’aristocrazia, di qualunque tipo sia, considererà sempre le maniere delle classi ad essa subordinate come goffe e grossolane. Ma il contadino in origine è identico alla nobiltà campagnola; dove compare come libero possessore del suolo, è certamente forte in quanto uomo che padroneggia la natura, ma nel costume e nell’educazione è tutt’altro che goffo, anzi è pervaso dal sentimento della sua forza, delle sue capacità, di naturale dignità, come dimostra il contadino libero in Norvegia, nei polder della Germania del Nord, in Vestfalia, in Svizzera. Così Voss negli Idilli ha dipinto il contadino dell’Holstein, e Immermann nel Münchhausen quello della Vestfalia. Il borgomastro di Immermann ci mostra la piena maestà virile che addirittura siede in giudizio con la spada di Carlo Magno, e sua figlia Lisbeth tutta la grazia e la modesta finezza di una fanciulla contadina che sa molto bene rastrellare, mungere, cucire, filare, cucinare senza perciò nuocere, con queste attività manuali, né alla nobiltà dell’animo né all’amabilità del comportamento. Giustamente il poeta sottolinea nel borgomastro il voler fare tutto «con maniera» cioè con la misura del costume, con il ritmo di contegno che la natura della cosa esige. Anche George Sand ha saputo cogliere molto giustamente nei suoi contadini del Berry – nel Mugnaio d’Angibault, nella Jeanne del Peccato del Signor Antoine ecc. – l’elemento convenzionale come caratteristico della loro natura. Rozzo è trascurare le maniere. Il contadino può essere chiamato αγροίκος, rusticus, rustre in antitesi all’urbanitas, all’agile scioltezza ed eloquenza del garbo cittadino. Ma la sua forma e il suo aspetto sono diventati esteticamente ripugnanti solo quando la nobiltà feudale lo ha intristito con una soverchia oppressione, gli ha succhiato il sangue fino in fondo con corvées imposte, quando trattandolo essa con durezza e rozzezza lo ha reso duro e rozzo, quando l’ha allontanato da sé con la sua alterigia. A questo punto il contadino si indurì; deriso come stupido e goffo divenne zotico, e l’alto titolo di “contadino” – colui che lavora 161 la terra di Dio con la sua mano e che con questa occupazione di autentica nobiltà prepara il fondamento dell’intera società civile – divenne sempre di più un’ingiuria, soprattutto per la frivolezza della nobiltà acquisita e


della nobiltà del denaro. Essendo il concetto di zotico connesso a quello di vile, dobbiamo ri-mandare alla precedente trattazione di questo concetto. In questo contesto abbiamo già discusso come la goffaggine diventi ridicola nel grottesco e nel burlesco. Il goffo è una leva principale del comico basso; tuttavia la pesantezza priva di articolazioni della forma massiccia e la goffaggine di movimenti debbono restare entro certi limiti per essere comiche, non devono diventare brutali. Ai nostri bambini l’antitesi comica tra il goffo e l’agile si palesa assai precocemente, quando vedono per strada gli orsi e le scimmie. Com’è ridicolo per il bambino quando il feroce animale trotta a due zampe – lo fa anche il bambino – a cavalcioni di un bastone, e quando, come fa la serva di casa, per prendere l’acqua si mette sulle spalle una traversa. E com’è fine e graziosa invece la scimmietta con la giacca rossa che batte i piatti sulla groppa dell’orso, sgranocchia noccioline, spara con un fuciletto! I comici hanno sempre tratto gran vantaggio dal contrasto tra il goffo e il grazioso. In particolare nelle fasi di passaggio hanno sempre messo a contrasto il provinciale e l’abitante delle piccole città con l’abitante della grande città, il piccoloborghese con l’alto-borghese, la recluta col soldato esperto, l’impiegato subalterno con l’alto burocrate. Soprattutto per i francesi, a causa della completa centralizzazione della loro cultura a Parigi, l’homme de province è uno stereotipo comico in tutte le variazioni possibili. Nelle sue commedie Aristofane ha aumentato la goffaggine dei Laconi, dei Triballi e simili facendoli parlare in dialetto, in contrasto con la finezza della lingua attica. Tutte le arti mimiche hanno nel goffo un effetto immancabile. Nell’Ifigenia in Tauride di Gluck la danza degli Sciti al cospetto dei Greci è di effetto incomparabile. Nella musica che l’accompagna Gluck ha descritto nel modo più geniale, sia nella melodia sia nella strumentazione, l’ottusità e la tetraggine della grande forza spontanea del popolo barbaro. Acrobati e cavallerizzi usano spesso il goffo come mascheramento grottesco per stupire ancora di più tramite il contrasto con il movimento etereo che si libera da esso. Proprio i cavalieri acrobatici di solito si presentano di primo acchito come poveri diavoli, stupidi e goffi, che non


sanno nemmeno cosa sia cavalcare. Ma una volta in groppa al cavallo, sorpassano ogni aspettativa con la loro temerarietà e audacia da rompicollo. 2. Il morto e il vuoto – Alla vita si contrappone la morte, e nella vita la serietà del lavoro si contrappone alla serenità del gioco. Dal punto di vista estetico il morto e il vuoto sono in antitesi con l’irrequietezza senza scopo del giocoso, ed esprimono la mancanza di vita e di libero movimento. Il morto in quanto tale non è ancora affatto brutto senz’altro, anzi la morte può avere come conseguenza, per gli uomini, un imbellimento dei tratti. Dalle rughe dei patimenti, dalle cicatrici della lotta emergono e ci sorridono ancora una volta i tratti fanciulleschi del volto nativo del morto. Benché trapasso alla morte anche il morire non è, in sé, necessariamente brutto. Nel saggio Come gli antichi raffiguravano la morte 162 , Lessing dice assai giustamente: L’esser morto non ha nulla di orribile, e siccome il morire non è altro che compiere il passo verso l’esser morti, anche il morire può non avere nulla di terribile. Solo morire in questo o in quel modo, morire ora, in questa situazione, per questa o quella volontà, con oltraggio e tormento può diventare e diviene orrendo. Ma al-lora è il morire, è la morte ad essere causa di orrore? Niente affatto. La morte è la fine desiderata di tutti questi orrori ed è solo a causa della povertà del linguaggio se designamo con un’unica parola entrambe le situazioni: la situazione che conduce inevitabilmente alla morte e la situazione della morte stessa. I Greci, come dice Lessing più avanti, distinguono tra la morte e la triste necessità di dover morire, come Kere. La prima la rappresentavano come una donna orribile, con denti voraci e mani adunche, la seconda come un genio leggiadro che spegne la fiaccola che s’è attenuata, fratello del sonno. Ma i Greci hanno anche rappresentato nella testa mozza di Medusa lo sguardo torvo, lo sguardo che tramortisce della morte. Dalla testa della Medusa morente nacque ancora Pegaso, e Atena inserì il groviglio di serpi nell’egida, perché era stata proprio lei, la dea guerriera del pensiero, ad avere ucciso l’unica figlia mortale della Gorgone. Prima, in un altro contesto, abbiamo assegnato la Medusa alle forme con cui i Greci sapevano tradurre così bene anche lo spaventoso nella bellezza più nobile. La forza di questa testa con le labbra piene di energia, agitate dalle


convulsioni, col mento volitivo, la fronte che ricorda quella di Zeus, soltanto un po’ più bassa, con gli occhi grandi, che fulminano sguardi spezzati, con la scura capigliatura di serpi attorcigliate, irradia anche da uccisa morte e rovina. L’immagine ideale più tarda della Medusa ha fuso in modo mirabile con la forza dei tratti una particolare malinconia. In un ritratto della Medusa che Ternite nei Wandgemalde (fasc. ii) 163 ha fedelmente riprodotto a colori i toni grigi, verdi e giallastri dello sguardo morente sono del massimo effetto. Nella più perfetta verità psicologica, nella sublime grandezza dell’insieme, l’orrore tuttavia è mitigato fino all’incanto. L’arte cristiana andò ancora oltre: poiché tutta la sua concezione del mondo vede la vera vita mediata dalla morte giusta. Il suo centro divenne il dio-uomo morto che però risorge alla vita eterna. Anche se è veramente morto il corpo di Cristo deve tralucere quindi dello spirito immortale che lo animava e lo animerà di nuovo. Quegli occhi chiusi si riapriranno, quelle labbra pallide ed immobili si rianimeranno, quelle mani irrigidite benediranno di nuovo e di nuovo spezzeranno il pane della vita. Ora, questa possibilità non deve essere rappresentata dallo scultore e dal pittore come vita residua nel cadavere (in questo caso si tratterebbe solo di morte apparente), ma deve apparire come miracolo che esiste unicamente in questo cadavere. Senz’altro il compito più difficile di tutta quanta l’arte figurativa, che solo le forze più geniali sono in grado di affrontare. Certo, la fede non ha a che fare in modo immediato con questi postulati estetici, e ai suoi gradi più bassi di cultura può esserle molto adatta anche una rappresentazione assai materiale della morte di Cristo. Un cadavere smagrito, pieno di ferite, distrutto dal patimento, sarà molto più impressionante per la massa proprio per la sua materialità e per la contraddizione implicita nel vedere tuttavia il redentore del mondo in una simile figura. Notoriamente le opere d’arte perfette dal punto di vista estetico non sono quelle che fanno miracoli; miracolose sono invece le figure del tutto eccentriche, spesso decisamente brutte, che con le loro forme stridenti hanno per la superstizione una forza d’attrazione magica. Il tipo del Cristo morto e morente fu naturalmente trasferito a Maria e ai santi. Qui l’idea fondamentale è sempre quella della vita dalla morte,


l’esatto contrario della testa di Medusa con lo sguardo mortale che Perseo – come in molti affreschi di Pompei – s’azzarda a mostrare ad Andromeda solo specchiata nell’acqua. Anche la morte personificata, come scheletro con la falce che non ha compassione di nessuno, la metamorfosi cristiana dell’antico Kronos, non è propriamente brutta. Lo scheletro umano è bello; soltanto le idee che lo accompagnano – il dover morire, la tenebra del sepolcro, la condanna, il giudizio – lo hanno circondato di terrore convenzionale. Solo in senso relativo, in rapporto alla vita fiorente, la carcassa – come si dice con un termine di esecrazione – è brutta. Nelle danze macabre la pittura ha perciò saputo individualizzare anche la morte, come potenza che distrugge la vita, in una suprema vitalità. Nello scheletro scarnificato, il pathos della distruzione tende le ossa con una forza insormontabile, che sorprende la vita in tutte le classi sociali, le età e le situazioni e le trascina giù nella tomba 164 . Quest’idea non fa comparire la morte da sola, ma la mette in contrasto con la varietà della vita; in contrasto con la vita diventa orrendamente bella. In tutte queste relazioni non si può parlare del morto e del vuoto di cui qui dobbiamo trattare, in quanto negazioni astratte della vita, che nella sua spavalderia travalica il bisogno. In ogni divenire, in ogni mutazione, in ogni lotta è già presente un’attrattiva. Ma se la vita si muove con giocosa assenza di scopo, nella gioia di un piacevole sentimento di sé, in ciò soltanto si gusta davvero come vita. Quando l’acqua mormora loquace sui ciottoli, i fiori esalano silenziosi in offerta il loro profumo e le farfalle svolazzano intorno ai loro calici oscillanti, quando la rondine pigola sul tetto il suo saluto, le colombe tracciano instancabili per l’azzurro del cielo cerchi luminosi, i cani corrono petulanti sull’erba, le fanciulle gettano la palla, i giovanetti provano nella lotta la forza delle membra vigorose, i ragazzi e le ragazze scaricano nel canto o nella danza la sovrabbondanza vitale: allora, e solo allora, la vita gode se stessa nella serenità del gioco. Come appare triste e brutto invece un torrente che scorre lento e poco profondo, un acquitrino stagnante, un prato arido e polveroso, un cielo grigio, un deserto senza suoni, il lavoro meccanico in una fabbrica, il silenzio di una corsia d’ospedale rotto solo dai gemiti!


Il morto brutto sta nella mancanza di autodeterminazione, che si dispiega in una varietà di differenze. Include quindi in sé in maggiore o minor misura il presupposto della vita, alla quale contraddice con la sua mancanza di distinzioni. Ciò può avvenire in vari modi. La concezione generale può essere in sé eccellente, ma l’esecuzione fiacca e vuota. Di solito, è questo il caso quando un genio più grande ha iniziato un’opera senza condurla a termine e la porta a compimento un talento inferiore. Qui il piano complessivo dell’opera è senza pecca, ma la rappresentazione non raggiunge l’altezza dell’intenzione e ci lascia freddi, come nel caso del Demetrio di Schiller e il suo compimento da parte di Maltitz 165 ecc. Oppure, l’ideazione è senza vita e la ricchezza esteriore dell’esecuzione deve nascondere la povertà interiore. Il divario tra l’originario carattere di morte e il lusso dell’arredo esoterico non fa che aumentare l’impressione di vuoto: così, nella perversione berniniana dello stile architettonico che aveva preso le mosse da Palladio, il gonfiore dell’esuberanza ornamentale non riesce tuttavia a celare la mancanza di vita nell’invenzione architettonica vera e propria. Oppure, si pensi a quella caterva di époi interminabili che esprimono balbettando in esametri, stanze o strofe nibelungiche, con una dovizia insopportabile, gli avvenimenti più privi di idee, come nell’Enrico il Leone di Kunze 166; come nella Noachide di Bodmer 167 , dove una cometa per comando divino si avvicina tanto alla terra da attrarre a sé le maree. Che massa d’acqua, che marea di sventure d’ogni tipo, che alluvione di cattivi esametri… e che sovrabbondanza di vuotaggine poetica! Si pensi a quelle odi senza idee che affettano ispirazione cumulando a mosaico paroloni tradizionali; a quei canti insulsi che continuano sempre a ripeterci di bere e cantare e cantare e bere; a quelle tragedie triviali alle cui sciocchezze e pathos da accattoni si porrebbe subito fine se dal parterre si potessero prestare dieci talleri al poveraccio sulla scena; a quelle commedie insipide dove un caso in sé molto innocente viene sfruttato fino alla disperazione dello spettatore: come sono morte, come sono vuote! Ma, infine, il carattere di morte può stare contemporaneamente sia nella carenza di forma, sia nella carenza di contenuto. Per dirla più esattamente, la mortuarietà dell’ideazione può


coincidere, in un’armonia terribile, con la mortuarietà dell’esecuzione. È il caso di molti prodotti allegorici, che si sforzano di sostituire la mancanza di un’autentica intuizione poetica con la personificazione di vizi e virtù, arti e scienze, e con un simbolismo messo assieme con faticosi cavilli: è il genere – escluse certe parti – del Roman de la Rose 168 , tanto amato nel Medioevo francese. È il caso inoltre di molte opere che dell’arte fanno soltanto il mezzo per esporre una tendenza. Noi non siamo affatto tra coloro che disprezzano le tendenze: l’artista non può sottrarsi alle correnti del tempo in cui vive; le tendenze includono in sé anche delle idee, ma non debbono essere scambiate con il dogma conchiuso di un partito. Ad esempio la tendenza della nostra epoca di mediare dall’interno, attraverso un vero processo di formazione educativa, l’opposizione di aristocrazia e democrazia in tutte le sue forme, ha prodotto due tra i nostri romanzi più egregi, l’Angioletto di Prutz 169 e il Cavaliere dello Spirito di Gutzkow. Ma questi scrittori hanno ottenuto un grosso successo perché dalla tendenza si sono sollevati all’ideale. Se invece la tendenza decade esclusivamente a slogan di partito, con questa intenzione prosaica uccide immancabilmente la poesia. In questo senso limitato, la tendenza ha conseguenze simili a quelle dell’allegorismo. Le figure diventano già nel momento in cui vengono ideate vittime del concetto, della cui vittoria o sconfitta in realtà si tratta. In molte opere scultoree e pittoriche è l’addestramento accademico, la supina adesione alle pose dei modelli e alle ombreggiature che introduce il nato morto. Anziché diventare opere d’arte, non diventano che lavori mal fatti. L’espressione di queste forme accademiche dà la sensazione che il loro sia solo un atteggiamento. Ma anche nella musica e in poesia si può osservare qualcosa di simile, quando delle mediocrità capaci soltanto di imitazione, improduttive in sé, prostituiscono la loro impotenza in ripetizioni infruttuose, intimamente vuote ed esteriormente legnose, delle idee dei grandi modelli. Ciò che nell’originale è un gioco della freschezza vitale nella copia dell’imitatore diventa un morto prodotto abborracciato, il vuoto aggregato di uno sterile eclettismo. L’invenzione vitale scaturisce da sorgenti misteriose ed erompe risuonando tripudiante come un torrente


montano; l’imitazione scorre lenta e taciturna come le acque morte in canali regolati. L’inventore è entusiasmato dalla rivelazione dell’idea stessa, l’imitatore si entusiasma solo di quell’entusiasmo. Se l’imitatore è anche un dilettante c’è da aggiungere anche tutto quello che abbiamo ricordato prima a proposito del concetto di corretto. La potenza dell’idea riempie il genio creatore di quella libertà che si sente una con la necessità della cosa; nella novità, grandezza ed ardimento della composizione può anche trasgredire per quella libertà la normalità empirica e le regole della tecnica. L’imitatore, in cui agisce il piacere per l’opera già creata, che per lui diventa un ideale empirico, un surrogato dell’idea, non può avere nessun pathos veramente creativo, anche se dovesse fingerlo a se stesso. Nella sua mancanza di autonomia, l’imitazione esagera non solo gli errori, ma di solito anche le virtù dell’originale, e a causa di questa dismisura fa diventare errori anche le virtù. Proprio perciò viene ucciso completamente il residuo di vita originaria che ancora sopravvive dal modello primitivo. Ora, così come abbiamo dato varie definizioni del vitale secondo i suoi vari aspetti, lo stesso facciamo per il morto definendolo vuoto, nudo, arido, desolato, deserto, gelido, freddo, legnoso, duro, ottuso, indifferente e così via, e connettiamo in vario modo tra loro questi sinonimi per caratterizzare qualitativamente il ripugnante, come canta Heine nell’Atta Troll 170: Rimbomba il suono del gran tamburo e il clangore dei piatti dove il cavo con il vuoto va in piacevole contatto. Il morto diventa comico attraverso il noioso. Il morto, il vuoto, il freddo per la sua mancanza di libero distinguersi, di sviluppo spontaneo diventa senza interesse, noioso. Il noioso è brutto; o piuttosto, la bruttezza del morto, del vuoto, del tautologico produce in noi il sentimento della noia. Il bello ci fa dimenticare il tempo, perché come cosa eterna che basta a se stessa colloca anche noi nell’eternità e ci riempie di beatitudine. Ora, se la vuotaggine di uno spettacolo diventa così grande che notiamo il tempo in


quanto tempo, sentiamo l’assenza di contenuto della pura temporalità e tale sentimento è la noia. In sé quindi la noia non è affatto comica, ma è il punto di svolta che conduce al comico, quando cioè il tautologico e il noioso vengono prodotti come autoparodia o ironia, e tutta quanta un’orribile ballata è fatta soltanto di questi versi: Edoardo e Cunigonda Cunigonda, Edoardo Edoardo e Cunigonda Cunigonda, Edoardo. 3. L’orrendo – Se il bello unisce l’amabilità della forma delicata con il gioco grazioso del movimento, diventa seducente. Non è necessario che si tratti di un gioco agitato, vi può dominare la più gran quiete: deve però esprimere l’animazione della libertà della vita. Pensiamo a una di quelle ninfe addormentate dipinte dagli antichi, Tiziano, Netscher, Rubens: il sonno non è morte. Anche nella dormiente la pienezza della vita tende la morbida pelle, solleva e abbassa il seno, ondeggia e rifluisce attraverso la bocca leggermente aperta e scuote le palpebre con un tremito. In questo gioco della vita la forma delicata diventa attraente. Se la cancelliamo, la forma morta resterebbe pur sempre delicata perché in definitiva non si cambierebbe nulla delle sue proporzioni, però non potremmo più dirla attraente. Décamps ha dipinto una bella fanciulla che giace cadavere su una tavola in una soffitta vuota, coperta da un velo sottile che ne fa trasparire i nobili tratti. Qui nessuno parlerà di attrazione, giacché attrazione c’è solo nel vivente. Oppure facciamo l’ipotesi che la forma sia brutta: allora non la troveremmo neppure attraente. Anche una vecchia, una anus libidinosa come dice Orazio, respira nel sonno, alza e abbassa il seno vizzo, ma ci apparirà solo tanto più brutta. L’attraente però esige anche la delicatezza della forma: se ci immaginiamo una bellezza sublime, la forza delle sue membra e l’austerità delle sue forme avrà qualcosa che respinge piuttosto che invitare al godimento. Gli antichi lo esprimevano nel mito di Era, che per suscitare l’amore di Zeus dovette prima prendere a prestito da Afrodite il cinto dell’avvenenza. Opposto all’attraente è l’orrendo, in quanto deformità che nella


bruttezza del suo movimento produce sempre e solo nuove deformità, dissonanze, parole sconvenienti. L’orrendo non ci mantiene a rispettosa distanza, come il sublime, ma ci respinge da sé; non ci attira a sé allettandoci, come il piacevole, ma ci fa inorridire di fronte a lui. Non ci soddisfa, come fa il bello compiuto, con un’assoluta conciliazione, nell’intimo della nostra natura, ma ne estrae dalle profondità l’estrema disarmonia. L’orrendo è cioè quel brutto a cui l’arte non può affatto sottrarsi se non vuole rinunciare a rappresentare il male, e muoversi in una concezione superficiale e limitata del mondo, che avrebbe per scopo solo l’intrattenimento piacevole. Insomma l’orrendo è: (1) in senso ideale l’insulso, la negazione dell’idea nell’assenza di senso per antonomasia; (2) in senso reale il ripugnante, la negazione d’ogni bellezza nella manifestazione sensibile dell’idea; (3) in senso ideale il male, la negazione sia del concetto dell’idea del vero e del bene, sia della realtà ditale concetto nella bellezza della sua manifestazione. Il male è l’apice dell’orrendo in quanto negazione assoluta, positiva dell’idea. L’arte non solo può servirsi di tutte queste forme del brutto, ma è costretta a farlo a certe condizioni. Abbiamo parlato delle condizioni generali del brutto nell’Introduzione: sono quelle senza cui la rappresentazione del brutto non è in generale accettabile. L’orrendo dunque non può mai essere scopo in sé, non può essere isolato; deve essere provocato dalla necessità di rappresentare la libertà nella sua totalità, e infine deve essere idealizzato come ogni fenomeno in generale. Ma consideriamo, ora, in che consistono le condizioni particolari della sua possibilità estetica. a. L’insulso – L’orrendo in generale contraddice la ragione e la libertà. In quanto insulso rappresenta tale conflitto in una forma che offende segnatamente l’intelletto negando in modo infondato la legge di casualità e, con l’assenza di connessione che ne consegue, la fantasia. L’insulso, l’assurdo, lo sciocco, il controsenso, l’insipido, il pazzesco, il matto, o comunque lo si possa altrimenti chiamare, è l’aspetto ideale dell’orrendo, il fondamento teorico, astratto della disarmonia estetica in esso presente. Non è la contraddizione in generale ad essere assurda: essa può essere


razionalmente giustificata come già abbiamo visto chiarendo il concetto di contrasto. Il bene contraddice a ragione il male, il vero la menzogna, il bello il brutto. Ma la cosiddetta contradictio in adjecto è una contraddizione che distrugge se stessa, ed è una contraddizione di questo tipo che costituisce il contenuto dell’insulso. La logica distingue tra contraddizione e contrasto. La contraddizione non è che la semplice negazione indeterminata di un predicato da parte del giudicante, il contrasto invece la negazione positiva di un predicato tramite il predicato opposto ad esso immanente. Assurdi non sono né quella contraddizione né questo contrasto: lo è bensì la contraddizione che nega col predicato il soggetto stesso, ad esempio se dicessi: il bianco è nero, il buono è cattivo, e così via. Del resto questa determinazione – giustissima in sé – non è affatto definitiva: gli estremi possono passare l’uno nell’altro. La massaia, ingenuamente, dice della biancheria bianca che è diventata nera; il diritto – dunque in sé un bene – per astratta rigidezza diventa spietato, e quindi cattivo; se trattato a proposito il brutto può acquistare entro una totalità estetica il significato del bello, non di un bello brutto, bensì di un brutto bello; e così via. Molte cose per il mero intelletto sono assurde: sono invece tanto poco assurde che, piuttosto, sono il razionale stesso. Dobbiamo avere ben presente questa dialettica, che riposa sul finito, per riconoscere con precisione i confini dell’insulso o per comprenderne l’affinità col ridicolo. È già chiaro da quanto si è detto che la completa insensatezza senza motivazione più profonda, puro caos di contraddizioni casuali, è senz’altro riprovevole per l’arte. Chi dovrebbe interessarsene, allora, sarebbe lo psichiatra. Ad esempio Hohenbaum nell’acuto saggio Psychische Gesundheit und Irresein in ihren Übergängen 171 fa questi esempi di insensatezza, attribuendoli a un maestro che soffriva di dissipazione mentale. Quest’uomo incorreva spesso in lapsus e diceva ad esempio: Un tempo Gerusalemme era nelle mani dei Turchi – Vede, questa tesi è ben intricata, perché non c’è assolutamente nulla di intricato – Annibale legò il fiume nella sponda sinistra e vi fece gettare della sabbia per fare attraversare meglio gli elefanti – L’imperatrice morì e lasciò un figlio


non nato – Un tempo i Lacedemoni portavano un Pileus sul cappello – Aiace sollevò una pietra e la scagliò in testa ad Aiace uccidendolo. 172 A ciò, come si è detto, non può interessarsi l’estetica ma solo la psichiatria. Non si può negare che una parte non piccola della letteratura poetica del nostro secolo appartiene propriamente solo a questa categoria. In Inghilterra, Francia e Germania, sia da parte della reazione divenuta stupida e superstiziosa sia da parte della rivoluzione divenuta atea e libertina è comparsa tutta una messe di prodotti, romanzi soprattutto, che meritano attenzione solo come sintomi della mentalità del tempo, in una prospettiva politica e psicologica, ma non come opere d’arte. Qui la dilacerazione degli spiriti eccitati e in rivolta è giunta fino alla confusione nel nesso dei pensieri, e Mager non ha esitato a istituire per questo genere letterario la categoria «romanzi folli» nella sua Geschichte der Französischen Nationalliteratur neuerer und neuester Zeit 173 . Non bisogna quindi scambiare l’assoluta inintelligibilità di quest’assurdo delirio con quella contraddizione che nell’intuizione fantastica del mondo contraddice sì l’intelletto ma perché, nel gioco con i limiti del finito, vuol rappresentare la natura dell’idea. Vi appartiene il meraviglioso, che nega la legge della causalità oggettiva per rappresentare in forma fantastica un’idea superiore, la libertà dello spirito dalla natura. Il vero miracolo si distingue dal cattivo miracolo per l’infinitezza del suo contenuto etico-religioso, mentre il cattivo miracolo assolutizza il controsenso come tale, l’assurdità stessa. Abbiamo di fronte questa distinzione in due mitologie, la greca e l’indiana. I momenti taumaturgici nei miti greci sono sempre connessi con le idee più profonde, cosicché sono diventati per l’umanità colta i simboli più belli e universali delle idee, mentre i miti indiani sono troppo intricati e circondati da viticci assurdi per poter rendere visibile l’elemento di sensatezza che pure vi è presente. Una differenza analoga c’è tra i miracoli raccontati dai Vangeli canonici e quelli dei Vangeli apocrifi, che sono più o meno assurdi. Anche nelle leggende ritroviamo questa doppia tendenza. Il meraviglioso della poesia favolistica si perde totalmente nello straordinario e nell’avventuroso e nei particolari rasenta spesso l’assurdo totale. Ma finché ha ancora un


reale contenuto poetico, avrà anche nel suo elemento taumaturgico quella verità simbolica che prima – trattando dello scorretto – non abbiamo potuto fare a meno di rivendicarle. Questo simbolismo, il riverbero dell’idea nella tenera fantasia infantile, unirà istintivamente la favola autentica con le grandi forze della vita naturale e morale; invece la favola, così come la fabbricano spesso oggi i poetastri dei volumetti con le rilegature dorate buoni per i tavolini da té, si distacca da quelle potenze e cerca la sua forza nel bambinesco. Quanto più assurdi i pensieri di questi corruttori della gioventù, tanto più sembrano poetici. In questo confuso fantasticare, che porta fino all’estremo una tendenza alla CallotHoffmann, alla fine era scomparsa ogni traccia della causalità vera e anche gli oggetti più ordinari, da ultimo, cominciavano a parlare e a pensare; perciò il genere del Pierino Porcospino ebbe una risonanza così straordinaria: perché seppe far rivivere con ingenuità il non-senso più strabiliante e tale da far rizzare i capelli, con un tipo di poesia lapidaria e pittura ad affresco, ironizzando quindi sul piagnisteo dei poeti di favole eleganti e senza idee. Si spiega allora perché, stranamente, gli adulti leggevano le storie alla Pierino Porcospino non meno volentieri dei bambini, fino a che la torma degli imitatori ha naturalmente degradato al bambinesco anche questa maniera letteraria. Per tornare dopo questa digressione al concetto di assurdo, ciò che all’interno della favola e anche del mito sta propriamente alla radice dell’assurdità è la magia, come realizzazione in sé priva di concetto dell’arbitrio assoluto della fantasia. La magia è un agire insensato perché produce effetti attraverso cause che non hanno con essi alcun rapporto. Il mago traccia un cerchio, e appare il più obbediente degli spiriti; tocca con una bacchetta una tigre infuriata e subito questa si pietrifica diventando una statua; dice una formula del tutto insensata, assolutamente incomprensibile anche a lui, e un palazzo si alza da terra. Nella magia la causalità pragmatica viene negata: è dunque conseguente che anche il suo procedimento, le sue formule, scongiuri e riti siano totalmente privi di intelletto. Nondimeno, anche qui si troverà quella stessa duplice tendenza che abbiamo già mostrato come differenza tra vero e falso miracolo, favola autentica e pseudoprodotto malato di un


fantasticare delirante, debole di nervi. Se la magia assume la tendenza di dischiudere all’uomo un superiore mondo di spiriti; se ha la pretesa di aprirgli la porta di un aldilà sconosciuto: allora alla sua soglia sarà indispensabile una certa terribile serietà, perché in un’impresa del genere è implicita una specie di sublime temerarietà. Se però lo scopo della magia diventa futile, insulso, meschinamente egoistico e addirittura immorale, è normale che anche i suoi mezzi siano sciocchi, folli e grotteschi. Quando il Faust goethiano evoca lo spirito della Terra, si tratta di un momento sublime, a cui corrisponde anche la sublimità del fenomeno. Ma quando lo stesso Faust si fa preparare da una strega un intruglio e tenendolo nel corpetto vede in ogni donna Elena, nella cucina della strega sentiamo subito l’assurdo, che urta il filosofo. Nella pazzia l’incoerenza dei pensieri, l’insulsaggine delle rappresentazioni e l’insensatezza delle azioni sono diventate triste realtà. Pittura e musica possono rappresentare solo in modo relativo questa situazione. Nell’opera Anna Bolena Donizetti ha cercato di esprimere l’erompere della follia con suoni bassi e tremolanti che s’innalzano improvvisamente in acuti e poi si spengono in note profonde. Qui solo la poesia può arrischiarsi a raggiungere la completezza. Ma essa potrà fare dell’assurdo solo un mezzo per rappresentare simbolicamente il frantumarsi dello spirito. In sé le combinazioni ad libitum, le digressioni, le sintesi impossibili nel disfacimento dell’intelligenza impazzita sono raccapriccianti. Con un tremito di paura ci distogliamo dall’abisso dell’assurdità. La poesia deve mostrarci la follia come conseguenza di un immane destino, così da farci vedere nel vaneggiamento senza connessione del folle la furia delle potenti contraddizioni a cui l’uomo ha dovuto soccombere. Non siamo terrorizzati solo di fronte alla scissura che questa dissennatezza ci rivela, ma anche di fronte alle forze che hanno potuto produrre questa crudele dissonanza. Come è noto, Lessing ha detto che chi non perde l’intelletto di fronte a certe cose, non ha intelletto da perdere. Egli non ha parlato di ragione, ma ha voluto dire che è molto razionale, piuttosto, perdere l’intelletto di fronte a certe cose: l’intelletto che non può concepire il portento, ciò che oltrepassa tutti i suoi confini,


l’insussistenza di ragione in un caso concreto, cosicché è la ragione che, come sragione, confonde l’intelletto. «Certe cose»: a cosa poteva alludere Lessing dicendo questo, se non all’esistenza di contraddizioni che in apparenza distruggono la realtà dell’idea stessa? Solo in apparenza, perché l’arte deve tener fermo alla verità dell’idea e mostrare pur sempre, nella filastrocca del folle, il suo sottofondo positivo, ciò che Shakespeare chiama il metodo nella follia. Deve afferrarla in quell’affinità con la natura del genio che Schopenhauer ha indicato con tanta acutezza 174 . Dal punto di vista estetico dovremo esigere, dunque, che nelle avventurose espressioni del folle traluca ancora un barlume dell’idea, che nelle frasi frantumate, nell’intrico di controsensi, nelle interiezioni ellittiche e nel suo bizzarro contegno la ragione continui tuttavia a illuminare se stessa come se si trattasse della sua caricatura, e rimanga quindi come possibilità nell’infelice. L’assurdo di una pazzia sorta da una causa esclusivamente somatica – colpo apoplettico, commozione cerebrale e simili – non può quindi diventare oggetto estetico perché gli manca l’ingrediente della ragione. Lo stesso vale per il raptus di follia che nasce da un motivo meschino, da comune passione. Entrambe le situazioni sono semplicemente brutte. Ma se l’uomo è gettato nella follia dalla contraddizione di un destino possente o dalla nemesi che consegue da atti gravi, nelle sue azioni sconvolte e nei discorsi confusi tornerà pur sempre a balenare la ragione. Se nel mondo c’è ragione, se c’è un Dio può essere possibile l’orrendo l’innaturale, il diabolico? Può l’innocenza essere derisa come colpa, il diritto come torto, ed essere divinizzata la malvagità? Il vero poeta fa esprimere agli infelici maciullati dall’esperienza della realtà di cose così tremende le più immani empietà contro gli uomini e gli dèi. Ciò che altrimenti l’uomo cela in sé, ciò che per pietà, costume, legge, fede respinge nel fondo di se stesso come empietà senza Dio, ciò che al cospetto di un ordinamento esistente e riconosciuto dal mondo è demenza e insulsaggine, tutto ciò viene confessato con tutta la forza di un’audacia impressionante dall’anarchia dell’intelligenza dilacerata in se stessa. La follia tragica capovolge l’ordinamento del mondo: lo scettro deve spettare all’assurdo secondo che capita. L’amico tradisce l’amico,


seducendogli la sposa; l’amante rompe il giuramento di fedeltà; la moglie avvelena il marito; l’ospite amico, che è anche re e signore, viene colpito a morte da colui che dovrebbe difenderlo con il proprio sangue; il padre viene ripudiato dai figli a cui ha sacrificato tutto e così via. Atti del genere, neri come la notte, non minano forse le leggi eterne dell’universo? E tuttavia ci sono, nella loro netta, chiara, caparbia realtà, e sembrano deridere come se fosse un pazzo colui che è abbastanza sciocco da credere, nonostante ciò, alla santità del bene, alla forza della ragione. L’arte non può lasciare alla follia l’ultima parola. Deve rappresentare in essa la maledizione della nemesi che avanza nel buio, oppure risolverla in una totalità superiore. Il pericoloso traviamento del romanticismo moderno era di spingere la sua opposizione contro l’illuminismo e l’assennatezza – la sua ironia, come la chiamava – a tal punto che la pazzia, il sogno, la follia dovevano essere visti come la verità del mondo: una concezione folle in se stessa, la quale non poteva avere per conseguenza che brutture. Il folle ha il privilegio di esprimere con sfrenata parresia idee che, altrimenti, soltanto nello scetticismo filosofico non sarebbero scellerate, o che, come manifesti rivoluzionari dell’anima più angosciata, potrebbero lampeggiare soltanto nel sogno. Ma per essere bella, la smania che fruga ovunque deve avere un punto mediano di individualizzazione estetica che non faccia spegnere nel vuoto assoluto l’impeto delle idee eccentriche, ma piuttosto le faccia gravitare su di esso. Il poeta deve dare alle variazioni del folle, che divagano nell’assurdo, un tema di interesse generale. La follia di Gretchen in carcere ha questo centro nell’idea di aver offeso per amore dell’uomo l’amore per la madre e per il figlio; Agostino nel Meister nell’idea del fatalismo; Lear nell’autorità offesa di re e di padre, e così via. La rappresentazione della follia quindi è infinitamente difficile e può riuscire solo ai sommi maestri come Shakespeare, Goethe, George Sand, e tra i pittori Kaulbach nel suo Manicomio, ecc. Nel moderno teatro francese, solitamente non avaro di disarmonie, merita di essere segnalata una pièce di Scribe e Mélesville, Elle est folle! 175 , non solo perché fornita di estrema precisione psicologica, ma perché finisce per condurre a risoluzione la follia. Un


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