popolarmente dicendo che il diavolo può anche fingersi angelo della luce, quale in origine era. Il brutto può prodursi anche senza il male. Ma il sentimento di colpa, non riducibile alla paura che fa rizzare i capelli di fronte alla pena, può come autentica contrizione conferire a un volto un’espressione di bellezza addirittura sovraterrena, come quella che i pittori cercano di dare alla Maddalena in preghiera. Quando uno scultore fa una cattiva statua, un musicista una cattiva opera, un poeta una cattiva poesia, non occorre far derivare la bruttezza della loro creazione da una bruttezza del loro cuore, dalla loro cattiveria. Possono essere gli uomini migliori del mondo, e tuttavia mancare di talento e di gusto. Anzi, il bene può diventare esso stesso causa di brutto, come vediamo in certi lavori dell’uomo duri, sporchi, pericolosi. Coloro che lavorano in pozze d’arsenico, fabbriche di biacca, cloache, gli spazzacamini ecc. svolgono certamente attività onorevolissime, ma ne vengono forse abbelliti? Ci siamo convinti che la possibilità del brutto stia innanzitutto in questo; che venga trasgredita la determinatezza di misura dell’unità, della distinzione, dell’armonia, una negazione che in quanto tale non ha ancor nulla a che fare con l’opposizione di natura e spirito, buono e cattivo. Inoltre, ci siamo convinti che il brutto può nascere perché viene negata la particolare determinazione formale che appartiene in maniera necessaria allo spirituale e al naturale. La correttezza di un fenomeno sta nell’accordarsi senza impedimenti del singolo con la specie, nella compiutezza e fedeltà con cui il fenomeno corrisponde all’essenza. Se viene trasgredita questa norma ne risulta la scorrettezza, una bruttezza che soffre di molte limitazioni, perché la fedeltà pura e semplice deve subordinarsi alla verità ideale. Il motivo ultimo della bellezza, cioè, non è che la libertà. Il termine qui non va assunto in senso esclusivamente etico, ma nel senso generale della spontaneità, che certamente trova il suo compimento assoluto nell’autodeterminazione etica, ma che nel gioco della vita, nei processi dinamici ed organici, diventa anche oggetto estetico. Ma unità, regolarità, simmetria, ordine, naturalezza, correttezza psicologica e storica ancora non soddisfano compiutamente il concetto di bello. Esso esige inoltre animazione per autonoma attività, una vita che vi
defluisca spontaneamente. Tale autonoma attività – dobbiamo ammetterlo – può costituire una verità dal punto di vista estetico, e dal punto di vista reale una mera apparenza. L’estetica può arrestarsi all’apparenza. Quando sprizza fuori lo zampillo di una fontana, il fenomeno è un prodotto meramente meccanico dell’altezza di caduta che l’acqua deve prima percorrere, ma la forza con cui zampilla gli dà la parvenza del libero movimento. Un fiore dondola la corolla. Non è il fiore stesso ad andare avanti e indietro, in qua e in là: è il vento che lo fa dondolare, ma l’apparenza fa sembrare che si muova da sé. Senza libertà dunque non c’è autentica bellezza; quindi senza illibertà non c’è vera bruttezza. Assenza di forma e scorrettezza toccano l’apice, la loro base genetica. È da qui che si sviluppa la deformazione. Il bello in generale si particolarizza nell’antitesi di bello sublime e bello piacevole; un’antitesi che nel bello assoluto si supera sposando dignità e leggiadria. In questa suddivisione naturale – così ci sembra – il sublime non è contrapposto al bello, come si fa di solito da Kant in poi, ma viene trattato come una forma del bello, come un estremo del suo manifestarsi, con cui passa all’infinitezza. Proprio perciò questa suddivisione pone anche il piacevole come una forma positiva ed essenziale del bello, come l’altro estremo del suo manifestarsi, il passare alla finitezza. Sia il sublime sia il piacevole sono belli, e in quanto belli reciprocamente contrapposti, coordinati; subordinati lo sono al bello assoluto che, come loro unità concreta, è tanto sublime quanto piacevole, proprio perché non è unilateralmente l’uno o l’altro. Il brutto come negazione del bello, pertanto, deve sovvertire positivamente il piacevole, il sublime, il bello per eccellenza; esso nasce da questo sovvertimento. Si potrebbe paradossalmente dire: il sublime, il piacevole, il grave e il leggiadro sono belli, ma possono diventare brutti; ma queste formulazioni paradossali sono molto pericolose per la corretta comprensione, perché è facile assumerle in modo incondizionato. Nel nostro caso, cioè, come se il sublime e il piacevole non fossero belli, come se la bellezza assoluta non escludesse da sé ogni bruttezza. Nella sua Ästhetik Weisse, sviluppando dialetticamente l’argomento 81 , aveva l’ardire di affermare addirittura che
il bello immediato è il brutto. L’intelletto astratto ripaga solo con ingiurie queste arditezze, nient’affatto rare nei filosofi greci, perché non s’immerge nella profondità delle cose, perché non discende come Faust alle Madri, che custodiscono nel loro grembo oscuro tutto il divenire. Per essere compreso, il brutto non va inteso come qualcosa che veramente esiste, ma come qualcosa che diviene. Il sublime viene negato perché, anziché l’infinitezza della libertà, indica la finitezza dell’illibertà. Non l’illibertà del finito, perché questa è irrilevante dal punto di vista estetico. Ma la finitezza, che sta nell’illibertà, diventa contraddizione verso la libertà, la cui natura è in sé infinita. In questo contrasto la definiamo volgare. La volgarità ha senso solo in quanto non deve essere, perché contraddice l’essenza nel suo dover-essere libera. Il concetto di sublimità è la condizione del concetto di volgarità. Ad esempio diciamo volgare una fisionomia quando tradisce che il suo proprietario dipende da un vizio, perché una tale dipendenza è contro il concetto di uomo, di ciò che dovrebbe esserle superiore. Il piacevole fa comparire la libertà in determinazioni subordinate, in relazioni finite; esso ci avvince con il fascino dell’autolimitarsi della libertà. Il piacevole è dunque, e proprio in senso appropriato, il bello socievole, e il popolo più socievole, o ancor più esattamente il popolo più sociale, il francese, esprime il proprio riconoscimento del bello più col predicato joli che col sostantivo beau. La negazione della libertà, che gioca col suo finitizzarsi, è la negazione della libertà con l’illibertà che contraddice se stessa. Essa è repellente perché nega limiti che necessariamente dovrebbero appartenere alla libertà, e pone invece limiti che non le dovrebbero essere propri. La libertà nello stato di illibertà è ripugnante e il ripugnante è quindi contrapposto al piacevole, perché fa comparire la libertà nella contraddizione – nel finito che dovrebbe essere solo un momento e un mezzo del suo movimento – di avere un limite che essa non supera, e contemporaneamente le fa superare limiti che dovrebbe avere. Perché ad esempio il decomporsi del vivente è uno spettacolo ripugnante? Senza dubbio perché decomponendosi cade preda delle forze elementari di cui, fino a che viveva, era signore. Decomponendosi ancora ci mostra la forma in cui
eravamo abituati a guardarlo, un essere che determinava se stesso, che padroneggiava il suo presupposto elementare: ma questa forma la vediamo dissolversi, la vediamo sottomettersi proprio alle forze che da viva essa soggiogava. Tutto ciò è ripugnante, perché quel che concettualmente è libero è ora passato in uno stato caratterizzato dall’illibertà. Tale illibertà sfocia in una finitizzazione che nega i limiti a esso necessari in quanto essere vivente. L’essere che si decompone decade e si dissolve, e quanto può essere necessario in date circostanze tale processo, altrettanto è ripugnante, perché esteticamente immaginiamo che la forma rechi ancora in sé la forza della vita. Volgarità e ripugnante sono naturalmente termini connessi, ma anche distinti. Di regola il volgare diventa anche ripugnante. Quando uno eccede nel mangiare e nel bere, si tratta di una volgarità. Se in conseguenza della crapula vomita, la volgarità diventa ripugnante. La finitezza della illibertà diventa situazione di illibertà nel finito. La smoderatezza inverte il corso ordinato della natura e degrada la bocca ad ano. Nel bello assoluto il sublime diventa gravità e il piacevole leggiadria. In esso l’infinitezza del primo diventa forza dell’autodeterminazione, e la finitezza del secondo mitigarsi dell’autolimitazione. L’analogo nel brutto del bello assoluto è perciò quella struttura estetica che rappresenta la finitezza dell’illibertà nello stato di illibertà del finito, ma in modo che l’illibertà assuma la parvenza della libertà e la finitezza la parvenza dell’infinitezza. Una simile forma è brutta perché il vero brutto è il libero che contraddice se stesso con la sua illibertà e si pone nel finito un limite che non dovrebbe esserci. Ma con l’apparenza della libertà la bruttezza si attenua; la paragoniamo con la forma che costituisce la sua controfigura ideale, un paragone che risolve in comico il fenomeno brutto. L’autodistruggersi del brutto con l’apparenza della libertà e dell’infinitezza, che scaturisce appunto dalla deformazione dell’ideale, è comico. Chiamiamo caricatura questa particolare forma di brutto. Viene dall’italiano “caricare”, e perciò di solito definiamo caricatura l’esagerazione del caratteristico. In generale la definizione è giusta, ma nel
particolare va determinata con maggior precisione, nel contesto in cui un fenomeno si colloca. Il caratteristico è l’elemento dell’individualizzazione. Se esagera l’individuale, allora il generale scompare in quanto l’individuale si pavoneggia, per così dire, atteggiandosi a specie. Deriva proprio di qui l’esigenza di confrontare il contrasto dell’iperindividualizzazione con la misura della necessaria generalità, e in questa riflessione appunto sta l’essenza della caricatura. Il bello assoluto accorda positivamente in sé gli estremi del sublime e del piacevole, mentre la caricatura sottolinea gli estremi del volgare e del ripugnante. Ma contemporaneamente fa intravedere il sublime e il piacevole, e pone il sublime come piacevole, il piacevole come sublime, il volgare come sublime, il ripugnante come piacevole, e la nullità della vuotezza priva di carattere come bello assoluto. Ciò chiarisce la grande versatilità del concetto di caricatura, la possibilità anzi di estenderlo al concetto di brutto in generale. Ciò che è solo informe o scorretto, solo volgare o ripugnante, non è ancora caricatura. L’asimmetrico ad esempio non è ancora caricatura: è la semplice negazione della simmetria. Ma un’esagerazione della simmetria, dove essa non è più affatto al suo posto, diventa, in questo suo snaturamento, procedimento caricaturale, un andar oltre la misura del simmetrico che il concetto delle cose esigerebbe. Oppure: il fatto che uno lardelli di proverbi il discorso, ancora non è cosa scorretta; ma se uno, come Sancho Panza, alla fine parla soltanto per proverbi, l’aggregato di proverbi diventa una distorsione caricaturale in cui la forza sentenziosa del proverbio va perduta a causa dell’esagerazione. Una fisionomia volgare in quanto tale ancora non è caricatura, ma quando un volto sembra ridursi tutto quanto a una delle sue parti, sembra essere solo mascella, solo naso, solo fronte ecc., allora c’è una distorsione; una persona con un cosiddetto naso da una libbra ci fa cercare, per così dire, le altre parti del volto. Allo stesso modo, anche il ripugnante in quanto tale non è affatto ancora caricatura. Quando una situazione repellente costringe una persona a rivolgersi involontariamente ad essa, ciò può suscitare la nostra pietà più intima, come ad esempio nel caso
dell’epilessia. Ma quando vediamo Blepiro nelle Ecclesiazuse di Aristofane uscir di casa all’alba vestito dei panni di sua moglie raccattati in tutta fretta, per fare i suoi bisogni, allora il ripugnante viene messo in commedia come caricatura, perché Blepiro crede di non essere visto 82 . Con questo tratto, un grande artista come Aristofane lega tutto un esuberante insieme di fini allusioni, a prescindere poi completamente dal fatto che dà del levarsi dal letto di Blepiro una spiegazione naturale, con l’impellenza del «mastro Sterco», come traduce Voss 83 . Dove sta qui, in particolare, l’effetto caricaturale? Chiaramente nel fatto che la moglie del rispettabile borghesuccio ateniese, Prassagora, vestita coi panni del marito è già andata in piazza a un’assemblea delle donne, e mentre Blepiro si arrabatta per un bisogno volgare, colà si vuole dare un nuovo ordinamento legislativo alla comunità. Come dire: gli uomini non sono più uomini, qui gli uomini sono le donne. Quindi compare Blepiro colla mantellina della moglie rialzata a metà, e con le di lei pantofole; il suo vicino gli va incontro e i due rispettabili cittadini discorrono sul bisogno di Blepiro, al quale all’improvviso «una pera selvatica ha ostruito l’intestino». Un dialogo spiritoso, che però Aristofane volge anche in senso satirico, connettendo alla scena non solo allusioni politiche, ma ridicolizzando anche quei poeti che nelle loro commedie sostituivano il sale attico di cui erano privi con l’ammannire al pubblico un eccesso di stridenti cinismi. La caricatura enfatizza una particolarità oltre misura producendo così uno squilibrio e, poiché ricorda il suo contrario ideale, diventa comica. Diventa comica, perché in sé non segue affatto di necessità che ogni caricatura abbia un effetto comico: in quanto distorsione può essere anche semplicemente brutta o orribile. L’ingrandimento o il rimpicciolimento oltre la grandezza naturale ma proporzionato, ad esempio, non produrrebbe ancora una caricatura: in questo andar oltre o restare al di qua della norma sarebbe comunque mantenuta l’unità di tutti i rapporti. La statua di Napoleone sulla colonna di place Vendôme è colossale e deve esserlo, in conformità alle proporzioni degli edifici attorno alla colonna stessa. Un’imitazione in ghisa di tale statua della
grandezza di un dito, che mettiamo sulla scrivania, non è una caricatura. Così un lappone, che è grande solo quattro piedi ma è perfettamente proporzionato, è tanto poco una caricatura quanto lo è la betulla nana dei suoi pascoli. La grandezza nana è la grandezza normale del lappone. Invece il boscimano dal capo grosso, le cosce sottili, le gambe quasi prive di polpaccio, già tende allo scimmiesco e dunque ad essere una caricatura della figura umana. Solo un momento particolare che faccia scomparire in modo unilaterale tutto il resto produce nella figura quel dissidio che merita il nome di caricatura; anche se, come abbiamo già ricordato, noi tendiamo a concepire tutto il brutto come una distorsione del bello. Certamente esitiamo, ad esempio, a definire la Forcide una caricatura perché, in contrasto con la bella Elena, ci rappresenta la bruttezza in generale, il male estetico. Ma in senso stretto quelle mascelle sdentate, le rughe, le braccia vizze, i seni piatti, cadenti, quei gesti affrettatamente lenti sono semplicemente brutti e quasi raccapriccianti. Per essere caricatura, bisognerebbe che un punto particolare della deformazione tendesse all’abnorme; però non c’è nella Forcide, o al massimo potrebbe essere ravvisato nella sua estrema, scheletrica magrezza. Così, all’inverso, le donne cannone delle fiere di solito non ci appaiono figure deformate per via della grandezza, ma per la loro sformata grassezza. In una forma, per avere effetto caricaturale, la trasgressione deve avere l’illibertà per contenuto e la finitezza per forma. Ma al tempo stesso deve avere la parvenza della libertà, altrimenti il fenomeno riaffonda parte nella pura volgarità, parte nel puro ripugnante. Quanto più è grande l’apparenza di libertà, tanto più la caricatura è adatta alla commedia. L’esagerazione del caratteristico, l’eccesso di dismisura deve apparire come il suo atto specifico. La commedia ama quindi utilizzare il contrasto tra l’opinione che gli uomini hanno di sé e le loro reali caratteristiche e situazioni, perché attraverso la libertà che dà loro il non sapere come veramente appaiono rafforza lo stimolo del ridicolo. Ad esempio un gobbo può essere brutto, eppure credersi bello; può anzi, come è stato osservato di molti gobbi, non sapere affatto che è gobbo. Protende alla bellezza, a una figura normale, e solo allora diventa caricatura, e caricatura comica: il suo
stesso comportamento esige che lo paragoniamo alla forma normale. Ma ora basta con queste esemplificazioni provvisorie. Esse servono soltanto a farci riconoscere che il motivo ultimo del brutto in quanto sfiguramento, in quanto volgare e ripugnante, sta nell’illibertà. L’illibertà non è mera assenza di libertà, ma negazione positiva della reale libertà. Ma se l’illibertà e la forma esteticamente negativa che ne risulta vengono poste come un prodotto della libertà, in apparenza l’illibertà viene superata. Più esattamente, possiamo forse esprimere così questa difficile dialettica: il volgare, il ripugnante, il vuoto sono prodotti della libertà, che in simili situazioni produce se stessa come illibertà; ma quando tale illibertà dimentica la sua contraddizione con la vera libertà, quando dunque ne gode in soddisfatta tranquillità, quando trova soddisfazione nel volgare, nel ripugnante e nel vuoto ignorando l’esistenza dell’ideale, formalmente il fenomeno si riempie di libertà, e questa rende comica la caricatura. Non è detto che si debba pensare l’illibertà come volgare e ripugnante. Epitteto schiavo, Huss, Colombo, Galilei in carcere esteriormente erano in uno stato non libero, che pure non li insudiciava di volgarità. Poiché restavano intimamente fedeli alla libertà, la loro situazione non ci appare volgare e ripugnante, ma tristemente sublime. Egualmente, il superamento dell’illibertà reale è possibile senza imbruttimento alcuno: al contrario il passaggio alla reale libertà è imbellimento. Ma la libertà che qui cerchiamo di descrivere è la spontaneità dell’illibertà sprofondata in sé. Questa libera illibertà assolutizza il caratteristico come lato finito dell’individualità, si distacca dall’ideale, resta conciliata con la sua parvente realtà e attraverso questa contraddizione assicura a chi guarda materia di riso. A – Il volgare L’esposizione scientifica del brutto non può mai dimenticare che può assumere i fili logici che le servono da guida soltanto dall’idea positiva del bello, perché il brutto può nascere solo nel e dal bello come sua negazione. Qui accade col concetto di brutto proprio la stessa cosa che
accade col concetto di malattia o di male: anche la loro logica è data dalla natura del sano e del bene. Dalla precisione logica, a quanto sembra, l’esigenza scientifica riceverebbe un impulso fondamentale: chi vuol ottenere qualcosa nel campo conoscitivo deve, come dice Schiller, penetrare a fondo, distinguere con nettezza, operare molteplici connessioni e perseverare con costanza. Nessuno lo negherà. Ma un autore dovrà chiarire il concetto anche con esempi, perlomeno in un campo che è ancora poco dissodato. Solo con l’esempio, spesso, dissiperà il dubbio che può ancora aderire alle sue determinazioni astratte. Con l’esempio però corre un nuovo pericolo: in quanto caso particolare, l’esempio limita l’universalità del vero e rischia di mescolare il casuale col necessario. Perciò Schiller dice giustamente 84 che un autore interessato al rigore scientifico, proprio per questo si servirà molto malvolentieri e con parsimonia di esempi. Tuttavia nel prosieguo di questo saggio trasgrediremo a questa regola, giusta in generale, perché abbiamo a che fare con un soggetto che appartiene all’intuizione e per la cui astratta determinazione concettuale dobbiamo prendere l’esempio a pietra di paragone, per così dire, della sua verità. L’impazienza umana ad applicare un universale a un particolare, la disabitudine della maggior parte dei lettori a indugiare a lungo in pure determinazioni concettuali costringeranno lo scrittore odierno – se solo vuole parlare a una cerchia più ampia di quella esclusivamente scolastica – a parlare molto per esempi. Per riconoscere lo straordinario significato dell’esempio, basta vedere nella storia di un concetto quanto la sua formazione tradizionale dipenda da un esempio. Lessing era certamente uso a determinare con precisione ed acutezza i concetti. Ma – per restare nel nostro campo – quante infinite volte gli è stata rinfacciata l’asserzione che noi possiamo bensì immaginarci il Tersite cantato da Omero, ma non lo potremmo vedere dipinto, un’idea che a Lessing venne grazie al conte Caylus, che illustrando Omero aveva trascurato Tersite 85 . Nel suo saggio sull’uso del volgare e del vile nell’arte Schiller, seguendo le orme di Lessing, va oltre ed osserva che non potremmo sopportare dipinto l’Odisseo che Omero rappresenta come mendico, perché a una simile vista sarebbero connesse
rappresentazioni collaterali troppo vili. Un’idea assolutamente immotivata, alla quale fortunatamente la pittura non ha mai aderito. Il bello autentico è il felice termine medio tra il sublime e il piacevole, che si realizza egualmente con l’infinità del sublime e la finitezza del piacevole. Il bello sublime è una forma del bello determinata in sé e per sé. Nella Critica del giudizio Kant ha esaurito totalmente la definizione del sublime nell’elemento soggettivo. Secondo lui il sublime deve essere ciò per cui anche solo il poterlo pensare dimostra una forza del sentimento che supera ogni elemento sensibile. In seguito questa teoria non è stata spinta solo fino a negare il sublime dello spazio infinito, come fa Schiller in quel noto distico 86 , ma fino al punto – così Ruge e Kuno Fischer 87 – di negare la natura del sublime in genere. È un errore, perché la natura è, tra l’altro, anche in sé sublime. Sappiamo assai bene dove il sublime esiste in natura, lo ricerchiamo per goderne, ne facciamo lo scopo di viaggi faticosi. Quando siamo sulla vetta coperta di neve dell’Etna fumante e scorgiamo la Sicilia tra le coste della Calabria e dell’Africa, circondata dalle onde del mare, il sublime di questa vista non è un nostro atto soggettivo, ma piuttosto l’opera oggettiva della natura, che ci aspettavamo prima ancora di essere arrivati in vetta. O quando la cascata del Niagara, con vapori di schiuma che salgono al cielo, scroscia tuonando in tutta la sua larghezza sul muro di roccia sottostante che trema, è sublime in sé, sia o no l’uomo testimone dello spettacolo. Ma per ciò che concerne il sensibile, esso non costituisce minimamente motivo contro il sublime. Né la natura né l’arte possono astrarre dal sensibile. Kant se non altro ha parlato della forza del sentimento che sopravanza ogni sensibile; autori successivi hanno eliminato del tutto il sensibile dal sublime relegandolo definitivamente nel morale e nel religioso. Il sublime ha in sé il finito, il sensibile, perché al tempo stesso lo oltrepassa. Non siamo solo noi a pensare l’infinito, ma l’infinità si realizza e questo spettacolo è ciò che ci libera dai limiti del finito. L’elevarsi del nostro sentimento non fa che ripetere ciò che oggettivamente esiste. Quando dall’alto dell’Etna innevato guardiamo cielo, terra e mare in rapporti tanto grandi che i consueti limiti del nostro orizzonte sono lontani sotto di noi, questo
sguardo macrocosmico ci libera da ogni angustia soggettiva e ci solleva agli dèi che vegliano nell’universo, come nella magnifica descrizione di Hölderlin nella Morte di Empedocle 88 . Ci si sarebbe risparmiato qualche fraintendimento sul concetto di sublime se se ne fossero considerate le differenze, e non si fosse spesso identificata la differenza col concetto generale. Giacché da un lato il sublime è quella manifestazione del bello che realizza – sia realmente, sia idealmente – la negazione della libertà superandone i limiti in modo che la sua infinità diventi per noi oggetto: la grandezza. Dall’altro quella manifestazione che mostra l’infinità della libertà nella potenza del creare o del distruggere, infine la potenza che nella grandezza della sua creazione o distruzione persevera in sé con quieta autocoscienza: la maestà. Nella grandezza la libertà s’innalza oltre i suoi limiti, nella potenza dispiega, in positivo o in negativo, la forza della sua natura; nella maestà appare grande quanto potente. Ne consegue che il volgare come negazione del sublime è: (1) quella forma del brutto che fissa un’esistenza sotto i limiti che le sono propri: la meschinità; (2) quella forma che lascia un’esistenza al di sotto della misura di forza che per natura dovrebbe appartenerle: la debolezza; (3) la forma che unifica limitatezza e impotenza con la subordinazione della libertà all’illibertà: la bassezza. Nella sfera del sublime e del volgare come concetti reciproci si contrappongono dunque il grande e il meschino, il potente e il debole, il maestoso e il vile; antitesi che in concreto, nelle loro sfumature più sottili, vengono indicate con molti altri nomi ancora. 1. Il meschino – La grandezza (magnitudo) in generale ancora non è sublime; venti milioni di talleri sono un grosso patrimonio, probabilmente assai piacevole da possedere, solo che in questo non c’è sublime. Lo stesso, la piccolezza (parvitas) in generale ancora non è volgare. Un patrimonio di soli dieci talleri è molto piccolo, ma è pur sempre un patrimonio in cui non c’è niente di spregevole. Un Padrenostro scritto minutamente su un nocciolo di ciliegia non è perciò brutto, è solo, per l’appunto, scritto in caratteri molto piccoli. A luogo e tempo debiti la
piccolezza può essere esteticamente necessaria quanto la grandezza. Anche l’eccessiva piccolezza, come la grandezza eccessiva, può giustificarsi in certi casi. Ma il meschino è il concetto di una piccolezza che non dovrebbe essere, che cioè fissa un’esistenza al di sotto dei limiti che le sono necessari. Il grande sublime supera con la sua infinità i limiti dello spazio e del tempo, della vita e della volontà, delle distinzioni di cultura e di ceto; in ciò realizza la libertà. Il meschino invece conferma tali limiti oltre la necessità che spetta loro; assolutizzandoli sovverte il grande. Volgare, dice Schiller, è tutto quanto non parla allo spirito e da cui si può ottenere soltanto un interesse sensibile. Con queste parole ha voluto indicare l’elemento dell’illibertà con cui il volgare si caratterizza. Solo perciò la meschinità è volgare: perché limita la libertà di un’esistenza là dove non sarebbe affatto necessario. Diciamo per esempio che una persona è meschina nella vita quando impedisce la realizzazione di ciò che conta fissandosi pedantescamente sull’inessenziale; una persona di tal fatta è non libera nei confronti dell’inessenziale, non se ne può sollevare. Riguardo alla natura – per ciò che concerne le sue singole forme – solo di rado e in senso relativo si può parlare di meschinità; eppure, per i paesaggi, è un concetto che le si attaglia fin troppo spesso. Vi sono contrade che hanno il marchio dell’illibertà. Rocce, che però non si impongono ai nostri occhi né per la mole né per l’altezza; una cascata, ma così lieve che basta appena a spingere le pale di un mulino; alberi e arbusti, ma piccoli e striminziti; vallate che in realtà non sono altro che dipluvi scavati a conca tra modeste colline; un fiume che scorre lento e forma anche un’isola, che però non è che un piccolo banco di sabbia con poco verde: com’è meschino tutto questo! Nell’arte la meschinità può essere o nel soggetto o nel modo di trattarlo. Nel soggetto, quando non è degno di essere rappresentato per la nullità del suo contenuto; nel modo di trattarlo, quando si dedica un’ampia esecuzione per gli aspetti collaterali e si dimentica di sottolineare l’essenziale, o quando addirittura si tratta come piccolo ciò che concettualmente è grande. L’oggetto dell’arte non dovrebbe essere il meschino. Non che non debba rappresentare il semplice, così come si
presenta in certe situazioni: assolutamente no. La pittura di genere e l’idillio in poesia ci mostrano come l’arte sappia trovare la bellezza anche nella capanna del povero. Nei suoi recenti racconti – Jeanne, La mare au diable, La petite Fadette – George Sand 89 ha ritratto dei contadini del Berry; la suprema semplicità dei caratteri e delle situazioni e la fedeltà massima nell’imitazione della realtà non le hanno impedito di esprimere tutta la ricchezza del sentimento umano con una profondità così ammirevole che alla fine del racconto ci si chiede, senza volerlo, se di fatto quel che si è letto – e in parte riportando addirittura il loro ingenuo linguaggio – riguardi semplici contadini, tanto l’oggetto comune è stato nobilitato dal modo di trattarlo. Una pastorella come Jeanne, una contadina come Marie, una guardiana di oche come Fadette ci appaiono veramente grandi, per l’altezza del loro spirito, e senza deformare artificiosamente la loro vita di villaggio. Ma quando un poeta prende per soggetto una materia in sé completamente indifferente, come diminutivo, allora diventa meschino e alla lunga addirittura ripugnante. Nelle Poesie 90 di Rückert (1836, vol. ii, p. 145, n. 38) troviamo ad esempio questi versi: Ieri, da una visita notturna al mio tesoro (che ricordo d’amore tormentoso!) ahimè, mi son portato a casa una pulcetta, che ora, sentendo la mancanza del verginal soggiorno saltellando, frugando, mi tormenta tutto il giorno. Quando la sera, sdraiato sul sofà, era l’ora in cui pensavo di andar da lei portando la pulcetta sento di fuori scrosciare la pioggia e mi dico: oggi non posso andarci e la pulcetta infuria su di me terribile. Cose del genere non le si può trovare altro che meschine. Un innamorato che decanta una pulcetta dell’amata; un innamorato che la pioggia trattiene da far visita all’amata; un innamorato che, con tutta la sua passione, si distende comodamente sul sofà ed osserva gli andirivieni della cara pulcetta: tutto ciò è immensamente prosaico. Ma vi può essere meschinità anche nel modo di trattare l’oggetto. È l’errore in cui cade
l’arte quando si perde talmente nell’approfondire il secondario, che perde di vista l’essenziale. Allora dà a ciò che in sé è subordinato un’ampiezza che non gli compete, nel suo rapporto con l’elemento principale. Ad esempio l’epica deve rappresentarci anche l’ambiente, la veste, l’armatura e simili. Ma se va oltre lo scopo poetico, se, come accade nei romanzi moderni, ci descrive le piante con precisione scientifica, aggiungendovi addirittura il loro nome latino; se ci descrive le vesti con la cura di una rivista di moda, mobilio e suppellettili con accuratezza tecnica, una simile minuzia diventa meschina e perciò brutta. Anche i migliori scrittori, come in Francia Balzac e da noi Max Waldau nella prima edizione del romanzo Secondo natura 91, spesso soffrono di questo tratto di meschinità. La poesia rivolta all’aspetto interiore dello spirito può diventare meschina quando sottopone i sentimenti ad analisi troppo prolungate, e senza giustificazione oggettiva sviluppa le mediazioni del pragmatismo psicologico fino a distinzioni che spaccano il capello. Questo modo di trattare è fatto apposta per far scomparire nella sottigliezza della scomposizione analitica anche la disposizione verso i grandi sentimenti. È stato l’errore di Richardson nei suoi Clarissa e Pamela 92; l’errore – oggi lo si può dire senza temere di pronunciare un anatema – commesso da Rousseau nella Nuova Eloisa. Ma la meschinità nella trattazione può consistere anche nel fatto che un soggetto grande in sé sia trattato fin dall’inizio come troppo piccolo e venga rimpicciolito in tutti i rapporti, contrariamente al suo concetto. Come già si è osservato, il piccolo, εὐπετῶς και εὐκαίρως, giustifica se stesso. Se però immaginiamo un grande contenuto non solo immeschinito nei singoli aspetti dell’esecuzione, ma concepito fin dall’inizio troppo piccolo, necessariamente diventa comunque un fenomeno brutto. La piccolezza delle forme in cui si esprime contraddice la grandezza della sua natura. Se ad esempio bisogna costruire una chiesa, l’edificio dovrebbe esprimere in modo non ambiguo il grande scopo a cui è destinato. Dovrebbe esprimere l’unione di una comunità e quindi farci immediatamente intuire nelle sue mura, porte e finestre, che per antonomasia va oltre la vita privata. Se al suo posto vediamo un edificio senza carattere, che potrebbe essere una
scuderia, un padiglione, un casino, allora, rispetto alla sublimità insita nel concetto di tempio, è meschino e perciò brutto. Naturalmente una chiesa può anche essere piccola: una cappella non è altro che una chiesa piccola. Ma il suo stile deve essere nobile ed esprimere nella sua totalità la grandezza della sua destinazione. La nostra epoca chiama queste chiese – che potrebbero essere anche fabbriche, stazioni ferroviarie ecc. – chiese da polka. Che in quanto parodia del grande, e in particolare del falso grande, il meschino possa essere volto in comico, è cosa evidente: perché allora si annulla esagerando se stesso. Gutzkow ha acutamente descritto, nel Blasedow 93 , come l’immagine dei dieci talleri mancanti occupi interamente la coscienza del vecchio, come tutto quanto gli ricordi i dieci talleri, fino a che la fantasia li ingrandisce al punto da farli diventare una cosa immensa. La pulce nella poesia di Rückert doveva apparirci per forza come un oggetto meschino; lo stesso animaletto come oggetto di poesia epico-descrittiva ci fa ridere, come nella Floja maccheronica 94 che comincia con le parole: «Deiriculos canam, qui bene huppere possunt». Un umorista – Boz-Dickens – nel trattare un oggetto può sottolineare senz’altro anche i dettagli più particolareggiati: così ad esempio nel Copperfield la prolungatissima descrizione del cerimoniale solenne con cui Micawber prepara il punch, oppure le fatiche a cui si sottomette la piccola signora per scrivere il libro di casa non ci risultano troppo prolisse. Un soggetto in sé grande può essere consapevolmente assunto fin dall’inizio come piccolo: allora viene parodiato, come il pius Æneas nell’Eneide di Blumauer 95 , o viene malignamente sbeffeggiato, come l’eroica Giovanna d’Arco ne La Pulzella d’Orléans di Voltaire, ricondotta a motivi meschini, anzi vergognosi 96 . 2. Il debole – Il meschino può essere nello stesso tempo debole, così come il debole sarà di regola anche meschino. Tra i due c’è tuttavia una differenza. Il meschino pone un’esistenza al di sotto dei limiti che essa dovrebbe superare. Il debole mantiene la forza di un’esistenza al di sotto della misura che dovrebbe avere in conformità alla sua natura. Nella sua
dimensione dinamica il sublime esprime la sua infinità creando e distruggendo. Essa si manifesta come forza, violenza e può anche diventare spaventosa e crudele. Il debole invece mostra la sua finitezza nell’impotenza produttiva, nella passività del sopportare e del patire. In sé la debolezza non è ancora brutta, come non lo è la piccolezza in sé. Lo diventa solo quando si manifesta là dove ci si attende la forza. La libertà come anima di ogni autentica bellezza manifesta la sua potenza nel creare e nel distruggere, o nel resistere a un’altra potenza. La debolezza mostra la sua assenza di forza nell’infruttuosità del suo fare, nell’arrendevolezza alla violenza, nell’assoluto esser determinata. Una fantasia debole, una battuta debole, un colorito debole, una dizione fiacca sono altra cosa che una fantasia delicata, una battuta sottile, una tonalità delicata, un suono dolce, una dizione fine. Il sublime dinamico esprime la sua potenza come potenza assoluta, che trae da sé l’inizio del suo agire. L’autodeterminazione può essere, per quanto concerne la sua mediazione reale, apparente, ma esteticamente non può che presentarsi così. Quando vediamo una gru sollevare da una stiva un grosso peso, non vi troviamo nulla di sublime, perché la vista della macchina allontana ogni idea di movimento libero. Se invece un vulcano erutta lava, pietre e pioggia di cenere dal suo interno, allora è uno spettacolo sublime, perché qui c’è un processo elementare libero. La tensione elastica dei vapori nelle viscere della terra opera anche meccanicamente, però con una forza spontanea. Ora, sarebbe assai maldestro dedurre dal fatto che una macchina non suscita l’impressione del sublime, che debba produrre l’impressione della debolezza. Non è così; anche nelle sue maggiori prestazioni non appare sublime perché dipende da un’altra potenza, dall’intelligenza e dalla volontà umane, quindi non trae da se stessa – come pretende invece il concetto di sublime – l’origine e l’inizio del movimento. Invece lo spirito, che può padroneggiare una forza naturale così immensa sottomettendone a tal punto la necessità alla propria libertà, ci sembrerà sublime. Lo spirito può dare alle sue macchine una parvenza di autonomia. Poi, dipenderà dalle circostanze se esse riusciranno addirittura a produrre un’impressione che confina con il sublime; ma che confina soltanto,
perché la consapevolezza che noi abbiamo dell’esattezza del calcolo meccanico nega poi di nuovo, in parte, l’effetto estetico: lo sentiamo quando una grande fila di carri ferroviari ci passa accanto. La vita organica potrà apparire sublime quando realizza con violenza la sua forza. Nessun animale possiamo dirlo immediatamente sublime. Ma se guardiamo al modo in cui l’aquila apre le ali e vola su boschi e montagne e oltre le nubi con un quieto colpo d’ala; se guardiamo al modo in cui il massiccio elefante schiaccia una tigre colle colonne delle sue zampe; o come il leone balza sulla gazzella con un salto sicuro, allora questi animali ci parranno sublimi perché esteriormente esprimono nella loro infinitezza la loro implicita forza. Per l’aquila pare non esista limite al volo, per l’elefante e il leone nel contrastare un altro animale. Lo spirito è sublime quando nei confronti della necessità della natura e della libertà di altri spiriti tiene fermo alla propria libertà come necessità sua propria, anche quando sottostà alla violenza. Sulla potenza assoluta della libertà la natura nulla può, neanche nei suoi orrori più spaventosi. L’uomo può essere sopraffatto dalla natura ma non sconfitto, se nel soccombere mantiene la sua dignità. Contro di essa si mantiene in sé libero; sta qui la sublimità dei saggi stoici, che le macerie dell’universo in frantumi avrebbero sepolto senza turbare. Non è necessario rappresentarsi la libertà come astratta insensibilità: si possono sentire le angustie della vita, l’asprezza del dolore, e tuttavia conservare la libertà. Il sacrificio è più sublime quanto più è dura la necessità di cui supera la violenza attraverso la sua libertà, e quanto più è sentita l’opposizione. Un Curzio che saltava giù nella voragine della terra in pieno giorno, tutto armato, circondato dai suoi concittadini, poteva ben sentire nell’intimo tutto il valore della vita, e tuttavia precipitava nel baratro buio, per sottomettere la natura, con libero coraggio. Nel conflitto della libertà con la libertà, la sublimità dell’animo si manifesterà soprattutto innalzandosi oltre l’inevitabile dolore del sentimento. Nella relativa fragilità dei piccoli animali, della donna, del malato, del fanciullo, dell’inesperto e dell’incolto non troveremo nulla ancora di brutto, perché è una fragilità assolutamente naturale. Ma se questa naturalezza cessa e un essere
pretende alla forza e non gli basta, la fragilità si converte in debolezza, che diventa brutta perché contiene una contraddizione. Qui dunque compare una linea divisoria che va ben considerata. Dove il sublime compare con la sua assoluta forza, di contro può apparire relativamente debole ciò che altrimenti è una potenza. Una fragilità di tal fatta, dunque, ancora non è debolezza in senso negativo. Contro la strapotenza della natura elementare, ad esempio, ogni forza della vita, ogni energia della libertà diventa, per quanto grande, impotente. La terra che trema, l’impeto dei flutti, lo scatenarsi del fuoco sono spietate manifestazioni di forza di questo tipo. La terra che si spalanca e inghiotte animali, uomini e città è sublime, ma nella sua mancanza di riguardo verso tutto ciò che, sorto dal suo grembo, cresciuto su di essa, s’è rallegrato dell’esistenza, crudelmente sublime. Il vivente impaurito che fugge e con folle disperazione s’aggrappa ad ogni ombra di salvezza appare impotente contro di essa; ma poiché si tratta di un rapporto incommensurabile, non si può parlare di debolezza. Quando le onde del mare giocano coi battelli più grandi, ne fracassano gli alberi e li scaraventano contro gli scogli, appaiono spaventosamente sublimi, mentre gli uomini, che si agitano per trovare salvezza, sembrano impotenti, ma deboli solo in quanto si abbandonano a una disperazione fuor di misura. Un’inondazione, come il diluvio, può mostrare quanto sia improduttivo l’affaccendarsi dell’individuo, ma nello stesso tempo sottolinea la sua libertà, che anche nel momento della morte si mostra superiore alla violenza. Così, Girardet nella celebre tela al Louvre ha dipinto una scena del diluvio in cui si scorge una famiglia intenta ad atti di pietà mentre sta per essere sommersa. L’uomo reca in spalla il vecchio padre già morente. Con la sinistra abbraccia un tronco secco già spezzato, con la destra cerca di trar fuori dalle onde la sua sposa. Ma questa, nella sua qualità di madre, non vuole lasciare i figli; l’uno, lattante, le abbraccia il seno, l’altro le si aggrappa ai capelli; la madre ha già messo piede sull’orlo dello scoglio ma il peso è troppo, il ramo si spezzerà del tutto e tutti troveranno sepoltura insieme: anche nella morte la famiglia sarà una cosa sola. In situazioni simili l’animale non può che far valere l’istinto di autoconservazione senza altra considerazione: e così
ad esempio un moderno pittore tedesco ha dipinto l’incendio di una foresta. Il fuoco divora insaziabile alberi e arbusti stanando gli animali, che balzano fuori in gran frotta, col pelo ritto, il terrore nello sguardo, la lingua secca. Sembrano aver perduto la loro abituale natura: orso e bufalo, pantera e capriolo, lupo e pecora, gli uni accanto agli altri in un grande gruppo respirano un’atmosfera pacifica perché costretti dal comune pericolo. Nello spavento di questi animali che fuggono è dipinto il coraggio dell’elemento infernale. Gli animali in lotta tra loro possono diventare sublimi solo quando sono grossi. Un piccolo animale può essere molto forte e coraggioso, ma la sua forza non può acquistare l’aspetto dell’infinità che si produce da sé e in sé si rinnova. Una lotta di galli non è niente di sublime. Tanto meno la lotta di animali più piccoli e più deboli contro animali più grandi e più forti. Il topo nelle grinfie del gatto, la lepre negli artigli dell’avvoltoio, la colomba sotto i denti della martora tremano per la loro fine certa. Né li si può dire brutti, perché la lotta è impari. Verso la potenza della natura l’uomo dovrebbe conservare la sua libertà ed opporle la forza della coscienza. Se le soccombe, perché è preso dal terrore di fronte alla sua violenza, appare debole. Se la debolezza sia già da definire brutta, dipende dalle circostanze, dal grado della sua paura e dalla forma in cui l’esprime. L’uomo che ha il coraggio di attaccare l’animale da preda con una dava, difendere l’onda inospitale su un tronco scavato solleva il nostro animo tanto quanto lo deprime un comportamento opposto. Nei confronti dell’ostilità della potenza elementare della natura, qualunque lotta può rivelarsi inane anche per il supremo eroismo. Allora alla libertà, per mantenersi, non rimane altro che conservare intimamente negli eventi esterni l’immortale, inflessibile coraggio. L’animo che resta identico a se stesso anche nei dolori più aspri è sublime: così nel Prometeo di Eschilo o nel Principe costante di Calderón; la debolezza che si lascia costringere è brutta, a meno che non diventi ridicola. In generale, tutto questo è vero; nel particolare però la storia produce una varietà infinita di rapporti, in cui la costrizione assume spesso le forme più dolci, più seducenti, sostenute addirittura dalla
vocazione a obblighi santi. Qui, nel campo delle collisioni morali, sono possibili situazioni in cui la debolezza assume, grazie alla amabilità personale, l’aspetto della libertà; in cui può addirittura usurpare, con la sofistica, la forma della forza, tema assai noto di tanti romanzi. Nella bontà di siffatti eroi sentimentali l’artista ha trovato il mezzo per mitigare il fenomeno del brutto, per renderlo anzi interessante. Leggerezza, incertezza, inconsequenzialità, magia, smemoratezza, intempestiva docilità, agire avventato non possono essere messi lì in ogni caso come qualcosa di giusto o amabile in se stesso. L’amabilità occorre che sia trasferita allo spirito, alla fantasia, al comportamento personale; la debolezza della volontà va scusata con la costituzione del temperamento, la difficoltà dei rapporti, la possibilità che un’azione decisa arrechi per altri versi ingiustizia, ma non può essere giustificata. L’anima bella della debolezza morale è sempre in procinto di cadere nella bassezza, che diventa autentica criminalità: dipende solo, come dicono le Xenien, dall’occasione. Diventa sofistica per dimostrare a se stessa che è nobile, ma sofisticheggiando produrrà spesso il massimo orrore. Per comodità, abitudine, mancanza di coraggio e vanità essa sprofonda passivamente nel volgare e finisce per dipendere da una volontà estranea che forse ha in orrore, ma che però riconosce per altre considerazioni egoistiche. Questo involgarimento si ammanta di un ragionamento psicologico, fingendo malattia, immaginando un crudele destino contro la cui necessità il singolo sarebbe impotente. Occorre però distinguere tra la fragilità come oggetto della rappresentazione artistica e la debolezza come errore nel modo di trattare esteticamente. Rappresentare la fragilità deve essere consentito. I Werther, i Weislingen, i Brakenburg, i Fernando, gli Edoardo come li tratteggia Goethe; i Waldemar di Jacobi, i Roquairol come li dipinge Jean Paul 97 , gli André e gli Stenio nei dagherrotipi cui li riduce George Sand hanno diritto ad essere rappresentati. Ma ben altro è quando la rappresentazione stessa è debole; quando e soprattutto dove ci si aspetterebbe la forza compaiono figure impotenti, deboli, fiacche. Si tratta di un errore decisivo che conduce a quella dissoluzione della forma estetica che già abbiamo incontrato come elemento ondulatorio e
nebuloso e che, secondo l’elemento caratteristico di ogni arte, ha tratti specifici. Dal momento che debolezza in senso negativo e forza sono contrapposte, rappresentare il passaggio dall’una all’altra può essere stimolante per l’arte. Fare questo con verità psicologica è un compito assai arduo, che di solito riesce veramente solo a grandi artisti. Iffland e Kotzebue, i glorificatori drammatici della debolezza, ci hanno dato molti passaggi apparenti. È curioso che Byron abbia dedicato a Goethe due drammi che hanno per argomento la debolezza: il Sardanapalo e l’Irner. Nel Sardanapalo una natura in sé nobile ma troppo tenera, umana ma troppo condiscendente, si innalza passo per passo da un sereno e noncurante abbandono al godimento della vita fino a una dignità autenticamente regale, a un coraggio da eroi, all’eroismo, alla sublimità dell’estremo sacrificio, sicché rimane assolutamente enigmatico perché nessuna scena ce la proponga. Nell’Irner invece il poeta ci ha mostrato come una natura comunque nobile in sé sia spinta per debolezza fino alla volgarità, e ora soffochi tutto il resto della sua vita nel ricordo pieno di vergogna del suo passato. In stato di grande necessità, Irner ruba al suo nemico mortale, mentre dorme, cento ducati. Davanti a se stesso, a sua moglie, a suo figlio tenta di giustificarsi dicendo che ha solo derubato il suo nemico mortale, mentre avrebbe potuto ucciderlo. Ma Schiller ha già ampiamente dimostrato che l’omicidio – poiché richiede maggior forza – sta esteticamente più in alto del furto. Irner avrebbe agito in modo più colpevole, e tuttavia meno volgare, se avesse ucciso Stralenheim. La debolezza non gli ha concesso che di rubare e l’argomento sofistico che il denaro era comunque di sua proprietà non è sostenibile di fronte alla sua coscienza. Il figlio Ulrich compie il delitto senza che il padre lo sappia. Quando Irner fa la tremenda scoperta, è costretto a sentire dal figlio a mo’ di difesa la dottrina della debolezza che lui stesso gli ha insegnato: Chi mi ha insegnato che l’occasione scusa alcuni vizi? Che la passione è la nostra natura? Che ai beni della fortuna seguono quelli celesti? Chi mi ha mostrato la sua umanità
dipendere solo dai nervi? Chi mi ha tolto ogni forza per difendermi, per mostrarmisi in lotta aperta, con la sua onta forse impressa addirittura in me, nel mio esser bastardo col marchio del malfattore? Lui, che è caldo e debole assieme, che incita ad azioni che vuol fare senza averne il coraggio. È così strano che io porti a compimento ciò che tu pensi soltanto? Nel personaggio di Fadette George Sand ha magistralmente fatto vedere come la fragilità e la debolezza – e senza saperlo, anzi con l’illusione di essere buona – diventino cattiveria. Fadette spiega a Sylvain quanto sia debole, sentimentale, tirannico verso chi lo circonda, sofistico ed egoista: «La faiblesse engendre la fausseté et c’est pour cela, que vous êtes égoïste et ingrat». Alla fine Sylvain comprende se stesso, ed ora questo cocco di mamma, questo pantofolaio diventa tutto un altro uomo che cerca di dimenticare il suo amore per Fadette nel fragore delle guerre napoleoniche. La debolezza non può che apparire al massimo della bruttezza quando è connessa alla potenza. La potenza non dovrebbe macchiarsi di debolezza; tanto più si degrada, se lo fa. Per la natura ciò non ha senso, perché le manca il libero volere. Quando l’enorme elefante ha i sudori freddi se gli si avvicina un topolino, non si tratta di debolezza ma di un istinto giustissimo, perché se entrasse nella proboscide col suo strisciare lo irriterebbe fino a farlo dare in smanie. Ma se un principe, un eroe, un alto ecclesiastico cede ai suoi capricci, alle sue debolezze, cade in una volgarità che contrasta in modo tanto più stridente con il suo essere. Che ad esempio il re David si liberi a tradimento di Urias per poterne godere apertamente la moglie Betsabea, è per un re del suo carattere una debolezza che lo fa cadere giù fino alla volgarità e al delitto. Se La sposa di Urias di Meissner è un dramma fallito 98 , ne è per metà responsabile la scelta stessa del soggetto. La debolezza si converte in comico quando si misconosce e si spaccia per forza. Ma questa contraddizione diventa ridicola solo quando il contenuto della debolezza non lede in modo sensibile le esigenze della
virtù. Le debolezze intellettuali, debolezze non dannose, che dipendono più dalla natura o dalle circostanze, sono adatte a ciò, come vediamo soprattutto nella commedia. Se lo sviluppo della debolezza viene connesso alla finzione di un destino, e quindi si ammanta dell’apparenza della necessità, l’effetto comico ne sarà rafforzato. Jacques il fatalista e il suo padrone rimarrà in eterno uno splendido capolavoro di questo tipo di comicità. Che il padrone non possa vivere senza il servitore è una debolezza che non danneggia nessuno; che il padrone ami soprattutto sentir raccontare è una debolezza che dà ad altri l’opportunità di dimostrare il loro talento di narratori; che il padrone voglia convincere il servitore, che lo domina apertamente, della falsità del suo fatalismo, è una debolezza amabile. Con che umorismo incomparabile Diderot sa rappresentare il fatalismo di Jacques! Tutto accade «parce que c’était écrit là en-haut, sur le grand rouleau». Ma Diderot non sarebbe stato Diderot se non avesse saputo connettere alle chiacchiere del servitore e dell’ostessa, al fatalismo del servitore e alla critica del padrone i problemi più profondi dell’esistenza umana. Si fa un grande errore se, basandosi su certe descrizioni usuali, si pensa che Jacques abbia soltanto una tendenza frivola 99 . La sua linea fondamentale è piuttosto l’idea di destino, e lo stesso Diderot vi ha alluso con il predicato “fatalista”. 3. Il vile – Il sublime è grande nella sua illimitatezza; violento nell’esprimere senza resistenze la sua potenza; maestoso nell’incondizionata autodeterminazione della sua infinità. La maestà unisce la grandezza assoluta con l’assoluta potenza. L’antitesi del grande sublime è il meschino, che sta sotto i limiti necessari alla sua natura; l’antitesi al potente sublime è il debole, che resta al di qua della misura di forza che gli è possibile; l’antitesi del maestoso è il vile, che nel suo autodeterminarsi è determinato da motivi casuali e limitati, meschini ed egoistici. Certamente vile è un termine che è anche relativo; ma se non viene usato in senso comparativo, bensì positivo, indica l’imperfetto, l’insignificante, il volgare per antonomasia. In tedesco s’è formato l’uso di distinguere vile e basso, intendendo col primo termine il volgare, col
secondo termine il semplice, il comune, l’inferiore: un animo vile, un’azione vile ecc.; invece un tetto basso, una capanna bassa, una classe inferiore ecc. Prima si diceva solo “vile” in genere. Il maestoso è unico nella sua quieta grandezza e nel suo agire, non determinabile da motivi esterni e dal caso, assolutamente sicuro. Può bensì – nella misura in cui appartiene come esistenza particolare al mondo fenomenico – avere degli aspetti che sono esposti all’aggressione dall’esterno, può soffrire, sentire il dolore, ma intimamente si conserverà identico a sé e nel declino di ciò che nella sua esistenza è transitorio rimarrà certo della sua infinità. Ciò spiega l’apparente contraddizione: perché proprio nel dolore la maestà è in grado di manifestare nel modo più mirabile la sua grandezza e potenza. Il vile invece sarà: (1) in senso immediato il quotidiano, l’abituale, il triviale; (2) in senso relativo il mutevole e instabile, il casuale ed arbitrario; (3) il rozzo, come svilirsi della libertà sotto una necessità ad essa estranea o addirittura come prodursi di un tale svilimento. Tutti questi concetti vengono anche indicati con molti altri sinonimi; egualmente chiamiamo il maestoso, secondo i suoi diversi gradi, con altri nomi ancora: nobile, alto, signorile, imponente, grandioso ecc. a. Il banale – In quanto esistenza empirica di ciò che è generale, il banale non è ancora brutto; tale predicato gli può spettare solo in senso relativo. Diventa brutto a certe condizioni. Il sublime maestoso è unico nel suo manifestarsi, in quanto abbraccia in sé tutto un mondo: unico, nel senso di non avere empiricamente un eguale, lo è in definitiva secondo il principium indiscernibilium di Leibniz ogni esistenza, anche quella banale. Ma la maestà non è solo diversa da altre esistenze in senso meramente empirico, è unica in quanto senza paragone all’interno di una sfera data. Immaginiamoci una catena montuosa: essa può già essere sublime per la sua grandezza. Se però c’è un monte che dalla cresta svetta ancora più in alto nell’etere, apparirà non solo sublime in genere, ma maestosamente sublime, perché darà all’enorme mole anche un’espressione personale. Così la luce lunare s’irradia tra le stelle come una cosa unica, con dolce maestà ecc. Sono esempi tratti dall’ambito dello spazio, ma anche il tempo può
apparire maestoso nella spazialità, quando ci presenta la serie infinita degli anni che supera come un che di nativo. Il nascere è anche un trapassare. Un nato che nel fluire temporale resta identico a sé acquista perciò l’aspetto dell’eternità, dalla cui infinità scaturisce il decorso del tempo. Nella steppa, ad oriente del Mar Morto, sono attaccate ancora agli stessi cardini le porte di pietra attraverso cui, quattromila anni fa, entravano e uscivano i re dei Moabiti di Basan. Ora le attraversano soltanto poveri guardiani di capre, ma le porte sono le stesse. Si capisce che l’oggetto, per avere un effetto di sublime, deve essere grande e possente; la semplice durata non lo renderebbe sublime anche se restasse invariato per millenni. Così ad esempio nel Museo di Berlino è esposto uno dei mattoni che gli ebrei in Egitto furono costretti ad impastare. Anche con l’eternità, un mattone non diventa sublime. Nella storia persone, atti, avvenimenti hanno piena maestà quando sono positivamente unici e concentrano in sé un genere, un intero mondo. Un Mosé, un Alessandro, un Socrate sono personalità maestosamente sublimi perché uniche in senso positivo. Il fatto che Socrate non fuggì, non cercò di subornare i giudici con arte retorica ed attese la morte in carcere con serena dignità – tutte cose cioè che uomini di stampo comune non avrebbero fatto – gli dà l’aura della maestà. Così l’incendio di Mosca è un avvenimento di spaventosa maestà, perché in questo sublime sacrificio la resistenza dei russi si concentrò in un modo cosmico-storico che è unico. Se persone ed atti non esprimono quest’unicità sostenuta dall’affermazione dell’idea, nemmeno sono maestose; una unicità che si distingue per la negatività non può pretendere al predicato del maestoso: al contrario, ricadrà nel brutto. Un Commodo, un Elagabalo signori del mondo sono abnormità morali che hanno sfigurato la maestà quanto più volevano farla valere, con la loro bambinesca follia, in una tirannide capricciosa. Sono unici in quest’opera di sfiguramento, ma è la triste unicità della colossale sregolatezza di una pazza arroganza. Gettando la fiaccola nel tempio dell’Artemide Efesia, Erostrato ha raggiunto il suo scopo, ma quest’azione indegna nella sua frivola unicità è il contrario di ogni maestà. L’unicità della maestà autentica risalterà naturalmente a
confronto della sua immagine degenerata: al cospetto dell’infame e curioso re Erode, Cristo avvolse l’infinità della sua maestà in un silenzio folgorante. Erode, un re, interroga un giudeo incarcerato, sottoposto a giudizio, e lui non lo degna di una risposta. Quelle labbra altrimenti amichevoli e piene d’amore non si aprono per quell’immorale larva di re: che terribile maestà questo silenzio! Come si è detto, il banale non è affatto di per sé il brutto. Nessuno può dimostrare nel suo concetto questa necessità; anzi, anche se non bello, esso può addirittura essere grazioso. Ma poiché il banale è presente in molti esemplari, e non ha aspetti che risaltano, appare esteticamente insignificante. Gli manca l’individualizzazione caratterizzante. Il bello deve comunque rappresentarci la verità generale delle cose, ma deve farlo nella forma della libertà individuale, che rende unica la necessità dell’universale nella sua specificità. Per la sua mancanza di distinzione il banale, il quotidiano diventa insignificante, noioso, volgare, e in tal modo si trasforma in brutto. Non si interpreti in modo equivoco. Non che il bello diventi non bello – questo è impossibile – ma la frequenza della ripetizione, l’ampiezza di un’esistenza massiccia lo rende indifferente perché è un altro esemplare, come mera tautologia, senza lo stimolo della novità. Nei suoi motivi, ogni arte non potrà che muoversi entro un certo ciclo. Avrà perciò un limite all’invenzione. Ma questa ripetizione, implicita concettualmente nella cosa stessa, non è un’obiezione contro l’arte; il problema è che essa grazie all’individualizzazione ci fa apparire come nuovi i motivi in sé sempre uguali. Si rammenti ad esempio che tutti i conflitti tragici sono già stati preventivamente calcolati: secondo Benjamin Constant non possono essere più di ventotto 100 . Comunque esordisca il poeta, essi si ripresenteranno; qui il poeta ha un limite etico alla sua creazione, ma deve capire che deve trattare l’inevitabile identità di contenuto in modo che quello scelto da lui appaia tuttavia come un caso nuovo, unico. La pura ripetizione con una differenza soltanto superficiale, formale, non ci soddisfa. Comprendiamo l’impossibilità di modificare l’idea stessa e la sua necessità, ma per la sua manifestazione esigiamo giustamente che l’artista ce la rappresenti in una maniera di nuovo
diversa, sorprendente. Quando si apprende da opere come quella di Valentin Schmidt sulla poesia romantica 101 , dalla History of the Fiction di Dunlop 102, dall’opera di Hagen sulle novelline medievali 103, di Wolff sulla storia del romanzo 104 e simili che certi contenuti restano sempre gli stessi attraverso i differenti popoli, epoche e lingue, la fantasia del poeta non può che apparirci assai povera. Ma è un errore, perché la fecondità e la forza creativa della fantasia si mostrano piuttosto nel saper ottenere, all’interno dei limiti determinati dalla natura del contenuto, una varietà così grande di esecuzione. Prendiamo ad esempio un rapporto come quello tra padrone e servitore: vi riconosciamo subito determinati limiti, determinati motivi. Padrone e servitore costituiscono una gran parte della materia della commedia antica. Padrone e servitore è il tema formale del Don Chisciotte di Cervantes, del Jacques di Diderot, del Pickwick di Boz ecc. Ma in questi poeti i padroni – Don Chisciotte, il Maitre e il signor Pickwick – sono diversi, e diversi sono anche i servitori Sancho, Jacques, Sam Weller. In questa diversità l’identità dei motivi rimane, perché è inseparabile dalla situazione generale. Sia i padroni sia i servitori hanno perciò una certa parentela: ma all’interno di essa di nuovo si differenziano in virtù della loro individualità, e qui sta l’originalità della fantasia creatrice. Il Maitre di Diderot che guarda l’orologio, fiuta una presa di tabacco e scuote Jacques perché continui a raccontare la storia dei suoi amori è una figura unica che individualmente non ha nulla in comune – anche se ce l’ha come genere – né con Don Chisciotte, né con il signor Pickwick, così come queste non hanno nulla in comune con essa. L’imitazione come mera copia, come formale, inutile ripetizione o addirittura come plagio, ci irrita e con il Rabbi Akiba dell’Uriel Acosta di Gutzkow105 diciamo stizziti: “Nulla di nuovo”! Possiamo distinguere la lecita identità dei motivi dall’illecita identità nel modo di trattarli indicando la seconda come luogo comune. Tutte le arti hanno i loro luoghi comuni, tutte le epoche hanno i loro. Il luogo comune è la trivialità già nota, riconosciuta e marchiata come tale. Il luogo comune è stato anche, a suo tempo, nuovo e interessante; ma nella frequenza della
ripetizione è diventato abusato, ha perso ogni spirito. Perciò, quando compare con la pretesa della novità, diventa ridicolo. Nella poesia però non bisogna ascrivere a luogo comune il fatto che a materia delle sue immagini si assumono sempre di nuovo i grandi soggetti naturali, il sole, il mare, la montagna, il bosco, il fiore ecc., oppure i miti greci. Entrambi gli ordini di cose sono già diventati simboli eterni, in cui l’umanità colta si esprime in modo universalmente comprensibile. Poiché la natura e gli dèi sono sempre belli e inesauribili, ogni immagine può trovare un’applicazione sempre nuova e giovane. Schiller e Hölderlin non hanno forse continuato a cantare con spirito universale i miti greci, vivificandoli di animo romantico? Lessing ha contrapposto al banale il desueto, e se ci si ferma qui non c’è nulla da obiettare, perché questa distinzione non è altro che un giudizio limitativo. Ma quando egli individua nel banale il naturale, ne seguirebbe che il desueto non dovrebbe essere naturale. «Quando il poeta non porta sulla scena null’altro se non ciò che trova nella semplice natura, non offrirà alla vista dello spettatore se non ciò che si ode e si vede tutti i giorni. Ma chi frequenta la scena per incontrarvi ciò che trova fin troppo spesso al di fuori di essa? Se dunque vuole attrarre l’attenzione dello spettatore, il poeta deve introdurre nei suoi caratteri dei tratti desueti. Ma cos’è il desueto, se non una deviazione dal naturale?». La deviazione dal naturale caratterizza qui l’inconsueto. Di conseguenza si arriva vicino alla magia e al miracolo: sono appunto queste le più forti deviazioni dal naturale. Lessing però non pensava a questo; come indica il contesto, ha voluto dire soltanto che l’arte non sarebbe ancora arte se copiasse la comune realtà: ogni poesia, ogni arte è, al cospetto della realtà, l’inconsueto. E non si confonda la consuetudinarietà con la riproduzione. Il bello come tale non può venir alterato dalla riproduzione, perché è in sé infinito. Così, non ci stanchiamo mai di guardare con gratitudine sempre rinnovata l’azzurro del cielo, il verde della terra, il fiorire della primavera, il canto dell’usignolo. Nella riproposizione teatrale dell’Antigone di Sofocle abbiamo vissuto, ai giorni nostri, un esempio straordinario della forza immortale che sopravvive senza invecchiare nel bello autentico. Uno
degli aspetti più importanti della tecnica moderna sta nel fatto che il suo perfezionarsi rende possibile riprodurre sempre più a buon mercato, e tuttavia fedelmente, le opere dell’arte figurativa, rendendone sempre più accessibile a tutti il godimento. Questo tipo di riproduzione è altro rispetto all’insulsa riproduzione di modelli tipici nell’imitazione senza inventiva della debolezza riproduttiva. Quale abitudinarietà nelle canzoni medievali della Minne, di cui Schiller diceva che non c’è dentro altro se non la primavera che arriva, l’inverno che se ne va e la noia che rimane. Se i passeri – diceva – potessero scrivere un Almanacco delle Muse, ne verrebbe fuori più o meno la stessa cosa. Così migliaia di sonetti dei petrarchisti, centinaia di tragedie sui tiranni dell’antica scena francese, la merce di fabbrica delle nostre insulse favole per bambini, la schiera dei nostri romanzi sul tema della rinuncia, il ricco genere della coppia regale in lutto degli ebrei, delle madri (L’infanticidio di Betlemme di Hauser) nell’odierna pittura tedesca 106 , i vari Toggenburge 107 , sono diventate tutte cose abitudinarie. Spesso gli imitatori pensano di essere artisti classici perché in una minuzia sembrano produrre la stessa cosa fatta anche da autorità riconosciute. Solo che la straordinaria somiglianza coi modelli è proprio il noioso in loro, è ciò che allontana il pubblico – che essi ingiustamente rimproverano – dalle loro opere. Se avessero creato da sé, come novità, ciò che offrono, allora potrebbero legittimamente pretendere al plauso; ma non possono aversela a male con noi se troviamo triviali le loro opere graziosamente scalpellate, variopinte, dai contrasti esatti, stilizzate a puntino. Un artista genuino, che aspira con sacro fervore all’ideale, potrà anche rappresentare con variazioni continue quell’unica idea. Ma poiché cerca in questo modo di avvicinarsi sempre di più all’ideale, non ci stancherà. Ognuna delle sue creazioni manifesterà secondo un nuovo aspetto quell’immagine primitiva. In Petrarca i sonetti e le canzoni in cui descriveva tutte le altezze e le profondità della sua passione per Laura sono cattive tautologie tanto poco quanto in Raffaello le sue Madonne, in Byron i suoi tenebrosi eroi, in Lisippo le sue statue del divino Alessandro, e così via. La mediocrità o addirittura la completa impotenza ripetono il già creato senza progresso, senza approfondimento
creativo, e ci deprimono con la loro abitudinarietà – che non sanno nemmeno riconoscere – tanto quanto il vero genio ci entusiasma con la semplice originalità delle sue composizioni. Se la mediocrità ha un sospetto, per quanto inconfessato, dell’abitudinarietà delle sue prestazioni, per dissimularne la piattezza le abbellisce di attrattive eterogenee. Il risultato di quest’applicazione, però, sarà soltanto di rendere più percettibile la debolezza di fondo della concezione, la povertà dell’esecuzione. Oggigiorno i poetastri s’illudono vantandosi soprattutto – un vanto pericoloso, che viene loro tributato volentieri – di essere pieni d’ingegno. Quanto è rara l’autentica ricchezza spirituale, acquisita con l’ampiezza di un’esperienza molteplice, con la profondità di lotte possenti! Com’è diventato consueto invece quel misto di intuizione e riflessione, di poesia e filosofia, caratterizzato dalla variopinta confusione che oggigiorno piace chiamare piena d’ingegno. L’impotenza ha ora nella riflessione dialettica i mezzi per simulare, per un istante, la creatività. Da quanto già si è detto è chiaro che, diventando comico coll’esagerarsi, l’abituale si giudica da solo. Ma dalla comicità oggettiva e involontaria occorre distinguere la comicità che fa consapevolmente la parodia della vuotezza dell’abituale. Quando l’abituale si adopera per adornare la nullità del suo contenuto con l’ampollosità di un falso pathos, è una ridicolaggine involontaria. In questo caso il fatto che ridiamo del brutto significa che lo giudichiamo. Se invece ciò che per contenuto è abituale viene presentato nella forma del sublime, o viceversa ciò che per contenuto è sublime nella forma dell’abitudinarietà, in entrambi i casi ne nasce un effetto comico. Il primo caso è quello della parodia basata sul travestimento, come quando nella Batracomiomachia le rane parlano il linguaggio degli eroi omerici; il secondo è il caso della parodia, come quando l’idea di destino come potenza sublime in sé viene applicata a un soggetto futile. Natalis 108 col suo Dramma della calzetta e Platen con La forchetta fatale 109 deridevano le aberrazioni della nostra scuola fatalistica; Baggesen 110 con il suo Adamo ed Eva l’ampollosità in cui era decaduto da noi l’epos religioso. I primi uomini sono di certo un soggetto
ingenuamente sublime. Baggesen fa studiare ad Adamo teologia fino a dodici ore il giorno. Nel frattempo Eva passeggia nell’Eden, dove gli animali le fanno galantemente la corte e le leccano con moine il piede grazioso. Particolarmente raffinato è il comportamento del serpente dalla pelle variopinta e cangiante. Si rende interessantissimo agli occhi di Eva perché parla francese ed è in grado di raccontare molte cose su Parigi. Adamo, con cui Eva pranza borghesemente a mezzogiorno, per lungo tempo non nutre alcun sospetto sulla pericolosa conoscenza: finalmente la scopre per caso passeggiando insieme a sua moglie, e così via. Tutto questo modo di trattare il soggetto trasforma dei protoplasmi in uomini d’oggi, ma poiché alle abitudinarietà – studiare teologia, pranzare a mezzogiorno, imparare il francese, fare una passeggiata per digerire – si aggiungono i presupposti fantastici dello stato paradisiaco, dove gli animali non sono ancora in discordia con gli uomini e il serpente parla, si determina una contraddizione molto divertente che ha dato al poeta l’occasione per creare ingegnosi tratti satirici. Tra questi, e non dei peggiori, che il serpente avveleni l’innocente fantasia della piccola Eva raccontandole di Parigi, e la lusinghi col linguaggio di questa moderna Babele. Il banale può essere volto in comico anche così, trattandolo con ironia su se stesso. Già prima abbiamo indicato che quel che esteticamente evitiamo come banale può essere molto importante nella realtà. Non fa comparsa in esso la necessità di cui siamo tutti sudditi? Non è l’elemento in cui il principe si congiunge al mendico? Non dobbiamo tutti quanti mangiare e bere, dormire e digerire? Non dobbiamo tutti lavorare, perlomeno per il nostro ozio? I bambini non debbono essere generati? Può forse un’imperatrice farsi togliere per decreto le doglie del parto? Non possiamo tutti ammalarci, malgrado ricchezza e cultura? Non dobbiamo tutti, infine, morire? E dunque questa quotidianità non è anche molto seria e degna d’onore? Non costituiscono forse le sue situazioni l’elemento epico – nella sua stabile identità – della storia? Se l’arte le concepisce sotto questo aspetto scompare da esse ogni volgarità. E così di fatto scultura, pittura e poesia hanno descritto il divino sonno, il lavoro
dell’uomo, il pasto comune, il matrimonio, la nascita e la morte, secondo la nobiltà del loro universale significato positivo. Si ricordi come Omero ha fatto raffigurare da Efesto sullo scudo del guerriero Achille l’intero ciclo delle celebrazioni e feste della pace; le Opere e i giorni di Esiodo; l’idillio, la lirica sociale, gli scolli; si ricordi come l’antico rilievo, l’antica pittura vascolare, la pittura parietale pompeiana presentano con ingenua serenità le nostre situazioni abituali; come la poesia, la plastica e la pittura cristiana hanno raffigurato secondo il loro valore ideale, prendendoli dalla storia dei Patriarchi e di Cristo, tutti gli avvenimenti consueti della vita umana. Si riconoscerà allora quale grande spazio l’abituale assuma nell’arte con un carattere compiutamente affermativo. Ma proprio perché questi elementi epici della vita mondana, nella loro infinita importanza pratica, sono però, nello stesso tempo, gli elementi quotidiani, che denunciano anche la dipendenza dell’uomo dalla natura e nel loro continuo ritorno contengono la noia della nostra esistenza, dell’essere sempre daccapo costretti a mangiare e bere, a lavorare e dormire, a mettere al mondo e morire, c’è già in loro stessi un’impronta ironica. Basta che l’arte vi sottolinei di più il punto della nostra connessione con la natura, del nostro legame col finito, e in un batter d’occhio c’è la comicità. Allora nasce anche un quadro di genere, ma che ci strappa un sorriso perché ci mostra la libertà nella sua naturale limitatezza. Nella grande totalità la situazione particolare non è che un momento; quale che sia la soddisfazione che relativamente e momentaneamente una situazione ci può assicurare, è comunque costretta a risolversi nel contesto generale: indicare questo passaggio significa ironizzarla. Se non è seria e dignitosa in senso epico, la rappresentazione di genere, sia pittorica che poetica, diventa volgare e noiosa. Anche alla nostra attuale pittura di genere bisognerebbe consigliare ciò che Lessing consigliava al poeta comico, di liberarsi dall’abituale deviando dalla pura, cruda, quotidiana natura. Perché da essa abbiamo ricevuto l’imitazione totalmente senza idee delle nostre più limitate situazioni empiriche, una descrizione fin troppo fedele delle cuoche, venditrici di frutta, scolari, madri che fan le toppe alle calze, calzolai che cuciono stivali, pastori che meditano avvolti nella coperta,
musicanti che bighellonano nelle taverne ecc., senza la minima trasfigurazione ideale, senza un atomo di umorismo. Poiché noi tedeschi non abbiamo una grande storia che ci accomuna, un trascinante entusiasmo unitario, si spiega perché la nostra arte è in impaccio con soggetti pieni di dignità e può cadere tanto facilmente nell’inezia e nel bamboleggiamento informi con l’abituale. Hegel e Hotho 111 hanno giustamente sottolineato, a proposito della pittura di genere, che l’insignificanza dei soggetti stimolerebbe, a maggior ragione, una splendida esecuzione, ma si fa torto a questi filosofi se si prende il loro entusiasmo per il genere della scuola olandese come una concessione, per cui anche la mera copia di una realtà empirica a loro basterebbe, e per cui composizioni ideali non sarebbero così favorevoli, nel dettaglio, allo splendore della tecnica virtuosa. Se un’idea simile diventasse pregiudizio generale, rovinerebbe completamente il senso artistico di una nazione, perché ci farebbe onorare la limitatezza come un valore definitivo, ci farebbe intristire in un sentimentalismo fiacco, in uno stordimento idillico rendendoci incapaci per sempre di cogliere l’autentico dolore della vita, in cui sentimento e conoscenza soltanto possono dare alla nostra esistenza la consacrazione di una vera serenità. La mancanza di idealità, la trivialità del contenuto portano in tutte le arti ad ampliare il dettaglio, e l’ornamento viene scambiato per poesia. Ne viene un indugiarsi senza misura sull’abituale, perché non si vuole omettere nulla, e da questa tendenza alla cattiva completezza nasce una noia spaventosa. Come è noto, Voltaire ha detto che tutti i generi sono buoni e leciti, hors le genre ennuyeux, ma ha anche detto: le sécret d’être ennuyant, c’est de tout dire. Non ci si deve meravigliare se in epoche simili è proprio delle nature superiori ed ispirate – per avversione al servilismo per gli idoli che s’accompagna al volgare e all’abituale – esagerare poi l’ironia verso il finito cadendo talora nel frivolo, talaltra nel pietistico, talaltra ancora nel folle. Il vero artista rappresenterà dunque l’abituale o in modo da metterne in luce la giustificazione positiva come forma necessaria del corso del mondo, o in modo da riflettere in senso ironico la limitatezza di una situazione nella libertà che la oltrepassa, oppure in modo da volgerlo
direttamente in comicità. Perché i piccoli accattoni di Murillo sono diventati tanto famosi? Perché l’indigenza non li imbarazza, e dalla loro miseria traluce il sentimento di gioia di un’anima senza preoccupazioni, al di là di ogni necessità esteriore. Murillo ha colto l’aspetto affermativo della loro esistenza. Perché Biard ha acquisito così gran fama? Perché sa mettere in luce il momento ironico dell’abituale. La sua celebre Compagnia dei Saltimbanchi oggi attende inutilmente una visita, a causa della pioggia che scende a dirotto. La luce accanto alle figure di cera, tra le quali notiamo anche alcune di-vinità dell’Olimpo, si consuma inutilmente ai loro piedi. I direttori della compagnia, riuniti attorno a una vecchia maliziosamente esperta, accertano che il fondo della cassa è vuoto. Il cicerone delle figure di cera, con la bacchetta sotto il braccio, guarda fuori corrucciato la strada abbuiata, in cui fuggono come ombre uomini riparati dagli ombrelli. Queste persone, si vede che sono esperte della vita, abituate ad ingannare e ai morsi della fame, senza perdere la testa tanto presto; eppure al momento la situazione è estremamente sconsolata. Ma che amabile apparizione si vede là fuori, sul pavé? Una ragazzetta in vesti infantili siede intenta al suo violino e tutta la miseria che la circonda sembra non toccarla. Prenderà parte un giorno a questa miseria, avrà da mangiare e da bere poco e male, soffrirà il freddo nelle sue vesti sottili, ma amerà l’arte per amore dell’arte. Quei capelli neri, quei tratti pieni di nostalgia, quegli sguardi infuocati ci danno la garanzia del genio e ci strappano da tutte le cose abituali. Tra i pittori di Düsseldorf merita di essere segnalato Hasenclever per la sua comicità: che quadri deliziosi L’ora di danza, L’atelier del pittore, La società del té, il Giobbe che veglia! Alla megalografia, la raffigurazione degli dèi e degli eroi, gli antichi contrapponevano la ryparografia o rypografia o anche, secondo F. Welker 112 , ropografia, perché anche lo sporco ha a che fare con l’abituale e il volgare. W. Gringmuth, in un saggio dedicato appositamente a questo argomento 113 , ed Hettner in una sezione della sua Vorschule zur bildenden Kunst der Alten 114 hanno tentato di descrivere in modo più ravvicinato questa antica pittura di genere. Dalle opere che ci sono pervenute
vediamo che vi facevano parte amorini che si aggirano trascinando le armi, nani che dipingono, lotte di pigmei con polli e gru, nature morte di frutti, uccelli. b. Il casuale e arbitrario – Il volgare è tanto banale nella sua limitatezza quanto il sublime è maestoso nella sua unicità. Nel suo comportamento creativo, autodeterminantesi per antonomasia, il maestoso agisce sì all’improvviso, ma non in modo casuale, libero sì, ma non arbitrario. Mosé percuote nel deserto una roccia con una bacchetta e all’improvviso dal suo arido seno sgorga una corrente d’acqua viva. Quest’azione maestosa non è casuale né arbitraria. Non è casuale perché Mosé è la guida del popolo inviata da Dio, che deve quindi averne cura; non è arbitraria perché il popolo era in procinto di perire. L’azione maestosa è sicura di se stessa in quanto assolutamente creativa e raggiunge lo scopo senza particolare mediazione esterna: fondamentalmente con il semplice atto della mera volontà. L’Apollo Vaticano, sul muro del tempio in cui era collocato, scaccia via un qualche genio maligno, sia esso Pitone o le Erinni. Ancora tiene in mano l’arco, ma il suo atteggiamento e la sua espressione dicono con decisione che egli, il dio che colpisce lontano, era già sin dall’inizio certo del successo della sua azione. Vuole uccidere il genio maligno e lo uccide. Non ci può essere dubbio, titubanza, esitazione nella sua natura, che pretende alla maestà. Se nel suo agire la maestà cade preda del caso e dell’arbitrio, diventa brutta. Il suo agire deve essere facile, senza fatica e tuttavia necessario al tempo e al luogo giusto, nella sua facilità: perciò il cosiddetto deus ex machina e tutto quanto gli è analogo non producono l’effetto della maestà. Se un essere che deve essere maestoso non raggiunge per una volta ciò che ha di mira, contraddice la sicurezza che si presuppone in lui e diventa brutto o comico. Immaginiamo un leone che da un agguato balza su una gazzella ma fa un salto troppo lungo e la oltrepassa, mentre quella gli scappa di sotto: il re degli animali farà una figura ridicola. Nella forma del suo agire, la maestà non deve nemmeno essere precipitosa, perché la sua autonomia deve apparire solenne. L’assoluta sicurezza interiore deve esprimersi
anche nella quiete e nella compostezza esteriori. Gli alberi inclinano maestosamente le loro corone quando si incurvano lenti avanti e indietro; un suono è solenne quando s’interrompe e a determinati intervalli interrompe di nuovo il silenzio; un passo è solenne quando – poiché il camminare è un cadere trattenuto – fa strascinare il piede all’indietro più di quanto non lo faccia cadere in avanti. Pertanto tutti i movimenti che fanno apparire un individuo che deve essere maestoso come inquieto, affrettato, tirato di qua e di là, sono brutti perché contraddicono l’incondizionata certezza di sé in quanto natura della maestà. Anche il linguaggio della maestà dovrà essere breve, lapidario, inflessibile, misurato. Verbosità, frasi mozze non gli sono appropriate; gli si confà piuttosto un gioco umoristico e scherzoso, perché nel gioco si manifesta il dominio su qualcosa. Un principe sempre in moto e irrequieto, che incespica e sbraita, che non resta padrone dei suoi affetti e tradisce col comportamento di non essere più in là dell’inquietudine dell’uomo comune, è in procinto di diventar ridicolo. In antitesi all’agire senza riflessione e che basta a se stesso della maestà, la volgarità si caratterizza per la casualità e l’arbitrarietà. In sé, il caso è tanto poco volgare quanto lo è l’arbitrio. In quanto tali, dunque, essi ancora non sono brutti; lo diventano solo quando si collocano al posto della necessità e della libertà. La bellezza non ha per contenuto la costrizione, bensì la necessità; non l’assenza di legge, ma la libertà. La necessità della libertà è la sua anima, ed essa può quindi applicare tanto il caso che l’arbitrio solo in modo tragico o comico. Se nel contesto del manifestarsi della libertà la necessità diventa capriccio, il destino diventa casuale ed arbitrario, mentre opera maestosamente in quanto limite oggettivo e spontaneo alle intemperanze del caso e dell’arbitrio. Per lo sviluppo tragico, il cosiddetto caso non è che la forma in cui l’assoluta necessità cela se stessa. Il destino non può es-sere puro e semplice limite in generale, ma deve esprimere il fatto che noi riconosciamo essere reso necessario dalla natura della libertà. Da questo punto di vista le collisioni, anche quelle dell’antica tragedia fatalistica, sono di natura etica, anche se essa non concepisce ancora il fallo come contraddizione etica, ma come
un fare moralmente involontario la cui motivazione ha radici nel grembo degli dèi. Ma la colpa, che nel significato da noi attribuitole non può che esistere come colpa morale, viene tuttavia riconosciuta dalla tragedia antica, come dichiarano in maniera insuperata i noti versi di Sofocle [Antigone, 925-926]: «ἀλλ᾽εὶ μὲν οὖν ταδ᾽ἐστὶν ἐν θεοῖς καλά, |παθόντες ἂν ξυψψοῖμεν ἡμαρτηκότες» 115 . Per la comicità naturalmente il caso rappresenta, non meno dell’arbitrio, la leva assoluta: soltanto i versi sono in grado di parodiare anche la bruttezza di caso e arbitrio cattivi per soggettiva assenza di misura. È nel bizzarro e nel barocco, nel grottesco e nel burlesco che il casuale e l’arbitrario dal brutto si sollevano alla trasfigurazione del comico. Nessuna di tali forme è bella nel senso dell’ideale; in ognuna di esse esiste una certa bruttezza, ma anche la possibilità di passare alla comicità più serena. Il bizzarro è il capriccio dell’umore. Il termine deriva dall’italiano “bizza” che significa ira, e anche cattiveria. Poiché la cattiveria è qualcosa di singolare, il termine è passato a significare anche la stranezza e la rarità: creandole, l’umore si compiace di sé. Se si pensa che il bello è rivolto all’espressione dell’ideale, non ci si può aspettare che il bizzarro sia bello. Tende piuttosto al comico, tuttavia per il suo contenuto fuor del comune, di rado è puramente ridicolo. L’elemento di bizzarria sorpassa tanto l’individualizzazione che il bizzarro appare brutto o perlomeno rasenta il brutto. Lega nel suo umore quel che di solito si separa e separa quel che d’abitudine si lega. Lo spleen inglese è ricco di casi bizzarri. Donne gravide, fanciulle nell’età dello sviluppo hanno spesso voglie bizzarre, per esempio quella di assaggiare la cenere di tabacco. Gli ipocondriaci si lamentano con immaginazioni bizzarre. L’amore passionale spinge anche ad azioni bizzarre, e il trovatore Peire Vidal lo si ricorda soprattutto per questo. Tra i Minnesänger tedeschi potremmo accostare alle sue sciocchezze sentimentali quelle di Ulrich von Liechtenstein 116 . Nell’architettura e nella scultura il bizzarro può ancora farsi valere poco perché la serietà e la particolarità del materiale che queste arti adoperano ne impediscono le intemperanze. Nella pittura acquista già uno spazio
notevole, soprattutto nelle tonalità di colore. Nella musica, naturalmente, l’infondatezza delle sue metamorfosi può scorrere a piacimento nell’elemento duttile, arrendevole; indeterminato-determinato dei suoni, e la musica chiama anche espressamente “capricci” alcune sue creazioni bizzarre. Nella poesia, infine, si comprende da sé la più varia espressione dell’indefinibile che c’è nel bizzarro. In alcune sue commedie, Shakespeare lo ha esaltato in modo splendido. Tra i francesi moderni Balzac eccelle nell’arte di idealizzare il bizzarro. Così egli ha scritto un romanzo che descrive lo swedenborghismo 117 . Per la sua natura angelica l’eroina appare agli uomini come fanciulla, Seraphita, alle donne come fanciullo, Seraphitus. Ora questo ermafroditismo psicologico porta anche a situazioni bizzarre. Tra gli autori tedeschi moderni, Gutzkow ha una disposizione preminente a inventare caratteri e situazioni bizzarre. Il suo Maha Guru, la sua Wally, Serafina, Nerone, il suo principe del Madagascar, il suo Blasedow, il suo Hackert ne I cavalieri dello Spirito 118 sono bizzarri nel senso più alto e toccano il sublime con la stessa frequenza del ridicolo. Nel creare il suo Hackert che vaga nella notte, poliziotto segreto, burbero e malignamente buono, Gutzkow ha descritto il bizzarro nel modo più acuto. Nel Principe del Madagascar ha collocato il bizzarro soprattutto nelle situazioni. Com’è bizzarra la situazione del principe: essere imprigionato e venduto schiavo dai suoi stessi sudditi! Anche in racconti più brevi si troverà in Gutzkow come ingrediente principale l’inclinazione al bizzarro, fino alla storia, narrata in modo delizioso, di quel canarino che stranamente si innamora della sua immagine allo specchio e muore di malinconia per l’irrealtà al suo vis à vis. Gutzkow è riuscito a fare medaglioni straordinari di caratteri di questo tipo, ad esempio il ritratto di Schottky, a cui può fare da pendant solo il ritratto di Scholi scritto da Laube 119 . L’audacia ad effetto, la mobilità fantastica sono ciò che fanno del bizzarro l’ironia dell’abituale e lo avvicinano, in questa stessa direzione, a un’affettazione civettuola. Quanto facilmente questa possa cadere nel decisamente brutto, lo vediamo talora in Tieck, che è così ricco di figure improntate ad autentica bizzarria. Alla fine della novella Cocciutaggine e
capriccio 120 fa comparire la sua eroina Emmeline come tenutaria di bordello. Questo capriccio è brutto e non è motivato dal poeta, che pure rappresenta le altre disavventure di Emmeline in un contesto che in qualche modo le scusa. Emmeline poteva bensì voler sposare un cocchiere, farsi ingravidare da un frivolo commis, sposare un aristocratico del denaro, scappare con un ufficiale (in cui ritrovava il cocchiere Martin), ma aveva bisogno di cadere così in basso da fare della prostituzione un mestiere, e un mestiere non solo per sé, ma nel modo più orribile, come tenutaria di bordello? Questo finale è più che bizzarro. Fino a quel punto Emmeline dimostra umor capriccioso, ma non quest’indegna cattiveria. Il barocco è difficile a distinguersi dal bizzarro. Si potrebbe ben dire, però, che il barocco consiste nel dare significato all’abituale, al casuale e all’arbitrario con la straordinarietà della forma. Il termine è derivato da una nota forma di sillogismo che ha nome “barocco”. Secondo altri ha lo stesso significato di “storto” e viene usato per le cornici incavate, che con superfici sghembe s’incurvano verso il quadro o lo specchio e ancor oggi si chiamano cornici barocche. Ma non potrebbe venire da “baro”, che in latino equivale a persona stupida e in italiano a falsario nel gioco, furfante? Il barocco non potrebbe aver trasferito il concetto di gioco con carte false al gioco con il casuale? Vi è in esso una certa sfrontatezza e selvatichezza dell’arbitrio che sorpassa se stesso, che spesso può cadere nel comico, ma anche nel truculento e nel tetro: e come tale lo troviamo nelle pene che i popoli infliggevano, spesso brutali quanto barocche (e purtroppo è ancora così). Quel pascià della Siria trovava addirittura un piacere palesemente molto barocco nel lavorare artisticamente di propria mano con un coltello i volti dei criminali per dare ai nasi, alle orecchie e alle labbra la forma che lo soddisfaceva. Eugène Sue ha saputo esprimere il barocco talora con molto spirito, ma sempre nell’aspetto della truculenza. In Matilde, il suo più compiuto romanzo, ha descritto in modo assai caratteristico con capricci bizzarri e scatti d’umore barocchi la profonda cattiveria di Mademoiselle de Maran. L’arbitrio di questo personaggio satanico si esprime anche nell’inventare parole reperibili solo
nel suo lessico. Per esempio quando, per dire che qualcosa è assai notevole, dice «c’est pharamineux!». Il grottesco è affine al barocco e al bizzarro, e tuttavia distinto da essi per un paradosso individuale. Benché esistesse da lungo tempo in tutte le forme di comicità, esso ha ricevuto questo nome in Italia, all’epoca del Cellini, da un modo particolare di lavorare l’oro e l’argento, in cui si fondevano assieme in una rara mescolanza vari materiali. In seguito il termine passò ad indicare la maniera a macchie variopinte con cui si intarsiavano di pietre colorate, coralli, conchiglie e minerali metalliferi le grotte, i padiglioni, le vasche delle fontane. Da questa mescolanza variopinta, il nome passò a indicare tutte le forme in cui una commistione inconsueta di ghirigori imprevedibili e stacchi inattesi attira e distrae in egual misura la nostra attenzione. Anche i danzatori che, con i più strani contorcimenti, ci fanno dimenticare che hanno, come noi, delle ossa, vennero definiti danzatori grotteschi. Il loro divaricare le gambe, stare in bilico, dondolarsi, attorcigliarsi, fare salti da ranocchi, strisciare sul ventre, non è certo bello, e nemmeno comico; è invece, in quanto arbitrio e che sembra farsi burla di tutte le leggi, grottesco. Come continuazione dalla sua Geschichte der komischen Literatur, Flogel ha lasciato delle collettanee che sono state pubblicate nel 1778 col titolo Geschichte der Grotesk-Komischen 121 . In questa storia, a partire dalla satira greca, ci si occupa prevalentemente di zanni, marionette, feste dei matti e società dei balordi, e con il termine “comicità grottesca” si intende soprattutto il comico basso e in particolare il modo in cui esso passa nel grossolano, nel lascivo e nel rozzo. Fin dal 1761 Möser aveva scritto Arlecchino o difesa del comico grottesco, riferendolo soprattutto alle maschere italiane come le descrive Riccoboni. Egli lo equipara anche al comico basso, alla farsa, all’allusione ambigua. Il suo La virtù sulla scena o Il matrimonio di Arlecchino (ristampato in Sämtliche Werke, a cura di B. R. Abeken, Berlin, 1843, t. 9, pp. 107 ss.) è tuttavia piuttosto addomesticato. Il grottesco è per molti versi il gusto infantile, l’estetica cinese. Il bizzarro, il barocco e il grottesco possono trasformarsi in burlesco. “Burla” in italiano e in spagnolo significa beffa. Dall’Italia la maniera
burlesca giunse in Francia e qui, soprattutto grazie alla parodia dell’Eneide fatta da Scarron 122 , si diffuse tanto che i suoi versi brevi circolavano come versi burleschi per antonomasia, e addirittura la storia di Cristo venne rielaborata in tutta serietà ma, come già annunciava il titolo, in versi burleschi 123 . Il burlesco è l’esuberanza parodistica dell’arbitrio, straordinariamente adatta a eseguire piacevoli caricature. Perciò è l’anima della commedia italiana delle maschere e di ogni comicità analoga. Quella muta rappresentazione che noi, dalla corruzione della parola azioni, chiamiamo lazzi, appartiene al burlesco come sua espressione classica. La baldanza creativa deve produrre con il suo bello spirito spumeggiante gesti, flessioni, salti, farse, smorfie impronunciabili, che hanno un interesse solo nell’istante del loro movimento e nel contrasto col loro ambiente. Nell’odierno vaudeville comico si è affermata una maggior raffinatezza. Specialmente nel fare la parodia degli inglesi, i francesi hanno un tesoro infinito di invenzioni comiche, come ad esempio nei vaudeville Sport e Turff. Ma lo amano soprattutto per via dell’elemento parodistico, e si potrà osservare come i loro attori sappiano estrarlo e svilupparlo da un ruolo. Si prenda ad esempio il ruolo del cuoco Vatel nel vaudeville Ambizione in cucina, sostenuto in modo così classico anche da Seydelmann: senza l’umor creativo dell’attore in atteggiamenti e gesti burleschi non sarebbe che la metà di quel che dev’essere. Vatel vuole uccidersi col coltello da cucina per un pudding malriuscito. L’onore dell’arte culinaria, l’onore dei suoi avi glielo impone. La scena è deliziosa se viene recitata come parodia burlesca del pathos della grande tragedia. Vatel, vestito col grembiule bianco, con il berretto bianco del cuoco, tiene un monologo commovente che ci fa quasi soffocare dal ridere, quando la genialità dell’attore padroneggia il burlesco. Non è possibile descriverlo. Nel vaudeville I vecchi peccati vediamo un vecchio maestro di danze parigino ritiratosi sotto altro nome come benestante rentier in una cittadina di provincia. Ora, non appena quest’uomo eccellente è preda di una passione, cade involontariamente in attitudini simboliche di danza, cosicché il pathos della dignità di maestro e l’enjambement frivolo del balletto si contraddicono in modo burlesco. Solo l’umore dell’attore e la
sua grazia burlesca possono far sì che questa contraddizione non diventi insopportabilmente brutta. Oppure si rammenti quel vaudeville in cui un vecchio rentier corre dietro alla Fanny Elssler e nell’albergo, quando al mattino fa toeletta, ammaliato dall’idea di esserle vicino, perso in beati ricordi, con la salvietta da barbiere attorno al collo e il rasoio in mano, imita la ballerina amata danzando, nel modo più spaventoso ma più ridicolo, la sua seducente e leggiadra cachucha. Simili cose sono burlesche. Se ci siamo persi dietro questi esempi tratti dal campo drammatico, dobbiamo osservare che ciò è accaduto perché esso rende possibile il massimo dell’energia burlesca: ma non perché il burlesco non sia altrettanto possibile ad altri generi artistici. La poesia ha addirittura certi mezzi stereotipi per produrre il burlesco, come nella rima obbligata, nella mescolanza di lingue e nel gergo, di cui abbiamo parlato altrove 124 . Dov’è qui il lecito dal punto di vista estetico? Chiaramente nel fatto che in ciò che in sé dovevamo giudicare brutto la libertà si fa valere con la serenità del gioco, trasfigurando il brutto in ridicolo grazie alla consapevole assenza di misura. Una rima obbligata deforma una parola per farne una rima giusta. Neppure questo maltrattamento della lingua è bello, ma poiché scaturisce dalla libertà che ha creato la lingua stessa e per cui la parola potrebbe suonare anche così siamo costretti a riderne. Quando una nota parodia della canzone di Mignon comincia «Nach Italien, Nach Italien, möcht’ich, Alter, jetzt einmaligen», l’avverbio temporale “einmaligen” al posto di “einmalig” è inaudito, impossibile. Ma così l’umor burlesco esce allo scoperto e suscita il riso. Grazie all’affinità che lega tra loro il bizzarro, il barocco, il grottesco e il burlesco, l’opera epica e il romanzo comico ci presentano i passaggi più vari dall’uno all’altro. Cramer, Jean Paul e Tieck da noi, Smollett e Sterne in Inghilterra, Scarron e Paul de Koch in Francia ci hanno dato amalgami simili. Qui Tieck è meno felice nel disporre il tutto, ma tanto più felice nel dettaglio. Quale barocchismo, nella novella La società in campagna 125 , presentare l’accusativo come un leggiadro giovinetto che ci viene incontro gioioso, il dativo come un vecchio seduto, con la barba, con gli occhi bassi e imbronciato! E per giunta la giustificazione burlesca del tutto, che sfocia
in un tono di pathos, fa sì che quest’invenzione si offra come un campo completamente nuovo alle arti figurative, che si erano esaurite nella mitologia antica, nordica e cristiana. Che futuro, se gli scultori e i pittori renderanno onore anche al principesco infinito, al sovrano imperativo! Questo discorso è un capolavoro del burlesco più raffinato. Paul de Koch ha fama di essere frivolo. E lo è, ma tuttavia è molto meno pericoloso di altri scrittori così ben visti, perché è comico, perché è grottesco e burlesco di fronte a tutto. Così, ad esempio, in uno dei suoi romanzi un giovanotto spera finalmente in un incontro con l’amata nel padiglione di un giardino. Arriva nel padiglione, ma si perde e finisce in un’altra stanza, deve assistere alle tenerezze di due sposi che si mettono a letto; non appena s’addormentano, sgattaiola via quatto quatto, trova la scala, trova la stanza giusta, trova l’amata. S’è appena infilato nel letto che scoppia un incendio. Ne nasce un gran tumulto, deve alzarsi, nella fretta afferra i vestiti dell’amata, con quelli esce da una finestra e giunge felicemente fuori del giardino. A questo punto vuole vestirsi, ma con spavento scopre i panni femminili; spinto da necessità, è costretto a infilarcisi dentro e con questo abbigliamento grottesco attraversa ancora, lungo la breve via fino a Parigi, mille avventure. Qui non l’arbitrio, ma il caso è burlesco. c. Il rozzo – La volgarità in generale è l’avvilimento della libertà sotto una necessità che non le è propria. Come rozzezza, è un abbandonarsi a una dipendenza dalla natura, che nega la libertà, o il prodursi di una costrizione contro la libertà o un irridere il fondamento assoluto su cui ogni libertà si basa: la fede in Dio. Il maestoso può anche conoscere il dolore, ma solo nell’aspetto finito e mortale che esso è costretto a concedere al potere esterno, mentre in sé si considera libero ed è quindi in grado, proprio nel dolore, di mantenere con tanta maggior energia l’intatta infinità del suo agire, come dice così bene Rückert: «L’onda sudicia non intorbida la purezza della perla / anche se la sua schiuma si frange e infuria sul guscio». La libertà non si contraddice ancora quando si esprime solo imperfettamente: ne abbiamo già parlato nell’Introduzione. In confronto
alle forme superiori, al grado ultimo dello sviluppo possibile, le prime forme ancora immature possono sembrare non belle ed avere – poiché la forza in divenire vi opera una spinta potente – una forma rozza. Un’esistenza di questo tipo non corrisponde ancora perfettamente al concetto nella sua realtà: ma questa non piena corrispondenza non è affatto un contraddire, piuttosto è sulla via che porta alla congruenza reale tra essenza e sua manifestazione. In questo caso la rozzezza non è una bruttezza opposta e contraria al bello. Sono stadi inferiori, spesso inevitabili, che l’esistenza deve attraversare per realizzare compiutamente, in seguito, il suo concetto. La disposizione rozza è uno stato inaugurale che non esclude positivamente da sé la bellezza e a cui opponiamo lo stato perfezionato, limato, polito. In questo senso la rozzezza – poiché vi opera una dovizia di forza produttiva in fermento – può essere addirittura per noi un pegno di eccellenza futura. Il grande contenuto di una concezione può apparire in vigorosi progetti, dalla cui rozzezza balena tuttavia la possibile e già implicita bellezza. Disegni di pittori e scultori, piani architettonici, schizzi drammatici possono rivelarci già nella loro forma embrionale tutta l’infinità dell’arte genuina. Nelle primizie degli sforzi artistici di una nazione troviamo spesso già presente, connesso con la rozzezza dell’espressione, un tipo di autentica bellezza: la lotta che sostiene con l’incompiutezza del suo manifestarsi può avere qualcosa di profondo. Si può addirittura parlare, e senza nessuna difficoltà, di una maestà rozza, perché è possibile che la sua grandezza e forza si sottraggano ancora a una maggior finezza di elaborazione eppure sia già visibile nella libera, indipendente, audace gettata dell’intera sua struttura. Questo tipo di rozzezza concerne dunque la finezza della forma e l’esecuzione delle determinazioni di dettaglio. Da essa va distinta quella rozzezza che contiene una contraddizione della libertà con se stessa; contraddizione che nasce anzitutto perché la libertà si rende dipendente dal sensibile, che dovrebbe esserle subordinato in qualità di mezzo. Lo spirito deve gustare il sensibile senza perdervisi del tutto e sacrificargli il suo libero dominio. La bruttezza della voracità, della violenza e della dissolutezza sta nel vincolo a cui la libertà è sottoposta, e che è contrario
al suo concetto. Né il nutrirsi né l’atto di procreazione sono, in quanto pura necessità della natura, brutti come tali. Lo diventano solo in quanto sottomettono la libertà dello spirito. Per il mondo animale, pertanto, questa forma di bruttezza, forma mediata da concetti etici, può non sussistere. All’animale manca la libertà della riflessione, la possibilità di paragonare il suo stato con un concetto di dover essere. Se noi – come di fatto accade – attribuiamo agli animali la rappresentazione della nostra libertà, anche l’animale, in forza di questa attribuzione, può diventare brutto. Allora ad esempio la iena può sembrare ripugnante nella sua voracità: la sua avidità non rispetta nemmeno le tombe e le sue fauci insaziabili divorano anche i cadaveri. Qui dunque entra in gioco un momento etico, che determina il nostro giudizio. Ma poiché nutrizione e procreazione sono atti, in sé necessari, della natura, proprio in essi la comicità può acquisire mezzi straordinari: quando l’uomo abbandona la rigorosa legalità della libertà e si abbandona tranquillamente al piacere dei sensi respinge da sé la colpa attribuendola alla natura, alla quale non farebbe che pagare il suo tributo, come un homuncio. La frivolezza francese ha inventato a suo pro la frase: c’est plus fort que moi. Ma ciò non è possibile senza umorismo. Tutti i canti conviviali e di bevitori non ispirati al buonumore sono brutti. La comicità può anche giocare ironicamente con gli istinti naturali. Può scherzosamente esagerare la passione per il piacere dei sensi, come se per l’uomo o addirittura per gli dèi non esistesse nulla di più elevato ed importante. Così i comici antichi hanno presentato spesso Eracle come un vagabondo con una fame che niente è in grado di placare. Aristofane ha messo in burla questa arlecchiniade conservandone però la maniera, ad esempio nelle Rane. Delle commedie satiriche ci è rimasto solo Il ciclope euripideo, che ci presenta la colossale rozzezza di Polifemo. Nel Gargantua e Pantagruele il medico dotto ed esperto del mondo – Rabelais – ha messo di fronte ai parigini un’immagine speculare della loro immoralità descrivendo il bere e l’ingozzarsi come una seria applicazione di studio di cui i suoi eroi si occupano all’università con una ricerca seriosa e pedante. Nel Münchhausen di Immermann incontriamo il servitore Karl Buttervogel
che simula un amore infuocato per la gentile signorina di Posemuckel solo per avere da lei panini ben imburrati e altre leccornie. Per trattare comicamente l’istinto sessuale, particolarmente favorevole è quella situazione che può negare del tutto la necessità della natura, contrapporle una supposta assenza di natura e a questo punto, colta di sorpresa dalla potenza della natura, è costretta a un riconoscimento semi-involontario della natura. Questo tratto comico anima già le antiche storie indiane di quei re penitenti che minacciavano con la loro forza di diventare pericolosi per gli dèi, i quali perciò inviavano loro una delle loro concubine più attraenti per traviarli dalla loro santa solitudine. Lo stesso tratto anima un’infinità di novelle medioevali, che ne hanno espresso nel modo più leggiadro il contrasto in storie, come quella dove Alessandro manda da Aristotele una cortigiana che con lusinghe lo tira giù dall’alto delle sue astrazioni sicché egli, camminando carponi, acconsente a caricarsi sulle spalle il dolce peso di lei e in questa graziosa occupazione lo sorprende ridendo Alessandro. Sono abbastanza note le storie lubriche basate su quest’elemento in Boccaccio e Wieland. Ora, benché l’istinto di conservazione e l’istinto della specie diventino esteticamente possibili solo grazie alla sanzione morale o alla comicità, tuttavia è interessante vedere come alle conseguenze naturali della loro soddisfazione possano essere connesse delle situazioni che esteticamente possono sembrare ancora più rozze. La natura ad esempio costringe l’uomo, e l’animale, a espellere il superfluo, e in modo molto più impellente di quanto non faccia col mangiare e col bere: perciò, anche in tedesco indichiamo questa comune necessità col termine “bisogno”. L’organismo si libera così di ciò che non ha potuto applicare alla sua vita, che egli separa da sé come un qualcosa di relativamente morto, qualcosa di inorganico prodotto dall’organismo, un’esistenza uccisa dalla vita. Per quanto necessaria, quest’alienazione è brutta perché fa apparire l’uomo in infima dipendenza dalla natura. Perciò egli cerca, per quanto può, di nascondere il soddisfacimento del bisogno. L’animale naturalmente non ha scrupoli nell’eseguire quest’atto e solo il lindo gatto, che sta sempre a pulirsi e a leccarsi, sotterra la sua lordura, evacuata in luoghi abituali.
All’inizio il bambino fa come l’animale e la sconvenienza dei cari piccini può contrastare in modo molto imbarazzante e divertente con il carattere chiuso delle forme convenzionali. L’esposizione del bisogno è perciò inestetica in tutte le circostanze e solo la comicità può renderla sopportabile. Potter ha dipinto una “mucca che piscia”, un quadro che è poi stato venduto a immenso prezzo con destinazione Pietroburgo. Ma se Potter non fosse stato un così buon pittore di animali, anche la copia più esatta della mucca in quella situazione non avrebbe accresciuto affatto il valore dell’opera d’arte. Confessiamo che potremmo ben fare a meno del pisciare della mucca e che da esso non ci viene nessuna soddisfazione estetica. E tuttavia non possiamo imporre all’animale il metro di misura dell’uomo, ed è questa la ragione per cui una “mucca che piscia” non ci offende. Invertendo la frase, qui dobbiamo dire: quod licet bovi, non licet Jovi. A Bruxelles c’è una famosa fontana davanti alla quale passa la folla del bel mondo: si chiama Manneken Pis, perché raffigura un villanotto che piscia acqua. Ma questa comicità dei Paesi Bassi non è affatto comica, ancora, perché l’acqua deve essere pura, deve appunto essere acqua e all’idea di attingere e bere da quest’acqua si mescola un che di ripugnante. Invece il Ganimede di Rembrandt che portato via dall’aquila piscia dallo spavento come i bambini è realmente comico. Il giovanotto grassoccio tiene ancora nella mano sinistra il grappolo d’uva che stava degustando quando l’uccello di Zeus altitonante lo ha afferrato, tirandogli su con l’artiglio la camiciola e scoprendogli il deretano paffuto. Abbiamo già ricordato, in un altro contesto, che Aristofane ha portato sulla scena l’andar di corpo. Il Pfaffe vom Kalenberg, il Pfaffe Amis 126 e l’Eulenspiegel formicolano di queste facezie grossolane. Appartiene a questo genere anche il brutto, cinico Morolfo con tutta la sua stirpe italiana. L’eccessiva soddisfazione dell’istinto nutritivo può avere per conseguenza di rendere la figura panciuta, corpulenta e quindi brutta: una deformità che la comicità sfrutta in modo sempre nuovo con effetti immancabili, anche se già Aristofane lamenta che, per costringere al riso, i comici se la prendevano troppo comoda con l’uso dei pancioni. La pancia che porta con sé tanti inconvenienti, che impedisce al suo proprietario di
vedersi i piedi, che toglie con tanta cattiveria l’aura ai poeti e la spiritualità ai parroci, la pancia che bisogna portarsi davanti e che all’angolo di strada diventa visibile prima di chi la porta, è diventata, giù giù fino alla pancia a punta del malizioso “Punch”, un soggetto prediletto della comicità bassa. In ogni caso senza spirito, senza umorismo, senza ironia, il ridicolo di una pancia è molto scarso ma in un Falstaff diventa una miniera inesauribile di trovate umoristiche. L’ubriachezza può apparire piacevole fino a che accresce la libertà dell’uomo e si limita a eliminare le barriere che altrimenti lo stringono. Come mezzo suscitatore d’entusiasmo può addirittura trasfigurare, come nella mania festiva delle menadi ispirate. Il fuoco bacchico ha bensì tolto a Sileno l’uso delle gambe; bisogna issarlo sull’asino, ma il suo sorriso malizioso mostra che l’ebbrezza divina ha solo teso in modo più intenso la presenza del suo spirito, non l’ha affatto distrutta. Il passaggio dell’ebbro dalla lucidità all’incoscienza è il banco di prova per la buffoneria, anche per la comicità più fine, se qualcuno la rappresenta nel ruolo di “avvinazzato”. Ma se l’ebbrezza raggiunge un grado che toglie all’uomo ogni coscienza, diventa necessariamente brutta. In molte estetiche si parla dell’ubriaco come se fosse immediatamente ridicolo. Ma non è affatto così perché il declino della libertà personale, che avvicina l’uomo all’animale, non può che essere brutto. Questa situazione può essere ridicola solo fino a che rappresenta la libertà inutilmente in lotta con la natura e a questa vista noi distogliamo temporaneamente lo sguardo da ogni responsabilità etica. Il balbettio e la balbuzie dell’ubriaco, il suo barcollare, il suo aperto rivelare segreti, i suoi monologhi, i suoi dialoghi con persone assenti, i suoi andirivieni dalla a alla z sono comici fino a che continuano a dimostrare un certo dominio di sé. Già l’ebbro non può fare a meno di cadere preda del caso e dell’arbitrio, ma ancora desidera comportarsi diversamente, e questa parvenza di libertà che affonda nella nebbia dell’incoscienza è comica per noi. È per l’assoluta indispensabilità della mimica e della musica descrittiva che soltanto pantomimi e drammatici possono utilizzare con successo questo stato, ciò che hanno fatto così spesso e con tanto successo che si può fare a meno di addurre esempi.
In tutte le circostanze le flatulenze sono una cosa brutta. Ma poiché affermano contro la libertà dell’uomo qualcosa di involontario, poiché spesso lo sorprendono con suo spavento nel posto sbagliato, con un rapido movimento gli sgusciano via incustodite, hanno la proprietà di un coboldo che senza preannunzio e sans gêne mette in imbarazzo. Perciò i comici se ne sono sempre serviti nel grottesco e nel burlesco, almeno per allusioni. Con queste “sonore sconvenienze” è possibile produrre le scene più ridicole. Tra quelle note, l’aneddoto del guardaboschi e dei suoi cani è il più divertente. Karl Vogt lo racconta anche nei suoi Quadri della vita degli animali 127 . Poiché noi uomini, quali che siano le condizioni di età, di educazione, di censo e di rango che ci distinguono, ci ritroviamo tutti in questa involontaria bassezza della nostra natura, è raro che le allusioni al proposito manchino il bersaglio di far ridere il pubblico: per questo la comicità bassa predilige in modo straordinario tutte le zoticonerie, sozzerie e balordaggini relative. Anche il circo più elegante lo riproduce, con i suoi clown. Senza umorismo o perlomeno senza estro sono oltremodo insulse, meschine, urtanti, anzi veramente ripugnanti. La fiamma di bengala di una battuta può ispirare anche cinismi. A Parigi un tosatore di cani aveva fatto dipingere sull’insegna due cani che si annusano vicendevolmente il posteriore. Ma sotto aveva scritto queste parole: «Au bon jour des chiens!» e tutti ridevano. La volgarità dell’osceno è diversa da questi avvenimenti naturali, che possono capitare ἀτόπως καὶ ἀκάιρως anche se si fa molta attenzione, perché quella non si vergogna. Il pudore è santo e bello perché esprime il sentimento dello spirito di essere, per sua essenza, superiore alla natura. Non può essere privo di natura, ma dovrebbe essere libero dalla natura. La natura non conosce il pudore e la cara bestia, come si dice in tedesco, non si vergogna; ma l’uomo, riconoscendo di essere distinto dalla natura, si vergogna. L’osceno consiste nell’offendere deliberatamente il pudore. Già un denudarsi casuale e involontario suscita imbarazzo, forse un momento penosamente comico, ma non è osceno. In bambini, in bagnanti disinvolte, in belle statue o quadri che espongono il corpo nudo nella sua totalità nessuno parlerà di oscenità, perché anche la natura è divina e
anche le vergogne sono un organo naturale, creato da Dio quanto naso e bocca. Ma foglie di fico appiccicate alle vergogne delle statue già producono effetti osceni perché isolano quelle parti e vi concentrano l’attenzione. Non si intenda ciò che dico nel senso che l’arte non fa bene a essere casta: vogliamo solo far notare che castità e pruderie non sono la stessa cosa. L’osceno comincia solo con la relazione sessuale, perché il sentimento della specie eccita la vergogna dell’uomo e gli dà una forma brutta, che in questo stato crea sproporzione col resto del corpo. La donna è stata trattata più pudicamente dalla natura, ma sono le mestruazioni che la spingono a coprire la vergogna. Ogni rappresentazione della vergogna e dei rapporti sessuali in immagine o in parola che non ha riferimento alla scienza o all’etica ma è fatta per lascivia, è oscena e brutta, perché è una profanazione dei santi misteri della natura. Ogni elemento fallico, benché sacro nelle religioni, è quindi brutto dal punto di vista estetico. Tutte le divinità falliche sono brutte. Priapo è brutto nell’erezione del suo membro indurito. Le maschere degli antichi egiziani e i Mohabazzin o attori di strada dell’Egitto d’oggi, che muovendo i loro membri fanno una rappresentazione oscena, o addirittura le figure caricaturali dei Romani coi loro colossali membri virili, il Sannio, il Morion, il Drillops, sono brutte perché il pene di una figura di tal fatta è grande quasi quanto essa 128 . Ma se già l’ostentazione delle vergogne è brutta in sé, la bruttezza non potrà che accrescersi quando la relazione sessuale compare in un determinato modo. Come ad esempio nel Lingam indù, che rappresenta il fallo infilato nella Poni, cioè nelle vergogne muliebri, cosa che certamente nel culto indù ha un significato religioso. Quanti uomini del resto, anche in Europa, siano fermi a questo punto di vista indù, quanto la fantasia della massa si macchi sempre di immagini falliche lo si può vedere in qualsiasi città: basta che un muro, un androne vengano ripuliti e dipinti di fresco perché il giorno dopo li si scarabocchi con figure di tal fatta. Nel Medioevo, per un certo periodo, era addirittura consuetudine dare al dolce del dessert forme falliche. Tutte le immagini, le poesie e i romanzi principeschi sono quindi brutti, quale che sia la fantasia, l’umorismo e il virtuosismo tecnico