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Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

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Published by shllakua, 2023-07-14 18:55:56

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Estetica del brutto (Karl Rosenkranz) (z-lib.org)

Poiché nella credenza popolare il diavolo selvaggio è il diavolo stesso – Otino, propriamente – anche lì si era vicini a questa forma di antropomorfismo. Nel Mago dei prodigi di Calderón il demone che cerca di traviare san Cipriano compare in forma perfettamente umana. Nei poeti epici ecclesiastici, naturalmente, fu ripresentato in forma sovrumana, in Milton come un bellicoso principe infernale, nell’Abbadonna di Klopstock 229 come un demiurgo di umor melanconico. Ma, ancora una volta, bisogna distinguere da questa incarnazione antropomorfica del diabolico la forma che acquista perché l’uomo stesso diventa diavolo, cosa che, certo, secondo una morale superficiale e una teologia stupidamente bonaria non può essere affatto possibile, ma che di fatto avviene realmente, e anche troppo spesso. È una cosa spaventosa, ma vera, che noi uomini ci ribelliamo alla nostra origine divina e possiamo diventare insaziabili nella fame di egoità. Qui non entrano in gioco singoli momenti del male come lussuria, sete di dominio e simili, bensì l’abisso dell’egoismo assoluto, consapevole. Una tendenza di questa forma va piuttosto verso l’azione, l’altra piuttosto verso un’anima bella satanica. Nel primo caso l’arte crea caratteri come Giuda, Riccardo iii, Marinelli, Franz Moor, il segretario Wurm, Francesco Cenci, Vautrin, Lugarto e altri; nel secondo anime dilacerate come Roquairol, Manfred e altre. In quegli scellerati tesi all’azione vi è ancora una certa ingenua serenità del principio negativo, mentre in questi diavoli contemplativi il male trapassa, attraverso il gioco sofistico di una cattiva e vuota ironia, in un orrendo disordine. Dall’uomo d’oggi accasciato dall’inquietudine, impotente per la bramosia di piacere, annoiato per troppa sazietà, signorilmente cinico, colto senza scopo, accondiscendente verso ogni debolezza, vizioso per leggerezza, che civetta con il dolore s’è sviluppato un ideale di satanismo blasé che fa la sua comparsa nei romanzi degli inglesi, dei francesi e dei tedeschi con la pretesa di esser preso per nobile, tanto più che questi eroi di solito viaggiano molto, mangiano e bevono assai bene, fanno toeletta nel modo più raffinato, profumano di pachuli e hanno maniere eleganti da uomini di mondo. Ma questa noblesse non è altro che la primitiva forma


dell’apparizione antropologica del principio satanico. La “bella nausea” in questa diabolicità che intenzionalmente si getta a capofitto nel peccato per poi gustare il dolce brivido della novità, il disprezzo per gli uomini, l’abbandonarsi al male per crapulare nel sentimento desolato dell’abiezione universale, la geniale sfacciataggine che lascia ai filistei di praticare la morale, la paura di fronte alla possibilità di una storia reale, l’incredulità nel Dio vivente che si rivela nella natura e nella storia, tutta questa bruttezza del pessimista dilacerato e consunto è stata accuratamente caratterizzata da Julian Schmidt nella Geschichte der Romantik 230 . Egli rintraccia l’inizio di questo satanismo estetico in Lovelace 231 . Il risolversi del diabolico nel comico è già presente nella sua contraddizione originaria. La sua impresa – fondare nell’universo uno stato d’eccezione – appare tanto più assurda quanto più grandi l’intelletto e la volontà esercitati in quest’impresa. Ma in confronto alla sublimità della saggezza e onnipotenza divine l’intelligenza e la forza diabolica non appaiono se non come una sapienza in dodicesimo e un’onnipotenza in miniatura. I mezzi di cui si serve per realizzare i suoi scopi alla fine contribuiscono al risultato contrario. È sotto questo aspetto, soprattutto, che l’arte cristiana ha concepito la rappresentazione del diavolo. Soprattutto qui il Medioevo ha sviluppato la sua comicità. Il vizio veniva associato al diavolo in quanto pazzo e di qui uscì in seguito la figura del clown e del tanghero. Malgrado i suoi sforzi, il diavolo ci scapita sempre e alla fine, dopo aver preparato per un bel pezzo imbrogli, viene beffato. Nelle leggende popolari è il povero e stupido diavolo, ma anche il diavolo buffo. Nel Diavolo stupido di Ben Johnson (tradotto da Baudissin in Ben Johnson und seine Schule 232) il diavolo viene abbindolato da tutti e alla fine messo in galera, e Satana è costretto a tirarcelo fuori. Nel Puppetshow inglese alla fine Punch ammazza addirittura il diavolo e canta: «Urrà! è finita la miseria | Anche il diavolo è morto». Nel Medioevo la figura del diavolo, di cui la fede cristiana sapeva superata la potenza, consentiva una licenza nella critica che altrimenti era vietata. Più tardi anche questa comicità dovette trovare espressione in


concrete individualità umane, così come la parte oscura del male era stata espressa da uomini reali. Perciò il diavolo poco alla volta è diventato superfluo per l’arte. Anche nella comicità si è ridotto a personaggio allegorico, che ormai permette una certa poesia solo nelle composizioni barocche e burlesche: ad esempio in una commedia 233 . Grabbe fa venire alla nonna del diavolo l’idea di ripulire l’inferno. Durante questo periodo il signor nipote viene spedito sulla terra. Ma siccome qui fa proprio freddo, il diavolo viziato dal caldo dell’inferno si congela e resta così sulla via. Un maestro di villaggio estremamente illuminato, da tempo emancipatosi dalla credenza nel diavolo, lo trova, lo scambia per un curiosum naturæ e se lo porta a casa, molto contento di aver trovato una simile rarità. Qui però il diavolo si sgela, il che dà luogo a situazioni assai ridicole. I parigini hanno saputo raffigurare con garbo anche l’elemento diabolico in disegni incantevoli, le cosiddette diableries, immagini fantastiche d’ombra sul tipo delle ombres chinoises. Esse costituiscono anche un filone secondario di quelle caricature alla Brueghel-CallotHoffmann che un giorno i francesi si sono incapricciati a prendere per vero romanticismo. A conclusione di questa breve fenomenologia estetica del diavolo vogliamo appunto descrivere una diablerie di Nicolet, che è diventata accessibile anche a noi tedeschi grazie all”Europa” di Ewald 234 . Ci troviamo in una splendida festa da ballo, che ci presenta ovunque coppie innamorate nelle attitudini più varie. All’improvviso, nel mescolarsi variopinto dei ballerini, appaiono tre diavoli spaventosi che si siedono l’uno accanto all’altro e intonano con l’organetto a cilindro, il corno da caccia, la tromba turca e il triangolo un orripilante concerto. Viene poi un buffo affare con campanacci in mano. Segue un diavolo che dà la battuta musicale con un forchettone e delle catene; l’orchestra è arricchita da altri diavoli che battono su un paiolo, ricorrono a casseruole anziché usare i cembali e soffiano negli imbuti. A questo punto tre streghe selvagge e furenti di aspetto tutt’altro che spiacevole trascinano in sala con una risata un diavolaccio laido che recalcitra urlando. Gli hanno messo una corda intorno al corpo e lo stringono con forza. Appena arrivati nel mezzo, tutte le donne si accalcano per pregarlo di sottoporle


alla benefica manipolazione per ringiovanire. Il diavolo acchiappa le donne, le chiude in un cestone, mette in mezzo alla sala un enorme mortaio con una storta che termina in un recipiente collocato davanti. A questo punto un diavolo getta le donne dentro il mortaio, in cui l’orrido diavolaccio le pesta con selvaggia risata di scherno. Qui appare un carro di maschere, come se lo può immaginare solo la fantasia più sfrenata: un’amazzone su uno struzzo che cammina sui trampoli, una graziosa contadinella che porta a cavalluccio un diavolo, un vecchio onorato signore con paraplui e spadino, tutto elegante, che arriva trotterellando su un’upupa e infine una lunga serie di diavoli-uccello, diavoli-scimmie e diavoli-cani, scheletri, buffoni, fantasmi. In mezzo a questa sarabanda appare un grasso Belzebù con una coppa in mano: un gigantesco scheletro con stivali di cavaliere gli si colloca davanti con una bottiglia di champagne; il tappo salta in aria e dalla bottiglia escono mosche, scorpioni, serpenti, diavoletti, cimici, pulci e si precipitano nella coppa pronta ad accoglierli. Ma da ultimo arriva una silfide e danza un meraviglioso a solo, improvvisamente però salta fuori un diavolo con la frusta. La silfide perde le ali e ne ha in cambio braccia. Schiocca la frusta e la ballerina deve reggersi, muoversi e danzare sulle braccia. Dovunque vi sono silfidi che si librano nell’aria, spinte da mantici infernali e dall’alitare dei diavoli: si vedono ora ballare sulla punta di spade, ora saltare attraverso anelli, fino a che i diavoli si lanciano in groppa a spettrali draghi squamosi che afferrano le ballerine cogli artigli e se le portano via: «È la sorte delle belle su questa terra» 235 . C – La caricatura Il bello appare come sublime o piacevole, oppure come bello assoluto che concilia in sé l’opposizione di sublime e piacevole, in una perfetta armonia. Non trascendente come il sublime, non facilmente accessibile come il piacevole: nel bello assoluto l’infinitezza del primo diventa dignità, la finitezza del secondo grazia. Contemporaneamente, però, la dignità può essere leggiadra e la grazia


piena di dignità. Il brutto, come secondogenito, dipende concettualmente dal bello. Stravolge il sublime in volgare, il piacevole in ripugnante, il bello assoluto in caricatura, nella quale la dignità diventa enfasi, il fascino civetteria. La caricatura è pertanto l’apice nella forma del brutto ma proprio perciò, per il suo riflesso determinato nell’immagine positiva ch’essa distorce, trapassa in comicità. Fino ad ora abbiamo visto sempre il punto in cui il brutto può diventare ridicolo. L’informale e lo scorretto, il volgare e il ripugnante distruggendosi possono produrre una realtà apparentemente impossibile, e con ciò il comico. Tutte queste determinazioni entrano a far parte della caricatura. Anch’essa diventa informale e scorretta, volgare e ripugnante, secondo tutte le gradazioni di questi concetti. È inesauribile nel trasformarli e connetterli in modo camaleontico. Sono possibili grandezze meschine, forze deboli, maestà brutale, nullità sublime, goffa grazia, delicata rozzezza, sensata insulsaggine, vuota pienezza e mille altre contraddizioni. Perciò fino ad ora abbiamo trattato anche il concetto di caricatura. Ma più esattamente la caricatura consiste nell’esagerare un momento di una forma fino alla difformità. Eppure questa definizione va ancora limitata, anche se in generale è giusta. L’esagerare, cioè, ha un limite. In sé è la modificazione quantitativa – sia per accrescimento sia per diminuzione – di una qualità come quantum determinato, una modificazione vincolata alla natura della qualità stessa. La modificazione smisurata arriva da ultimo, come accrescimento o diminuzione infiniti, a distruggere la qualità del quantum perché tra quantità e qualità c’è un intimo rapporto. La qualità stessa è il limite della quantità. Perciò troviamo ridicolo che una qualità, nella sua semplicità, debba avere un comparativo. In senso relativo può certamente racchiudere in sé delle gradazioni, ma in senso assoluto non può che essere una. L’oro in quanto tale non può essere più aureo, il marmo più marmoreo, l’onniscienza più onnisciente, il triangolo più triangolare, e così via. Un cacciatore della domenica va da un bottegaio per comprare dei pallini. Il venditore gliene offre di vari tipi; un tipo più caro, ma anche di qualità superiore. La differenza graduale qui è possibile. Se però il bottegaio gliene consigliasse un tipo dicendo che


colpisce più mortalmente, il comparativo sarebbe ridicolo perché non ci può essere morto più morto che un morto. Dipende però da circostanze più prossime far apparire questo comparativo che qui è ridicolo, anche in tutt’altra luce. Quando presso i russi un uomo viene condannato – poiché da loro la pena di morte è abolita – a qualche migliaio di sferzate e alla fine i soldati non fanno che colpire un cadavere fatto passare in mezzo alle loro file sulla carretta dei condannati, allora questo bastonare a morte un morto soltanto per eseguire la pena fino in fondo non è certo ridicolo. L’esagerazione come accrescimento e rafforzamento, rimpicciolimento e indebolimento in generale, perciò, non è ancora caricatura. Il rafforzamento atletico della forza corporea è una caricatura tanto poco quanto lo è il dileguarsi della forza in un malato incurabile. Un patrimonio alla Rotschild è tanto poco una caricatura quanto un grosso carico di debiti. I giganti di Brobdignac di Swift e i suoi nani di Lilliput sono creazioni fantastiche, ma non caricature. L’organismo malato esagera l’attività dell’organo sofferente, chi è in preda alla passione esagera il suo sentimento per l’oggetto della sua affezione, il vizioso la sua dipendenza da un’abitudine cattiva, riprovevole. Nessuno però definirà la consunzione una caricatura della magrezza, il sacrificarsi per la patria una caricatura dell’amor di patria, la prodigalità una caricatura della generosità. L’esagerazione da sola è un concetto relativo, troppo indeterminato. Se ci si ferma ad esso, anche diluvi, uragani, incendi, epidemie dovrebbero essere caricature. Per spiegare la caricatura bisogna quindi aggiungere al concetto di esagerazione un altro concetto, quello di sproporzione tra un momento della forma e la sua totalità, quindi della negazione dell’unità che dovrebbe sussistere secondo il concetto della forma. Se cioè l’intera forma venisse ingrandita o diminuita in egual misura in tutte le sue parti, le proporzioni resterebbero in sé le stesse e di conseguenza – come è il caso di quelle figure di Swift – non nascerebbe nemmeno qualcosa di propriamente brutto. Se però una parte fuoriesce dall’unità in modo da negare il rapporto normale, e siccome quest’ultimo continua a sussistere nelle altre parti, si produce uno spostamento e un disordine del tutto, che è brutto. La sproporzione ci costringe a


sottintendere di continuo la forma proporzionata. Un naso pronunciato, ad esempio, può essere una grande bellezza. Ma se diventa troppo grande, il resto della faccia scompare troppo nei suoi confronti. Ne nasce una sproporzione. Involontariamente paragoniamo la sua grandezza con quella delle altre parti del volto e concludiamo che non dovrebbe essere così grande. L’eccesso di grandezza rende caricaturale non solo il naso, ma anche il volto di cui fa parte: nelle Petites misères de la vie humaine, Grandville ha schizzato in modo molto divertente gli imbarazzi che un nasone del genere crea in società. L’esagerazione condurrà quindi per forza alla sproporzione. Ma anche qui, ancora una volta, è necessaria una delimitazione. Una semplice sproporzione, cioè, potrebbe avere come conseguenza solo una semplice bruttezza, che però ancora non sarebbe affatto possibile definire caricatura. Altrimenti tutto quanto è volgare e ripugnante potrebbe pretendere di essere definito così, visto che in generale si tratta di una storpiatura del bello. Che nella vita quotidiana sia questo il modo di dire e che anche il semplice brutto venga qualificato come caricatura non è affatto un motivo perché nella scienza non si debba concepire il concetto in modo più rigoroso. Sul piano scientifico si può chiamare caricatura solo quella deformità che si riflette in un’opposizione determinata e positiva e sfigura le sue forme. Ma non è sufficiente un’anomalia, un’irregolarità, una sproporzione isolate: piuttosto l’esagerazione che sfigura la forma deve operare come un fattore dinamico che ne coinvolge la totalità. La sua disorganizzazione deve diventare organica. Questo concetto è il segreto della produzione della caricatura. Nella sua disarmonia, attraverso la cattiva eccedenza di un momento dell’intero, risorge di nuovo una certa armonia. La tendenza insana – per così dire – di un punto attraversa furtivamente anche le altre parti. Si forma un falso centro verso cui cominciano a gravitare tutti gli elementi della forma e che quindi produce una distorsione più o meno energica dell’intero. Quest’anima della deformità, che agisce secondo un’unica tendenza trasformata, produce non solo una bruttezza particolare e particolarmente strana, ma coinvolge il tutto con la sua abnorme alterazione. In generale riconosciamo qui una doppia modalità sfigurante:


l’usurpazione e la degradazione. La prima spinge e sbilancia un fenomeno verso una forma superiore a quella che gli spetta in base alla sua natura; la seconda lo colloca in una forma inferiore a quella che gli spetterebbe. L’usurpazione innalza un’esistenza alla contraddizione di voler apparire di più di quanto non glielo consenta il suo essere vero e proprio. È l’affettazione di una natura che originariamente non le appartiene. La degradazione getta un’esistenza nella contraddizione di avere a che fare con una sfera, come propria sfera essenziale, che in base al suo primitivo stato ha già alle spalle. Usurpazione e degradazione pertanto non sono identiche a potenziamento e depotenziamento. Potenziamento è rafforzamento normale. Ad esempio la leggenda medioevale di Gregorio sulla rupe che Hartmann von der Aue 236 ha rielaborato in tedesco e che ancora oggi circola come lettura popolare è un potenziamento cristiano della leggenda antica di Edipo, nient’affatto una sua caricatura. E così, il modo in cui Euripide ha trattato i miti di Oreste e Edipo è un depotenziamento poetico rispetto alla rappresentazione eschilea del primo e sofoclea del secondo, ma niente affatto una caricatura. Si rende dunque necessaria un’ulteriore determinazione per rendere caricaturale la tendenza deformante che mira troppo in alto o troppo in basso: il raffronto determinato a cui la distorsione deve invitare. Tutte le determinazioni del brutto, in quanto concetti riflessivi, implicano un raffronto con i concetti positivi del bello che essi negano. Il meschino ha il suo metro, in cui si riflette, nel grande, il debole nel forte, il vile nel maestoso, il goffo nel grazioso, il morto e vuoto nel giocoso, l’orrendo nell’attraente. Invece la caricatura non ha più il suo metro in un concetto generale, ma richiede una relazione determinata con un concetto già individualizzato, che può avere un significato molto generale, essere molto estensivo, e tuttavia deve uscire fuori dalla sfera della pura concettualità. In generale non si può fare la caricatura del concetto di famiglia, di stato, di danza, di pittura, di cupidigia ecc. Per scorgere deformato in caricatura il prototipo, tra il concetto e la deformazione deve almeno inserirsi quella individualizzazione che nella Critica della ragion pura Kant chiama schema. Il prototipo non può rimanere un concetto meramente astratto:


bisogna che abbia già acquisito forma in qualche modo individuale. Ma ciò che qui chiamiamo prototipo della deformazione caricaturale non va preso nemmeno in senso esclusivamente ideale, ma solo nel senso di uno sfondo positivo, giacché può essere anche un fenomeno del tutto empirico. Nelle Nuvole Aristofane sferza la cattiva filosofia, la sofisticheria, il logos falso e presenta Socrate come caricatura del filosofo. Questo Socrate che ruba mantelli in palestra, che calcola il salto delle pulci, che insegna il dritto per storto, che per essere più vicino all’etere se ne sta sospeso nel suo pensatoio in una cesta, che mena per il naso i suoi allievi non è certo lo stesso Socrate con cui celebrava simposi entusiastici. Ma in un certo senso è pur lo stesso Socrate. Perché la sua figura, i suoi piedi nudi, il bastone e la barba, la maniera di dialettizzare li ha pur ricavati da lui e appunto per questo ha creato una caricatura genuina. Non si può fare la caricatura della filosofia in generale, ma si può ben fare la caricatura di un filosofo, la forma più generale, più eminente, più familiare al pubblico del fenomeno della filosofia in un filosofo, nei suoi dogmi, metodo, modo di vivere. Così Palissot nei suoi Filosofi 237 metteva in caricatura il vangelo della natura di Rousseau, Gruppe nelle Fandonie 238 la maniera cattedratica di Hegel. Per Aristofane Socrate era lo schema, il passaggio all’individualizzazione poetica. Socrate possedeva sufficiente filosofia e urbanità da esser presente all’esecuzione delle Nuvole e addirittura da alzarsi in piedi, a teatro, per facilitare al pubblico il confronto. Se Aristofane avesse messo in scena soltanto un astratto sofista, sarebbe mancato alla sua figura l’approfondimento individuale. A questo punto, però, dovremo subito riconoscere una distinzione tra le caricature che appartengono al mondo del fenomeno reale e quelle che appartengono al mondo dell’arte. La caricatura reale ci rappresenta anche la contraddizione tra il fenomeno e la sua essenza, sia tramite usurpazione sia tramite degradazione. È però molto involontaria. Tutti quei cavalieri d’industria, quei ragazzini saccenti, pedanti dell’erudizione, pseudofilosofi, pseudoriformatori dello stato e della chiesa, pseudogeni, quelle fatali per forza, quelle vecchie signore eternamente diciottenni,


quei maleducati che sempre emergono dalla corruzione di ogni civiltà, tutte le opere che non sono se non realizzazioni della contraddizione del loro concetto, tutte queste esistenze sono incontestabilmente caricature. Ma in quanto esistenze empiriche sono così intrecciate per ogni aspetto con la realtà, che oltre a ciò includono anche una serie di altre relazioni, spesso rispettabilissime. Occorre quindi distinguere da esse la caricatura estetica in quanto prodotto dell’arte, che è purificata delle casualità dell’esistenza empirica e sottolinea in modo pregnante l’unilateralità che interessa. La prospettiva dell’arte per la creazione della caricatura è una prospettiva satirica. Di conseguenza tutti i concetti che appartengono alla satira appartengono anche alla caricatura. Tutte le modificazioni di tono possibili alla satira sono possibili anche alla caricatura. Essa può essere serena tetra, sublime e vile, mordace e benevola, grossolana e garbata. E però una limitazione falsa cercare la caricatura solo nelle opere pittoriche, come è accaduto ad esempio a Paulin Paris nell’Introduzione al Musée de la caricature en France 239 quando dice (p. 1): Nella sua accezione più ampia la caricatura è l’arte di dare all’imitazione della natura e all’espressione dei sentimenti e dei costumi il carattere della satira. Quest’arte non deve essere posteriore di molto all’invenzione della pittura. Allorché si è inteso l’ideale nei suoi rapporti con la bellezza, s’è dovuto sentire il bisogno di intenderlo nei suoi rapporti con la bruttezza fisica e morale. Tuttavia il termine caricatura, di origine italiana, è un termine abbastanza nuovo in francese. Ammesso a partire dal xvi secolo nel linguaggio delle arti, soltanto ai giorni nostri è diventato un termine accademico, ed è a questo titolo che lo si è visto affermarsi tra le espressioni abituali della conversazione. Paris stesso smentisce subito, di fatto, questa limitazione alla pittura commentando il romanzo di Fauvel Le pélérinage de la vie humaine, e La danse macabre come opere satiriche da cui la miniatura ha tratto materia per le immagini che adornano i manoscritti. La poesia è capace tanto quanto la pittura di caricatura, anzi con un’estensione molto maggiore e una profondità molto più penetrante grazie alla superiore spiritualità dei suoi mezzi di rappresentazione. Die Geschichte der komischen Literatur di C. F. Flögel 240 tratta in particolare la storia della composizione satirica, quindi, della caricatura poetica. Per quanto concerne il termine caricatura, noi tedeschi l’abbiamo preso, benché solo attraverso il


francese, dall’italiano. In italiano il termine deriva da caricare, e per indicare la caricatura i francesi usano un termine analogo: “charge”. In altri tempi noi tedeschi per indicare la caricatura abbiamo usato l’espressione “Afterbildnis”. Tra i pittori, molto prima di Hogarth vi è una particolare tendenza a vedere nel brutto il mezzo per la caricatura in Leonardo da Vinci. I suoi disegni che appartengono a questo genere, perlopiù studi di teste, sono stati spesso riprodotti da Cayius in poi. Solo impropriamente si può dire della natura che essa produce caricature. Quando la realtà non raggiunge il concetto può sorgerne – già ce ne siamo convinti – il brutto, e a certe condizioni anche il comico, ma una reale caricatura presupporrebbe la possibilità di ricondurre la forma, nella sua distorsione, a condizioni di libertà. Noi diciamo che la scimmia è una caricatura dell’uomo, ma sappiamo molto bene che lo si può dire solo come battuta umoristica. La scimmia non è affatto un essere umano brutto, degenerato, ed è impossibile scrivere una satira sulla scimmia. La scimmia non può essere altro che quel che è e noi non possiamo chiederle di essere meno scimmia e più uomo. La satira può ben degradare a scimmia, invece, un essere umano depravato, perché egli stesso si degrada, contro quel che concettualmente è, a questo. Di un cretino già è più giusto dire che è una caricatura dell’essere umano perché, uomo per sua natura, fenomenicamente è caduto nell’animalità, mentre la scimmia, che si avvicina all’uomo per forma, nella sua natura ne rimane distinta. Se alcuni animali appaiono come totalmente sfigurati rispetto al loro tipo, è perché interviene la costrizione a cui l’uomo li sottopone, costrizione che a sua volta nega ogni libertà estetica. Quando in una mostra di animali vediamo dei maiali, o al mardi gras parigino dei buoi che soffocano nel grasso, troveremo soltanto brutte, o forse comiche, queste masse di grasso, ma non sono caricature vere e proprie. È un triste spettacolo vedere un cavallo che un tempo nitriva bellicoso alle fanfare dei trombettieri del reggimento e ora, cacciato via perché diventato un cavallo grasso e grosso, è costretto a trascinare il carro delle immondizie per le vie. Un cagnolino che sia diventato grasso e petulante per aver vissuto sempre al chiuso e da sibarita, e pervertito nella sua natura canina


per i vezzi delle signore, rappresenterà per noi un’orrenda innaturalezza, ma solo impropriamente potremo dire che è una caricatura. L’arte si servirà bensì spesso proprio del mondo animale per satireggiare gli esseri umani con travestimenti parodistici e parodie. La satira sbeffeggia ciò che in sé è nullità esagerandola: con ciò ne scopre l’impotenza e la volge al ridicolo. L’animale è adatto a esprimere in modo assai deciso certe unilateralità e vizi. L’analogia con l’animale può esprimere in modo meno adeguato le qualità superiori, più nobili dell’uomo che non i moti di un egoismo limitato e interessato. Tuttavia il regno animale è sufficientemente grande e vario per rappresentare anche virtù e qualità buone, per offrire una copia abbastanza completa dell’attività umana. L’oriente, l’antichità, il Medioevo, l’età moderna hanno tutti prediletto questo rispecchiamento nella maschera dell’animale. La Batracomiomachia degli omeridi è una delle più antiche e squisite composizioni letterarie di questo tipo. La commedia antica si serviva di queste maschere animali nei suoi cori: ancora lo vediamo nelle Vespe e nelle Rane di Aristofane. Tra le scenette di genere della pittura murale pompeiana troviamo molte scene grottesche di animali che tendono al satiresco. Un’upupa guida tutta fiera una biga trainata da cardellini, lepidotteri e grifoni. Un’anatra va verso un recipiente desiderosa di bere, una campana di vetro glielo impedisce e lei se ne sta lì, piena di delusa aspettazione, e così via. Soprattutto c’è quella scena squisita che beffeggia il pio Enea mentre abbandona le macerie di Troia in fiamme con il padre Anchise in spalla e tenendo per mano il piccolo Ascanio. Enea e Ascanio sono raffigurati come scimmie con la testa di cane, Anchise come un vecchio orso. Anziché i patri penati questi ha salvato dalle fiamme un gioco di dadi. Interpretare questa scena come una caricatura satirica della famiglia imperiale, e incidentalmente di Virgilio, come tenta di fare Raul Rochette nel Musée secret de Pompéi (pp. 223-26) ci sembra andar troppo oltre. Perché non dovrebbe soccombere alla derisione anche il pius Æneas come tale, dal momento che in simili quadri gli antichi non risparmiavano nemmeno gli dèi? La scultura del Medioevo aveva collocato nelle chiese una quantità di analoghe figure grottesche per


sbeffeggiare gli ebrei e i parroci. Nella favola del lupo e della volpe la poesia ha parodiato il corso del mondo riassumendolo, grazie alla forma animale, in un’immagine universale che ai giorni nostri il genio di Kaulbach, in pittura, non ha solo illustrato ma rielaborato in modo intensivo. Egli ha disegnato gli animali con una fedeltà alla natura pari alla verità umana sviluppando così un umorismo degno di ammirazione e pieno di autonome invenzioni. Come è delizioso il grande banchetto dove l’elefante si versa in gola una bottiglia di champagne! Come è deliziosa la vita tranquilla della famiglia reale, dove la leonessa sta a letto, il re leone si aggira preoccupato con gli occhiali sul naso e il piccolo principe reale siede sul vaso da notte! In Francia Granville con i suoi Animali politici e le sue illustrazioni delle favole di Lafontaine ha fatto cose assolutamente straordinarie in questo genere. La sua arte di fondere veste e forma umana con la forma animale è inimitabile. Ad esempio dipinge due galli come contadini che s’azzuffano tra loro, e tuttavia i contadini rimangono galli, perché mette teste di gallo e affibbia speroni alle figure umane. Un altro mezzo, non meno efficace, di caricatura parodistica sono state da sempre le marionette: ci si può persuadere di questo leggendo l’Histoire des marionettes en Europe depuis l’antiquité jusqu’à nos jours 241 di Charles Magnin. Le marionette del teatro della fiera di St. Germain e St. Laurent – alle pp. 152-69 Magnin presenta estratti della cronaca che le riguarda – parodiavano non solo la tragedia alta, come l’Orestea, la Merope ecc., ma anche la commedia alta come il Médécin malgré lui di Molière. Tra parodia e travestimento parodistico la differenza è che la parodia sovverte solo il generale, il travestimento parodistico anche il particolare. Troilo e Cressida di Shakespeare fanno la parodia degli eroi dell’Iliade, ma non li travestono. I nobili principi appaiono come brutali e rozzi spadaccini, Elena e Cressida come serve dissolute, equivoche. Con le sue notazioni satiriche il tignoso, brontolone Tersite fa da coro umoristico alle azioni povere di spirito dei celebri eroi. Shakespeare ha esagerato quelli che in Omero sono tratti caratteristici e caricandoli ha reso ridicolo il loro pathos eroico. L’orgoglio del forzuto Aiace, la funzione di sovrano di


Agamennone, la cornutaggine di Menelao, l’intima amicizia di Achille per Patroclo, la smania di avventure cavalleresche di Diomede si risolvono in frasi millantatrici e l’immoralità di tutti questi rapporti è messa a nudo senza riguardi. Qui il caricaturare è parodiare. La caricatura che fa un travestimento parodistico invece segue il contenuto anche nel dettaglio per sovvertirlo, come hanno fatto Scarron e Blumauer con l’Eneide di Virgilio, Philipon e Huart con l’Ebreo errante di Sue 242 . In nove libretti hanno riassunto il vasto romanzo: ripetendolo passo passo negli elementi principali vi scoprono però tutti gli errori di composizione, ne svelano tutte le contraddizioni e le inverosimiglianze e in modo estremamente divertente dimostrano con l’esagerazione il brutto che c’è nei personaggi. Il domatore Moroc, il vecchio soldato Dagobert, l’eterea Adrienne de Cardoville, il gobbo Mayeur, il principe indiano Schalma e soprattutto il gesuita Rodin, brutalmente energico e che sopraffà tutti con l’astuzia, sono trasformati nei disegni di Philipon nelle figure più orrendamente ridicole. Anche questa è parodia, ma parodia che traveste 243 . Per quanto concerne il concetto di caricatura grottesca, nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime Kant sembra avergli dato un’estensione eccessiva quando scrive: La qualità del sublime terribile, non appena diventa innaturale del tutto, è di essere bizzarro. Le cose innaturali, alle quali si attribuisce un carattere di sublimità, benché ne abbiano poco o nulla, sono caricature grottesche [...]. Voglio renderlo più comprensibile con degli esempi, perché quando non si ha il bulino di Hogarth bisogna supplire con la descrizione a quel che manca all’espressione del disegno. Affrontare arditamente il pericolo per difendere i nostri diritti, quelli della patria o degli amici, è sublime. Le crociate, l’antica cavalleria erano bizzarre: i duelli, miserabili residui di quest’ultima derivanti da un concetto distorto dell’onore, sono caricature grottesche. Un melanconico allontanarsi dal rumore del mondo perché si è giustamente affaticati è nobile; la pietà solitaria degli antichi eremiti era bizzarra: chiostri e simili sepolcri per imprigionare santi vivi, sono caricature grottesche. Costringere le passioni sotto il giogo dei principi è sublime: macerazioni, voti e altre virtù di monaci sono caricature. Ossa sante, il legno santo della croce e tutte le bagattelle consimili, inclusi i santi escrementi del gran Lama del Tibet, sono caricature grottesche. Tra le opere dello spirito e del sentimento, i poemi epici di Virgilio e Klopstock rientrano nel genere nobile, quelli di Omero e Milton, nel gigantesco, le Metamorfosi di Ovidio sono caricature, i racconti di fate nati dalla farneticazione dello spirito francese sono le caricature più miserabili che mai si siano immaginate. Le poesie anacreontiche sono d’ordinario prossime all’insulsaggine.


Questa concezione del caricaturale come qualcosa di innaturale, ma presunto sublime, in particolare dal punto di vista morale, va troppo oltre i limiti della determinazione estetica di tale concetto. Manca poco, secondo Kant, che siamo costretti a definire caricatura grottesca tutto il fantastico. Noi invece saremmo propensi a chiamare così in parte le deformazioni che passano nell’ondulatorio, in parte quelle che sfigurano in una ripugnante bruttezza forme che in sé sono normali o nobili. Nella prima forma la caricatura grottesca può essere comica al massimo grado, come ad esempio nei geniali disegni di Töpffer e in alcune figure di Jean Paul; nella seconda forma può per altre relazioni anche suscitare in noi il riso, o almeno il sorriso, ma può anche avere un sapore spiacevole che fa sì che non ci abbandoniamo con piacere a queste forme, ma fuggiamo ben presto da esse per rivolgerci ad altre. In una novelletta a forma di dialogo, Die guten Weiber, Goethe ha trattato questo punto (Werke, xv, p. 263 ss.). Egli immagina qui che una compagnia di persone discuta pro e contro il brutto. Fantasia e umorismo trarrebbero maggior vantaggio ad occuparsi del brutto che del bello. Dal brutto molto si può trarre, dal bello no. Certo, il bello ci rende capaci di qualcosa, il brutto ci distrugge e le caricature si lasciano dietro un’impressione indelebile, assolutamente esecrabile. Ma perché – opina uno degli interlocutori – i quadri dovrebbero essere migliori di noi? Il nostro spirito sembra avere due lati che non possono sussistere l’uno senza l’altro. Luce e oscurità, bene e male, alto e abissale, nobile e vile e tante altre antitesi ancora sembrano essere – solo, in posizioni variate – gli ingredienti della natura umana e come si può disapprovare un pittore quando ha dipinto un angelo bianco, luminoso e bello, che poi gli capiti di dipingere un diavolo nero, scuro e brutto? Amalie. Non ci sarebbe niente da obiettare se non fosse che gli amici dell’arte di imbruttire includono nel loro campo anche ciò che appartiene a regioni migliori. Seyton. In questo mi sembra che agiscano in modo assolutamente giusto. Anche gli amici dell’arte dell’imbellire si impossessano di ciò che non appartiene loro affatto. Amalie. E tuttavia non perdonerò mai ai caricaturisti di alterarmi in modo così infame le immagini di uomini eminenti. Per quanto mi sforzi, sono costretta a vedere il grande Pitt come un manico di scopa dal naso camuso e Fox, per un certo verso così degno di apprezzamento, come un maiale ben insaccato. Henriette. È quello che dicevo io. Tutte queste immagini fanno un’impressione indelebile e non nego che talora mi diverto col pensiero a richiamare questi fantasmi e a deformarli anche peggio.


Se la caricatura nasce perché si sovraccaricano dei tratti, possiamo considerare la caricatura grottesca come l’estremo della caricatura: l’esagerazione viene esagerata e in tal modo passa nell’ondulatorio, nel nebuloso. Le ultime parole di Goethe qui citate indicano in modo giusto questo passaggio. La caricatura grottesca in quanto tale è senza dubbio brutta, ma per la sua conformazione bizzarra e grottesca può diventare un mezzo eminente di comicità. Come ne è ricco Shakespeare! Nell’Enrico iv e nelle Allegri comari di Windsor il caporale Nym, Bardoiph, Donna Squarcialenzuola, Shallow, le reclute sono caricature grottesche, nei Due gentiluomini di Verona il servo Launce, in Pene d’amore perdute Nataniele, Oloferne, Zucca e Tignola, e in Molto rumore per nulla il Giudice di pace e il Connestabile ecc. non sono altro che caricature grottesche, che però ci fanno ridere di cuore. Gargantua e Pantagruel sono caricature grottesche, in Rabelais come in Fischart. Tieck e Boz ne sovrabbondano. Anche la pittura ha partorito innumerevoli caricature giocose: ricordiamo soltanto le composizioni di Brueghel e Teniers. Anche la scultura, alla quale pure la caricatura sembra contrapporsi totalmente, l’ha coltivata in forme diverse. Che cosa sono quelle figure mostruose che abbiamo già più volte ricordato e in cui la satira degli scalpellini medievali aveva libero corso se non le caricature grottesche più straordinarie, più portentose? Le statuette di Dantan che raffigurano Nisard, Ponichard, Lizt, Brougham ecc. sono caricature grottesche. La comicità della pantomima non può in alcun modo fame a meno. La figura del Pierrot ingordo, sboccato, ciondolante, goffo, candidamente fischiettante che Dominice ha portato a Parigi dal teatro italiano combinando insieme la veste di Pulcinella con il carattere di Arlecchino è sostanzialmente una caricatura grottesca. Noi abbiamo distinto tra una caricatura involontaria e quella creata intenzionalmente dall’arte. Sarebbe però un fraintendimento assumere questa distinzione nel senso che nei prodotti artistici non siano possibili anche quelle che senza voler essere caricature, quindi involontarie, sono realmente caricature. Le cose non stanno così, tant’è vero che, al contrario, tutta una serie di opere d’arte terminano – assolutamente contro la loro intenzione – nella caricatura. Il motivo di questo fenomeno


sta nella natura del bello assoluto, che compone in sé gli elementi del sublime e del piacevole. Produrre il bello autentico richiede una profondità di concezione e una forza creativa che sono estremamente rare. La mediocrità ha sufficiente sensibilità per il bello, ma non ha originalità abbastanza per crearlo autonomamente. È quindi essa soprattutto che cade in uno pseudoidealismo che con una vuota nobiltà di tendenza e il purismo formale dell’esecuzione si illude di approfondirsi nell’ideale. Quest’idealismo produce forme che fondamentalmente posseggono un’universalità soltanto allegorica, benché abbiano la pretesa di valere come esistenze reali e vitali. Sarebbe meglio se fossero solo allegorie, perché allora non si contraddirebbero. Allora sarebbero solo astrazioni. Invece pretendono di essere riconosciute da noi come forme naturali piene di autonoma vitalità, e in questo modo cadono nel brutto perché ci ingannano con l’apparenza di una reale idealità. L’assenza di ogni scorrettezza positiva, l’applicazione di forme nobili note, l’allontanamento di ogni esuberanza, il carattere addomesticato dell’espressione scelta, la pulizia negativa con cui il dettaglio viene polito ingannano sull’assenza interiore di forma e non fanno supporre all’artista che ha fatto venire alla luce soltanto una caricatura ideale. Abbiamo detto prima, e a ragion veduta, che è soprattutto la mediocrità a cadere in questo errore di realizzare l’autentico ideale in queste ombre senza sangue. Anche il genio non ha affatto la garanzia che non imboccherà anche lui questa strada falsa, perché il bello assoluto esclude realmente da sé ogni estremo e la necessità dell’armonia assoluta può produrre la tendenza a un livellamento che può dissolvere ogni freschezza di forza e di originalità in una falsa superiorità, in un rarefatto gioco formale, in una patologica nobiltà formale. Questo tipo raffinato di caricatura che crea tanta bellezza infeconda, che – come ideale da eunuchi – svia le forze creative e di solito si porta dietro, quando un periodo ha estenuato ed esaurito tutto, la reazione di un periodo selvaggio, schietto, rozzamente empirico di Sturm und Drang, esige un’attenzione critica particolarissima, perché apparentemente offre il massimo. Ogni arte, naturalmente, specifica questa idealità in base al


medium che adopera per rappresentare. Quindi per entrare in questa discussione bisognerebbe affrontare la teoria specifica di ogni singola arte. Vogliamo però dare qualche esempio, per chiarire. Quando l’arte antica cominciò a decadere, cominciò a creare ermafroditi. Essi però non sono altro che caricature. Solo nella distinzione dei sessi il carattere specifico della bellezza può perfezionarsi in ideale, come ha mostrato con sicurezza W. von Humboldt nel suo penetrante saggio Über die männliche und weibliche Form pubblicato nel 1795 in “Die Horen” di Schiller (e ora in Gesammelte Werke, 1841, i, p. 215 ss.). Solo nell’uomo la dignità può elevarsi a purezza assoluta, e la venustà solo nella donna. Nell’adolescenza la figura virile può assumere, come efebo, una certa mollezza muliebre, e la figura femminile in vecchiaia può assumere, come matrona, una certa rigidezza virile, senza però pregiudicare per questo la verità individuale del sesso. Ma comporre sulla base delle bellezze dell’ideale virile e muliebre un terzo ideale, che non deve essere né maschile né femminile ma maschile-femminile, è una tentazione fuorviante della riflessione, che non può che condurre inevitabilmente a deformazioni caricaturali. Rimane un’impresa innaturale, che poteva soltanto sedurre una razza caduta nella pederastia. Scultura e pittura hanno messo in atto tutti i mezzi per rendere omaggio a questo pseudoideale, che resta però caricatura anche nelle opere di estremo virtuosismo. Proprio perché deve pretendere la bellezza assoluta, esaustiva, la bellezza di questi ermafroditi ha in sé un orrore quasi spettrale, anzi una bruttezza che suscita ribrezzo. Se un’amazzone si taglia via un seno per poter meglio tendere l’arco rimane tuttavia donna, rimane anzi, come Pentesilea, capace d’amore. Se un uomo viene castrato a forza, l’effeminarsi dell’eunuco crea infelicità. Ma un ermafrodito che deve essere uomo e donna nello stesso tempo, è un mostro. Tra le immagini dei dipinti pompeiani troviamo anche alcuni ermafroditi, e ce ne è anche una in cui è rappresentato in modo eccellente il ribrezzo della natura sana di fronte a questo equivoco ideale (Musée Secret, f. 13, p. 68). Un ermafrodito con acconciatura femminile, orecchini, con il petto gonfio a mo’ di seno e le anche larghe è disteso in un paesaggio su cuscini rigonfi. Un satiro ingannato dalla vista


dell’apparente femminilità gli ha tirato via la coperta. L’ermafrodito lo guarda con cupida lascivia ma il satiro, che non ha trovato una ninfa come si aspettava, fugge spaventato, non osa guardarsi attorno e stende all’indietro le mani per difendersi. L’arte non può fare a meno di individualizzare se non vuole rinunciare alla vera poesia. Deve rappresentare l’essenza, ma come fenomeno concreto. Il generale in quanto tale spetta alla scienza, non all’arte, che deve dunque guardarsi dalle generalizzazioni che assorbono l’individualità. Nella continuazione di Consuelo, la Contessa di Rudolstadt, soprattutto nell’epilogo, George Sand è caduta ad esempio in questa deformazione caricaturale, nobile in sé ma non artistica. Consuelo nelle vesti di zingara e il suo sposo nelle vesti di Trimegisto diventano finalmente puri uomini, uomini in quanto tali. Trimegisto esclama: «Non sono forse l’uomo? Perché non dovrei dire ciò che la natura umana esige e quindi realizza? Sì, io sono l’uomo, e posso quindi dire quel che l’uomo vuole e quel che farà. Chi vede avvicinarsi le nuvole può predire il lampo e l’uragano. Io so quel che porto in cuore e cosa ne nascerà. Io sono l’uomo e sto in rapporto con l’umanità del mio tempo. Ho visto l’Europa», ecc. Pura e semplice, prosaica astrazione! Opere del genere possono essere nobili, ma la loro nobiltà come la loro bellezza sono, nella falsa via della deformazione caricaturale, nell’astratto. Ricordiamoci la gran sensazione che fece una statua dello scultore Clésiniger per il Salon parigino del 1847, che non fu ammessa all’esposizione perché non era inserita in un contesto mitologico o di altro tipo. Si trattava di una rigogliosa figura di donna che si rigirava su un letto cosparso di rose in sogni voluttuosi. Era la realtà, che però, per l’appunto, non si poteva ammettere. Cosa fece la critica? Sostenne che Clésinger aveva aperto una strada totalmente nuova. Degli amici avevano consigliato allo scultore di attorcigliare attorno a uno dei piedi incrociati una serpe in modo da garantire la decenza del catalogo (in questo modo si sarebbe potuto pensare a una Cleopatra o a un’Euridice) e la statua si chiamò La femme piqué par un serpent. La critica precisò che quel capolavoro non era affatto una dea, ninfa, driade, oreade, napea, oceanina «ma semplicemente una donna. Quest’audace, questo folle, questo


arrabbiato ha pensato che era un soggetto sufficiente». «Si rimane colpiti e si gioisce di questo tipo che non è greco né romano ed è affascinante con quella bocca semiaperta, gli occhi morenti, le narici appassionate, quella fisionomia convulsa e dolce agitata da un sentimento ignoto, dal voluttuoso svenimento causato dall’ebbrezza del veleno, filtro perfido salito dal tallone al cuore e che ghiaccia le vene bruciandole». Anche se aiutandosi con la finzione del veleno, è espresso abbastanza apertamente il fatto che l’estasi è un’estasi voluttuosa. «Uno spirito pignolo potrebbe chiedere: cosa esprimeva prima che venisse aggiunto il serpente? Non sapremmo proprio dirlo. Ebbene: aveva ricevuto in pieno petto una delle frecce d’oro della faretra di Eros». Infine, quando si tratta di descrivere la novità della strada imboccata, se la cava con una generalità che indica chiaramente il pericolo connesso al fatto di rappresentare «semplicemente una donna», una donna per antonomasia. Con questa statua Clésinger ha dato prova di un’incontestabile originalità. Non ha nulla a che fare con l’antichità di Atene e di Roma, e nemmeno col Rinascimento. Non deriva da Fidia più che da Jean Goujon, assolutamente non somiglia a David, e neppure a Pradier, questo pagano in ritardo, forse si potrebbe trovare, con buona volontà, qualche rapporto con Coustou o Clodion ma è assai più maschio, più focoso, più violento nella grazia, ben altrimenti attento alla natura e alla verità. Nessuno scultore ha abbracciato la realtà più strettamente! Ha risolto il problema di fare una bellezza senza leziosità, senza manierismo, senza affettazione, con una testa e un corpo attuali, in cui ognuno può riconoscere la sua amante, se è bella! È ovvio che la deformazione caricaturale dell’idealismo astratto prenda ad oggetto il genio e la sua lotta con il mondo. Il genio è esso stesso una potenza ideale. Dove potrebbe quindi risplendere di più l’ideale se non in una rappresentazione del genio? Questa conclusione sembra tanto obbligata che ad essa dobbiamo tutta una serie di composizioni poetiche, novelle, romanzi, drammi che hanno per contenuto la storia della creazione artistica. Siccome però questo tipo di creazione è in sé un che di silenzioso, di segreto, invisibile, è una disposizione, non rimane altro che trasferire gli artisti in circostanze che diano loro l’opportunità di proclamare i loro sentimenti, le loro aspirazioni, la forza della loro volontà. E quale modo migliore per farlo che quello di metterli in circostanze disagevoli: misconoscimento, bisogno, povertà, sradicamento


sociale e simili cose? Si presenta così una triste opportunità dopo l’altra di dire la verità che si merita al mondo ingrato, nient’affatto degno di possedere simili geni, e di dare soddisfazione all’orgoglio dello spirito indignato, che tuttavia non è abbastanza orgoglioso da rinunciare all’applauso del mondo così profondamente disprezzato. Dal Tasso di Goethe e dal Correggio di Oehlenschläger 244 non c’è artista di una qualche risonanza su cui, in una forma o nell’altra, non si sia scritto facendone l’ideale del dolore universale: sempre a un passo dalla caricatura, dove non vi si cada del tutto. Tra queste figure caricaturali, una delle più famose è il Chatterton di Alfred de Vigny. Dopo l’esecuzione al Théatre français, Jules Janin scriveva nella “Allgemeine Theaterrevue” di Lewald: Questo Chatterton è una specie di pazzo pieno di talento, che la vanità manda in rovina. Anziché mettersi all’opera con coscienza e coraggio, come un uomo che vede un futuro davanti a sé, Chatterton comincia a lamentarsi degli uomini e del mondo. Un bel giorno si uccide perché non può aspettare ancora. Certo tutto questo è deplorevole, ma è anche un triste esempio che non avrebbe mai dovuto fornire materia a un’elegia lacrimevole. In generale, non si dice mai abbastanza ai giovani che la società non è responsabile di coloro che non hanno fatto nulla per essa. Subito che si sentano in testa qualche verso o qualche riga di prosa credono che il mondo debba andare loro incontro con braccia e borsellini aperti, mentre sono loro che dovrebbero andare incontro al mondo Per sua natura il genio è paziente: quanto più è immortale tanto meglio sa aspettare. Dov’è nel mondo il genio che non abbia aspettato con costanza, come il vecchio Orazio, fino a che la fila non era arrivata fino a lui? Non vi indignano questi giovani spiriti impazienti, che non capiscono che la gioventù è già di per sé un grandissimo bene e mostrano ingratitudine al cielo a non sentirsi felici per il fatto di essere giovani? Le vostre veementi lamentele, i vostri fallaci disagi non accelerano gli alti suicidi? La morte di Guilbert, Malfiatre, Chatterton ha già prodotto molto male. Da questo punto di vista il Chatterton di Alfred de Vigny è un’opera deplorevole e omicida. Immaginatevi un poeta che per tutti i cinque atti si aggira sulla scena e declama contro la società perché non ha pane e non ha vestiti. Ma il lavoro ce l’ha: perché non lavora? che privilegio possiede perché gli si debba andare incontro prima di conoscerlo per le sue opere? Un creditore irremovibile vuol mandare Chatterton in galera. Vada pure in galera dove, nutrito e alloggiato, può comporre come gli pare: poeti più grandi di Chatterton vivevano in catene e meno comodamente. Lo stesso Sheridan non era forse prigioniero dell’Os alienum? ed era perciò meno Sheridan? Il Lord Mayor offre a Chatterton il posto di primo cameriere particolare, e Chatterton lo rifiuta. J. J. Rousseau era meno orgoglioso: ha indossato la livrea eppure rimaneva Jean Jacques, e se si è ucciso l’ha fatto in segreto, di nascosto, dopo aver scritto l’Héloïse, l’Émile e il Contrat social. E tanto basta sulle deformazioni caricaturali che vengono prodotte dagli


artisti con l’idea di realizzarvi l’ideale della bellezza stessa. Tanto basta sulla forma più nascosta di queste caricature e gli inganni in cui può cadere nel trattarle anche la critica. Tanto basta sulla caricatura quasi inevitabile che il soggetto porta con sé. Ne consegue però che nella creazione della caricatura intenzionale è possibile esattamente la stessa cosa. Dal momento che come opera d’arte sottostà alle leggi generali del bello, anche se la sua forma ha con esse un rapporto negativo, possono esserci, naturalmente, anche cattive caricature. Sono quelle che si fermano alla malvagità della tendenza e alla bruttezza della forma e non si elevano alla serenità della malizia scherzosa. Sono quelle che, a causa di questa prosaica causticità, non si liberano dalla finitezza di un’intenzione limitata: far adirare, offendere. Sono anche quelle però che non riflettono con sufficiente precisione i loro tratti nell’immagine contraria che presuppongono, quindi non hanno una riuscita abbastanza umoristica e nella loro ottusità provocano un riferimento insicuro al modello e difficoltà di interpretazione. Sono, inoltre, quelle che per la debolezza del loro disegno debbono circondarsi delle esteriorità di un accessorio simbolico e per il sovraccarico che quest’ultimo produce corrono il rischio di mancare il riferimento giusto. Cattive caricature, infine, sono quelle che non sanno tener fermo o addirittura nemmeno trovare il punto da cui propriamente prende le mosse la deformazione caricaturale della forma e si sviluppa dall’interno come ironia reale del concetto che propriamente dovrebbe esserci. È bensì vero che spesso si sente parlare della caricatura come se si trattasse di un’esecuzione artistica estremamente subordinata, come se soltanto talenti inferiori potessero misurarsi con essa, come se occuparsene dovesse corrompere per forza il gusto. Quest’opinione banale ha senso solo se riferita alla cattiva caricatura, perché la buona caricatura è veramente difficile, proprio come tutto ciò che è buono e bello. Dobbiamo riflettere sul fatto che il miglior poeta tragico – come diceva già Platone nel Simposio – è anche il miglior poeta comico, che la comicità cioè scaturisce, come la tragicità, dalla stessa profondità dello spirito, e richiede la stessa forza. Accanto alle trilogie, gli antichi tragici componevano il consueto dramma satiresco.


Tutti questi drammi sono andati perduti: ce ne resta soltanto uno, i Ciclopi di Euripide. Basta a farci vedere che la caricatura era l’anima di questo genere letterario. Chi dunque sottovaluta, non la cattiva caricatura, ma la caricatura in generale scorra i nomi degli antichi tragici, di Aristofane e Menandro, di Orazio e Luciano, Calderón e Shakespeare, Ariosto e Cervantes, Rabelais e Fichart, Swift e Boz, Tieck e Jean Paul, Molière e Béranger, Voltaire e Gutzkow, i nomi di Brueghel e Teniers, Callot e Grandville, Hogarth e Gavarni e poi si chieda se può avere ancora il coraggio di vedere nella creazione di autentiche caricature un’opera così subordinata. Certo, senza contenuto ideale, senza umorismo, senza libertà, senza audacia o delicatezza, senza elasticità umoristica, la caricatura non è a questo punto che un’esecrabile, noiosa caricatura, insopportabile proprio come ogni altra opera d’arte mal riuscita. La caricatura non può che rappresentare l’idea nella forma della non idea, l’essenza nella deformazione del suo fenomeno, ma anche rifletterle in un medium concreto. In altre parole, deve conoscere l’arte di individualizzare. La caricatura è l’opposto dell’autentica bellezza, che reca in se stessa la propria soddisfazione e si sazia nell’armonia delle proprie forme. La caricatura allude inquieta oltre se stessa, perché simultaneamente rappresenta qual cos’altro. È una forma in sé discorde, anche se, in questa discordia, relativamente armonica con sé. La mediazione empirica da cui prende le mosse può essere infinitamente varia. Situazioni, azioni, tendenze culturali di ogni tipo possono darle pretesto. Vediamo che popoli vicini riassumono in caricatura le loro caratteristiche. Il francese fa la caricatura dei britannici, il britannico dei francesi. Città eminenti producono caricature in cui deridono ironicamente le loro stesse caratteristiche. Ad esempio le moderne maschere italiane, a cui hanno contribuito le varie capitali d’Italia, hanno ereditato i tipi delle atellane romane. Arlecchino è l’antico Sannio romano, Pantalone il commerciante veneziano, il Dottore è di Bologna, il Beltrame di Milano, lo Scapino è il servitore ladruncolo di Bergamo, il Capitano Spagnolo è Scaramuccia di Napoli, Pulcinella il burlone pugliese di Acerra, il Maccus degli antichi, Tartaglia il balbuziente,


Pascariello il bellimbusto chiacchierone di Napoli, Gelsomino il dolce signorino di Roma e Firenze ecc. Mezzetino e Pierrot sono trasformazioni di maschere italiane nel teatro italiano di Parigi. Per molti versi queste maschere sono le caricature più perfette. Contengono tutte le sfumature del brutto, risolto in comicità. Fanno la parodia di tutto, ma in una individualizzazione concreta che ha una base storica. Grandi città come Londra, Parigi, Berlino, si fanno beffe di se stesse nei loro cockneys, badauds, buffey’s. La progressiva dissoluzione sociale in questi centri di civiltà offre inesauribili soggetti di caricatura. Mayhew nella sua opera di immensa importanza sui poveri londinesi 245 ha realizzato l’idea di fare i dagherrotipi delle figure caratteristiche della miseria delle strade e delle spelonche londinesi, di modo che si possono vedere le copie fedeli e terribili dell’Ade spettrale della civilizzazione londinese. Quel proletariato è fatto quasi solo di caricature, e queste caricature sono fatte quasi solo di deformità grottesche, pervase del caratteristico tratto sensuale che ci disgusta nelle caricature di Cruishank e Phiz. Soprattutto fanno un’impressione terribile i bimbi più derelitti, che nella precocità della loro esistenza desolata dall’indigenza, dal bisogno, dal crimine, dal bere e da stravizi temporanei offrono lo spettacolo di un aspetto totalmente incanutito. Alcune figure sono più nobili ma proprio per questo tanto più impressionanti, come ad esempio quel mendicante indù che ad un angolo di strada offre in vendita opuscoli religiosi cristiani. Questa figura scura, gracile, con la sua fragile struttura ossea, la sua quieta indigenza, il commovente volto malinconico da cui ancora balena tuttavia, uno spirito superiore come un ricordo non ancora spento del tutto, nella nebbia di Londra! I francesi hanno prodotto un’opera che sembra copiare con fedeltà di tratto la realtà ma oltre a ciò non nasconde l’elemento caricaturale in cui sono immersi tanti tipi dell’odierna società. Alludiamo a Les Français peints par eux-mêmes. Encyclopédie morale du dix-neuvième siècle. Quest’opera, illustrata con i disegni più eccellenti dai primi artisti di Francia, scritta da autori classici, fu pubblicata in otto volumi in quarto a partire dal 1841 e merita di essere conosciuta da psicologi, moralisti, letterati, sacerdoti e uomini di stato molto più di quanto non sembri


essere. Tre volumi di quest’opera rappresentano i tipi della provincia. Gli articoli sull’esercito, sui forçats, sull’ospedale St. Lazare e simili sono scritti con la massima serietà scientifica. Il Diable à Paris o Paris et les Parisiens, pubblicato nel 1845 in due volumi in quarto, va considerata come una continuazione, che tuttavia è già più rivolta all’intrattenimento e si occupa quasi esclusivamente di caricature fornite dal proletariato più raffinato e più rozzo, giù giù fino ai mendicanti e alle prostitute. Così come avviene per i popoli e le città, vediamo farsi vicendevolmente la caricatura anche le varie classi sociali. Il contadino, il soldato, il maestro di scuola, il barbiere, il ciabattino, il sarto, il bottegaio, il letterato, il poetastro, il portinaio, il cameriere ecc. vengono fissati in caricature che conoscono metamorfosi di epoca in epoca ma rinnovano sempre la stessa tendenza. Infine, forniscono materiale a caricature la diversità di sesso e di età. Si potrebbero aggiungere le passioni, così come le hanno descritte Teofrasto nei suoi Caratteri e dopo di lui La Bruyère, e poi Rabener 246 , e costituiscono l’oggetto della commedia inaugurata da Menandro e Difio. Da queste situazioni dobbiamo distinguere le azioni. Esse costituiscono il contenuto della caricatura storica vera e propria, che fa la satira alle contraddizioni che vengono in luce nel pubblico agire dei popoli e dei governi. Periodici di caricature come il londinese “Punch” e il “Charivari” parigino diventano così cronache delle perversioni politiche ed ecclesiastiche. Le tendenze della civiltà offrono materia per molte caricature, e spesso assai interessanti. E in un duplice modo: una volta sbeffeggiando una tendenza in generale, ma subito dopo sbeffeggiando le contraddizioni che insorgono tra civiltà e inciviltà, civiltà e iperciviltà. Una tendenza in generale può essere caricaturata in quanto la satira ne delimita la caratteristica facendone un’unilateralità, ed esagerandola nel fissarla. È implicito però nella natura stessa della cosa che la civiltà offra il materiale più felice alla caricatura nell’imperfezione dei suoi esordi oppure nella soverchia maturità dei suoi esiti. Le caricature che si basano sul primo aspetto si producono in gran quantità dovunque i popoli civili entrano in


contatto con i popoli selvaggi. Da un altro punto di vista, spesso questo può essere anche uno spettacolo assai doloroso: vediamo infatti come un essere forte, relativamente bello venga afferrato, distrutto e sfigurato dalla cultura estranea fino a diventare una caricatura grottesca, orrendamente ridicola. Nei suoi Indiani d’America Catlin 247 ci dà il ritratto e la storia di un capo Affineboiner, Wai-schun-scho che era arrivato a Washington tutto adorno del suo fastoso costume nazionale. Ma come ritornò dai suoi dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti? Quando apparve sul ponte del battello a vapore portava una veste della stoffa azzurra più fine con galloni dorati, due vistose spalline, una sciarpa nera intorno al collo e i piedi stretti in un paio di stivali impermeabili con tacchi alti che rendevano traballante e insicura la sua andatura. In testa portava un alto copricapo di castoro con un largo gallone d’argento e un pennacchio rosso lungo due piedi. Il colletto rigido e dritto gli arrivava fin sopra le orecchie e sulla schiena la sua lunga capigliatura ornata di rosso pendeva in trecce. Intorno al collo portava un medaglione d’argento attaccato a un nastro azzurro e a una larga correggia che gli passava sulla spalla destra era appeso uno sciabolone. Le mani erano rivestite da guanti di capretto, nella destra teneva un grande ventaglio e nella sinistra un ombrello blu. Così a Washington avevano addobbato il povero Waischun-scho! Catlin dà un ritratto di questa caricatura. La sciabola strascica tra le gambe dell’eroe, che soffia il fumo di un sigaro e dalle due tasche del vestito fa capolino il collo di una bottiglia di acquavite. Ma la vera caricatura ci fu solo quando era giunto a casa, dove i suoi lo presero per un bugiardo per i resoconti che faceva degli yankees. All’indomani del suo arrivo sua moglie si confezionò con le falde – la parte superflua della veste – un paio di brache e dal gallone argentato un paio di giarrettiere. La veste, così accorciata, la portava ormai suo fratello, mentre lui comparve con arco e faretra ma senza vestito e i suoi amici ammiravano stupefatti la sua camicia fine con bottoni di gran pregio. La sciabola continuava sempre a rimanere al suo posto, ma già a mezzogiorno scambiava gli stivali con dei mocassini e così vestito sedeva tra i suoi amici a raccontare attorno alla fiaschetta d’acquavite. Una delle sue innamorate aveva messo gli occhi sulle belle bretelle di seta e il giorno dopo lo si vide avviarsi barcollando con la fiaschetta di acquavite sotto il braccio e zufolando “Yankee Doodle” e la marcia di Washington verso la capanna


della sua vecchia conoscenza. La sua camicia bianca, o quella parte di essa che aveva svolazzato al vento, era stata accorciata in modo scandaloso, i pantaloni blu gallonati d’oro erano stati trasformati in un paio di confortevoli braghe; aveva poi imbracciato arco e faretra e lo sciabolone che strascinava per terra gli era arrivato in mezzo alle gambe e così gli serviva in certo modo da timone, per condurlo sicuro sulla «inquieta superficie della terra». Erano così passati due giorni, la fiaschetta era vuota e di tutto il suo magnifico abbigliamento non gli era rimasto che l’ombrello a cui andava tutto il suo affetto e che si portava dietro col bello e col brutto tempo, mentre per il resto indossava una veste di pelle! Se l’arte si occupa di queste contraddizioni, dovrà avere l’ironia di deridere, in esse, anche le manchevolezze della civiltà. Ad esempio, dopo aver preso possesso delle isole Marchesi i francesi hanno prodotto una serie di caricature in tal senso. Hanno ritratto i selvaggi tatuati che vestiti all’europea – come quel capo indiano – sfiguravano se stessi nelle caricature più stravaganti: gli tocca la fortuna di dover pagare, con loro estrema meraviglia, la tassa sulle finestre; i progressi della civiltà francese si rivelano, ai padri stupefatti, in figli di color bianco, e così via. Su un foglio vediamo un nobile delle isole Marchesi con gli stivali, ma per il resto vestito solo della camicia, che sta per uscire dalla capanna con una dava in mano. Attraverso la porta si vede, all’esterno, sua moglie impegnata in un tenero tête-à-tête con uno zerbinotto francese. Ma un altro francese ferma il selvaggio e cerca di strappargli la dava: – Disgraziato, cosa state facendo? – Perbacco, una scarica di bastonate all’amante di mia moglie! – Significherebbe perdere la reputazione. Seguite la moda europea, mandate un biglietto al vostro rivale, domattina fate il duello, quel signore vi brucerà le cervella... e almeno avrete avuto completa soddisfazione. In un’altra immagine si vede una vittima della moda stretto in pantaloni bianchi allacciati, gilet giallo, colletto inamidato, frac attillato: – Ma, signor sarto, mi è assolutamente impossibile muovere braccia e gambe in questo vestito. – È proprio quel che ci vuole. A Parigi i ricchi si vestono così: più si è a disagio nell’abito, più si passa per essere a proprio agio!


Molto vari naturalmente sono i soggetti che la difformità dell’iperciviltà offre nel falso sentimentalismo, nella falsa convenienza, nella falsa erudizione, nell’insensatezza del ragionare politico, nella follia dei fanatismi settari, nelle assurdità del lusso, nel rivaleggiare delle cure mediche di moda e anche nelle aberrazioni artistiche. Di solito queste caricature sono già espressioni della reazione con cui lo spirito cerca di superare tali malattie. Il basbleu come satira delle donne letterate, Mr. Proudhomme come satira dei critici che la sanno sempre più lunga su tutto, Mr. Mayeux in uniforme, col berrettone di pelo d’orso in testa, gli occhiali da conversazione sul naso, come satira della guardia nazionale, Jean Patûrot à la recherche de la meilleure des républiques come satira dei socialisti e dei comunisti, e così via. Talora queste caricature diventano anche del tutto personali, ad esempio nel modo in cui A. W. Schlegel sbeffeggiava la poesia di Kotzebue 248 , o il modo in cui nella Diogena è stato spiritosamente deriso lo sforzo della Contessa Hahn-Hahn di trovare, nei suoi romanzi, il Giusto 249 . Dopo aver tentato invano con tutta una serie di uomini, addirittura con un Capo indiano del Nordamerica, riconosce finalmente il Giusto in un... cinese. Nel modo di trattare il soggetto la caricatura non può che seguire le leggi generali dell’arte. Può ritrarre, simboleggiare, idealizzare. Mediamente, il ritratto apparterrà alla caricatura personale, che nasce dalla satira contro un individuo determinato. Dal momento però che di solito questa tendenza è connessa alle lotte tra partiti nello stato, nella chiesa, nell’arte, l’odio vi avrà gran parte. Ne consegue che l’elaborazione estetica della caricatura sarà subordinata all’interesse materiale di scoccare il dardo avvelenato sull’avversario. Perciò ci si accontenta di una certa somiglianza del portamento e della fisionomia: perché sia sufficiente come supporto per l’attacco satirico. Il valore artistico di quasi tutte le caricature siffatte è estremamente ridotto. Basta sfogliare le raccolte del tipo del Musée de la caricature en France, dove sono riprodotte dagli originali le caricature dell’epoca della Fronda, della guerra degli Ugonotti, della frode finanziaria di Law fino alla Grande Rivoluzione; si vedano le caricature, anch’esse riprodotte in base all’originale, della storia della


Rivoluzione nell’Histoire-musée de la république Française dépuis l’assemblée des Notables jusqu’à l’empire par Augustin Challamel (Paris, 1842, 2 voll.); si vedano le caricature nella rivista “London und Paris” edita a Weimar da Böttinger tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo; si confrontino con queste immagini gli analoghi scritti satirici (pasquinate, canzoni) e dovunque si incontrerà un tono aspro, stridulo, prosaico, fatto soprattutto per somministrare un colpo all’avversario nella pubblica opinione. Perciò in questa cerchia si ripetono addirittura certi trucchi per esporre al ridicolo l’avversario. Questa meschinità del mezzo è una conseguenza della prospettiva egoistica della satira personale, che di rado si eleva alla serenità e alla tranquillità. Il secondo tipo di procedimento estetico si distingue dal ritratto perché ormai assume la deformazione caricaturale in una dimensione generale, come tipo che rappresenta un genere, e pertanto conferisce agli individui un valore simbolico. Qui scompare l’asprezza della relazione diretta e la poesia acquista un grande ruolo. Questa rappresentazione simbolica segue le trasformazioni della storia per descrivere la decadenza delle sue figure significative nelle contraddizioni che sempre si sviluppano dalla loro limitatezza empirica inevitabile. Ad esempio il nostro Deutsches Volksbuch von den Schild- oder Lalenbürger è una caricatura di questo tipo, che senza fare riferimenti personali sferza con autentico umorismo il ridicolo della piccineria radicata nel suo limitato orizzonte. Così, il poema medioalto tedesco di Wernher, Helmbrecht 250 , è un’eccellente descrizione di come i contadini e la cavalleria sperperarono la loro esistenza in una desolata, sregolata vita di briganti. Il periodo della Monarchia di Luglio ha prodotto il tipo del Robert Macaire 251 , cioè della truffa universale organizzata. Con il suo compare Bertrand, Macaire è sempre assai accattivante, in tribuna, in borsa, in società, al tavolo da gioco, a consulto dal medico ecc., Macaire corpulento, in frac, in tuba, con una spessa sciarpa di seta, la spilla di brillanti; il suo compagno Bertrand con un berretto stretto in vestiti logori, lunghe saccocce per infilarci dentro alla rinfusa tutto quel che trova, andatura barcollante, collo nudo e secco, atteggiamenti studiati,


un’aria furfantesca da innocentino. Appartengono a questo genere anche le immagini che in certe epoche le nazioni si fanno l’una dell’altra, come quando parliamo di fratel Jonathan in America, John Bull in Inghilterra, Michel in Germania. In Cina addirittura il governo si serve della caricatura simbolica per perseguire il fumo dell’oppio: fa rappresentare in immagini tutti gli stadi della decadenza di un infelice che, gustando l’oppio, alla fine viene reso estraneo a ogni sentimento umano, a ogni senso del dovere, a ogni realtà e si riduce a un orrendo scheletro. Il modo ideale di trattare caricaturalmente il soggetto possiamo definirlo anche modo fantastico. L’assenza di misura nella esagerazione rende la caricatura fine a se stessa e rappresenta il brutto ora come caso inoffensivo, ora come suprema necessità. La deformazione annulla se stessa perché esce fuori dai limiti della comune realtà e tende a una libertà favolosa. Solo grandi artisti hanno genio sufficiente a produrre questa mirabile metamorfosi del brutto, che suscita in noi col suo umorismo proprio quel sentimento di beatitudine che, altrimenti, è prerogativa della bellezza assoluta. La libertà e la grandezza nel modo di trattare il soggetto supera nella sua comicità la negatività sia della forma sia del contenuto. La fantasia di questa prospettiva ha con l’assennatezza della prima prospettiva lo stesso rapporto che il giovane Dubüreau aveva col fratello maggiore quando, a Costantinopoli, gli fece correre il rischio estremo. Il padre di Dubüreau doveva prodursi con la famiglia nelle sue arti atletiche ed acrobatiche davanti al Gran Sultano. Fu perciò condotto, un giorno, in un salone che però era completamente vuoto, e qui davanti a una tenda di seta esegui con i suoi familiari i numeri più spericolati. Tra l’altro, il fratello maggiore afferra una scala coi denti e il minore vi si arrampica sopra. Giunto felicemente in cima si dimentica di ridiscendere perché dallo scalino più alto vede, all’improvviso, tutto l’harem del Sultano seduto dietro la tenda. Il fratello faceva segni su segni e quasi stava per soccombere, fino a che il minore là sopra si risvegliò dal suo stupore e ritornò giù. Questa storia, narrata da Jules Janin nel iii capitolo del suo Dubüreau, histoire du théâtre à quatre sous 252 è anch’essa un simbolo. Sotto l’intelletto che calcola e soppesa, quindi la scala nuda, non bella


come mezzo, ma sopra la fantasia estasiata, che dimentica se stessa alla vista del bello. Molto spesso la caricatura, in quanto creazione pittorica, per esprimere con chiarezza la sua intenzione accetta l’aiuto della parola. Poco per volta da questa connessione sono nate non soltanto barzellette isolate, ma intere suites, anzi intere storie in connessione di parole figurate e figure parlate. Gavarni è un genio straordinario in questa duplice arte, ma Topffer lo supera in umorismo. Le Œuvres choisies de Gavarni, études de mœurs contemporaines, quattro volumi in quarto, 1846, ci mostrano gli enfans terribles, le Lorette, gli studenti, il carnevale, i débardeurs, le attrici, Clichy, Parigi di sera ecc. in modo sempre spiritoso, ma caustico. Topffer invece nelle sue deliziose Histoires en estampes 253 pullula di quella serena arroganza che ha fatto creare a uno Shakespeare il Falstaff, a un Jean Paul il Dottor Katzenberger, a un Tieck lo spaventapasseri Lebrinna. Vischer ha caratterizzato in modo così eccellente tutto questo genere in un saggio su Gavarni e Töpffer 254 nei “Jahrbücher der Gegenwart” di Schwegler (1846, pp. 554-66) che non possiamo che rimandare ad esso, dal momento che non potremmo far altro che ripeterlo 255 . La caricatura fantastica spoglia di ogni pericolosità etica la deformazione. Consente il vantaggio di scavalcare fin dall’inizio il comune buon senso, e ne fa la parodia. Potrebbe sembrare, a questo punto, che in virtù di questa licenza l’esagerazione del caratteristico venga o dissolta del tutto o così estremamente rafforzata da avere per forza come conseguenza l’estrema bruttezza, come già la definisce Platone nel Sofista, 228 a – poiché il brutto è la negazione di ogni misura –: τό τῆς ἀμετρίας πανταξοῦ ἐνόν γένος, il genere più deforme del brutto. Eppure sarebbe un errore. Perché l’assenza di misura del fantastico ricrea in se stessa una misura: entro quell’esagerazione le forme debbono pur ritrovare tra loro un certo rapporto proporzionale. Ciò rende possibile una straordinaria libertà e audacia, ma anche grazia nel modo di trattare il soggetto, sicché le caricature non si riflettono solo in un medium finito, ma piuttosto nell’infinità dell’idea: nel bello, nel vero, nel bene in sé e per sé. Così come l’antica commedia greca era tanto degna di ammirazione in questa


fantasticità ideale, anche noi tedeschi, per la nostra disposizione naturale, potremmo creare qualcosa di immortale proprio in questa direzione se tra noi fosse presente un po’ più di forza nazionale, un po’ più di cooperazione unitaria e le forze migliori non fossero costrette a intristire spesso in esistenze nascoste, in effemeridi del tutto locali. Oltre ai maestri riconosciuti in questo campo, Jean Paul, Tieck e altri, non esitiamo a vedere nel Teatro Leopoldo fondato un tempo a Vienna da Stranitzky 256 quello che aveva una particolare vocazione a trasferire la caricatura nel più puro cielo della comicità e a fare, a prescindere da ogni unilaterale intellettualismo, del “genere deforme del senza misura” una fonte del più puro piacere di ridere. Bäuerle mostrava già la sua imminente decadenza; con Raimund 257 si sollevava ancora una volta al massimo splendore, con Nestroy correva incontro alla decadenza. L’argomento meriterebbe una trattazione particolare, che non possiamo dare qui, poiché non ci resta che prendere commiato dalla caricatura, indicandone solo la prosecuzione nel ridicolo. Ci asteniamo quindi da un ulteriore sviluppo e ci limitiamo a dare, ai fini di una migliore comprensione, un paio di indicazioni. Nella Lindane un pauroso ciabattino deve compiere un’impresa nel regno delle fate. Il destino l’ha scelto – per quanto ciò lo incomodi e lo contrari – per recitare il ruolo dell’eroe. Deve attraversare un bosco. Si fa la caricatura della sua pusillanimità, ma come? In modo completamente fantastico. Prende con sé il suo garzone e uno schioppo. Non appena arrivano nel bosco, naturalmente comincia a diventare molto ansioso. Non c’è nessunissimo pericolo specifico, ma non fa niente. Il bosco come tale, la paura sono motivi sufficienti a far qualcosa per difendersi da pericoli possibili. Perciò il compagno deve sparare: ma dove, se non si vede niente di sospetto? Spara a casaccio in aria, mentre il ciabattino muore di paura. E, guarda un po’ – e in questo sta l’elemento fantastico – dall’aria casca giù qualcosa. Ci si azzarda più da vicino, per vedere l’uccello. Ma l’uccello non ha affatto l’aspetto di un uccello; ha quattro zampe, non ha vere piume, ma setole: insomma l’uccello è un maiale. Sembra impossibile, eppure è proprio lì. Naturalmente noi ridiamo ma il ciabattino, ora, si spaventa ancora di più. Oppure nell’Alpenkönig und Menschenfeind di


Raimund, il signore di Rappelkopf sente se stesso parlare, agire, brontolare, smaniare attraverso il re delle Alpi, che ha scambiato con lui la sua forma. Ma a un certo punto trova che il suo sosia è esagerato. Il re delle Alpi, pensa, fa di lui una caricatura eccessiva. Com’è vero, profondo e vorremmo dire filosofico quest’umorismo! Se potessimo vederci per una volta in modo veramente oggettivo, non penseremmo anche noi che appariamo a noi stessi non proprio come siamo veramente, ma un po’ esagerati?


Conclusione Gli dèi dell’Olimpo rappresentano le forme più belle mai create dalla fantasia. Eppure avevano tra loro lo zoppicante Efesto, e questo dio zoppicante non solo era maritato con la dea più bella, Afrodite nata dalla spuma del mare, ma era anche il dio sensibile dell’arte di forgiare e sapeva creare le forme più belle. E benché gli dèi fossero così belli e immortali, non ritenevano disdicevole alla loro dignità scoppiare a tratti in una risata – una risata, dice Omero, che non si può soffocare – come quando Efesto catturò la sua sposa e Ares con una rete. La mitologia greca riconosce in tal modo la connessione di bello, brutto e comico. Ma lo fa, inoltre, in un mito apposito, sul quale richiama l’attenzione Bohtz nello scritto Über das Komische und die Komödie 258 e che troviamo nei Deipnosofisti di Ateneo (Xiv, 2). Parmenisco si era arrampicato fino alla caverna di Trofonio e ne aveva visto gli orribili prodigi. Da allora non potè più ridere e perciò interrogò l’oracolo di Delfi. Esso gli rispose che la madre gli avrebbe concesso di nuovo, giunto a casa, la capacità di ridere. Giunto a Delo, Parmenisco cercò il ritratto della madre del dio, Latona, che gli fu mostrata in un ciocco sformato. Ciò suscitò in lui, che si era aspettato di vedere una bella statua, il riso più violento. L’oracolo aveva così mantenuto la sua parola. La madre del bell’Apollo e un ciocco sembrano essere cose troppo eterogenee tra loro, eppure qui quest’inconciliabilità era reale, e tale realtà – in quanto realtà che non doveva essere possibile – ridicola. Il mito non è forse la storia della connessione tra il brutto – che ci fa ammutolire – e il comico che ci rende di nuovo gai? Siamo andati alla ricerca del brutto anzitutto nel concetto negativo, dell’imperfetto in generale. Si è visto che non era nulla di originario, solo qualcosa di derivato che ha nel bello la condizione della sua esistenza. Abbiamo potuto convincerci, a questo punto, che si realizza nella natura: in parte nelle sue forme immediate, in parte con la mediazione della malattia o dell’ottundimento. Il brutto spirituale si distingue dal brutto naturale; col primo non si può indicare errore, ignoranza, goffaggine, ma


solo la follia e il male. Che l’arte, come creatrice del bello, potesse prendere per soggetto il brutto sembrava una contraddizione. Ma non ne è risultata solo la possibilità di tale creazione, bensì anche la necessità: da un lato per l’universalità del contenuto dell’arte, che riflette in sé l’immagine generale del mondo dei fenomeni, dall’altro lato per la natura del comico, che non può fare a meno del brutto come suo mezzo. Ora, dal momento che le arti si distinguono qualitativamente tra loro per la diversità del medium della rappresentazione, ne risultava un diverso rapporto verso la possibilità di creare il brutto: alla musica e all’architettura spettava il minimo, alla scultura il medio, alla pittura e poesia il massimo di possibilità. Certamente le arti condividono la possibilità in generale di restare al di sotto dell’ideale o di deformarlo, ma grazie alla loro tecnica architettonica, scultura e musica sono più protette dall’imbruttimento. Dal momento che necessita di forma, il bello poggia sempre su rapporti generali di misura: unità, simmetria, armonia. Perciò la bruttezza comincia con l’assenza di forma che impedisce all’unità di concludersi o la dissolve nell’informe, producendo un intreccio di deformità e contraddizioni disarmoniche. Tuttavia il brutto non è ostile alla misura solo in generale: anche nella particolarità ha un comportamento negativo verso la forma normale, prodotta o come tipo costante grazie alla legalità della natura, o come misura estetica convenzionale, un determinato gusto dovuto alla consuetudine della civiltà, e che definiamo correttezza. La negazione di tale normalità è lo scorretto, che trova specificazione particolare nelle singole arti e nei singoli stili. Quella negazione dei rapporti di misura e questa negazione delle norme fisiche e convenzionali hanno il loro fondamento solo nella deformazione, nel processo negativo dell’interiorità, che nella deformità esteriore non fa che manifestare il suo dissolvimento. La libertà dell’esistenza, della vita, dello spirito può pervertire il sublime in volgare, il piacevole in ripugnante, il bello in deforme. Non nel senso che il sublime, il piacevole, il bello come tali non siano sublimi, piacevoli, belli, ma nel senso che il


meschino ha il suo metro oggettivo nel grande, il debole nel potente, il vile nel maestoso, il goffo nel grazioso, il morto nel giocoso, l’orrendo nell’attraente. Come vertice dell’orrendo ci si è presentato il male, la libera autodistruzione del bene. Il male in quanto diabolico ci si è mostrato come assoluta libertà apparente che con coscienza nega per principio il bene e cerca invano vera soddisfazione nell’abisso del suo tormento. Il male ci ha dato il punto di passaggio alla caricatura in quanto racchiude essenzialmente in sé la riflessione di contenuto e forma nel suo contrario. La rappresentazione del diavolo è la rappresentazione della caricatura assoluta, perché è la menzogna come distruzione fittizia della verità, è volontà perversa come volontà del nulla, è bruttezza come distruzione positiva della bellezza. Ma la caricatura risolve il ripugnante in ridicolo, essendo in grado di accogliere in sé tutte le forme del brutto, ma anche del bello. Che diventi bella nella sua deformazione, piena di immortale serenità, è possibile, tuttavia, solo grazie all’umorismo che la esagera fino al fantastico. La sfrenata allegria dell’umorismo, che nella sua compassionevole baldanza si prende cura anche della deformità grottesca, non è priva della più pura ragionevolezza ed è simile alla Menade che sollevando il piede sul crinale del monte, spinta dall’entusiasmo del dio, ha rivolto in su il capo con slancio ardito agli astri del cielo, come se volesse già evadere dalla terra per ritornare all’etere divino, da cui tutto è nato.


Note 1 [Ifigenia in Tauride, iii, 2.] 2 [Sono versi della ballata Der Taucher (1798) di Schiller.] 3 [Heinrich Kurz, Geschichte der deutschen Literatur mit Proben aus den Werken der vorzüglichsten Schriftsteller, 3 voll., Leipzig, 1851-53.] 4 [Citazione a memoria (recte: «Non canto per bambinetti...») dalla poesia di Lessing Für wen ich singe.] 5 A ben vedere anche qui, come in molte altre, cose il precursore vero e proprio è stato Lessing, nel Laocoonte, dove tratta (capitoli xxiii-xxv) del brutto e del nauseante. Il merito di aver introdotto consapevolmente nella scienza il concetto di brutto come momento organico dell’idea del bello spetta a Ch. H. Weisse, System der Ästhetik, Leipzig, 1830, nella prima parte, pp. 163- 207. 6 [E. T. A. Hoffmann, Phantasiestücke in Callots Manier (1813-15) e Nachtstücke herausgegeben von dem Vefasser der Fantasiestücke in Callots Manier (1816-17).] Weisse aveva concepito in modo troppo spiritualistico, nei tratti essenziali, l’idea negativa del brutto, e questa unilateralità nel considerare il momento morale come menzogna dello spettrale, del male, del diabolico passò anche ai suoi epigoni. Tra i quali c’era anzitutto Arnold Ruge con la sua Neue Vorschule der Ästhetik, Halle, 1837, pp. 88-107. Ruge, un’intelligenza vivace, piena di intuizioni talora ingenue che egli era avido di accumulare, stimolato dalla lettura, nuova per lui, di scritti hegeliani, aveva mano felice in certe esemplificazioni ma lasciava molto a desiderare quanto a chiarezza. Dice a p. 93: «Quando lo spirito finito si fissa e si fa valere nella sua finitezza


contro la sua verità, lo spirito assoluto, questo spirito che vuol bastare a se stesso, diventa in quanto conoscenza la non verità, in quanto volontà che si disimpegna e nella sua finitezza guarda solo a sé, il male e in quanto entrambe le cose, quando giunge a manifestarsi, il brutto». In lui, la conseguenza di questa stretta delimitazione è che quando descrive il brutto pensa quasi esclusivamente alla poesia di Hoffmann e di Heine. Bohtz, Über das Komische and die Komödie, Göttingen, 1844, pp. 28-51, ha assunto il concetto di brutto in modo un po’ più libero e generale, ma pur sempre intendendolo come «spirito rovesciato», come «bellezza messa a testa in giù». Nell’opera Diotima oder die Idee des Schönen [Pforzheim, 1849], Kuno Fischer segue completamente, a sua volta, le orme di Ruge e di Weisse. Inteso come rovescio del sublime, il brutto è la decisa contraddizione dell’esistenza sensibile verso l’ideale; solo lo spirito etico, secondo lui, ha la facoltà del brutto e solo nel mondo umano il brutto è una verità estetica. Così a p. 259: «I frivoli romani e i giudei irrigiditi sono l’estrema espressione del passato senza spirito, così come i monaci lascivi e i califfi effeminati sono il trionfo del brutto sull’ideale del cattolicesimo pieno di fede e dell’islam coraggioso. Così in un istante, il brutto diventa il destino del sublime entro il concetto del bello e nella storia dell’umanità». 7 [Si tratta rispettivamente di Carl Friedrich Rumohr, Geist der Kochkunst und Reynières Küchenkalender, Stuttgart, 1823, dello scritto umoristico di Antonino Anthus (pseud. di Gustav Blumröder), Vorlesangen über die Eßlkunst, 1838, e di Eugen Baron von Vaerst, Gastronomie oder die Lehre von den Freuden der Tafel, Leipzig, 1851, in due tomi.]


8 Hauff, Moden and Trachten. Fragmente zar Geschichte des Costüms, Tübingen-Stuttgart, 1840, pp. 17-23. 9 [Alexander Gottlieb Baumgarten, Æsthetica, 2 voll., Frankfurt, 1750-58.] 10 [Il romanzo umoristico di Karl Immermann Münchhausen. Eine Geschichte in Arabesken era stato pubblicato a Düsseldorf nel 1838-39.] 11 La teoria di Howard [Luke Howard, On the modifications of clouds, London, 1830] ha ricondotto anche la forma fluttuante delle nuvole a certe forme fondamentali. Qui noi abbiamo in mente le impressioni estetiche suscitate dalle nuvole, descritte così spesso e nel modo più vario da viaggiatori e poeti, e soprattutto lo Heinrich von Ofterdingen di Novalis (Schriften, 1815, p. 238): «Esse [le nuvole] ci attraggono e vogliono trascinarci via con le loro fresche ombre e se la loro forma è piacevole e varia come un nostro intimo sogno, anche il loro chiarore, la splendida luce che allora regna in terra, è come il presentimento di uno sconosciuto, indicibile splendore. Ma ci sono anche annuvolamenti foschi, cupi e spaventosi, in cui sembrano minacciarci tutti gli orrori dell’antica notte: il cielo sembra non volersi più rischiarare, il sereno azzurro è annientato e un cupo rosso di bronzo su un fondo nerastro risveglia orrore e paura in ogni petto...». 12 Tra questi nomi quello di Oerstedt negli ultimi anni è diventato noto da noi anche a un pubblico più vasto: la mania tedesca di appassionarsi per ciò che è straniero ha suscitato una concorrenza di traduzioni dei suoi scritti popolari. Bernardin de Saint-Pierre è abbastanza noto da noi, almeno di nome, perché grazie alla novella Paul et Virginie appartiene da tempo alla letteratura


amena e stampe, addirittura balletti, hanno diffuso a sufficienza tale soggetto e il nome del suo autore. Ma il libro a cui alludiamo ora sono i suoi Études de la nature, 3 voll. (nell’edizione parigina che abbiamo sott’occhio: 1838, Desbiedes). Un libro dove compaiono ipotesi insostenibili sul polo, ma che contiene un tesoro raccolto dalla più curiosa osservazione e una quantità dei più bei quadri della natura, che sembra essere gustata e utilizzata solo da pochi. Il saggio di Vischer sul bello di natura si trova nella sua Ästhetik [oder Wissenschaft des Schönen, 6 voll., Reutlingen und Leipzig, 1846-57], e si tratta di uno dei lavori più egregi che si posseggano in questo campo. Se i tedeschi si fossero ricordati di tale lavoro, o anche solo della sezione della Critica del giudizio di Kant sulla teleologia, non avrebbero pensato di imparare una cosa assolutamente nuova da Oerstedt. 13 F. A. Schmidt, Mineralienbuch oder allgemeine und besondere Beschreibung der Mineralien (Mit 44 colorirten Tafein), Stuttgart, 1850, p. 4. Si sono spesso riprodotte piante e animali, di rado minerali. Questo libro rappresenta perciò un felice progresso. Dice giustamente l’editore: «Non è facile copiare e riprodurre un minerale e abili artisti che vi si sono cimentati hanno abbandonato l’opera dopo averla iniziata. Le forme rigide, senza vita, contrastano col senso artistico, ogni mutamento di posizione suscita riflessi diversi, anzi tonalità cromatiche completamente diverse ed è assolutamente impossibile riprodurre il grado di luminosità. Per lavori del genere, a cui nessuna motivazione interiore li spinge, la pazienza di abili pittori non è mai abbastanza e inoltre, con tutta la diligenza possibile non è assolutamente possibile ottenere alcuni colori propri di questo


mondo di gnomi. È facile capire quanto sia difficile, in simili circostanze, anche solo la scelta dei soggetti». 14 Per le riproduzioni di queste straordinarie contrade si veda la raccolta di incisioni pubblicata a Karlsruhe, China historisch, romantisch, malerisch [1844]. Siccome il frontespizio e l’introduzione sono senza data, neppure noi possiamo fornirla al lettore. 15 Il saggio di Hausmann a cui alludiamo si intitola Die Zweckmässigkeit der leblosen Natur, ed è contenuto in un volumetto dal titolo modesto: Kleinigkeiten in bunter Reihe, Göttingen, 1839, i, pp. 20-226. Anche il saggio che lo precede, Über die Schönheit der belebten und unbelebten Natur, è eccellente. Entrambi sono scritti in modo esemplare, veri ornamenti della nostra letteratura nazionale, anche se i nostri letterati, che oggi fabbricano in serie a dozzine storie della nostra “letteratura nazionale”, non ne vogliono sapere. Egregio Hausmann, se tu fossi uno straniero, se solo tu fossi emigrato qui con cattive traduzioni... allora si saprebbe qualcosa delle tue belle ricerche! Dacché A. von Humboldt l’ha fondata nelle sue Ansichten der Natur [2 voll., Stuttgart, 1808], l’estetica della geografia del paesaggio è progredita in modo straordinario. Anche qui, però, va lamentata la scarsa consapevolezza: su tutto, noi tedeschi arriviamo a risultati superiori, e dobbiamo rifare tutto cento volte. Esiste un ottimo saggio, Ästhetische Geographie, che è rimasto troppo ignorato non solo da chi si occupa di estetica, ma anche dai geografi, e che anche dal punto di vista dell’arte espositiva dobbiamo annoverare tra le cose migliori che abbiamo. Ma è incluso in una raccolta, e per questo non è stato preso in considerazione a sufficienza. Alludiamo a G. L. Kriegk,


Schriften zur allgemeinen Erdkunde, Leipzig, 1840, pp. 220-370. Più note le descrizioni di estetica della fisionomia terrestre di [Alexander von] Humboldt (Kosmos [4 voll., Berlin, 1845-58]), di [Matthias Jakob] Schleiden (Die Pflanze und ihr Leben [Leipzig, 1848]), di Masius [recte: Hermann Massius] (Naturstudien [2 voll., Leipzig, 1852 e 1868]), e altri. A esse s’aggiunga [Friedrich Theodor] Bratranek, Beiträge zur Ästhetik der Pflanzenwelt, [Leipzig], 1853. 16 Il merito di aver fondato l’estetica delle piante spetta propriamente a Jussieu [Adrien Henri Laurent de Jussieu, Die Botanik, Stuttgart, 1844], con la sua ricerca sul tipo familiare, seguita poi da quella di A. von Humboldt, Ideen zu einer Physzognomik der Gewächse, Tübingen, 1806. Un manuale di stampe delle piante velenose in cui si può avere una panoramica delle loro forme e colori più notevoli, a volte incantevoli è Giftpflanzenbuch, di [Friedrich] Berge e [Victor Adolf] Riecke, Stuttgart, 1850 2 . Che le piante velenose si tradiscano per il loro fetore è vero solo in maniera molto limitata: bacche, ciliegie e allori che contengono veleni fortissimi hanno un ottimo profumo. Per la preistoria, la differenza tra piante ed animali è che anche le piante preistoriche sono belle, anzi sublimi. Si confronti Urwelt di Unger, portato a compimento da Kuwasseg secondo l’indicazione dell’autore [Franz Unger, Die Urwelt, Wien, 1851]; ne ho dato un sommario in “Deutsches Museum” di Prutz, i (1852), pp. 62-69. 17 Nelle Fleurs animées, Grandville sottolineò per primo il tratto comico della barbabietola e della canna da zucchero; successivamente Barn lo fece – ma con ineguale risultato, ci sembra – con le cucurbitacee e le rape.


18 L’estetica degli animali è ancora molto indietro rispetto a quella delle piante. Eccettuato il sopra lodato saggio di Vischer non potrei citare nessun lavoro importante che si sia innalzato, su questo argomento, fino a toccare punti di vista più generali. Il Versuch einer allgemeinen Thierseelenkunde ([Stuttgart und Tubingen], 1840) di [Peter] Scheitlin mi pare ancora la miglior cosa proveniente dal campo scientifico, altrimenti bisogna risalire alla storia degli animali di Aristotele. 19 Daub, Judas Jscharioth oder das Böse im Verhältniss zum Guten, Heidelberg, 1818, p. 350 ss. A p. 352 si legge questo brano di centrale importanza: «Ad esempio la morte violenta di un intero regno animale che un tempo sprofondò nei flutti non è meno violenta – e quindi meno innaturale – per il fatto che quel mondo era nato come per esperimento, e dopo che i flutti si calmarono trovando i loro canali e bacini ha fatto posto in terra – quasi seguendo un piano intenzionale e previsto – a un altro mondo animale e forse alla stessa specie umana. Vi ha dato però l’occasione di soddisfare, studiando gli scheletri di questi animali primitivi, la vostra curiosità e di acuire il vostro spirito. Il fatto che anziché sopravvivere siano stati annegati, soffocati o uccisi in qualunque altro modo può aver avuto il suo buon motivo; nondimeno il loro sterminio rimane un assassinio che avvenne a causa dell’innaturale presente in natura, ma non per mano della natura stessa e tantomeno della divinità. La stessa perfida violenza che là (v. Luca 8,33) affogò in acqua un branco di scrofe, qui precipitò le acque sui vostri mammut e orsi delle caverne, megateri e altri bestioni simili. Ed è proprio essa, che spia stando in agguato in ogni elemento, non l’elemento in sé, a metter ancor sempre e continuamente a repentaglio – come insegnano


terremoti, inondazioni di località e altre calamità – la vita degli animali, le opere umane e anche la vita di questo re della terra fornito di raziocinio e libertà, giacché, per dirla con il poeta, “che nome di re interroga il ruggito delle onde in tempesta?”. La natura ha i suoi orrori, ma ciò che in essa suscita orrore non è né la natura stessa – un’opera dell’eterno amore – né il soprannaturale – l’eterno amore; e se vi manca la fede nella potenza divina che minaccia il vento e il mare facendoli acquietare (Matteo 8,26) la sostituirà l’idea della necessità fisica del cosiddetto male fisico? O vi sentite così sicuri che quegli orrori non vi tocchino?». Nel saggio Über die Verklarung der Natur (Studien, 1839, i, p. 155 ss.) ho cercato di replicare a questa teoria e ho affrontato il punto relativo al brutto, per quanto rientrava nell’argomento, alle pp. 185-192. 20 [È il geologo e geografo austriaco Ami Boué, autore di numerosi resoconti illustrati di viaggio ed esplorazioni geografiche.] 21 Dalle stravaganze del principe di Palagonia vogliamo estrarre gli elementi della sua pazzia, come dice Goethe [nel Viaggio in Italia, Palermo, 9 aprile 1787]: «Esseri umani: pezzenti maschi, pezzenti femmine, spagnoli, spagnole, mori, turchi, gobbi, storpi d’ogni tipo, nani, musicanti, pulcinella, soldati con antichi costumi, dèi, dee, personaggi vestiti alla vecchia moda francese, soldati con giberne e uose, mitologia con citazioni caricaturali; Achille e Chirone con Pulcinella. Animali: solo loro parti, un cavallo con mani umane, testa di cavallo e corpo di uomo, scimmie deformi, molti draghi e serpenti, tutti i tipi di zampe in forme d’ogni tipo, animali doppi, scambi delle teste. Vasi: tutti i tipi di mostruosità e ghirigori che terminano in basso in vasi panciuti e piedistalli. Si


pensi ora a figure del genere fabbricate in gran quantità e sorte in modo del tutto insensato e inintelligente, e inoltre raccolte senza scelta e senza riflessione, si pensi a questi piedistalli, zoccoli e deformità in una serie a perdita d’occhio e si potrà condividere il sentimento spiacevole che coglie chiunque venga condotto per questi germogli di follia. Ma l’insensatezza di questa mentalità priva di gusto si manifesterà al grado estremo nel fatto che le modanature degli edifici minori pendono per obliquo dall’una o dall’altra parte, cosicché il senso dell’equilibrio e della perpendicolarità – quello che propriamente ci rende uomini e sta alla base di ogni euritmia – viene spezzato e molestato. Anche le cornici del tetto sono fregiate di idre e piccoli busti, cori di scimmie musicanti e simili follie. Draghi che si alternano a divinità, un Atlante che regge una botte anziché la sfera celeste. Se si pensa di salvarsi da tutto questo entrando nel castello – che, edificato dal padre, ha un aspetto esterno relativamente ragionevole – si trova non molto distante dal portone la testa coronata d’alloro di un imperatore romano sopra una figura di nanerottolo, che siede su un delfino». 22 Secondo lo studio di [Konrad] Lewezow [Über die Entwicklung des Gorgonen-Ideals in der Poesie und bildenden Kunst der Alten, Berlin, 1833] sull’ideale gorgonico, lo sviluppo della Gorgone ebbe tre momenti. All’inizio era un volto di animale; divenne poi una maschera mugghiante, e infine un volto umano, la cui bellezza perse via via il suo carattere, alludendo all’elemento meduseo soltanto attraverso gli attributi dei capelli e delle ali. La φοβερὰ χάρις che ammiriamo nella Medusa Rondanini, alla fine scomparve.


23 A. Feuerbach, Der Vaticanische Apollo. Eine Reihe archäologisch-ästhetischer Betrachtungen, Nürnberg, 1833. Feuerbach, deceduto da poco, fa derivare una dimostrazione di centrale importanza dal fatto che la maggior parte delle opere fuse in una materia malleabile come il bronzo, e che potevano valorizzare la piena libertà del maestro, sono andate perdute, p. 75: «Se ci fossero ancora conservate le statue bronzee di atleti e lottatori che popolavano il recinto sacro di Olimpia, o anche solo gli originali marmorei delle Tiadi e danzatrici i cui deboli riverberi sui rilievi e le mediocri pitture parietali ancora ci incantano, a noi si aprirebbe una fonte totalmente nuova di meraviglia, ci stupiremmo della maestria di quegli artisti, che pienamente consapevoli della loro sicurezza potevano osare, ed effettivamente osarono, il grado estremo dell’arte. Sapremmo essergli grati del fatto che non si sono accontentati di rimanere con cautela, temendo ogni più libero moto, entro i confini stabiliti della plastica pura. Avremmo seguìto con gioia l’artista che osa una via vertiginosa fino alla vetta estrema della sua arte e depone lo scalpello solo quando lo respinge la deformità caricaturale della natura inanimata o quando la Grazia – questa nemesi dell’arte – impone a lui, plasmatore dei suoi dèi, di fermarsi. Nulla era più estraneo, all’artista greco della morte, della quiete egiziana». 24 [Polygnots Gemählde in der Lesche zu Delphi, apparso nel 1804 nella “Jenaische Allgemeine Litteraturzeitung”.] Stimolato dai disegni dei fratelli Riepenhausen [Peintures de Polygnote a Delphis dessinées et gravées d’ après la description de Pausanias par Franz et Johann Riepenhausen, 2 voll., Rome, 1826-29], Goethe si è molto dato da fare per classificare i dipinti di Polignoto nel Pecile ateniese e nel Portico di Delfi. Essi rappresentavano una


specie di panorama epico. Dalle descrizioni che ci sono conservate, per quanto imperfette, si riconoscono sempre i soggetti e si vede che non escludevano lo spaventoso. Le idee correnti, che derivano da Winckelmann e Lessing, sulla delicatezza con cui l’arte figurativa avrebbe evitato il brutto, qui non bastano più. Taccio dei corpi sminuzzati, fatti strame nelle greppie ai cavalli sotto la paglia, e simili, dal resoconto che Pausania dà del dipinto del Portico di Delfi, che rappresenta la discesa di Odisseo agli inferi, voglio citare solo qualcosa di meno terribile: «Tra le fauci di Caronte un figlio parricida viene strangolato dal proprio padre. Lì accanto si punisce un ladro sacrilego. La donna a cui vien consegnato sembra conoscere assai bene tutti i farmaci e i veleni con cui si uccidono gli uomini. Tra di essi si vede Eurinomo, una delle divinità degli inferi. Si dice che sbrani la carne dei morti lasciando solo le ossa. Qui è rappresentato di color bluastro. Mostra i denti e siede sulla pelle di una fiera...». 25 I passi a cui si allude nel testo sono stati citati abbastanza spesso, però non possiamo fare a meno di citarli ancora una volta, per il loro carattere di importante autorevolezza. Aristotele, Poetica, v: ῾Η δὲ κωμοδία ἐστίν, ὣσπερ εἴπομεν μίμησις φαυλωτέρων μέν, οὐ μέντοι κατὰ πᾶσαν κακίαν, ἀλλὰ τοῦ αἰσχοῦ ἐστι τὸ γελοῖον μόριον. Τὸ γὰρ γελοῖον ἐστίν ἁμαρτημά τι καί αἶσχος ἀνώδυνον καί οὐ φταρτικόν, οἶον εὐθὺς τὸ γελοἶον πρόσωπον αἰσχόν τι καί διεστραμμένον ἂνευ ὀδύνης. E Cicerone, De Oratore, ii, 58: «Locus autem et regio quasi ridiculi – nam id proxime quæritur – turpitudine et deformitate quadam continetur. Hæc enim ridentur vel sola vel maxime, quæ notant et designant turpitudinem aliquam non turpiter». 26 [Settimanale pubblicato dal 1786 al 1789.]


27 Per questa distinzione lo scritto principale di Platone resta il Filebo. Altrove egli mostra che il bello è più che un piacere utile, più di quel che suscita amore più dell’adeguato allo scopo; ma nel Filebo, lo determina in modo positivo. Qui per lui il concetto fondamentale è la misura. Per la forza della causa originaria, nella natura di Zeus devono esserci un’anima e una ragione regali. Dallo spirito dunque, e dall’anima regale di Zeus, scaturisce ogni ordine e prende origine ogni ordinatore; sicché non possiamo essere in imbarazzo nel determinare la patria della misura, del numero, della determinazione (πέρας), del concetto o dell’idea delle cose: la misura, μέτρον, è qui per Platone la prima cosa. La seconda, che riposa su questo eterno fondamento, è per lui τὸ σύμμετρον καὶ καλὸν τὸ τέλον καὶ ἱκανὸν καὶ πάνθ᾽οπόσα τῆς γενεᾶς αὖ ταύτης ἐστίν. Perciò altrove definisce il brutto (δυσειδές) ciò che sempre e dovunque, πανταχοῦ, appartiene al genere della ἀμετρία. Si confronti A. Ruge, Die Platonische Ästhetik, Halle, 1832, pp. 22-60, e E. Müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, vol. i, Breslau, 1834, pp. 58-72. Müller fa notare in modo particolare, per il concetto di armonia e disarmonia, che secondo il Filebo 25 D-E, 26 A, bisognerebbe ulteriormente distinguere ἡ γέννα τοῦ πέρατος, l’ἴσος e διπλάσιον, l’unione degli opposti, i ἡ ὀρθή τοῦ πέρατος καὶ ἀπείρον κοινωνία, dal semplice concetto di misura. 28 [Der Sammler und die Seinigen apparso nel 1799 nei “Propyläen”.] In questo saggio intitolato Der Sammler und die Seinigen Goethe ha trattato in sostanza l’antitesi tra idealisti e caratteristi – come si diceva allora – ponendo come risultato di un dibattito che oscillava ora da una parte ora dall’altra il seguente schema: (1) serietà da sola; tendenza individuale: maniera (a)


imitatore, (b) caratterista, (c) artista in piccolo [o anche: (a) copisti, (b) rigoristi, (c) miniaturisti]; (2) gioco da solo; tendenza individuale: maniera (a) fantasmisti, (b) ondulisti, (c) schizzisti [o anche: (a) immaginifici, (b) tortuosi, (c) ideatori]; (3) serietà e gioco assieme; cultura generale: stile (a) verità artistica, (b) bellezza, (c) perfezione. 29 [È la scuola pittorica dei cosiddetti “Nazareni” (Overbeck, Cornelius, Schnorr ecc.), che si ispiravano a forme e temi del medioevo cristiano.] 30 [Questa caratterizzazione del genere epico è presente sia in Friedrich Schlegel (ad es. nella Geschichte der Poesie der Griechen und Römer del 1798, dove la procedura epica è contrapposta in questo senso a quella della tragedia, caratterizzata da rigida unità) sia nelle Wiener Vorlesungen di August Wilhelm Schlegel.] 31 [Traduzione delle opere di Aristofane di J. G. Droysen: Aristophanes Werke, in 2 voll., Leipzig, 1838.] 32 Rane, 1211 ss. 33 [Si allude alla pseudocronaca satirica A History of New York (1809) e a The Legend of Sleepy Hollow (1820) e Rip van Winkle (1819). La prima opera era stata tradotta in tedesco nel 1825, 1829, 1851; la seconda nel 1825; la terza nel 1826.] 34 [In realtà nell’Introduzione al Phantasus, dove l’arte dei giardini è più volte oggetto di conversazione soprattutto in rapporto alla moda del parco all’inglese, l’«esagerato gusto barocco olandese» è giudicato assai severamente, mentre vengono lodati nei termini ricordati da Rosenkranz i parchi di Roma e «di alcune contrade italiane», e in particolare Villa Borghese. Lenôtre è André Le Nôtre (1613-1700), a cui si deve la creazione del cosiddetto giardino “alla francese” classico. Eseguì progetti in Francia,


Inghilterra, Italia: suo è il parco di Versailles e a lui si deve la trasformazione dei giardini delle Tuileries come pure, in Italia, la progettazione del giardino del Palazzo Reale di Torino.] 35 Questo singolare castello è riprodotto su cinque fogli in J. Gailhabaud, Denkmäler der Baukunst. Unter Mitwirkung von Franz Kugler und Jacob Burckhardt, a cura di L. Lohde [Hamburg, 1842-52], vol. iii (Denkmäler des Mittelalters, Sechste Abteilung). Questa raccolta, in sé molto istruttiva ed elegante, è condotta purtroppo dall’angusto punto di vista francese. Lo stile architettonico celtico, romano, romanico e italiano vengono privilegiati in modo eccessivo, mentre sono trascurati del tutto momenti di sviluppo artistico straordinariamente importanti, ad esempio l’architettura dell’ordine tedesco. Il castello Meilhant è molto interessante ma può essere paragonato – e non alla lontana – con il Castello di Marienburg, che invano si cercherebbe in questa raccolta. 36 [Con il termine Bardiet Klopstock traduce il barditus (canto dei bardi) di Tacito.] 37 [Sic: The disformed transformed, 1824.] 38 [Di El mágico prodigioso di Pedro Calderòn de la Barca era apparsa una traduzione tedesca di J. Gries nel ii vol. dei Schaüspiele, Berlino, 1816. In Germania quest’opera era stata discussa da Lessing, Herder, Goethe e poi dai romantici.] 39 [Robert le Diable è il libretto di Eugene Scribe per l’opera omonima di Giacomo Mayerbeer, rappresentata la prima volta a Parigi nel novembre 1831. Alla prima stesura del libretto aveva cooperato Germain Delavigne; Rosenkranz fa riferimento (vd. p. 104) alla traduzione tedesca di Theodor Hell, Berlino, 1832.]


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