In uscita il 28/7/2023 (15,90 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2023 (5,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
EUGENIO ZINI QUANDO SI ANDAVA IN TOPOLINO ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ QUANDO SI ANDAVA IN TOPOLINO Copyright © 2023 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-618-6 Copertina: Immagine proposta dall’Autore Prima edizione Luglio 2023
A mamma Adriana e papà Angelo, a nonna Amedea e agli zii.
5 PREFAZIONE Venerdì, 29 Aprile 1949 ore 12:00 Ospedale Sant’Orsola - Bologna. Quello stronzetto che non ne voleva sapere di nascere, ero io. Che aveva provocato alla sua mamma tanti dolori e molti punti di sutura. Quello stronzetto che, per questa sua ritrosia a venire al mondo, era stato tirato ed estratto con il forcipe, quasi cianotico, con le manine viola serrate dalla rabbia. Uno stronzetto lungo e pelato, e anche un po’ bruttino. La mamma e io rimanemmo una decina di giorni in ospedale: io sotto osservazione, e lei si dovette riprendere dalla forte febbre che le era venuta. Così piccolo, e avevo già procurato dei problemi… Non voglio raccontare qui la mia vita, che forse non riscuoterebbe un grande interesse: soltanto alcuni frammenti, desiderando parlare delle persone che ho conosciuto e hanno condiviso un lasso di tempo della mia infanzia. È difficile per me ricordare i tanti avvenimenti di quel periodo così lontano; ma è altrettanto difficile dimenticare i più rilevanti. Il lettore quindi mi perdonerà, se per alcuni anni riporterò un minor numero d’informazioni, rispetto ad altri, ben più presenti e più densi di notizie nella mia memoria altalenante. Parlerò soprattutto degli amici che ogni giorno giocavano con me in cortile; mentre quelli che vi si recavano saltuariamente non saranno citati in questo racconto. Se sarò in grado di risvegliare nella mente di chi è stato bambino come me in quegli anni, alcuni ricordi, ne sarò felice. Ho cercato di scrivere i dialoghi in modo realistico, a volte in dialetto, ma con la stessa semplicità espressiva usata in quel tempo, da persone non acculturate ma generose, e dal cuore caldo.
6 MAGGIO 1949 Mamma Adriana fu molto contenta di tornare a casa, e si riprese abbastanza in fretta. Solo in quel momento si rese conto, con la famiglia aumentata, di quanto lo spazio in quell’angusto appartamento in affitto, si fosse ridotto. Una camera e cucina per noi quattro, con un bagno in comune con altre due famiglie, non era certo il massimo del comfort! «Eh bén, ma Eugenio ha gli occhietti azzurri come quelli di suo nonno Eugenio! Speriamo che non cambino colore, come capita ai neonati. Ma, per carità, che non prenda il suo stesso vizio!» esclamò nonna Amedea, la mamma di mio padre Angelo. «Eugenio? Vizio?» chiese la mamma. Il papà intervenne, impedendole di proseguire: «Sì, va bene mamma, lo chiameremo Eugenio, come il mio povero babbo e come Papa Pacelli. Sarà di buon augurio: in greco significa “ben nato”, “buona stirpe”.» La mamma mi rivelò che all’inizio non le piaceva, e le occorse tempo per abituarsi a chiamarmi così. Confesso che anche a me, da bambino, il nome che per volontà della nonna mi era stato affibbiato, non andava giù. Ora ho avuto tutto il tempo per abituarmi, e dopo più di mezzo secolo, devo ammettere che mi piace proprio. Quanto al vizio accennato dalla nonna – quello del bere – be’, non l’ho mai avuto. «No, nonna, mi dispiace averti dato una delusione, non ho gli occhi azzurri come quelli della famiglia del nonno Eugenio. Anzi no, ne sono ben contento, e per fortuna… poiché erano quasi tutti ipovedenti e con grossi problemi visivi.» Le ho detto in seguito. I miei occhi, infatti, cambiarono presto colore, e da ceruleo indefinito divennero verdi.
7 ESTATE 1952 Ricordo poco o nulla dei miei primi due anni di vita: 1950 e 1951, ed è normale. Dal terzo anno, però, già intravvedo tante piccole immagini, come dei flash: di visi, luoghi, e con la memoria olfattiva, percepisco anche alcuni odori e profumi. A tre anni crescevo molto in altezza, mangiavo poco, ero mingherlino, e spesso con problemi alla gola. Mia madre, preoccupata, decise di portarmi dal medico di famiglia: il dottor Nepoti, che aveva l’ambulatorio entro porta, in via San Felice. Allora non si parlava di pediatra. Era un uomo robusto, e lo ricordo seduto alla sua scrivania, in camice bianco, con occhiali dalle lenti spesse, e teneva davanti un posacenere pieno di cicche di sigarette; mentre ne stringeva una sempre accesa fra le dita ingiallite. Non per nulla, qualche anno dopo, gli venne un infarto, dal quale poi si riprese, e si mise anche a giocare a tennis. «Signora, Eugenio ora non manifesta sintomi di malattie gravi, ma è troppo gracile, e potrebbero anche sopraggiungere.» «Sopraggiungere?» chiese mia madre, preoccupata. «Sì, mi spiego meglio: occorre intervenire subito, questo bambino ha assoluto bisogno di sole e aria buona, dovrebbe portarlo al mare.» «Be’, questo intanto costerebbe un bel po’, poi mio marito lavora, e c’è mia suocera…» «Allora accompagni lei il bambino.» propose il medico, per poi proseguire in tono più morbido: «Senta, io le ho solo consigliato ciò che gioverebbe alla salute di suo figlio, al suo posto, io ci andrei.» Mia madre annuì. «Ah, dottore, ha ragione. Proverò questa sera a parlarne con mio marito.» Durante il tragitto di ritorno, poche fermate con il tram, credo che la mamma fosse assillata da tanti pensieri, soprattutto quello di dover rendere conto alla nonna; poiché non passava nulla che lei non dovesse conoscere, e aggiungo, a volte anche approvare.
8 «Allora, che cos’ha Eugenio?» s’informò la nonna Amedea appena entrammo in casa. «Grazie al Cielo non è malato, ma il dottore ha detto che ha bisogno di mare.» «Il mare? Ah sì? Ma cosa crede? Quella è roba da ricchi! Io non ci sono mai andata.» commentò, mettendo il broncio. «Senta, nonna, qui non c’è da scherzare! Io voglio che Eugenio cresca sano, il resto non m’interessa.» «E a me allora non ha pensato? Io, che resterei a casa da sola, una povera vecchia!» «Non è ancora troppo vecchia, poi Angelo, anche se lavora, sarà comunque a casa.» «Ah, ma allora vuole andarci da sola? E poi…» «Ma, ma… un bel niente!» la interruppe mia madre. «Ho trentasei anni, e credo di essere in grado di badare a mio figlio! Questa sera ne parlerò ad Angelo.» Il papà, dopo qualche esitazione accondiscese, e così decise di accompagnarci al mare. Era domenica 6 luglio, e salimmo in treno per andare a Rimini. Ricordo ancora lo stupore che provai girando per la stazione, con quei lunghi corridoi del sottopassaggio per arrivare al binario. Salimmo su un vagone di terza classe, e ci sedemmo su scomodi sedili di legno. Il rumore delle ruote sulle rotaie, lo stridio dei freni e il fischio della locomotiva li rammento ancora. Mi sentii cullare nel vagone in movimento, e quel mio primo viaggio mi piacque moltissimo. Arrivati a Rimini, prendemmo un mezzo pubblico e andammo nella frazione San Giuliano. Il piccolo appartamento che mio padre aveva affittato per un mese, era al primo piano di una palazzina: composto da una grande cucina con un sofà, una camera con un letto matrimoniale con a fianco un lettino, e un bagno. Nel cortile c’era un lavatoio e accanto una grande vasca, dove i proprietari della casa allevavano dei pesci e io a volte mi fermavo a guardarli. La mamma era sempre vigile per il timore che ci finissi dentro. Non aveva tutti i torti: ero un bambino sbadato, tanto che spesso cadevo e mi sbucciavo le ginocchia. Molte volte la mamma mi evitava capitomboli quando inciampavo, sostenendomi per un braccio.
9 Alla stazione di Bologna si unì a noi anche mia cugina Robertina di sei anni, che abitava in campagna. I miei genitori avevano pensato che il mare avrebbe giovato anche a lei, e insieme ci saremmo fatti buona compagnia. Il papà sarebbe venuto a trovarci la domenica, e il lunedì mattina presto sarebbe rientrato a Bologna con il treno. Da poco tempo lavorava in proprio come artigiano elettricista, e non poteva assentarsi dal lavoro. La città in quel periodo era tutto un cantiere aperto: ovunque vi era la frenesia di ricostruire e ristrutturare, così la sua attività era molto richiesta. In via Vittorio Veneto, la mamma acquistò dalla merciaia un costumino per me, tipo pagliaccetto, mentre Robertina ne indossava uno intero di lana a righe, con le bretelle, simile a quello della mamma. Portavo anche un berretto bianco con un sottomento in cordella di cotone, e in cima vi era una specie di grande occhiello. In quel mese di luglio c’era sempre stato il sole, così di mattina la mamma ci accompagnava al mare, che distava circa una sessantina di metri. Era consuetudine portare presto i bambini in spiaggia, e rientrare non oltre le 11:00, perché si pensava facesse troppo caldo, anche se in realtà la maggior ventilazione di solito arriva dopo. Un altro tabù dell’epoca era di tenere in acqua i bimbi solo per pochi minuti, o quando comparivano sulle dita delle mani, delle piccole pieghe. Quando succedeva, mia madre ci riprendeva sempre: «Robertina, Eugenio, avete le rughe sulle dita, bisogna subito andare sotto la tenda!» Sì, la tenda, perché allora non c’erano gli ombrelloni. La mia prima disavventura estiva l’ebbi con una sedia sdraio di legno con tela rigata. Non ero mai salito su una sdraio. La prima volta che lo feci, approfittai del fatto che una vicina di tenda si era alzata lasciandola incustodita, e con un balzo ci salii sopra, restando intrappolato fra la tela e i legni, mentre quella si chiuse incastrandomi nel mezzo. Ci rimasi così male che non ebbi neppure la forza di piangere, soprattutto per la rabbia che provavo nel vedere che Robertina invece era scoppiata in una fragorosa risata.
10 Forse si è capito, ero un po’ geloso, innanzitutto perché lei era più grande, e poi perché le attenzioni della mamma non si concentravano soltanto su di me! Misi allora in atto una delle mie prime monellerie, o se vogliamo la mia prima vendetta. «Zia, zia, Eugenio ha distrutto il mio castello di sabbia! Ha aspettato che lo finissi, poi ci è saltato sopra!» si lamentò Robertina. Mia madre cercò di essere comprensiva: «Lui è piccolo, porta pazienza, non capisce.» Altroché se capivo! «Zia, zia, Eugenio mi ha tirato l’acqua salata negli occhi, adesso mi pizzicano tanto!» «Resisti, Robertina!» «Zia, zia, Eugenio mi ha tirato la sabbia negli occhi e non ci vedo più!» «Lui è piccolo, e non si rende conto.» «Uffa, ma allora anch’io sono piccola, però queste cose non le faccio!» In fondo, come darle torto, era lei che subiva le mie angherie. Chi lo avrebbe mai detto che crescendo, avrei provato grande stima e affetto per questa mia cugina, che per me è come una sorella. «Zia, zia, sono in bagno, e sono rimasta chiusa dentro.» Urli, colpi contro la porta e pianto isterico. «Stai calma, e prova a tirare il piccolo catenaccio verso destra.» «Qual è la destra?» «Quella verso il lavandino, provaci!» «È duro, non si muove.» «Ma quando hai chiuso però si muoveva… e perché ti sei chiusa dentro?» «Sì, prima sì. Uffa, non volevo che Eugenio mi vedesse in bagno.» Altro pianto. Ci volle tutta la pazienza di mia madre per trovare una soluzione, prima di chiamare i proprietari e magari far buttar giù la porta, con tutte le conseguenze che quello avrebbe comportato. «Tira la maniglia della porta un po’ verso di te, mentre spingi il catenaccio verso il lavandino.» «Toh! Zia, la porta si è aperta subito.» Lungo abbraccio, e sospiro di sollievo di mia madre. Non per me, perché speravo che restasse chiusa là dentro per tutta la vacanza.
11 *** La seconda domenica del mese, mio padre arrivò accompagnato in auto da un suo amico: Armellini, titolare di una tipografia a Bologna. Fui molto contento di rivedere il papà, perché fino ad allora non ci eravamo mai separati e per me quei sette giorni erano sembrati lunghissimi. «Quando viene il papà?» chiedevo. «Presto. Domenica» rispondeva la mamma. «E quand’è domenica?» «Fra pochi giorni.» Armellini era vedovo, con un figlio giornalista che viveva in Francia. Era un ometto con gli occhiali dalla sottile montatura d’oro, pelato con la testa a uovo, sempre elegante e profumato. Somigliava molto all’attore Suchet, l’odierno Poirot televisivo. Nella sua pronuncia spiccava distintamente il rotacismo della “R ovulare”, che allora veniva chiamata “R” moscia. Come francesista questo lo avrei appreso molto tempo dopo. Quell’uomo aveva un atteggiamento un po’ viscido, o forse voleva essere soltanto complimentoso? Capii solo in età adulta perché di tanto in tanto mi portava dei regali: uova di Pasqua, doni per Natale ecc, e sempre quando mio padre non era a casa. Mentre si poteva dubitare della sua moralità, a mia madre quel personaggio faceva proprio ribrezzo: sia per la sua persona, sia per il suo comportamento. Quella domenica, sapendo che c’erano due bimbi, portò in regalo due palloni: uno azzurro legato con una bacchetta di legno per me, e per mia cugina uno giallo a forma di papera, con le zampe di cartone, che appoggiato per terra si reggeva in piedi. Pensate che io avessi accettato di buon grado il pallone che mi era stato destinato? No, e poi no! Volevo a ogni costo la papera gialla. Ne nacque grande tensione in casa: mia cugina non avrebbe mai ceduto la sua papera, né io avrei accettato di accontentarmi del pallone azzurro. Solo quando mio padre, stanco dei nostri capricci, minacciò di bucarli entrambi, io mi arresi, ma tenni il broncio tutto il giorno.
12 La spiaggia era piena di bambini che giocavano con palette e secchielli. Alcuni ragazzi, seduti in cerchio, facevano uno strano gioco: si passavano uno zoccolo di legno ponendolo davanti a un amico alla propria destra, al ritmo lento di una strana filastrocca in dialetto Riminese, di poco senso. Si fermavano poi a ogni battuta, facendo una piccola pausa. Alla fine della filastrocca, faceva penitenza chi si trovava lo zoccolo davanti, poi si ripartiva da quel punto. Ne ricordo soltanto le prime strofe. Ho cercato notizie di questa cantilena, ma non ho trovato nessun riferimento. L’è l’ù / col pan / È l’uva / col pane che vien / da San Zulian / che viene / da San Giuliano. L’è la / barbera / de Zighìn / Zigòn È la / barbera / di Zighini / Zigoni. Col fric / e il frac / e il fron Non ha significato se non per la rima. Ovviamente volevo partecipare anch’io a questo gioco, ma ero troppo piccolo, e mia madre per distrarmi, mi comprò al chiosco un piccolo gelato di sola panna, da quindici Lire. *** La palazzina dove eravamo alloggiati aveva una mansarda, che dava su un ampio terrazzo, e vi si accedeva tramite una scala interna. Quel sottotetto era stato preso in affitto da una signorina francese, che ai miei occhi di bimbo appariva già vecchia, ma forse era soltanto una signora matura. Si chiamava Giselle, e molto probabilmente soffriva d’insonnia, poiché i proprietari riferirono alla mamma che spesso la sentivano zampettare per ore, di notte, in modo frenetico con gli zoccoli di legno, e a volte la vedevano sporgersi dal terrazzo. Penso che la causa fosse dovuta all’insofferenza per quel caldo opprimente. Una notte si udirono delle urla provenire dalla mansarda: «Au secours, au secours, police!»1 Mia madre si precipitò fuori, mentre Robertina e io per fortuna dormivamo. 1 Aiuto, aiuto, polizia!
13 Sul pianerottolo giunse anche una coppia di villeggianti, e i proprietari: i coniugi Tonti. «Allora, anche voi avete sentito le grida della signorina Giselle?» chiese Tonti preoccupato. «Sì, certo, ma chi va a vedere che cosa succede lassù?» esordì la mamma, mentre lo schiamazzo della zitella riprese con tono crescente. «Mò sòcmel!2 Ci vado io. Voi intanto, mettetevi al sicuro!» Raccomandò Tonti, arrampicandosi per la scala e brandendo un grosso coltello da cucina. Per qualche istante ci fu un silenzio preoccupante, poi seguì una sonora risata accompagnata da un pianto isterico. Tonti discese le scale ridendo. «Vuole spiegare anche a noi che cosa è successo, e che cos’era tutto quel putiferio?» chiese preoccupata la villeggiante. «Gnint, niente, la signorina Giselle è stata chiusa dentro la mansarda. Quando ha provato a uscire in terrazza, la porta era chiusa dall’esterno. Le ho aperto, la chiave è appesa fuori, forse se l’è scordata!» «Sarà stato un brutto scherzo.» aggiunse la mamma. «Di chi?» chiese la villeggiante «Vai te a sapere…» intervenne la signora Tonti. La cosa finì lì, e tutti tornarono a dormire. Un sospetto la mamma l’aveva: pensò che Tonti, stanco di quello zoccolare notturno e continuo, si fosse vendicato, e avesse lui stesso chiuso Giselle, per impedirle di uscire sul terrazzo. Comunque, non si è mai saputo chi fosse stato. Trascorsero alcuni giorni tranquilli. Noi tre andavamo in spiaggia: giochi con la sabbia, breve bagno, gelatino serale per noi bimbi, poi a letto presto. Mentre sul terrazzo, di notte, continuava senza tregua, il consueto e frenetico zoccolamento! «Ah, ma allora lo fa apposta!» si lamentò la mamma con la Tonti, poiché quello scalpiccìo notturno, l’aveva udito anche lei. Poi, una mattina, si udirono dei sonori berci che provenivano dal cortile. 2 Intercalare volgare “sòcmel” - pronuncia con C dolce come “cena”. Letteralmente succhiamelo” cioè “Accidenti!”.
14 «Oddio, bén ma è sempre lei, la Giselle.» si agitò Tonti, correndo giù per le scale. Sì, era proprio la signorina che urlava, accanto alla sua amatissima Citroën 2 cavalli rossa, con i parafanghi neri e lucidi. «Chi tirato une pastèque3, una pastecca, su capote de mia auto! Questo posto è l’enferno! Io va via!» «Che cosa dice? Una pasticca? Ma di quale pasticca parla?» «Non, non, pastecca, una pastecca!» urlò ancora, mostrando a Tonti dei pezzi sgocciolanti di cocomero, che erano stati gettati sulla capote della sua auto. «Va bene signorina, come lei desidera, se vuole andare, vadi pure!» “Tanto ci ha già pagato” aggiunse sottovoce alla moglie, che nel frattempo era sopraggiunta. «Oui, Sì, io va, va via.» Non ci mise molto a fare la valigia, e se ne andò facendo gestacci, che qui non riporto. Povera signorina Giselle! Mi fece quasi pena: sola, insonne, e quasi di certo anche sonnambula… «Senti, Eugenio, ieri sera hai buttato tu giù dalla finestra dei pezzi di cocomero?» interrogò la mamma. Io scossi la testa, con fare innocente. «No, no, il cocomero no, soltanto la buccia!» *** Si arrivò alla terza domenica di quel mese di luglio, la penultima, e mio padre venne a trovarci. A Bologna la nonna rimaneva sola, e già da sabato aveva cominciato con i suoi soliti e reiterati lamenti. «Domani vai pure al mare! Mentre io resto qui da sola, speriamo che non mi capiti qualcosa.» «Ma no, mamma, che cosa dovrebbe succedere? Stai bene, e poi io sono a casa tutta la settimana, è giusto che vada a trovare Adriana ed Eugenio.» 3 Cocomero.
15 «Sì, sì, bén, mò io non dico mica gnente… soul che se mé avanz qué da par mé, com un Pèpa ed stòc, pò a’m truvarî par tèra, com un straz dla polvår!4 «No, mamma, vedrai che starai bene, e non ti succederà nulla, cerca di star tranquilla!» I miei genitori e la nonna, fra di loro, si esprimevano sempre in dialetto bolognese, e con me in italiano. Nei discorsi fra adulti, i bambini presenti non partecipavano quasi mai. L’uso del dialetto era loro più congeniale e più libero, pensando che noi piccoli non fossimo in grado di comprenderlo. Il papà arrivò, come aveva promesso. «Zio Angelo.» esclamò Robertina, attirando la sua attenzione. «Guarda, sulla spiaggia ho imparato a fare le capriole!» Si gettò sul letto e si esibì in una perfetta acrobazia. «Brava, sei proprio brava!» esultò mio padre, con un sorriso. Io m’intromisi subito. «Anch’io, anch’io, papà, guardami!» «No, fermati!» Presi male la misura del letto, e mi catapultai oltre la sponda, sbattendo la fronte contro l’armadio. Breve pianto, ma non troppo, anche perché mi vergognavo dell’insuccesso. Leggera ramanzina, poi carta gialla, quella usata per alimenti, bagnata sulla fronte. Come risultato, un discreto bozzo violaceo, che però non sanguinava. «Senti Angelo, porta bén Eugenio un po’ al mare, io devo preparare il pranzo, e Robertina mi aiuterà in cucina. Arrivo alla fine della settimana che mi sento un po’ stanca. Non sembra, ma dover pensare a due bimbi è faticoso, poi ho dormito poco la notte.» Gli raccontò la storia dello zoccolamento di Giselle, che anche lei aveva udito. Il papà mi prese per mano, e mi portò al porto canale a vedere le barche. Che belle! Non le avevo mai viste. Restai incantato nell’osservare le vele variopinte, e i pescatori che muovevano le mani, con grande abilità, nel riparare le reti da pesca. Riesco ancora a percepire il fumo della sigaretta di papà, che si fondeva con l’aria fresca e la salsedine: era quasi un profumo piacevole, che mi 4 “Solo che se io rimango qui da sola come un Papa di gesso” (cioè come un ebete, inerme) poi mi troverete per terra, come uno straccio della polvere”. Evento mai accaduto, poiché la nonna è vissuta fino a 102 anni!
16 ricorda ancora la sua presenza tutte le volte che vado al mare e passo accanto a qualche fumatore. Quella sera mio padre ci accompagnò al chiosco dei gelati. «Tre gelati. Per Eugenio no, che oggi ha un po’ di mal di pancia.» consigliò la mamma. «Però gli potremmo prendere un bicchiere di acqua di seltz» Accettai di buon grado, anche perché vedere il seltziere di vetro con le scritte colorate, che spruzzava l’acqua con tante bollicine, che non avevo mai visto, mi piacque moltissimo. E l’acqua? No, no, l’acqua no, che mi parve proprio salata. Solo le bollicine, è ovvio. Da quel momento ho sempre coltivato la passione per i vari modelli dei vecchi seltzieri di diversi colori, con stupendi disegni e scritte: dei veri capolavori dell’arte del vetro. In casa ora ne ho tre: uno rosa – tra i più rari – uno azzurro, e uno verde; acquistati a Budapest da mia moglie per farmi un regalo. *** L’ultima settimana al mare passò senza grossi contrattempi: avevo imparato a convivere con mia cugina e non le facevo più i dispetti, salvo qualche piccola tirata di capelli, che allora aveva belli e lunghi. Ne ero geloso! Be’, sarà perché prima di partire per le vacanze, i miei mi avevano fatto rasare a zero: «Così si rinforzano e ricrescono meglio, vedrai!» Infatti il berretto di cui ho parlato all’inizio, non serviva solo per il sole, ma anche per coprire la pelata di cui mi vergognavo. Se solo i miei mi avessero imbottito di vitamine… ma chi ci pensava a quei tempi? Arrivò l’ultima domenica del mese, mio padre tornò a trovarci e, tutti insieme, saremmo ripartiti per Bologna il giorno seguente. Verso le 10:00 il papà volle noleggiare un moscone (patìno) e, da bravo rematore, ci portò appena un po’ al largo. Io ero felicissimo: non avevo mai provato l’ebbrezza di galleggiare sull’acqua, e vedere la spiaggia a distanza da un’altra prospettiva. Mi prese una grande smania, e invece di stare seduto, iniziai ad agitarmi, volevo remare io. «Stai fermino, altrimenti ci rovesciamo, solo il papà sa nuotare!»
17 Per un po’ mi calmai, poi fui colto di nuovo dall’impazienza. Mi alzai di scatto e tentai di afferrare un remo, in quel punto eravamo fermi e mio padre li aveva lasciati liberi. Tanto feci, che scivolai in acqua, cadendo dallo spazio vuoto, al centro del moscone. Mio padre ebbe una grande prontezza di spirito, si tuffò e riuscì ad afferrare il robusto occhiello del mio cappellino, prima che potessi finire sul fondo. La profondità del mare in quel punto, ho poi stimato che potesse essere all’incirca di sei metri. Fu una tragedia evitata! Bevvi un bel po’ ma per fortuna, una volta riportato sul moscone, la vomitai subito, emettendo dei convulsi colpi di tosse, mentre mia madre mi picchiettava sulla schiena. «Mai più, eh?» «Mai più, papà!» promisi, mentre la mamma si mise a piangere. Da quel momento non ho avuto molta dimestichezza con l’acqua, e ora so nuotare a malapena. Quel berrettino bianco, che Robertina per farmi dispetto chiamava il tortellino, e la prontezza del papà, mi avevano salvato la vita. Al nostro rientro la nonna Amedea fu molto contenta di rivederci, anche se, trascorsi i primi istanti d’entusiasmo, iniziò a elencare una sequenza d’inconvenienti che nel frattempo le erano accaduti; tutti di poco conto, di cui riporto solo il più importante… «Pensate che ho dovuto prendere ben due pilloline di Brera,5 che poi non mi hanno neanche fatto effetto! Eh, sì, sì, ridete pure voi, ma quando avrete la mia età, ve ne accorgerete!» 5 Antico lassativo fatto di piccole pillole nere, come grani di pepe, prodotto a Milano fin dal lontano 1699.
18 CHE ANNO MEMORABILE IL 1953! In quell’anno sembra che fosse accaduto proprio di tutto. Di alcuni sensazionali avvenimenti se ne occupava sempre la nonna, che leggeva il quotidiano “Il Resto del Carlino” di Bologna, e a volte il settimanale illustrato “OGGI”, poi li raccontava, un po’ a modo suo all’ora di pranzo, o li commentava con la signora Adelma, un’anziana amica della mamma che spesso veniva a trovarci, autoinvitandosi a prendere il caffè. Da qualche tempo in famiglia si respirava aria di trasloco, anzi, direi che forse non si parlava d’altro. «Sai Eugenio.» disse un giorno la mamma «andremo nella casina nuova, là nel palazzo dove abita la signora Adelma, e anche il tuo amico Vittorio. Sei contento, vero? Pensa che al primo piano del 101 è nato anche il famoso cantante Giorgio Consolini!6» “Amico Vittorio? E chi lo conosce? Consolini, e chi è?”, pensai. «Sì, mamma.» Che cosa avrebbe potuto dire, se non assentire, un bambino di quattro anni che non aveva ancora iniziato ad assaporare la propria infanzia come gli altri bimbi; perché sempre vissuto in casa: diviso fra mamma e nonna, fra cucina e cesso? A me sarebbe andato bene tutto, e qualsiasi commento avessi fatto, avrei ricevuto dalla nonna la solita risposta, con la classica alzata di spalle: «Ma che cosa vuoi sapere te, che non sai neanche “pappa fredda!”7.» «Poi.» continuò la mamma «da lassù si vede un bel panorama, anche la Basilica di San Luca in fondo, sulla collina, e potrai giocare in cortile con gli altri bimbi della tua età!» In quel momento pensai: “Giocare, e come si fa?”. 6 Giorgio Consolini cantante melodico (Bologna, 28 agosto 1920 – Bologna, 28 aprile 2012). 7 Modo di dire: non sai niente!
19 In quei primi quattro anni ero sempre stato in casa e non avevo amici. Mio padre di solito rincasava tardi, la mamma e la nonna invece, erano sempre presenti. Il mio passatempo preferito era correre per casa, ossia nel poco spazio a mia disposizione, con un vecchio triciclo usato e arrugginito. Fu un utile regalo di un amico di mio padre, che se ne era voluto disfare, il giorno dell’Epifania del 1953. A volte costruivo un altarino su una sedia con alcuni santini, e fingevo di essere un prete mentre celebrava la Messa. Poiché con la mamma tutte le domeniche partecipavo alla funzione in chiesa, questa mia rappresentazione simulava uno dei miei pochi momenti di vita all’esterno. Non ero mai stato seduto o sdraiato sul pavimento. «Il pavimento è freddo, ti sporchi, e poi per terra ci stanno soltanto i maiali. Non vorrai mica prendere i reumatismi come me?» Questo era il refrain della nonna, se solo mi scorgeva a piegare le ginocchia. Ah, cara nonna Amedea! Solo dopo aver conosciuto in età adulta le fasi e le vicissitudini della tua lunga vita, posso capire certi tuoi atteggiamenti che agli occhi di un bambino risultavano rigidi e incomprensibili. Amedea Minarelli – all’anagrafe Medea – era nata nel quartiere Croce, classe 1876, minore di undici figli, ebbe un’infanzia triste e misera, e in seguito una vita travagliata, segnata dal dolore e dalle fatiche. All’età di otto anni, dopo la seconda elementare, fu sottoposta al duro lavoro nella Filanda, in località Croce, a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna. Là avveniva la lavorazione della canapa, e la fabbrica disponeva per quei tempi, di moderni macchinari di fabbricazione inglese, e anche l’assistenza tecnica era fornita da capi fabbrica inglesi. In modo particolare la nonna si ricordava di un anziano omone con i baffi, la cui ferocia era nota a tutti: era il terrore dei poveri operai, e soprattutto di tanti bambini. «Sai Eugenio, non sono mica stata fortunata come te.» ripeteva spesso la nonna «a otto anni ho dovuto abbandonare la scuola perché ero povera, ho fatto solo la seconda elementare, ma so leggere e scrivere, che ai miei tempi era già tanto. La maestra Simoncini, vedi, il nome me lo ricordo ancora… quando la salutai piangendo, nel giugno del 1884, disse ai miei genitori: “Ma che peccato, perché è una bambina molto brava, mi
20 dispiace proprio che debba lasciare la scuola!”. Be’, ne è passato di tempo da allora! «In Filanda, le mie piccole mani si riempivano di tagli e di piaghe che mi facevano molto male, e se per un momento mi fermavo, l’omone inglese che girava sempre fra i macchinari, e i tavoli, con un frustino fatto con la canapa, percuoteva chi parlava, o chi si distraeva anche solo per un momento; se poi cercavamo di fuggire, ci rincorreva ancora più arrabbiato, ed era peggio… Non c’era giustizia, non c’era pietà, e quanti pianti facevo! E non potevo neanche raccontarlo a casa, per paura di ricevere botte anche lì. Sono sicura che mi avrebbero risposto: “Se ti hanno picchiata, vuol dire che te lo meritavi, ti sarai comportata male!”» Da notare come la tanto rinomata Filanda, vanto del progresso industriale bolognese e italiano, fra le prime in Europa, produceva profitti sfruttando il lavoro minorile. Oggi, leggendo alcuni articoli di giornale che ricordano con una punta di orgoglio, e quasi con rimpianto quel periodo “d’oro” della nascente economia italiana, inorridisco, e poi lì si parla di “lavoro minorile di ragazzi dai tredici ai quindici anni.” La mia povera nonna, però, aveva appena otto anni. La sua giovinezza non fu certamente più serena. Rimase vedova all’età di trentadue anni, con mio padre di sette, e un figlio morto di nefrite all’età di due anni. Mi perdoni Giobbe se lo cito, ma anche tanti altri, non noti come lui, hanno dovuto sopportare tante avversità. Così giovane, e già con una vita segnata dal lutto e dal dolore, trovò lavoro come cameriera presso il rinomato Istituto Ortopedico Rizzoli, mentre mio padre fu affidato a sua zia Norma – al secolo Maria Laura – cognata della nonna. Norma era un donnone con dei vistosi baffi scuri. Era molto severa e del tutto parziale a favore del figlio Vincenzo, avuto da una relazione precedente al matrimonio, e della stessa età di mio padre. Angelo invece non era altro che il figlio orfano di suo fratello Eugenio – mio nonno – e si doveva adattare! La storia si ripeteva sempre, proprio come nei fumetti. Da un lato c’era il cugino Gastone (Vincenzo), sempre fortunato, abbiente ed elegante, dall’altro il cugino povero e orfano, Paperino (mio padre).
21 Norma, aveva poi sposato un brav’uomo, bigliettaio presso il Teatro Comunale, a quel tempo una solida posizione. Si era preso cura anche di Vincenzo, adottandolo, e dandogli il suo cognome: Rocca. Il papà invece a nove anni iniziò a lavorare come aiutante dell’elettricista Spisni, molto conosciuto in città, e una volta diventato adulto, apprezzò tutti i sacrifici che aveva fatto perché aveva acquisito grande esperienza, tanto che la “Bologna bene” si rivolgeva a lui con grande fiducia. Il tempo passava e Vincenzo crescendo, conobbe Zumma8, una ragazza stupenda e grande fumatrice, e volle sposarla. La “cara” zia Norma chiese alla nonna in prestito tutti i risparmi di una vita di lavoro per acquistare un appartamento per Vincenzo e Zumma. Dopo qualche mese, cacciò di casa la nonna, dicendo che ai novelli sposi quella stanza sarebbe servita, poiché l’acquisto dell’appartamento era sfumato. Sonore balle! «Allora, rendimi i soldi che ti ho prestato.» protestò la nonna. «Adesso non posso proprio, ma non temere, te li restituirò un po’ alla volta.» Mio padre in quel momento si trovava a Tripoli in Libia per lavoro, e non poté intervenire, anche perché la nonna aveva agito di sua iniziativa, senza informarlo, per non preoccuparlo. Figuriamoci! Altro che agitazione quando lui tornò e si trovò a fronteggiare un’emergenza: senza una casa, e senza risparmi! Fu così che presero casa in affitto in centro, in via San Felice. Norma restituì poi il prestito… goccia a goccia. Nel dopoguerra la svalutazione aveva ridotto moltissimo il valore del denaro prestato: mentre prima quella somma poteva coprire il costo di un appartamento medio, poi la stessa cifra bastò appena per comprare quattro sedie spagliate, un tavolaccio con i tarli, una scansia senza ante, e due letti; ovviamente tutto di seconda mano. 8 Nome di origine araba che significa pace.
22 VIA AURELIO SAFFI, 81 I PIANO È lì che sono nato. La mia casa esiste ancora, e si trova appena fuori porta San Felice, nel quartiere che allora veniva chiamato: “Ford”. Di fatto si trattava soltanto di un piccolo rione, il cui nome era stato affibbiato dai suoi abitanti che lo avevano tramandato per consuetudine. Era stato tratto dal marchio delle auto americane in mostra presso il rivenditore ufficiale, che aveva la sede di fronte a casa mia. Lì c’era una lunga e bassa costruzione bianca con vetrate per l’esposizione delle auto, sormontata da una scritta a lettere cubitali fatte di pietra: Ford. La vecchia casa dove abitavo, al contrario della sede della Ford, è una delle poche costruzioni ancora rimaste di quel periodo. Nell’immediato dopoguerra, la richiesta di abitazioni dei senza tetto era tanta, poiché quasi la metà della case a Bologna era stata rasa al suolo dalle bombe. Fu per questo che il papà e la nonna avevano deciso di stabilirsi lì, e anche la mamma si accontentò di condividere, con un’altra coppia, un unico appartamento al primo piano. Un lungo corridoio conduceva alla cucina sulla destra, che fungeva anche da stanza da letto della nonna, e sempre sullo stesso lato c’era la camera dei miei genitori, dove dormivo anch’io, ai piedi del letto. Sulla sinistra del corridoio, si affacciava un’altra cucina che includeva una camera di un’anziana coppia senza figli: i simpatici Dante e Clara Bonioli. In fondo al corridoio, al centro, c’era il bagno comune, uno stambugio con terrazzino, un water e un minuscolo lavandino, che servivano a noi, ai Bonioli, e a un’altra coppia: un calzolaio e la sua compagna, che viveva in un monolocale sullo stesso pianerottolo, però fuori dal corridoio. Tutti gravitavano lì, e soltanto un semaforo avrebbe potuto gestire quell’andirivieni di pentole di acqua calda per piatti e water: sì perché le stoviglie sporche venivano lavate nell’unico lavandino esistente.
23 Ci sarebbe voluto un temporizzatore per scandire gli intervalli delle necessità personali. Di fatto era un continuo bussare alla sottile e fragile porta, al grido: «Faccia presto, che mi scappa!» A questo, si aggiungeva il timore che la mamma aveva quando vedeva aggirarsi “il calzolaio“, nel corridoio per andare in bagno, sempre con il suo inseparabile trincetto appeso alla cintura. Era il convivente della bionda e grassa signorina Rosina di Rovigo, una donnona matta: ricci e trucco, che farneticava sempre e che viveva nel monolocale. La paura della mamma era fondata, se si pensa che diverso tempo prima, il calzolaio aveva ucciso con il trincetto un rivale in amore. Aveva scontato la pena con parecchi anni di galera, ma questo non serviva a tranquillizzarla, e credo con giusta ragione, vista la promiscuità con cui si conviveva ormai da quattro anni. Si può soltanto immaginare, a questo punto, perché i miei sospirassero tanto la “casina nuova” e la nonna avrebbe avuto finalmente una camera tutta sua, all’età di settantotto anni. Queste però non furono le uniche ragioni. Una sera si presentò alla porta il padrone di casa che chiedeva un aumento dell’affitto, allora piuttosto caro per quelle due misere stanze e un bagno in condivisione. Mio padre glielo fece notare con garbo. Quell’energumeno, per tutta risposta, mi prese per un braccino, mi strattonò tirandomi vicino a lui, dicendo che mi avrebbe preso in ostaggio, se non gli avesse dato più soldi. Credo che a quel punto mio padre, che quando si arrabbiava diventava una furia, avrebbe ucciso a pugni quel farabutto, se non fosse intervenuta la mamma cercando di farlo ragionare per non correre rischi. Tutti sapevano delle collusioni mafiose di quel palazzinaro: un certo Cannata, che si era arricchito praticando il mercato nero in tempo di guerra. Per “il nostro quieto vivere”, come lei ripeteva sempre, i miei cercarono una diversa soluzione abitativa. Fummo fortunati, perché molto presto, si presentò l’occasione per cambiare casa.
24 MAGGIO 1953 Finalmente arrivò l’8 maggio, giorno in cui noi facemmo San Michele. Era antica consuetudine a Bologna, che l’8 maggio di ogni anno, scadessero i contratti d’affitto, e che molti traslocassero proprio in quel giorno. In bolognese si diceva “fèr Sanmichel”, ricorrenza dell’apparizione del Santo a un pastore del Gargano. In quel sospirato 8 maggio per la mia famiglia iniziò una nuova vita, anche se la mia infanzia proseguì in povertà, ma devo aggiungere anche nella spensieratezza. “Ma quale casina nuova?”, pensai. L’appartamento nel quartiere Santa Viola dove ci eravamo trasferiti, era situato al quarto piano, senza ascensore, di un grande palazzo, che proprio tanto nuovo non era, essendo del 1880, e al quale non era mai stato eseguito nessun tipo di manutenzione o ristrutturazione. Avevamo a disposizione due grandi camere, che erano state pitturate di fresco da mio padre: una di colore rosa per la nonna, e una verde per i miei e per me; la cucina, un vecchio gabinetto con lavandino. Non c’erano né vasca da bagno, né bidet – roba da ricchi – e gli ambienti erano senza riscaldamento e senza acqua calda. Nella cucina però c’era una stufa a legna e carbone, e un fornello a gas delle dimensioni di quelli odierni da campeggio: questi erano stati i nuovi acquisti del papà. Più che un vero appartamento si poteva definire quasi un sottotetto non mansardato, dal controsoffitto fatto di arelle9 e gesso. Le finestre erano piccole e il davanzale basso, quindi pericoloso per un bimbo della mia età. «Pensa.» esordì la mamma «ci sono ben ottanta scalini per arrivare su in casa, un po’ di ginnastica ci farà bene!» L’aveva detto in buona fede, non tenendo conto dell’età avanzata della nonna, né tantomeno della fatica cui mio padre si sarebbe sottoposto, per 9 Graticcio formato con fasci di sottili canne palustri impastate con il gesso.
25 portare in casa la legna e carbone per la stufa, con un’aggiunta di dieci scalini ripidi e sghembi, per raggiungere la cantina. Questo vecchio palazzo ha due porte – il civico 101 e il 99 – per un totale di ventisei appartamenti e sette negozi. L’intero fabbricato apparteneva a un quasi centenario capomastro che viveva con due figlie zitelle, racchie, e dentone… o forse erano solo le loro dentiere sempre in bella mostra; comunque fosse, ai miei occhi di bambino apparivano così. Quelle due carampane, Giuliana e Margherita Bartoletti, piene di prosopopea, che gli inquilini chiamavano le signorine o le padrone, in vita loro non avevano mai lavorato, ma sempre vissuto in modo agiato con la rendita procurata dagli affitti. Non si erano mai prese cura del palazzo, trascurando lo stato di degrado in cui versava: infiltrazioni d’acqua dal soffitto, con relative muffe, muri fatiscenti, intonaco che cadeva a pezzi e infissi che si sfaldavano. Qualcuno avrebbe potuto chiedersi come avesse fatto un semplice capomastro, che aveva avuto quattro figli, a possedere un grande immobile, e un altro appena un po’ più piccolo, dall’altro lato della strada. Questo lo appresi poco tempo dopo, poiché nel palazzo le chiacchiere correvano, e molto presto si veniva a sapere ogni cosa. Il vecchio Bartoletti non aveva mai sollevato una pietra, ma sapeva dirigere bene un cantiere e soprattutto aveva appreso come comandare gli altri. In gioventù era stato un uomo prestante poiché, piuttosto in fretta, era diventato l’uomo di fiducia, factotum e anche focoso amante della nota cantante lirica bolognese, il soprano BM, molto conosciuta anche all’estero. Come amante e confidente, l’aveva consigliata a investire grandi somme di denaro nella costruzione di case, e contemporaneamente aiutava anche se stesso. La cosa funzionava più o meno in questo modo: due carri di materiale edile andavano per le nuove costruzioni commissionate dalla cantante, e un terzo carro veniva dirottato nella zona dove doveva iniziare la propria fortuna, soprattutto quella delle due zitelle che avevano scelto di vivere con il padre, una volta rimasto vedovo, e gestire così l’intera “torta“ degli affitti!
26 Quella mattina dell’8 maggio, come d’accordo con il papà, il fattorino del falegname bussò. Aveva lasciato sulla strada il suo simpatico triciclo a pedali con cassone di legno annesso, e così iniziò il “grande” trasloco. Mia madre mi spiegò subito la situazione: «Eugenio dovremo fare almeno tre o quattro viaggi per portare tutto quello che abbiamo! E se vuoi, puoi salire sul carretto, ci stai anche tu, il papà è già nella nuova casa.» «Tutto?» chiesi preoccupato, dal timore di non trovare posto. «Sì, proprio tutto, anche i vecchi ricordi, la scatola delle fotografie, i tuoi giochi, i mobili e i vestiti.» rispose lei per rassicurarmi. Quel “tutto” si riduceva a poche carabattole che un qualsiasi svuota cantine, ai giorni nostri, avrebbe consigliato di bruciare nel camino, e il falò non sarebbe durato più di un’ora… Tra tutte quelle cianfrusaglie, però, vi era anche l’oggetto più prezioso cui tutti tenevamo in ugual modo: la grande radio Siemens in radica di noce, con il vigile “occhio magico” che serviva per trovare la giusta frequenza d’ascolto, agendo sulla manopola della sintonizzazione. Quando la proiezione del cono di luce si restringeva, assumendo la forma di un’asta sottile color verde intenso, l’ascolto diventava ottimale; al contrario si udivano soltanto fischi acuti o sordi brontolii, rantoli e sonore scorregge da turarsi subito le orecchie. L’acquisto della radio era costato a mio padre un enorme sacrificio, infatti aveva dato fondo ai risparmi di qualche anno. Aveva accontentato la mamma che desiderava ascoltare il secondo Festival di Sanremo, visto che l’altro l’aveva perso. Avrebbe potuto rinunciare a tante cose, ma non alla voce di Nilla Pizzi che quell’anno vinse la competizione con la canzone “Vola colomba“. Il suo inconfondibile timbro di voce piaceva moltissimo, anche se a me sembrava roco e cavernoso. La nonna aveva altri interessi e amava ascoltare la trasmissione per gli infermi “Sorella radio”, condotta da Maria Luisa Boncompagni, in onda il sabato pomeriggio. Nel frattempo, assieme alla mamma impastavano le tagliatelle mentre facevano bollire il brodo con il lesso sul fornello per la domenica, unico giorno in cui la nostra famiglia poteva permettersi qualche pezzetto di carne. Per me quei pomeriggi erano diventati un vero incubo: intanto il bollito non mi piaceva, poi l’intenso vapore che la pentola emetteva per lunghe ore, rigando i vetri della cucina, mi metteva un tale malessere da farmi
27 quasi venire la febbre, cui si univa una profonda tristezza per il genere di trasmissione. La radio fu avvolta per ultima in una grande coperta sfrangiata, tra mille raccomandazioni, e fu adagiata con delicatezza con le manopole rivolte verso l’alto, sul fondo del cassone, in ultimo furono caricati tre pitali sbeccati di porcellana, incartati nel giornale; infine vi salii anch’io. A breve avrei scoperto una nuova e diversa realtà: più vivace e di certo più felice! Non ci vollero molte pedalate del falegname sul triciclo per arrivare alla “casina nuova”, che distava meno di due chilometri. Il papà scese nella grande loggia del palazzo, e per mano mi condusse al quarto piano, nel nostro appartamento. La mamma e la nonna, ci avrebbero raggiunto in seguito, a piedi. «Vedi.» mi disse «questo ingresso è molto grande, vero? È solo un po’ buio. In fondo a sinistra c’è la stanza da letto rosa della nonna, a destra, quella verde è la nostra, ancora più a sinistra c’è il bagno e qui dietro c’é la cucina.» «I muri sono stati tutti pitturati, sento l’odore!» esclamai. «Sì, li ho ridipinti io.» mi spiegò il papà. «Dopo che la nonna e la mamma si saranno un po’ sistemate, potrai andare in cortile a far amicizia con gli altri bimbi, ti accompagnerà la mamma.» Ero ben contento per quella novità, anche se un po’ diffidente e timoroso. Il mio “amico” Vittorio non me lo ricordavo. Le nostre madri si erano conosciute portandoci a passeggio nelle rispettive carrozzine, ai giardini del vecchio Velodromo – ormai in disuso – dove nello spazio verde che restava attorno, erano allevate delle oche. Quando la mamma, di tanto in tanto andava a trovare la sua amica Adelma, incontrava nello stesso palazzo anche la signora Maura, la mamma di Vittorio. Noi bambini invece non ci eravamo mai frequentati. Quello stesso giorno ci fu la firma del contratto di affitto. Ci recammo al secondo piano del civico 99 dal proprietario Bartoletti, quasi centenario e del tutto simile a un dinosauro che stava già caracollando verso l’estinzione. «Sa, per la sua famiglia è una vera occasione! In questa zona non si trovano appartamenti liberi e, non lo nego, è un’opportunità anche per me: prendo più soldi del vostro appartamento che degli altri insieme, che
28 sono ancora ad affitto bloccato.» disse, afferrando le banconote che il papà aveva messo sul tavolo, e fece una sonora risata. Quella che poteva sembrare una battuta, non lo era per nulla, perché stava affermando una mezza verità, poi guardando sua figlia Giuliana aggiunse: «Vedi? I soldi parlano mentre la merda affonda muta.» Si umettò di saliva il pollice e l’indice, e si mise a contarli.
29 PALAZZO – TERRAZZONE E CORTILONE Il palazzo, dalla forma di parallelepipedo, era costruito su quattro piani, e aveva due ali laterali. Comprendeva ventisei appartamenti, tredici per porta. I negozi erano allineati al piano terreno, e si affacciavano sulla via Emilia Ponente. Sul lato posteriore c’era un grande terrazzo, con accesso dal civico 99, che abbracciava il palazzo in tutta la sua larghezza. Sotto questo terrazzone – così era chiamato da noi bimbi – vi erano alcuni “antri”, freddi e bui, che davano sulla corte comune. Erano laboratori di artigiani: il fabbro, il falegname e il tornitore; mentre un paio erano adibiti a garage. Nei rispettivi androni vi erano delle scale ripide che conducevano alle cantine, e di lì, attraverso lunghi e bui corridoi, si arrivava nel cortile – il cortilone – tutto sassi e polvere, disseminato di frammenti di legno, viti, chiodi, pezzi di metallo, e residui di saldature. Dietro l’ala sinistra del palazzo, si trovava una casetta a un piano, anch’essa con una piccola corte, che confinava con la nostra. Era abitata dalla famiglia Fantazzini che utilizzava il laboratorio sottostante per la tostatura delle arachidi. Da qui proveniva un nugolo di polvere e un intenso profumo. La parte posteriore del palazzo confinava con un alto muro di cinta, oltre il quale c’era un viale alberato che conduceva alla fabbrica di ascensori Sabiem. Qui la sua maleodorante fonderia con la grande ciminiera emetteva di frequente un denso e tossico fumo nero. Noi bambini giocavamo sia sul terrazzone, sia nel cortilone, e fu lì che strinsi le mie prime amicizie. Fui assalito da un gruppo di ragazzini vestiti alla buona, molto chiassosi e allegri, abituati a giocare in “branco”, che animavano la vita dell’edificio.
30 «Come ti chiami? Da dove vieni? Quanti anni hai? Che cosa fa tuo padre? Perché sei venuto ad abitare qui? Dove abitavi prima? Sai giocare a palla avvelenata?» Un bel coro di domande e anche molte altre, alle quali dovetti rispondere con pazienza, non volendo tradire il crescente imbarazzo, dovuto alla mia inguaribile timidezza; altrimenti mi sarei giocato fin da subito la loro fiducia, e magari non sarei stato considerato “uno di loro” per un bel po’. Risposi con cortesia. Poi venne il momento delle presentazioni. I loro nomi? Difficile ricordarli tutti subito, e fui preso dal panico, come avrei fatto? Era un esercizio al quale non ero allenato, poiché non avevo mai avuto amici. I bambini per fortuna hanno un’ottima memoria, e spesso ricordano anche cose che non dovrebbero; ma i loro nomi e i loro visi però, non li avrei mai più dimenticati. «Io sono Luciana, lui è mio fratello Andrea e lei è mia sorella Maria, poi si presentarono altre due bimbe: Lauretta e Marzia.» Venne il turno dei fratelli che di cognome facevano “Messa”, e come avrebbero potuto chiamarsi? I loro genitori, pur non frequentando la parrocchia, affibbiarono loro dei nomi che li avrebbero resi comunque “santi” per sempre: Nazareno, Immacolata e Salvatore. I tre fratelli però, venivano di rado a giocare con gli altri, forse perché i loro genitori non desideravano che si mescolassero con qualche figlio di comunisti. L’ultimo a presentarsi, “last but not least“, non certo il meno importante, era il tanto nominato Vittorio, il “capobranco”. Dovevo proprio giocare con tutti? Erano tanti, troppi per me, abituato a stare sempre solo. Il mio timore però si dileguò presto, poiché quei bambini erano ben organizzati, quasi quanto “I ragazzi della Via Pál”. Vi era una specie di scala gerarchica sottintesa: Vittorio era il capo, Andrea il suo vice, e gli altri seguivano a un livello più basso, le ultime erano ovviamente le bambine. Sembrava proprio un branco di lupi: con l’Alfa a comandare, a cui seguivano i lupacchiotti e infine le lupette, che erano anche le più stronze!
31 Questa “intelligence” di piccole menti non era tanto incline al gioco, quanto a compiere delle vere monellerie, e soprattutto inventarne sempre di nuove! Questo l’avrei appreso molto presto. Dopo qualche giorno avevo iniziato a familiarizzare con il luogo e con alcune persone. Oltre ai miei futuri amici e la mamma di Vittorio, la signora Maura, ebbi “l’onore” di conoscere la signora Adelma Dalli, amica della mamma e suo marito Umberto Neri. Quella donna anziana tutta pelle e ossa, era anche molto rugosa. Sul capo portava un piccolo concio, protetto in modo maniacale da una retina dello stesso color grigio dei suoi capelli. Essendo cagionevole di salute, anche a causa dei calcoli alle vie biliari che non le davano tregua, poteva svolgere solo ciò che le riusciva meglio: fare la sarta casalinga. Nella sua condizione, non avrebbe certo potuto eseguire altri lavori all’esterno. A questo si aggiungeva una forte sordità, accompagnata spesso da una fastidiosissima labirintite: ne risultava che camminando, sbandava in modo vistoso, peggio di un’auto in curva sul ghiaccio; ma la cosa stupefacente è che non perdeva mai l’equilibrio. All’ultimo momento, una “controsterzata” la faceva ondeggiare e, come a volte accade ai birilli del bowling, rimaneva in piedi. Suo marito Umberto, invece, zoppicava per una vecchia frattura procurata in un cantiere edile. Insieme formavano l’abbinamento perfetto di gatto e volpe, come nella fiaba di Pinocchio. Mia madre aveva conosciuto questa strana coppia senza figli in tempo di guerra, quando chiesero ospitalità come sfollati, in campagna, presso mia zia Natalina, sorella maggiore di mia madre, e suo marito Emilio, genitori di Robertina. La mamma era stata molto contenta di traslocare nello stesso palazzo della signora Adelma e della sua amica Maura, così avrebbe potuto socializzare anche lei, invece di ascoltare sempre i discorsi ormai logori delle solite tiritere della nonna! Mentre Adelma stava in casa a cucire, Umberto, che era pensionato, aveva la passione di recarsi in Tribunale in centro a Bologna per assistere alle udienze dei processi di efferati delitti, e di altri di minor importanza.
32 Era divenuto il suo passatempo preferito, e tornando a casa raccontava alla moglie tutto quello che aveva udito, il che innescava fra i due delle liti furibonde, perché Umberto era sempre “colpevolista” mentre lei, con tenace opposizione, si schierava sempre a favore dell’imputato, cercando di escogitare ogni tipo di attenuante. L’intera discussione avveniva quasi sempre in dialetto, inframmezzata con qualche parola in italiano. «Ho capito, ho capito, non c’é mica bisogno di urlare!» diceva Adelma, con le mani alzate, perché Umberto per farsi sentire da lei che era sorda, era costretto ad alzare la voce. «Sono sorda ma capisco; lo sai pure che più urli, e meno ci sento!» «Ma cosa vuoi capire tu, che non udivi nemmeno la sirena dell’allarme dei bombardamenti!» «La sentivo eccome, solo che io non avevo una fifa boia come te!» «Sé, pòra mé?10 Mai avuta, volevo soltanto mettermi al sicuro… tôt qué.» «La povera Angiolina, come mi hai raccontato, non può aver rubato in chiesa tutte quelle sedie, poi che cosa se ne faceva di tante, e magari anche spagliate?» «Oh bella, le vendeva!» le gridava Umberto. «Ma figurati! Non avrebbe nemmeno saputo dove metterle… non ci credo.» «Sì, sì, l’imputata è colpevole, poi lo dicono tutti. Ma che cosa vuoi sapere tu, che non eri presente all’arringa dell’accusa!» «Ma va là, ma quale arringa? Giusto quella affumicata del “lardarolo” per gli “ismiti”11 come te, che credono a tutto!» «Ah! Ha parlato sua Altezza Reale!» «Be’, per tua norma il cervello mi funziona ancora.» «Ah! Ma non ne dubitavo mica, solo che il tuo funziona al contrario!» E così di seguito in un battibecco senza capo né coda che li lasciava entrambi sfiniti e sbuffanti. Solo allora Adelma riprendeva in mano l’ago e accendeva la radio aumentandone il volume a dismisura; mentre Umberto si defilava nella stanza da letto a leggere il giornale, per aver un po’ di pace. 10 Sì, paura io?... tutto qui. 11 Lardarolo (dial. lardaròl) = salumiere, (dial. ismé = rimbambito/i).
33 Quando poi si ricordava di qualche particolare saliente, tornava in cucina per riprendere il discorso, e dare così maggior credibilità alle sue asserzioni. «Allora secondo te.» ribatteva lui «devono essere tutti cretini visto che la maggioranza di quelli che stavano lì, la pensavano come me, e come l’accusa?» «Bella pensata, se si tratta di condannare una povera vecchia indifesa, voi uomini siete i primi a puntarle il dito contro.» «Ma quale povera vecchia, se ha solo quarantasei anni! Sei tu che ti sei già rimbambita, e non da adesso.» «Le rimbambite, come dici tu, vedono molto lontano, tu invece non fai che bere il “brodo d’oca” e tutto quello che ti fanno credere, brutto “pistolone”12 che non sei altro!» Umberto, ancora una volta, si rifugiò di nuovo in camera, mentre Adelma, dando un’alzata di spalle, girò ancora un po’ il pomello del volume della radio, che ormai era arrivato al limite. Umberto raccontava sempre che la sordità di Adelma le era servita egregiamente all’epoca dei bombardamenti. La limitazione dell’udito aveva fatto sì che non sentendo la sirena dell’allarme, o arrivare i bombardieri e le esplosioni che ne seguivano, non mostrasse il minimo cenno di paura ogni volta che si verificava l’emergenza. D’altronde così impacciata nel camminare, avrebbe raggiunto il rifugio sotterraneo dei Prati di Caprara, soltanto a bombardamento concluso. Il povero Umberto invece avendo un udito molto fine, e un folle terrore delle bombe, si precipitava giù per le scale per correre verso il rifugio, che si trovava a una sessantina di metri dal palazzo; senza preoccuparsi di sua moglie, che era un “intràmpol” 13, così almeno lui si sarebbe salvato. Trasaliva a ogni minimo rumore, perché aveva ancora vivo il ricordo di quel famigerato 24 luglio 1943, il giorno del più devastante lancio di bombe sulla città. Quel “maledetto sabato” – così l’aveva soprannominato Umberto – quando suonò la sirena d’allarme, si precipitò nel rifugio. Una bomba cadde proprio nei pressi, e la volta del sotterraneo resistette senza crollare, ma il terribile spostamento d’aria e le fortissime vibrazioni 12 Fesso. 13 Un impiccio.
34 avevano fatto cadere calcinacci, mattoni, e alzato nuvole di polvere all’interno. Molti, tra i quali Umberto stesso, rimasero a lungo intrappolati sotto terra, in mezzo alle macerie. Poiché i malcapitati faticavano a respirare, una signorina trasse dalla borsetta una provvidenziale boccetta di profumo e si mise a inumidire i fazzoletti dei rifugiati per far loro annusare la parte alcolica ed evitare che perdessero i sensi. Quando uscirono all’aperto, alcuni erano bianchi di polvere, con il viso tinto come pagliacci del circo; altri con la faccia nera, e Umberto era fra questi ultimi: il nerofumo lo aveva reso simile a un Otello in scena. Adelma, in casa, aveva atteso a lungo l’arrivo del marito. Ormai l’ultimo bombardiere aveva scaricato la sua scorta, ma lui non era ancora tornato. Scese a fatica le due rampe di scale di casa, con il cuore che le sobbalzava e, arrancando, arrivò al rifugio. Dall’apertura usciva solo fumo e polvere e lei, temendo il peggio, si mise a piangere. Poi dalla nebbia scorse la prima persona, quindi la seconda poi le altre, ma Umberto non compariva. Per la verità, era lei a non averlo riconosciuto, a causa della densa pegola nera che gli copriva il viso. «Adelma, Adelma, sono io, sono ancora vivo!» Lei si girò di scatto. «Bén mò Umberto, î’t té?»14 «Oï,15 sono io.» Adelma smise di piangere, anzi, osservando il viso di Umberto, coperto di nerofumo, cominciò a ridere. Lui si arrabbiò molto, ma infine si abbracciarono felici. *** Una volta alla settimana la mamma, in cambio di lavoretti di cucito, andava da Adelma per sistemarle la casa e fare le famose tagliatelle di due sole uova, che alla coppia bastavano per una settimana. Quei due mangiavano veramente poco, e Adelma si vantava di alimentarsi come un “uccellino”. 14 Sei tu? 15 Tipica espressione bolognese per esprimere l’affermazione: “Sì, certo”. Di derivazione romanza: (oïl → oï = sì, certo).
35 Spesso l’accompagnavo e, mentre lei impastava, io mi soffermavo a guardare la miriade di soprammobili che i due coniugi avevano collezionato nel tempo: “buone cose di pessimo gusto”, per parafrasare il poeta Gozzano. Oggi sarebbero definiti tutti dei ninnoli kitsch. Quello che più mi aveva colpito, oltre alle gondole di Venezia e i cavallini di vetro di Murano, era una statuetta di un nano a bocca aperta, in pietra scolpita color beige, con all’interno un mazzetto di stuzzicadenti, che mi schifava proprio e non lo potevo vedere, come del resto la dentiera della nonna, che nuotava in un bicchiere sul comodino colmo d’acqua. Nel piccolo ingresso un enorme ritratto di Giacomo Matteotti era appeso da un lato, e per un bimbo di quattro anni era un emerito sconosciuto; dall’altro, diverse cartoline illustrate cucite fra loro, che formavano una specie di unica grande tasca che ne conteneva altre alla rinfusa. Umberto spesso si avvicinava a me e parlava ad alta voce, monologando sulla politica ed elogiando il socialismo, con lo scopo di farsi sentire dalla mamma, immagino per provocazione, e far scaturire una polemica. Io ovviamente non capivo proprio nulla: l’unica cosa che ben percepivo era invece l’alito di Umberto, che puzzava sempre di merda. A quello sproloquiare Adelma non faceva più caso, innanzitutto perché erano discorsi ormai triti, poi perché era sorda, terzo perché preferiva stare con l’orecchio incollato alla radio mentre, seduta su una cassapanca cosparsa di cuscini a fiori, cuciva e ricamava.
36 INIZIAZIONE Il mese successivo al nostro trasloco, accompagnai il papà a pagare la seconda rata d’affitto alle signorine Bartoletti. L’appartamento delle padrone era il più grande e il meglio conservato dell’intero caseggiato – ovviamente – posto al secondo piano del civico 99, era confinante con quello minuscolo di Adelma. Era costituito da un ampio terrazzo, una cucina, tre stanze da letto, un salone con pianoforte, il bagno con vasca, dotato di una caldaia a legna. «Ci mandi Eugenio qualche volta, per farci compagnia? È un bimbo così carino ed educato!» chiese Giuliana alla mamma. “Io, far compagnia a quella brutta megera? Figuriamoci…”, pensai. Preferivo di gran lunga giocare in cortile con i miei amici. «Ma vacci bén almeno una volta» consigliò la nonna «per non fare un permàle!16» Dopo circa una settimana da quella richiesta, la mamma mi accompagnò e mi lasciò in balìa di quelle due becere e del padre vegliardo per quasi due orette. Per distrarmi, Giuliana si mise al pianoforte strimpellando un paio di canzoncine per bambini, quelle tediose che mi facevano proprio venire – come diceva sempre la nonna Amedea – “il latte alle ginocchia!” Sotto la sua guida attenta provai anch’io a pigiare i tasti, che di volta in volta lei mi indicava. Il risultato non fu nemmeno dei peggiori. «Credo proprio che Eugenio sia portato per la musica, e io potrei impartirgli delle lezioni di pianoforte.» Consigliò quell’infame, quando incontrò mio padre, il quale a sua volta pensò: “figuriamoci, arraffi già abbastanza soldi con gli affitti!” Diplomaticamente le rispose: «Signorina la ringrazio molto, ma vede, per allenarsi credo che a Eugenio occorrerebbe un pianoforte in casa, e non me lo posso permettere. Poi portarlo al quarto piano sarebbe un’impresa. Inoltre, come lei ben sa, non abbiamo proprio posto… soltanto due stanze per 16 Un’offesa.
37 quattro persone» spiegò mio padre, declinando in modo garbato quell’offerta. «Be’, quand’è così… non ci avevo proprio pensato.» Il papà ringraziò e tagliò corto. Quell’eventualità, che non mi aveva per nulla entusiasmato fu subito scartata, e per fortuna non se ne parlò più. *** Per ottenere la fiducia del gruppo di amici, dovetti dimostrare di sapermela cavare, per essere accettato come compagno di giochi; così fui subito coinvolto dal branco a compiere delle monellerie, alle quali dedicai tutto il mio impegno. Presto si presentò l’occasione, e fui sottoposto a una specie di esame di ammissione. Nel cortile, sotto al terrazzone, i laboratori degli artigiani, durante la bella stagione, avevano i portoni aperti e si poteva scorgere ciò che avveniva all’interno. Nel primo antro vi lavorava un anziano falegname, un certo signor Isola di origine veneta, era piuttosto abile e molto amante del buon vino, così si vociferava nel palazzo. Vittorio mi spiegò che il più bravo fra noi avrebbe dovuto prendere il maggior numero di oggetti, senza che quel poveretto se ne accorgesse. Prendere, in quel caso significava rubare. Provai un senso d’imbarazzo a causa dell’educazione ricevuta, che era stata piuttosto rigida. «Eugenio ricordati bene che non si ruba mai niente agli altri! Se una cosa la desideri, la devi chiedere con cortesia.» Mi aveva insegnato la mamma. I bimbi però, di solito, seguono l’esempio degli altri, e così fu anche nel mio caso. «Tu che sei nuovo del cortile, guarda un po’ come si fa.» suggerì Andrea. Quel mattino eravamo solo in sette, come i Magnifici, e ci mettemmo in fila indiana nascosti dalla parete laterale di quel buio stambugio, in questo ordine: Lauretta, Maria, Marzia, Luciana, io, Andrea e Vittorio. Lauretta era anche la più disinvolta delle bambine.
38 Iniziò l’attesa, cioè lei dovette cogliere il momento in cui Isola avrebbe girato le spalle al portone d’ingresso. «Ecco, adesso vado…» Con grande rapidità, entrò e ne uscì quasi subito. «Ho preso dei chiodi!» esultò, mostrandoceli trionfante. «Quanti?» chiedemmo. «Sono cinque, e non se n’è proprio accorto!» Dopo qualche tempo, fu la volta di Maria: un cacciavite. Marzia: un pennello da colla. Luciana: un pezzo di carta vetrata. Venne il mio turno. Non fu per nulla semplice tenere lo sguardo puntato alla schiena di Isola – badando che non si voltasse – e allo stesso tempo osservare sul bancone che cosa portar via! Agguantai con soddisfazione una piccola lima. Entrò Andrea che prese un punteruolo. Per ultimo Vittorio, che afferrò una grossa pialla. «E adesso come si fa a sapere chi ha vinto? Avevate detto che chi prendeva più cose era il vincitore, e la Lauretta ha portato tanti chiodi!» dissi. «Sì, ma non vale mica.» rispose Vittorio, con prepotenza «sono io che ho portato la cosa più grande e più pesante, quindi ho vinto io!» Nessuno replicò, e lui iniziò a vantarsi con tutti. Come passavamo il resto del tempo noi bimbi, quando non combinavamo delle birichinate? Be’, come tutti gli altri: saltando la corda, scandendo: arancio – limone – mandarino – cedro, e così fintanto che ci si inciampava nella corda, e quindi si passava il turno. Un altro gioco era la conta: un, due, tre per le vie di Roma (adesso invece di Roma, sento dire stella, mah!) in cui si doveva avanzare per raggiungere il muro, restando immobili quando il bimbo di turno che dirigeva il gioco si girava di scatto, se invece si era visti in movimento, bisognava indietreggiare nella posizione precedente. Vinceva chi arrivava a toccare il muro per primo. Vi era poi il gioco della luna, fatto soprattutto dalle bambine, che consisteva in un grande rettangolo disegnato per terra con il gesso, composto da nove caselle, che si dovevano percorrere saltando dall’una all’altra su una gamba sola, raccogliendo dei sassi posti in ogni casella, senza mai appoggiare il piede per terra.
39 L’elenco dei giochi che facevano i bimbi a quel tempo sarebbe lungo, aggiungo soltanto quelli che riscuotevano più successo: nascondino, fra i più amati, che a Bologna si chiamava “cucco”; strega a colori, strega in alto, palla avvelenata, telegrafo senza fili, e altri. *** Presto si presentò l’occasione di una seconda sortita con il branco, anche se questa non doveva essere una prova di abilità, ma soltanto una piccola bravata. In quel periodo quasi nessuno possedeva un frigorifero, neppure i negozianti, che disponevano però di una ghiacciaia: un mobile di legno rivestito all’interno di alluminio, in cui veniva sistemato del ghiaccio, per conservare le derrate. Nel palazzo soltanto il fruttivendolo, il macellaio, e le signorine Bartoletti la possedevano. Andrea mi fece notare che a una certa ora del mattino, sulla via Emilia passava un carro con cavallo. Dietro erano sistemate delle stecche di ghiaccio lunghe più di un metro. L’omino del ghiaccio, così era chiamato, scendeva dal carro, frantumava il ghiaccio con una grossa roncola, e la parta staccata se la poneva sulla spalla avvolta in un sacco di juta, poi andava nei negozi per la consegna. «Vedi, quando l’omino del ghiaccio si allontana, noi prendiamo il ghiaccio rotto e ce lo andiamo a mangiare sul terrazzone!» La frantumazione dei filoni di ghiaccio, lasciava delle scaglie sparse di varie dimensioni, che noi afferravamo con grande rapidità. Pensavamo che non si trattasse di un furto, perché quei residui erano inservibili, e sarebbero stati buttati. A volte facevamo a gara di chi avesse arraffato il pezzo più grosso, facendo attenzione a non tagliarci le dita con le parti appuntite, e dopo aver succhiato per un po’ il ghiaccio, lo gettavamo via perché era così freddo che ci congelava le mani e la lingua. Il ghiaccio a noi bimbi non piaceva tanto, ci divertivamo soltanto a sottrarlo dal carretto. Ben altra cosa fu quando a Fantazzini, primo nel quartiere, arrivò il frigorifero, e suo figlio Ilario ci gettò dal suo terrazzo dei cubetti di ghiaccio avvolti nella carta oleata. Quelli ci attiravano di più. Ilario era un ragazzino sugli undici anni, un tipo piuttosto stravagante, che non si mescolava certo con noi più piccoli per giocare in cortile. Il
40 motivo era sia la differenza di età, sia perché lui era il figlio del ricco industriale che correva con la Porsche, mentre noi non avevamo neppure la bicicletta. Ilario, per distrarsi, si dedicava anche a un certo tipo di caccia… Poiché il padre gestiva il laboratorio per la tostatura delle arachidi, i gusci scartati dalla lavorazione finivano nel suo cortiletto, che era unito al nostro, e quello strato di scarti era arrivato quasi alle nostre ginocchia. Quel mucchio di gusci era un ottimo nascondiglio per grossi topi, perché trovavano anche delle arachidi che, sfuggite al macchinario, venivano lanciate assieme ai baccelli secchi. Indisturbati e disinvolti, questi roditori si aggiravano anche di giorno in cerca di cibo. La caccia cui si dedicava Ilario, era proprio ai topi! Faceva incetta dei ferri da stiro in ghisa di sua madre, quelli di metallo pieno e, quando vedeva un topo, prendeva la mira e lanciava la sua arma. Per noi era divertente osservare quella strana caccia, che di fatto non mieteva mai vittime: i topi da cortile erano troppo furbi. Non oso immaginare l’espressione della domestica di Fantazzini quando cercava i ferri da stiro che le servivano, e non ne trovava neppure uno! Anche perché i ferri gettati rimanevano sepolti dai gusci delle arachidi, che mai nessuno recuperava. A quel punto era automatico per me chiedermi quanti ferri possedesse la famiglia Fantazzini.
41 LE STORIELLE DI UMBERTO Umberto, per dirlo in modo prosaico, quando non scassava i marroni con le sue lòrnie17 politiche, che spaziavano dal socialismo sovietico, alle varie correnti di pensiero all’interno della Democrazia Cristiana, divisa fra Dorotei e Morotei, poteva persino risultare simpatico, perché raccontava delle storielle o brevi aneddoti che circolavano allora fra il popolino. L’unico svago in quegli anni era la frequentazione dei teatri, e in seguito anche dei cinematografi che a Bologna si riempivano di persone. Il costo dei biglietti non era eccessivo, soprattutto se si frequentava il loggione del Teatro del Corso18 e quello del Teatro Comunale, rifugi di melomani intenditori, ma anche di noti e famosi “disturbatori”. Costoro si divertivano a urlare gag comiche rivolte ai cantanti; soprattutto nei momenti di massima intensità drammatica, creando un grande imbarazzo agli interpreti, e scatenando grasse e fragorose risate fra il pubblico. Per esempio durante l’Aida di Giuseppe Verdi, nel momento in cui Radamès chiede alla sua dolce Aida dove si trova, dal loggione si udiva un: “Sono al cesso!”. O ancora, alla frase dell’Atto Secondo: “Ah! Quel pallore… quel turbamento svelan l’arcana febbre d’amor…”, dal loggione si udiva un sonoro: “Dalle ben un grappino, che così si riprende!”. Al Teatro del Corso, invece, arrivò un famoso illusionista straniero, forse un inglese, e nel bel mezzo dello spettacolo condusse un esperimento di spiritismo. 17 Dal dialetto lòrnia = discorso noioso e ripetitivo. Dicesi anche di persona lenta e noiosa. 18 Situato in Via S. Stefano nei pressi della chiesa di San Giovanni in Monte, fu inaugurato il 19 maggio 1805 e distrutto dal bombardamento del 1944. Gioachino Rossini vi aveva lavorato come maestro di cembalo nel 1811. Alla Locanda del Teatro aveva soggiornato, tra il 1825 e il 1826, anche il poeta Giacomo Leopardi.
42 «Ora» annunciò l’interprete «l’esimio professore evocherà l’anima di un defunto, e i signori del pubblico potranno rivolgergli qualsiasi domanda.» Passarono alcuni secondi di silenzio imbarazzante, nessuno osava fiatare, poi una voce dal loggione gridò: «Dí bän só, fantèṡma, l’èt mâi ciapè int’al cûl?»19 Le grasse risate che seguirono furono incredibili. Queste sono solo alcune delle storielle dei “disturbatori” di cui sono venuto a conoscenza. Umberto raccontò anche una barzelletta sul cinema. Marito e moglie, decidono di andare al cinematografo per vedere un film di guerra. Una volta seduti in sala, la moglie dice: «Sai, caro, che non mi sento niente bene, ho tutto un gonfiore nella pancia, dell’aria…» «Eh, ma non devi mica preoccuparti! Tu aspetti, e quando gli aerei bombardano… bombardi anche tu!» Nel film ci fu una prima incursione aerea, e la moglie fece ciò che le aveva consigliato il marito e si liberò; tanto fragore più, fragore meno… Poi ci fu un secondo, poi un terzo attacco aereo… fece la stessa cosa. A un certo punto la moglie si sentì battere con una mano sulla spalla da un omino con gli occhiali che stava seduto dietro di lei: «Senta, siccome io non ci vedo molto bene, lei non ha mica visto se il bombardiere tedesco, per caso ha colpito un cesso con una bomba?» «No, non mi sembra, perché?» «Be’ sarà, ma si sente una puzza qui dietro!» 19 “Su dimmi, fantasma, l’hai mai preso nel culo?”
43 CHIACCHIERE Dopo pranzo la signora Adelma veniva spesso in casa nostra, autoinvitandosi a prendere il caffè. In realtà era per allontanarsi da Umberto, dai suoi logorroici sermoni politici sul socialismo, ma principalmente per fare un mare di chiacchiere con la nonna. Nonostante la sua snervante e quasi ossessiva presenza, i miei genitori la tolleravano, perché la nonna Amedea poteva avere compagnia e motivo di svago. «Sa che cosa le dico, Delma? Che la vecchiaia non è poi tanto brutta, considerando l’alternativa… l’ho proprio letto sulla rivista “OGGI”, e lo diceva in un’intervista una nonnina centenaria. Quella a cent’anni c’è arrivata, e anche il padrone Bartoletti c’è molto vicino!» «Senta, Amedea, adesso non parliamo più di vecchiaia, ma di gioventù. A questo proposito ha visto sulla rivista le foto della regina d’Inghilterra? È giovane, e sembra anche bella.» «Oï, l’ho letto. C’erano molte pagine con le sue fotografie e di tutta la famiglia. Ma qualla ad prémma,20 chi era?» «Quella di prima, chi?» «Oï, ma la regina!» «Ah! Ma prima non c’era mica una regina, c’era Re Giorgio, suo padre, e prima suo fratello… Oh! Ma è una cosa lunga. Cambién bän dscàurs!21 Una tipica prerogativa degli anziani era di mutare l’argomento della loro conversazione quando calava l’interesse, o dovevano impegnarsi in spiegazioni troppo lunghe e complesse. «Ha letto che una Madonnina di gesso piange, laggiù in Sicilia?» iniziò la nonna. 20 Quella di prima. 21 Cambiamo ben discorso!
44 «Ah, per me… io sono come San Tommaso. Non ci credo. Ne ho fatti io di pianti, altroché! Ma un’immagine di gesso, poi!» «Be’, io non so cosa dire, però c’è scritto sul giornale e ci sono anche le fotografie.» replicò la nonna, convinta. «Non è la prima volta che i giornalisti scrivono delle storie, e ci aggiungono del loro. Ma cambiando discorso… ha letto di quella ragazza trovata morta su una spiaggia, vicino a Roma? La povera Wilma Montesi, sono passati già alcuni mesi e la stampa continua a parlarne.» «Sì, l’ho letto, che disgrazia! E il giornale dice che non si sa ancora chi è il suo “Hitler”. Bén, dico io, ma non era già morto da un pezzo?» «Ma Amedea, bén che cosa dice? Chi?» «Oï, Delma, proprio lui, Hitler.» «Oh, ma lei vuol dire il Killer, cioè l’assassino!» «Be’, sul giornale c’era proprio scritto “il suo Hitler”, io ho letto così.»22 «Ah! Va bene, è lo stesso. Ma non me la danno mica a intendere… là i ricchi facevano delle feste e anche delle porcherie!» continuò Adelma. «Ah sì, se è per questo l’ho letto anch’io. Il Carlino scrive che quei ricchi avevano anche la maroiana e il cascis23. Ma poi che cosa sono, Delma?» Adelma fece spallucce. «Sono delle droghe.» «E quella roba la vende il droghiere?» chiese la nonna con ingenuità. «Ma no, no Amedea, ai nostri tempi non c’era mica: sono delle erbe molto velenose e pericolose che adesso si fumano i degeneri!24» «Mò se sono velenose, allora perché le fumano?» interrogò la nonna. «Dicono che fanno andar via i pensieri… ma li vorrei vedere io, vivere solo con cinquemila lire25 al mese della pensione di Umberto, allora sì che avrebbero un bel da pipare!» «Be’, Delma, una volta molti uomini in campagna, quando non avevano il tabacco, fumavano le foglie di granoturco, o quelle dei pioppi, ma non ’ste cose.» 22 La nonna non conosceva la lettera K e leggendo faceva sempre confusione con la H, poi a volte leggeva le parole e i nomi a modo suo… 23 Marijuana e hashish. 24 Degenerati. 25 Circa 672 €.
45 «Ah mi ricordo bene, allora c’era una bella miseria! Adesso fumano anche quelli che non hanno i soldi per comprare le sigarette, perché vanno a cicche26.» Nel dopoguerra si vendevano le sigarette sfuse e tutte senza filtro, perché ancora non era in uso. Pochi potevano permettersi un pacchetto intero. Alcuni, soprattutto gli anziani poveri, raccoglievano i mozziconi gettati per strada, puntandoli con uno spillone, e li riponevano in un sacchetto, poi a casa li aprivano uno a uno per estrarre il poco tabacco contenuto, e con una cartina, a mano, facevano le sigarette. Era curioso, e persino divertente, ascoltare le conversazioni della nonna con Adelma, poiché ne scaturiva sempre qualcosa di spassoso. 26 Mozziconi di sigarette.
46 ANNO 1954 Il padre di Lauretta, dal suo retrobottega di fruttivendolo, accedeva al terrazzone, che utilizzava come fosse una sua proprietà esclusiva – tenuto conto che pagava l’affitto del negozio e dell’appartamento al primo piano del civico 99 – per questo vi metteva ciò che lo ingombrava, soprattutto delle cassette di legno della frutta, vuote, il che faceva la felicità di noi bambini, che ammonticchiandole, costruivamo in pochi minuti la nostra capanna per i giochi. «Guardate che cosa ho trovato fra i libri di mio zio Nicola che studia da dottore.» esordì Lauretta, mostrandoci con orgoglio un volumetto di medicina pieno di foto in bianco e nero, che ci fecero schifo e suscitarono diversi commenti negativi. Lauretta ci rimase molto male. Forse pensava che l’avremmo lodata per quella bravata, e il branco l’avrebbe tenuta in maggior considerazione come nipote di un futuro medico. Occorre dire che lei adorava quello zio che spesso la portava a fare dei giri in Vespa. «E va bene. Se non volete vedere le figure, però possiamo giocare noi al dottore, vero?» Neppure a dirlo, era uno dei giochi preferiti dai bambini! A questa allettante proposta seguì un coro unanime: “Sì, dai!”. «Costruiamo subito l’ambulatorio con le cassette.» propose Maria. «Ma come facciamo che adesso viene buio?» intervenne Andrea «Be’ allora ci giocheremo domattina, meglio, così voi portate da casa le medicine che servono al dottore.» suggerì Vittorio. Quella sera assunsi un’aria misteriosa, e forse anche un po’ sospetta, poiché dovevo prendere un medicinale di nascosto per i nostri giochi, ma in casa nessuno si accorse di nulla.
47 Andai in bagno, e nel ripiano delle medicine – in realtà poche – notai la confezione con le supposte di Causyth, delle quali conoscevo l’uso “sodomizzante”, provate contro la febbre, e la scatolina delle pillole di Brera. Le supposte con il calore si scioglievano, me lo ricordavo bene, le pillole no. Optai per le pillole della nonna, e ne presi una manciata: forse sei o sette, non le contai, e le posi in un sacchettino per i francobolli. Il mattino seguente ci radunammo sul terrazzone, e prima di iniziare il gioco del dottore, Lauretta chiese di mostrare le medicine che avevamo portato. I fratelli Luciana, Maria e Andrea avevano portato delle garze. I fratelli Messa non c’erano, perché i genitori non li mandavano più a giocare con noi. Marzia aveva portato dei cerotti. Io mostrai le pillole Brera della nonna. Vittorio esibì la grande siringa di vetro, la stessa con la quale sua madre Maura forava con lo stesso ago spuntato, grosso quasi quanto un uncinetto, la maggior parte delle chiappe di tutta Santa Viola! Lei, infatti, si prestava generosamente a fare le iniezioni, senza che si dovesse ricorrere a un’infermiera. Lauretta esibì il trofeo più ambito: uno stetoscopio di suo zio. Iniziò così l’interessante gioco del dottore nella capanna costruita con le cassette della frutta, ossia il nostro ambulatorio improvvisato. Formammo due file: le pazienti da una parte – che erano le bambine – e i dottori dall’altra. A quel tempo nessuno di noi sapeva che esistevano anche le dottoresse. Solo a Marzia fu affidato un terzo ruolo: quello dell’infermiera. La paziente sfilava davanti ai dottori: Vittorio l’auscultava e faceva le finte punture con la siringa senza ago riempita d’acqua, Andrea fasciava le ferite, la Marzia appiccicava i cerotti, e io dovevo convincere le più ritrose a farsi le supposte con le pillole di Brera! Il gioco andò avanti per un bel po’; cioè fino a esaurire le garze, i cerotti e le pillole. Quella sera stessa la nonna si mostrò agitata, e a tavola espresse tutto il suo malessere emettendo i consueti brontolii interrogativi: «Boh? Boh?» «Che cos’hai mamma? Non ti senti bene?» chiese il papà preoccupato.
48 «No, no, per star bene, io sto bene. Boh? Ma proprio non capisco!» «Che cosa non capisce? Che cosa c’è?» intervenne la mamma. «Ma ne ho prese già così tante di pillole di Brera? Non mi sembrava proprio… Però non mi hanno mica fatto tanto effetto!» «Sei sicura di non esserti sbagliata, e magari ne hai prese due di seguito?» chiese il papà. «Boh?» «Senti, mamma, la prossima volta che le prendi, fai una crocetta sul calendario, così non ti confondi.» «Sì, sì, faccio proprio così come dici te… se mi ricordo.» Trascorse un giorno. Quello successivo, mentre giocavamo a “strega impalata”, uscì dal retrobottega la mamma di Lauretta. Aveva un’espressione arcigna ed era molto arrabbiata quando mi affrontò: «Senti, tu, bel tomo!27 Che cosa sono quei semi neri che ho trovato nelle mutandine della Lauretta? Ti conviene dirmelo subito, tanto so già tutto!» In quel momento ebbi paura, e diventai tutto rosso in viso, poi prevalse in me il senso di rabbia: “Allora quella baggiana della Lauretta deve aver raccontato in casa del nostro gioco!”. Ma chi poteva immaginare che il suo sederino d’oro glielo lavasse ancora la sua mamma? A questo proprio non avevo pensato. «Ma no, non sono dei semi, sono solo delle pillole di Brera, non fanno mica male; sa che le prende sempre anche mia nonna Amedea?» risposi candidamente. La mamma di Lauretta, che era di origini modeste, ruspanti e campagnole, mi rispose in modo volgare, e altrettanto genuino, che a ripensarci, ancora oggi ne rido. «Sé, mò brisa int’al cul!28 Guai a te se capita ancora!» Scoppiò addirittura uno scandalo! La prima a saperlo, e a diffondere la storia di quel fattaccio fu la mamma di Vittorio, che quasi tutti i giorni scendeva a far la spesa dal fruttivendolo. Era tenuta in grande considerazione perché comprava le primizie più costose, anche se poi faceva segnare il conto sul libretto dei debiti, che saldava a fine mese. 27 Bel soggetto! 28 Sì, ma non nel culo!