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L’infanzia di Eugenio non fu molto diversa da quella dei suoi coetanei cresciuti in ristrettezze a Santa Viola, un quartiere popolare della periferia di Bologna. Il cortile in cui giocava era una porzione importante del suo mondo dove la fantasia, l’ingenua furbizia, l’allegria e la complicità si fondevano necessariamente per portare a termine delle simpatiche monellerie. Negli anni ’50, quando l’auto non fu appannaggio solo dei più abbienti, iniziò a circolare con maggior numero di esemplari la mitica Topolino della Fiat: è ad essa che sono legati i ricordi più significativi. Questo romanzo non vuol essere il diario di una vita, ma un graffiante affresco della società di quegli anni, fatto di episodi a volte comici e a volte irriverenti, che hanno accompagnato i primi dieci anni dell’autore, narrati secondo il pensiero e le parole di un bambino.

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Published by Quelli di ZEd, 2023-07-17 06:52:45

Quando si andava in Topolino, Eugenio Zini

L’infanzia di Eugenio non fu molto diversa da quella dei suoi coetanei cresciuti in ristrettezze a Santa Viola, un quartiere popolare della periferia di Bologna. Il cortile in cui giocava era una porzione importante del suo mondo dove la fantasia, l’ingenua furbizia, l’allegria e la complicità si fondevano necessariamente per portare a termine delle simpatiche monellerie. Negli anni ’50, quando l’auto non fu appannaggio solo dei più abbienti, iniziò a circolare con maggior numero di esemplari la mitica Topolino della Fiat: è ad essa che sono legati i ricordi più significativi. Questo romanzo non vuol essere il diario di una vita, ma un graffiante affresco della società di quegli anni, fatto di episodi a volte comici e a volte irriverenti, che hanno accompagnato i primi dieci anni dell’autore, narrati secondo il pensiero e le parole di un bambino.

149 nascere i pulcini. Incuriosito le chiesi delle spiegazioni: «Quanto tempo ci vuole perché nascano? Ma sta lì tutto il giorno?» «Intanto devi sapere che per convincere la gallina a covare, bisogna lasciare delle uova finte, di gesso, nel nido. Il tempo della cova dura circa ventun giorni, la gallina lascia il nido solo per una ventina di minuti: appena il tempo di mangiare e di andare in bagno… be’ insomma, di fare i suoi bisogni. La cosa molto importante è che le uova devono sempre stare al caldo, per questo resta lì. La temperatura è di quasi trentotto gradi, che per noi, però, sarebbe già una febbre alta!» mi spiegò la zia, che era molto esperta. «Allora le galline hanno sempre la febbre?» «No, no, per loro va bene così, e poi non sudano.» «Perché?» «Non lo so di preciso, me l’avevano spiegato ma adesso non me lo ricordo, però so che è così.» Ripensando a quei discorsi, mi venne proprio un’idea brillante. Sapevo che nella camera della nonna, che era gelida come il polo nord, venivano conservate una ventina di uova per l’inverno, spalmate con strutto di maiale. Ne presi una decina e le avvolsi nei vecchi mutandoni di lana rosa della nonna, così che potessero restare al caldo anche in assenza della gallina, in modo da far nascere i pulcini. Le nascosi nella camera dei miei, in mezzo ai sacchi delle stoffe; lì avrebbero ricevuto ancor più calore. «Adriana, le ha usate lei tutte quelle uova? Sa che ne mancano un bel po’!» Si stupì la nonna. Mia madre ci pensò su, poi spiegò: «Sabato scorso ne ho prese tre per fare la sfoglia.» «Macché, là ne sono rimaste proprio poche. Venga mò a vedere!» Quando mia madre andò a controllare, rimase confusa. «Oï, ma è vero! Io non le ho prese. Adesso lo chiedo a Eugenio.» Poco dopo, venne da me e chiese: «Hai preso tu le uova che erano dalla nonna? Dimmi pure la verità.» Ormai ero stato smascherato, e confessai. «Sì, mi servivano per far nascere i pulcini!»


150 «Eh, minchione, ma quali pulcini!» inveì la nonna «non nascono mica così. Sei proprio un gran ismìto!»97 Ci rimasi molto male. La mamma mi spiegò perché non sarebbero nati, e le uova tornarono al loro posto. Per fortuna quella volta non fui rimproverato, anche se di quella mia ingenuità ne subii le conseguenze. La signora Maura e Vittorio lo vennero a sapere dalla mamma, così risero alle mie spalle, e quel “caro” amico, si prese burla di me. *** Quell’inverno fu eccezionalmente rigido, con punte di freddo che toccarono i meno diciotto gradi. Noi bambini andavamo in cortile di rado, anche perché, indossando soltanto pantaloncini corti, le nostre gambe si arrossavano e pizzicavano per il gelo: quello che i bolognesi chiamano “lo strizzo”. Vittorio e io, ci limitavamo a giocare sul pianerottolo di casa e ci raccontavamo le notizie di ciò che accadeva nel palazzo. «Hai saputo che la fornaia in negozio ha un nuovo aiutante?» disse Vittorio. «Sì, lo so, è Marietto. Gli ho parlato, è simpatico, e mi ha detto di essere contento perché ora ha trovato un buon lavoro.» Marietto viveva con la madre vedova e alcuni fratelli minori, ed era lui a sostenere la famiglia. Abitava in una specie di baraccopoli98 che sorgeva non lontano dal nostro palazzo: un ghetto di catapecchie, spesso immerse nel fango e abitato soprattutto da prostitute, ladri e alcuni avanzi di galera. Quel luogo di dubbia reputazione, fin dal suo sorgere, era stato battezzato “la Conca d’Oro”; immagino che quel soprannome gli fosse stato affibbiato come paradosso. Quel ragazzo di origine napoletana parlava in fretta: un misto tra l’italiano e il suo dialetto, al quale non eravamo abituati, e per noi poco comprensibile. 97 Italianizzato, dal dialetto ismé; rimbambito, tonto, instupidito. Questo termine si usa anche per chi è in stato confusionale. 98 Nei pressi dell’odierno viale S. Pertini


151 I figli di Cesarina l’avevano preso a benvolere, perché si dimostrava laborioso ed educato, anche se a volte lo prendevano in giro in modo bonario, per la sua parlata naturale, schietta, e a volte un po’ confusa. Capitava che spesso scherzassero fra loro rincorrendosi nel locale del forno, lanciandosi dei pezzi di pasta di pane, e nugoli di manciate di farina. Marietto fu subito soprannominato “sette chiappe”, perché durante quelle scaramucce, quando veniva colpito, ripeteva sempre: «Ah! Poi se’t’acchiappe, vedi cosa ti faccio!» La risposta che riceveva, era la medesima: «Settechiappe… guarda che sono trî cul e méz!» Da lì derivava quel soprannome non molto onorevole. «Senti, Vittorio, ho capito perché lo chiamano sette chiappe, ma quando gli rispondono: trî cul e méz, che cosa c’entra?» chiesi. «Imbambìto che non sei altro! Ma sette chiappe insieme non formano tre culi e mezzo? Ecco perché gli dicono così!» Finalmente compresi, e la cosa mi fece ridere. Marietto poi ci confessò che la pasta di pane che si lanciavano, veniva rimessa nell’impasto, e a volte si sputavano anche sulle mani, per rendere più morbido il composto. Da quel giorno, senza spiegare in casa il perché, non mangiai più il pane della fornaia Cesarina. *** In quel periodo, a causa del freddo e del tempo passato a fare i compiti, si bloccò anche l’ingranaggio dei nostri scherzi. A scuola andavo volentieri, e il maestro Capaldo era sempre generoso di caramelle e punti premio per i più bravi. Sotto la sua guida, iniziai a scrivere pensierini sempre più lunghi e corretti, così si chiamavano allora le composizioni brevi. Il bidello Gianni, che noi avevamo soprannominato “il Befanone”, con la cesta carica di legna sulle spalle, venne sempre meno in classe per riempire la stufa Becchi di terracotta, chiaro segno che il gran freddo stava finendo e ci stavamo avviando verso la primavera. Arrivò il Carnevale e così anche qualche piccolo scherzo “innocente”, proprio per non perdere l’allenamento. Marietto ci passò un sacchetto di farina dalla finestra del retrobottega, quella che si affacciava sul terrazzone.


152 Aspettammo il momento propizio, in cui Fernanda saliva le scale per spiare quando lasciava la porta di casa semiaperta. Con gesto rapido, Marzia s’introdusse nel monolocale e distribuì a spaglio sul pavimento parte della farina, e manciate di coriandoli sul letto. Poi scappammo. Quando Fernanda se ne accorse, iniziò come di consueto, a suonare tutti i campanelli e a urlare come una furia. Ormai però tutti riconoscevano la lunga scampanellata, e nessuno si affacciò. Poiché erano rimasti della farina e dei coriandoli, Vittorio e io, dal mio pianerottolo, li facemmo piovere dall’alto in testa a Prassede quando, dopo aver sentito le nostre chiacchiere, quella curiosa si sporse dalla ringhiera delle scale, per verificare dove fossimo finiti. Soldi per i vestiti di Carnevale non ce n’erano, né credo che ne vendessero di già confezionati, così non indossammo nessun costume, tranne Marzia. La zia sarta, le aveva creato un vestito di carta crespa azzurra, da fatina. Lei fece il giro del vicinato per farsi ammirare e ricevette molti complimenti, non però da Vittorio, sempre molto critico verso gli altri. «Bén, Marzia, più che una fata mi sembri proprio la strega di Maciste!» «Ma che cosa vuoi capire tu, brutto pisulàrio!»99 rispose piena di rabbia. Purtroppo per lei, all’improvviso iniziò a piovere, così la carta s’impregnò di acqua, il colore azzurro a stingersi, e l’abito a sfaldarsi. Provò grande dispiacere, ma si consolò quando le rammentai che quel “giovedì grasso”, il giorno più importante del Carnevale, stava già per finire. *** Tutte le persone del palazzo andavano a far la spesa dal fruttivendolo sotto casa, padre di Lauretta, e fu proprio lui uno degli obiettivi prediletti degli scherzi di noi maschi. Suo fratello Nicola si era laureato da alcuni mesi in medicina, e proprio qualche giorno prima, aveva superato l’esame di Stato per l’esercizio della professione: in negozio non si parlava d’altro. 99 Orinatoio, Piscione (dal dialetto pisulèri pronuncia la s come nella parola insalata).


153 «Ho messo in ordine una stanza per quel genio di mio fratello, che la può utilizzare come ambulatorio medico. È il primo laureato del palazzo, se vi sembra poco! Ha già fatto il suo tirocigno, e io gli ho fatto fare una bella targa d’ottone da attaccare sul muro, vicino al portone d’ingresso. Qualche merito però ce l’avrò pure anch’io, che l’ho mantenuto agli studi fino adesso!» Quella era la manfrina che ripeteva a tutti i clienti. Si era talmente identificato con il fratello, da voler imitare in negozio la professione di medico, senza rendersi conto di tenere un comportamento ridicolo, e lo capivamo anche noi bambini. La prima cosa che fece, fu di indossare insieme alla moglie, un camice bianco, una cuffia azzurra con i lacci sulla nuca, del tipo usato in sala operatoria, e dei guanti di gomma blu. «Signora Maura, si fidi pure a comprare queste belle mele, gli ho fatto io la diagnosi!» «Ah! Signora Adelma, questo è un petto di un pollo ruspante di campagna, che gli ho fatto io l’autopsia!» «Senta, Fernanda, mi creda, questi fagiolini sono tenerissimi e non hanno fili, gli ho fatto io la radiografia!» «Sa, Prassede, che questo aglio le fa bene alla pressione arteriosa!» «Mi creda, signorina Bartoletti, questi limoni contengono tutte le vitamine e le proteine, insomma, tutte quelle che sono utili per il corpo!» Ogni giorno inventava qualcosa di nuovo per reclamizzare i prodotti che vendeva, sempre con riferimenti medici, tutti più o meno assurdi. Poco tempo dopo affisse la targa, e suo fratello iniziò la propria attività nell’ambulatorio: “DOTT. NICOLA TOLOMELLI – MEDICO CHIRURGO” 1° Piano. Anche Vittorio e io, entrando nel negozio con le nostre madri, assistemmo a quelle consuete sceneggiate che ci divertivano molto. Poiché persino noi bambini avevamo notato quel buffo comportamento, mi venne l’idea di combinare uno scherzo ad hoc! Mi procurai un foglio liscio da disegno, il quotidiano “Il Resto Del Carlino”, e Vittorio ritagliò con pazienza le lettere, a caratteri cubitali, che sarebbero servite al nostro scopo. Subito dopo la chiusura dei negozi, mettemmo in atto la nostra burla: “DOTT. CLAUDIO TOLOMELLI – SPECIALISTA IN FRUTTA E ORTAGGI VARI”. 1° Piano


154 Quel cartello, che ci era costato tanto impegno e altrettanto divertimento, lo appiccicammo con delle puntine da disegno al portone di legno del civico 99, lo stesso dell’abitazione del fruttivendolo, e attendemmo gli eventi. Il giorno seguente trascorse senza che Claudio si accorgesse di nulla. Non era però passato inosservato agli inquilini della scala e ai numerosi passanti. La mattina seguente, Fernanda andò in negozio. «Buongiorno, Fernanda, che cosa le servo? Vuole delle belle uova fresche partorite proprio ieri dalle galline di campagna? Non quelle d’allevamento che sono impunturate con la “peniccelina”!» «No, no, volevo solo chiedere se ha messo lei quel cartello.» «Be’, ma certo! Che cos’ha che non va? È una bella targa in ottone che mi è costata anche un bel po’ di soldi, sa!» «Ma no, io parlo del cartello in cartoncino sul portone di legno del 99!» Inarcò le sopracciglia, confuso. «Ma quale cartello? Io non ho attaccato proprio niente!» «Ah be’, allora non se n’è accorto? Volevo ben dire, venga pure a vedere!» Percorsero in fretta alcune decine di metri, lo spazio che separava il negozio dal portone d’ingresso. «Oh… pôrza vàca! Bén, ma chi è quel cretino che ha messo ’sto foglio? Se lo agguanto, gli strappo via i maroni!» Fernanda riuscì a stento a trattenersi dal ridere, mentre Claudio riduceva a brandelli il cartello, che poi calpestò con rabbia! La scenetta di cui sopra fu raccontata da Fernanda ad Adelma, che, a sua volta, la riferì alla nonna. Dopo quella burla, Claudio attenuò quel comportamento da smargiasso che aveva tenuto negli ultimi tempi, soprattutto pose fine agli strani accostamenti con la medicina. Dopo quella bravata allentammo la morsa dei nostri scherzi, e tememmo quasi che il fruttivendolo ci avesse scoperto. Credo che qualche sospetto lo nutrisse, ma nella sua semplicità poi si convinse che non potesse essere un’azione fatta da bambini, ma da qualche commerciante della zona, invidioso perché aveva molti clienti e gli affari prosperavano splendidamente. ***


155 A volte capitava che noi bambini ci spostassimo per giocare nei Prati di Caprara, poco distanti dal nostro palazzo. Si trattava di una grande estensione di campi, fatta di buche e collinette, causate dai bombardamenti. All’inizio dei prati vi erano due rampe di scale che portavano a un rifugio antiaereo, quello stesso in cui andò Umberto, là sotto terra dove si diramavano delle gallerie. Noi bambini, che avevamo paura del buio, non ci eravamo mai infilati in quei cunicoli, però scendendo le scale del rifugio, ne scoprimmo l’esistenza. C’era chi asseriva che si snodassero sotto l’intera area dei prati. Il papà mi raccomandava sempre di non toccare nulla perché ci potevano essere delle mine, o delle bombe a mano inesplose, e per fortuna non ne vedemmo mai. Per noi era molto bello giocare là, perché ci si poteva nascondere nelle buche, facendo il famoso gioco del “cucco”100, o costruire rudimentali capanne con gli arbusti che crescevano fitti. Quel luogo a noi sembrava magico, perché Umberto aveva raccontato che proprio in quei prati era venuto il leggendario Buffalo Bill101 con il suo circo, e lui, che già abitava lì accanto, l’aveva anche incontrato! Noi bambini conoscevamo quel mitico personaggio soltanto attraverso i fumetti, che uscivano in edicola a episodi, e non a caso, uno dei nostri giochi preferiti era imitare gli indiani e i cowboy. Proprio in quel periodo i genitori di Vittorio gli regalarono una pistola giocattolo del tipo Revolver Colt, molto simile a quella vera, a sei colpi. Esplodeva delle piccole capsule rigate di metallo: chiamate superbum, almeno non sparava proiettili. Fu anche questo uno dei motivi principali di quel regalo, così non avrebbe più sparato alla nonna i pallini con il fucile. Quell’arma, anche se innocua, incuteva timore, anche perché lo sparo produceva un gran frastuono. 100 Nascondino. 101 Colonnello William Frederic Cody soprannominato Buffalo Bill, venne una prima volta a Bologna il 23 marzo 1890, e una seconda volta fu ospitato, con il suo circo nel 1906, nei Prati di Caprara.


156 Questo fu un bel deterrente per Prassede, perché quando si affacciava sulla porta, Vittorio che teneva la pistola in una fondina allacciata alla cintura, la estraeva in modo fulmineo, sparando a raffica almeno tre colpi! Questo funzionò benissimo perché quella megera, dopo un paio di episodi di fifa boia, si limitò solo a origliare dietro la porta. La fantasia, e soprattutto la volubilità tipiche nei bambini, avevano agito anche su Vittorio che, stanco del fucile e della pistola, volendo poi imitare gli indiani, si fece regalare un arco con le frecce, dalla punta di gomma a ventosa. Fu così che costruimmo un rudimentale bersaglio di cartone, e ci divertimmo a gareggiare fra noi. Fino a quel momento era stato Vittorio l’unico detentore di armi nel branco, prima la fionda, poi il fucile, quindi la pistola, e per ultimo l’arco. Dopo aver parlato a lungo, considerammo che sarebbe stato utile che tutti avessero un’arma per giocare, e che fosse anche economica. Cosa non facile da trovare. Mi venne l’idea, quando in un film al cinema parrocchiale, osservai che alcuni indiani Cherokee, utilizzavano delle cerbottane con frecce avvelenate, queste sarebbero state adatte al nostro scopo. Ma dove reperirle? La sera stessa ne parlai al papà: «Senti, la cerbottana te la procuro io, in un attimo!» disse, sorridendo. «Come?» «Le posso ottenere dalle canne che uso per eseguire gli impianti elettrici102: ne ho di diverso diametro e te la taglio della lunghezza che serve. Hai le misure?» «Sì, Vittorio e io lo abbiamo letto sulla sua Enciclopedia dei Ragazzi. Là ne fa vedere di diversi tipi, e c’è scritto circa cinquanta centimetri di lunghezza, e quattro centimetri di diametro.» «Il diametro di quattro centimetri non ce l’ho, ma credo che quella da tre possa andare bene, anche per non dover costruire frecce troppo grosse. 102 Aggiungo con un certo orgoglio, che il papà fu tra i primi in città a eseguire gli impianti elettrici sottotraccia; utilizzando canne rigide di plastica, in cui erano infilati fili e cavi. Le curve erano fatte con la piegatura a caldo su un fornelletto. Oggi, come si sa, sono utilizzate più semplicemente delle guaine flessibili spiralate.


157 La lunghezza di cinquanta centimetri per voi bimbi mi sembra troppo: secondo me quaranta sono sufficienti.» Andò in cantina e portò in casa una lunga canna, la tagliò, e con una lima tolse le bave di plastica alle estremità. «Ecco, ora puoi fare una prova.» Fabbricai la freccia con un ritaglio di carta, la introdussi nella cerbottana, e soffiai con forza. L’esperimento riuscì in pieno, la freccia percorse la lunghezza dell’ingresso e sarebbe andata oltre, se ci fosse stato più spazio. Dovevo perfezionare però la confezione della freccia perché si srotolò poco dopo. «Senti, papà, ne vorrei regalare una anche ai miei amici.» «Quanti sono?» «Sei, e una di riserva, se questa la rompo.» «Ah, però! Va bene, domani ne taglierò sette.» Lo ringraziai per aver reso concreta la mia idea, e per le cerbottane in regalo per i miei amici. Il pomeriggio seguente, tutto fiero, portai le “armi” in cortile. «Adesso sì che possiamo fare una vera battaglia!» esclamò Andrea, e iniziammo a costruirci le frecce con la carta. Lauretta portò da casa delle mollette di legno, che fissate sulle cerbottane come impugnatura, risultarono ottime per reggerle meglio. Marzia, che proprio non riusciva a confezionare le frecce, si mise a raccogliere da terra le nostre da riutilizzare, e in alternativa sparò anche dei pallini di carta. Il combattimento infuriava, e noi ci divertivamo moltissimo, riempiendo di frecce il terrazzone! Claudio, il fruttivendolo, sapendo che a quel gioco partecipava anche sua figlia, non disse nulla e, prendendo la scopa dal retrobottega, si limitò rassegnato a raccogliere e gettare nella spazzatura le nostre “munizioni”. Fernanda teneva spesso le finestre del monolocale aperte, anche quando usciva, tanto le robuste inferriate avrebbero tenuto fuori eventuali ladri, ma non certo le nostre terribili frecce. «Dai, la Fernanda ora non c’è, frecciàmole bén la casa!» propose Maria. Fummo tutti d’accordo, e come bersaglio scegliemmo l’orologio a pendolo sulla parete, nel fondo della stanza. Avremmo cercato di colpire e centrare il settore circolare con le lancette. A turno infilammo la cerbottana attraverso la griglia della finestra, e sparammo le nostre munizioni. Il gioco durò a lungo, e di frecce ne


158 entrarono parecchie. Vinse Luciana, che aveva colpito il bersaglio più volte rispetto agli altri. Quando Fernanda rincasò con il marito, videro quel “tappeto” di carta per terra e sul letto, e lei si mise a urlare: «Eh bén bén, ma cos’è tutto ’sto rusco?103 Sòccia, mò che malippo!104 Ah, brutti delinquenti! Ma come hanno fatto poi a mandarle fin qui? Adesso vado a suonare i campanelli, così mi sentono!» Solita scampanellata, con epilogo di urla e improperi, e noi le solite grasse risate. Passarono alcuni giorni dalla nostra ultima gara sportiva, e nel frattempo cercammo di perfezionare le munizioni. Infilammo nella punta della freccia uno stuzzicadenti, o meglio ancora, un lungo spillo. Andrea aveva ricevuto questo suggerimento da un suo compagno di classe, che l’aveva già sperimentato, e ora si trattava solo di trovare la vittima giusta per fare una prova. Pur sapendo che la punta della freccia avrebbe potuto ferire, decidemmo di agire lo stesso, cercando però di prestare molta attenzione. Andrea, che aveva individuato le abitudini dell’odiosissima signorina Giuliana Bartoletti, propose al branco proprio quella carampana come bersaglio: «Ascoltate, e se lo scherzo lo facessimo a quell’antepatica della Giuliana, che cosa ne dite?» «Per noi va bene, però bisogna fare in modo che non ci scopra.» intervenne Lauretta. Ci consultammo e a Luciana, che aveva più mira di tutti, fu affidato quel compito molto delicato. Ma quando metterlo in atto? Andrea ci disse che alle 10:00 la signorina portava a braccetto il padre/dinosauro a fare una breve passeggiata. Andando a scuola tutte le mattine, avremmo avuto l’occasione di agire soltanto di domenica. Decidemmo di attuare il nostro esperimento in quella successiva. Giuliana andò a passeggio con il vegliardo, e lui le fece notare che aveva qualcosa infilato nel cappellino. «Giuliana c’hai una freccia di carta piantata nel cappello.» «Ma papà che cosa stai dicendo? Stai bene?» «Bén allora guardaci!» la convinse. 103 A Bologna viene chiamato così il pattume: il rusco dal dialetto rôsc (c dura come la k). 104 Malippo, Italianizzato dal dialetto malép): Disordine, scompiglio.


159 Trovò proprio una delle nostre frecce e, cercando di capire come si fosse conficcata nel tessuto, rivolse il suo sguardo ai balconi senza, tuttavia, scorgere nessuno. Noi eravamo dietro di loro, appostati al riparo di una sporgenza del muro, da cui udimmo e osservammo tutta la scena. Ci fu un coro generale di risate e ci complimentammo con Luciana per aver centrato l’obiettivo in modo così preciso. Vittorio, in seguito, ebbe l’idea di perfezionare il tipo di munizione da utilizzare con la cerbottana: non avremmo più dovuto costruirci con fatica le frecce, che richiedevano tempo e abilità, saremmo passati a un diverso tipo di proiettili, ma occorreva trovare quelli adatti al nostro scopo. Lauretta pensò che i chicchi d’uva potessero essere sparati facilmente: perché belli rotondi; per questo sottrasse diversi grappoli nel negozio del padre, valutammo il giusto diametro dei chicchi da inserire, scegliendoli con cura. Sul terrazzone si affacciava anche la finestra del locale adibito a forno di Cesarina, e da quello iniziò la nostra nuova entusiasmante competizione. Salimmo sulle cassette di frutta per arrivare bene a vedere l’interno. Mirammo alle teglie di alluminio, ben allineate, in cui c’era il composto molle della torta di riso, nell’attesa di essere infornato. Quel tipo di dolce era molto apprezzato e richiesto dai clienti. La gara ebbe inizio, e gli acini affondarono in rapida successione nel composto, facendo tanti piccoli splash: fu un vero piacere osservare la buona riuscita della nostra idea! Vittorio centrò ben cinque chicchi nella stessa tortiera, e fu lui il vincitore. Dopo un paio di giorni apprendemmo l’effetto della nostra fantastica competizione. «Bén mò Cesarina, ma che cosa c’ha messo nella torta di riso?» chiese la signora Pontani, stimata moglie del Colonnello, che abitava nella palazzina dei graduati accanto alla caserma. «I soliti ingredienti genuini che occorrono, perché?» «Senta, lì dentro io c’ho trovato anche degli acini d’uva spappolati!» «Impossibile! Si starà confondendo con i pezzi di scorzetta d’arancia che a volte aggiungo.» «Guardi che non sono mica scema, se le dico così, è perché è la verità!»


160 «Chiederò ai ragazzi del forno, forse hanno fatto una variazione alla ricetta, ma io non ne so niente!» «Non voglio mica dire, la torta è buona, ha un discreto sapore, ma quei chicchi lì dentro non ci stanno proprio per niente, anzi le dico che i loro semi, sono proprio fastidiosi per i denti!» «Io mi scuso. Se desidera, gliene do dell’altra…» «No, no, grazie, per carità, ne ho già avuto abbastanza!» La signora Pontani se ne andò piuttosto contrariata, non più di quanto lo fosse Cesarina per lo smacco subìto. Nessuno avrebbe dovuto criticare le sue creazioni: uniche e insuperabili. Appena uscita la Pontani, Cesarina andò nel locale del forno a chiedere delle spiegazioni ai figli e a Marietto, che da lì avevano udito l’alterco. «Noi non ci abbiamo messo proprio niente di diverso, e non certo dell’uva!» «Ah, allora, lo so io chi è stato! È stata di sicuro quell’imbambìta di mia sorella Maria!» Cesarina poi l’affrontò: «Senti, brutta babbea, che cosa ti è saltato in mente di mettere dell’uva nella torta di riso? Per colpa tua la moglie del Colonnello ormai me la tirava dietro. Non ti sognare mai più di fare questi paciughi!» «Ma, ma, io, proprio…» la poveretta balbettò e cercò di difendersi dalle accuse di Cesarina, della quale aveva sempre avuto timore reverenziale. La scenata finì lì, tanto dalla sorella non avrebbe saputo nulla, poiché lei spesso si trovava in stato confusionale. Tutto questo ce lo riferì il nostro confidente Marietto, e nessuno seppe mai che lo scherzo era stato il frutto della nostra insuperabile fantasia. Alcuni giorni dopo a molte mamme del palazzo, furono sottratte le loro collane. Iniziammo a sfilare le perline per utilizzarle come munizioni solide, questa fu per noi una fantastica innovazione. Potevamo scagliare i nostri ordigni piuttosto lontano, e con una discreta potenza! Scegliemmo anche stavolta le nostre vittime con cura, e la preferenza cadde sulle ammuffite zitelle Tomasello: le sorelle Niobe e Lisetta, del civico 99 del terzo piano. Ogni domenica andavano a braccetto in chiesa. Ci mettemmo nella solita postazione che avevamo tenuto per Giuliana e suo padre.


161 «Ahia! Sai, Niobe, che sono stata colpita sul collo! Non mi sembra sia stata una vespa.» «Fammi vedere. C’è un puntino rosso, ma non credo che sia una puntura d’insetto. Ahia! Oddio, ma anch’io ho sentito una specie di puntura! Bén ma cos’è?» «Senti, Niobe, torniamo a casa che non si sa che cosa ci capita…» Fecero subito dietrofront, e noi ci sentimmo soddisfatti per aver sperimentato l’efficacia delle nuove munizioni.


162 PESCE D’APRILE Alla fine di marzo aspettavo con ansia che arrivasse aprile, e con esso, dopo un rigido inverno, anche la primavera e soprattutto il giorno del mio compleanno, quando avrei ricevuto regali dai miei genitori. «Ormai siamo al primo d’aprile.» disse la signora Maura a Claudio, mentre si trovava in negozio. «Pensi che a volte “Il Resto del Carlino” pubblica degli articoli di scherzi fatti come Pesce d’aprile. Proprio l’anno scorso ha messo in giro la notizia che diceva che stava per essere approvata una legge, la quale obbligava i proprietari di cavalli a mettere una targa sul loro sedere, per identificarli per strada!» «Addirittura? Ah, ma io non sono mica stupido, non ci casco proprio! Nessuno riesce certo a burlarsi di me, io c’ho un gran fiuto per ’ste cose! C’è chi crede a tutto, e quello non son certo io. A me non la si fa mica, sa!» «Beato lei, che ne è così sicuro! Se uno scherzo è ben fatto, credo che abbocchino in molti.» «Dica pure quello che vuole, ma io sono un osso duro. Sa che cosa si diceva in campagna dalle mie parti? “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”.» La signora Maura cercò di dissimulare la propria incredulità, e senza aggiungere altro, uscì. Riferì poi alla mamma ciò che aveva ostentato Claudio, e Vittorio e io ascoltammo tutto. Guardai Vittorio in segno d’intesa, e decidemmo che il fruttivendolo sarebbe stato il nostro prossimo obiettivo per un perfetto pesce d’aprile. Quel giorno fatidico la Pontani, soprannominata “la Colonnella”, si recò a fare la spesa nei vari negozi, anche se a volte gli esercenti, tenendo conto della distanza e delle consistenti ordinazioni che faceva, gliela portavano in auto direttamente a casa. Terminò il suo giro entrando dal fruttivendolo, ed erano presenti solo la moglie di Claudio e Lauretta. «Buongiorno, signora Pontani, ma come mai è venuta? Perché si è scomodata?»


163 «Be’, sono venuta a fare la spesa… ma perché me lo chiede?» «Uh, ma con tutta quella roba! Sa che gliel’ha portata a casa Claudio, ma non l’ha incontrato?» Lei sembrò cadere dalle nuvole. «Io non ho visto nessuno. Poi quale roba?» «Be’, non si ricorda più che ieri sera ha telefonato e ha fatto un ordine con un elenco di cose che non finiva mai? Oï, scusi, mò mica per farmi i fatti suoi, ma lei ha detto a Claudio che la spesa serviva per la cena di questa sera a casa sua, e che lei ha invitato i colonnelli colleghi di suo marito.» «Ma quale cena, e quali colonnelli? Io non ho invitato proprio nessuno, credo che lei stia addirittura vaneggiando!» replicò piccata. «No, no, io sto benissimo. Se lei prima ci telefona, e poi se ne dimentica, allora mi dispiace proprio per lei.» «Mi ascolti bene, io ieri non ho proprio telefonato! Ma è sicura che suo marito abbia capito bene? Immagino che si sia confuso.» «Ah, lui non si confonde mai, di solito confonde gli altri con le sue chiacchiere, lo dica a me che lo sopporto da dieci anni!» «Allora, si sarà trattato di uno spiacevole malinteso!» «Malinteso un paio di maroni! Ma se la lista che lei ha dettato ieri al telefono era una lunga come una matassa di lana!» «Insomma, non ho chiamato io, e adesso finiamola!» «Allora chi può essere stato?… Eh, ma è vero che oggi è il primo d’aprile! Vuole scommettere che qualcuno ha finto di essere lei al telefono! Quando torna Claudio, gli chiedo tutto.» «Appunto, mi sembrava proprio strano, sarà andata così.» Acquistò alcune cose e se ne andò piuttosto irritata. Dopo una ventina di minuti arrivò Claudio. «Sono stato dalla moglie del colonnello, ma non c’era mica, sai.» «Certo, sfido io, prima è venuta lei in negozio e mi ha detto, tutta seccata, che non ha telefonato, né ordinato niente!» «Be’, una signora così fine, adesso mi vuole prendere per il culo?» «No, no, Claudio, sei stato tu il minchione, per il culo ti ha preso qualcun altro: oggi è il primo d’aprile!» «Oh, vàca boia, ma è vero! Chi ha telefonato aveva la voce di donna… e io ci sono cascato! Ah no, ma non è mica giusto, lo scherzo questa


164 volta non vale: prendersela con uno che sta facendo il suo mestiere! Se prendo quell’ôca bìsa105 che ha telefonato, le tiro il collo!» «Senti Claudio, non arrabbiarti che non ti fa bene alla pressione. Rimetti tutto a posto e non pensarci più, ormai lo scherzo è stato fatto. Piuttosto… che siano stati quei cinni?»106 «No, no, non era la voce di una bambina quella che ho sentito, questa volta loro non c’entrano.» Per diversi giorni il povero Claudio non si dette pace: non era da lui essere preso in giro. Se non avesse detto nulla, avrebbe fatto miglior figura, invece a tutte le signore che entravano in negozio, riferiva il fattaccio, magari sperando che qualcuna parlando si tradisse. Dubbi ne nutrì tanti, certezze nessuna. Tutto rimase nell’anonimato. Di questo episodio era stata testimone la figlia Lauretta, che lo riferì a noi. Ovviamente non seppe mai che lo scherzo era partito da Vittorio e da me, e non fu facile metterlo in pratica. Vittorio era a conoscenza che la signora Pontani, piuttosto abbiente, spesso si faceva portare una consistente spesa a casa: non badando ai costi, e con tutte le primizie. Lo sapeva perché Claudio, parlando con la signora Maura, si vantava di avere clienti facoltosi come la moglie del colonnello, e altri graduati della caserma, e non soltanto gli operai del quartiere, che spesso facevano segnare il conto della spesa su un libretto, per poi saldare il debito alla fine del mese. Avevamo pertanto una base su cui pianificare il nostro scherzo. Claudio avrebbe preparato una grande quantità di derrate alimentari, si sarebbe recato dalla Pontani, girando a vuoto, e scoprire così di aver subìto una beffa. Per correttezza, devo ammettere che, secondo i nostri piani, Claudio avrebbe dovuto incontrare la signora a casa sua. Per contro, fu meglio così poiché, dalle parole di Lauretta, venimmo a conoscenza del dialogo fra sua madre e la Colonnella. Restava il problema più difficile da superare: trovare una donna che potesse simulare la voce della Pontani al telefono, e che accettasse di partecipare al nostro progetto. In quel caso venne a me l’idea di parlarne con quella sempliciotta della figlia di Biondi il cameriere. 105 Dal dialetto: oca bigia, oca cenerina (sign. quella cretina). 106 Bambini.


165 Sarina era una ragazza di circa trent’anni, dalla voce rauca, dai modi bruschi ma ingenua, e forse affetta da qualche piccola turba mentale. Vittorio e io le spiegammo ciò che avrebbe dovuto fare, scrivendole ogni dettaglio su un foglio come promemoria. «Sì, sì, va bene lo faccio, anche perché Claudio mi è proprio tanto antepatico!» «Ecco, questo è il numero di telefono di Claudio. Detta adagio, così lui scrive.» Il discorso da fare a Claudio, era questo: “Sono la moglie del colonnello Pontani. Domani sera ho una cena a casa mia, con i colonnelli, i colleghi di mio marito e voglio proprio fare una bella figura. Mi servono: tre polli, un chilo di parmigiano, tre chili di arance, un chilo di asparagi, due bottiglie di olio, un chilo di patate, tre etti di prosciutto affettato, sei finocchi, un chilo di pomodori, una cassa di mele, un chilo di cipolle, dodici banane, una caciotta, un chilo di ricotta, due chili di piselli, cinque etti di cioccolata da spalmare, tre barattoli di conserva, sei bottiglie di vino Trebbiano, quindici uova… e per favore, mi porti tutto a casa domattina”. «Credo che sia abbastanza» conclusi. «No, no» disse Vittorio «scrivici anche gli odori, così sembra una telefonata più vera!» Aggiunsi anche quelli alla lista per accontentarlo, anche se non capii mai perché questo avrebbe reso la telefonata più credibile. Sarina, come promesso, alle 20:00 in punto, fece la telefonata al fruttivendolo, e Claudio abboccò. L’eco di quello scherzo ebbe ripercussione sia nel palazzo, sia nel quartiere, e molti incontrandolo, non poterono far a meno di sorridere, pensando che lui si era sempre vantato di essere invulnerabile a qualsiasi burla!


166 CATECHISMO E SACRAMENTI – GIUGNO 1958 Vittorio, Maria e io frequentavamo il catechismo in parrocchia il sabato pomeriggio. Il primo giugno avremmo ricevuto, nel medesimo giorno, i Sacramenti della Cresima e della Comunione. A me piaceva andare in parrocchia, perché lì incontravo molti miei compagni di classe. Le lezioni poi si svolgevano in modo piuttosto caotico, poiché eravamo in tanti, e la catechista, una giovane mamma di origine bresciana, non riusciva a tenere a bada tutti. Molti schiamazzavano e si spostavano di continuo dal loro posto. Molto spesso per scherzare, alcuni sfasciavano il libretto della dottrina in testa a un compagno dicendo: «Adesso vedi che ti prendo a dottrinate!» Alcuni ne avevano acquistato già una terza copia. La cosa più ostica e strana per me, era quella di imparare a memoria le domande e le risposte già preconfezionate, e su quelle avere una valutazione. Si trattava ancora del vecchio modo di concepire il catechismo dei bambini: senza spiegazioni o approfondimento di brani del Vangelo e della Bibbia. Alla fine del corso, avremmo sostenuto un piccolo esame orale con il monsignore. Io provavo una grande paura, e il timore di essere bocciato, cioè ripetere il corso e ricevere i Sacramenti l’anno successivo e anche se di rado, era già capitato a qualcuno. Il parroco era rigoroso, soprattutto perché quell’anno ci avrebbe cresimato il Cardinale Giacomo Lercaro. Nel caso che Sua Eminenza ci avesse rivolto qualche domanda, non avrebbe voluto fare una magra figura. Nutrivo anche la preoccupazione che riconoscesse in me e in Vittorio, quei due che si erano infilati una domenica nel suo confessionale, quando ci sorprese grazie alla spiata di quell’infame di Battistoni. Tutto filò liscio, le domande non furono difficili, e noi amici, fummo tutti ammessi a ricevere i Sacramenti. In casa intanto, fervevano i preparativi.


167 I miei genitori, dopo aver ricevuto per l’ennesima volta la pubblicità telefonica del mobilificio di Castel Maggiore, che offriva prezzi scontati, si consultarono e, all’insaputa della nonna, decisero di visitare il magazzino per verificare il costo di alcune cucine. L’idea era partita dalla mamma. «Senti Angelo.» iniziò «quella che abbiamo non è una cucina, sono quattro assi inchiodate: una vecchia scansia aperta e tutta tarlata del periodo di guerra… poi le uniche quattro sedie sono ormai spagliate e zoppe. Con la Comunione di Eugenio verrà qualcuno in casa, e non abbiamo nemmeno il numero di sedie che servirebbe. Proviamo a ragionare e a fare due conti. So che non ti può interessare, però lo dico lo stesso. Maura ha già comprato una nuova cucina, proprio in quel magazzino. Ce l’ha da due giorni, è bianca, anche se è un colore che si sporca subito, ma è molto bella. Ha una fila di pensili, e la base con cassetti e ante. Il rivestimento è di fòrmica lucida, lavabile! Ha comprato anche un bel tavolo e sei sedie, ciò che andrebbe proprio bene per noi.» «Sai per caso quanto l’ha pagata?» le chiese papà. «Mi ha parlato di 150.000 Lire, ma la sua è grande, e forse ha anche esagerato vantandosi di aver speso tanto. Potremmo accontentarci di una più piccola, poi sono mobili che durano.» «Mò sòrbole, sono dei bei soldi! Noi non li abbiamo tutti. Potremmo comunque andare a vedere, come dicevi tu, e chiedere se hanno dei mobili più economici e di dimensioni più ridotte.» Un sabato pomeriggio prendemmo la corriera per Castel Maggiore e, dopo aver visionato un discreto numero di mobili, i miei scelsero una cucina grigio chiaro marmorizzato, con sfumature bianche. Nel giro di pochi giorni l’avrebbero consegnata, e il costo era di circa 110.000 Lire, inferiore a quella di Maura. Dopo la contentezza del primo momento per un acquisto che rispondeva in pieno alle nostre esigenze, sorse il problema di riferire la cosa alla nonna, immaginando la scenata che avrebbe fatto, e così puntualmente accadde: «Bén, dico io, o siete diventati ricchi, o siete dei matti! Ma se questa va benissimo, c’era proprio bisogno di cambiarla? Poi di questa vecchia


168 che cosa ne facciamo? Ah, si vede proprio che adesso legate i cani con la salciccia!107.» «Senta, nonna, Angelo e io non siamo più dei bambini a cui si deve insegnare tutto. Abbiamo preso questa decisione insieme, e ci sembra giusta. Lui lavora tutto il giorno, e lei lo sa. Non siamo ricchi, ma un minimo di soddisfazione ce la possiamo anche prendere. Per la vecchia scansia proveremo a bruciarla, ma credo che la stufa si rifiuterà di farlo, perché ha più buchi di tarli che legno! Poi di questa cosa non ne voglio più parlare!» Avevo visto la mamma così seria e determinata, solo quando il medico le consigliò di portarmi al mare. Lo zio Emilio sarebbe stato il mio padrino. Qualche giorno prima dell’evento gli zii vennero a Bologna, mi portarono dall’orefice e mi regalarono una catenina d’oro con una medaglietta. Era consuetudine allora che i bambini maschi ricevessero in dono per la Comunione il loro primo orologio da polso, di solito regalato dai padrini. Sperai almeno che me lo donassero i miei genitori… Non fu così, e io ci rimasi molto male. «Senti Eugenio, tu sei un bimbo giudizioso, e so che ragioni.» spiegò la mamma, e dalle prime battute, capii che il seguito del discorso non sarebbe stato positivo. «So anche che desideri tanto un orologio da polso, ma sei ancora piccolo. Poi a scuola non lo potresti portare perché i compagni te lo potrebbero rubare o rompere. Gli orologi che regalano i parenti ai bambini sono in acciaio, il papà l’anno prossimo te lo regalerà d’oro, pensa! In fondo per te che cosa cambia?» Mi trattenni e non dissi nulla, ma non dissimulai la mia grande delusione tenendo il broncio, anche se in quel momento avrei tanto voluto piangere. “Che cosa me ne faccio di un orologio d’oro l’anno prossimo?”, pensai. “L’occasione è adesso, non è mica la stessa cosa! A me andrebbe benissimo anche quello d’acciaio. Tutti i miei compagni l’avranno, solo io non potrò metterlo al polso”. Ne parlai con Vittorio, che cercò di consolarmi: «No, non devi prendertela, i tuoi adesso dicono così, ma è solo per farti una sorpresa, avrai anche tu l’orologio!» 107 Detto bolognese che significa essere prodighi, degli spendaccioni.


169 «Sarà… ma li conosco bene, non sono capaci di raccontare bugie.» Avevo ragione. L’anno successivo, per il mio compleanno, ebbi come regalo un orologio d’oro, svizzero di marca Surrex, ora piuttosto raro. Fui riconoscente per il prezioso dono, ma quello non mi procurò alcuna emozione, né gioia. In tutta sincerità provai quasi un senso di fastidio. Ora, a distanza di oltre cinquant’anni, ho sentito il bisogno di allontanare da me quell’orologio, che mi procurò quella grande delusione, che neppure il tempo era riuscito a colmare. A parte quello, ricevetti altri regali: la signora Adelma mi regalò il libro “Cuore” di De Amicis. Allora era consuetudine donarlo perché era ritenuto ricco di sani principi ed educativo per i bambini della mia età. Lo lessi e lo trovai noioso e molto triste, specie in alcuni episodi. Non mi coinvolse affatto, anzi provai disagio e quasi repulsione. Non conoscevo ancora il termine “patetico” ma così lo configurai nella mia mente. Il linguaggio ormai superato, non era certo rapportato alla mia età, si parlava di un romanzo scritto nel 1886. La signora Maura mi regalò una penna stilografica con il pennino d’oro, e dopo una settimana subì una triste fine. «Uffa, ma insomma! Questa penna avrà anche il pennino d’oro, ma perde gocce d’inchiostro che mi fanno delle macchie sul quaderno!» Il papà, che era presente, ebbe un impeto di rabbia e me la strappò di mano, sbattendola con violenza per terra. «Vedrai che ora scriverà meglio!» Io piansi moltissimo, e non capii mai quel gesto d’ira. I miei genitori per quell’occasione avevano speso tanto. Oltre alla nuova cucina, acquistarono per me un completo da cerimonia: pantaloni corti e giacca, di colore grigio, camicia bianca, cravatta grigia con l’elastico così il nodo era sempre fatto, calze lunghe bianche e scarpe nere lucide. Il giorno prima della cerimonia, noi bambini andammo in chiesa per la confessione, e il monsignore ci fece un discorso generale di preparazione ai Sacramenti, che si concluse con queste parole: «Se avete ancora dei dubbi sui peccati che dovrete confessare, tenete ben presente queste parole: “tutto ciò che vi vergognereste dire e fare in presenza di vostra madre, dovete considerarlo come un grave peccato mortale, ricordatelo sempre”.»


170 «Anche fare la popò?» chiese ingenuamente una bambina. Il parroco se ne andò via subito, contrariato, lasciandoci in balìa dei nostri catechisti. Arrivò il mio turno, e m’inginocchiai nel confessionale. «Ti tocchi?» mi chiese quasi subito il cappellano. «Sì, sì» risposi. «Ah! Dimmi quante volte, e come fai quando ti tocchi» s’informò. «Be’, tante!» «Come tante?» «Sì, be’, mi tocco i piedi, la testa, le gambe, e a volte anche il naso…» risposi con spontaneità, e lui mi zittì subito. «Basta, be’ non fa niente, andiamo avanti, confessa pure il resto.» Terminata la confessione, ripensai a quella strana domanda, cui allora non seppi fornire una spiegazione logica. Il primo giugno, di mattina presto, arrivarono gli zii a casa nostra in Topolino, e scaricarono una grande torta, una teglia con il pollo arrosto e un enorme cabaret di tortellini pronti per essere tuffati nel brodo di carne che la mamma aveva fatto il giorno precedente. Ebbi la grande sorpresa di veder scendere dall’auto anche Bruna e Maria, le mie grandi amiche di campagna, oltre alla cugina Robertina. Non sto qui a descrivere la cerimonia. Posso soltanto dire che quella giornata era afosissima e un paio di bambini svennero in chiesa. In quegli anni, per ricevere il Sacramento della Comunione, occorreva essere a digiuno da tre ore, e questo fatto, unito al grande caldo, forse fu la causa di quei malori. Terminata la Messa della Comunione, tornammo a casa. Seguì un lauto pranzo in allegria, poi ci preparammo a ritornare in chiesa per il Sacramento della Cresima. Devo ammettere, che non era stata proprio una buona idea impartire entrambi i Sacramenti nello stesso giorno. Ricordo ancora la figura imponente del Cardinale, nella sua veste color porpora, con la grande Mitra sul capo, e il Pastorale nella mano destra. «Stai attento che quando il Cardinale ti cresimerà, e ti dirà: “Pax tecum” ti darà anche un sonoro schiaffo sulla guancia!» Aveva detto il signor Umberto, per mettermi paura. Era soltanto una diceria popolare. Rimasi sorpreso quando ebbi soltanto l’apposizione di due dita sulle gote.


171 Quello che mi colpì di più fu l’anello che il Cardinale portava al dito, lo notai quando, genuflesso, compii l’atto del bacio: portava incastonato un rubino rosso e rilucente, grosso come un’oliva. Al termine della cerimonia il fotografo incaricato dalla parrocchia, fece le foto di rito ai bimbi e ai loro padrini. Al ritorno mi aspettava il taglio della torta, e mi fu anche permesso, al momento del brindisi e in via eccezionale, di bere un dito di spumante che lo zio produceva.


172 ESTATE 1958 In seconda elementare, con il maestro Capaldo, fui promosso ottenendo dei buoni voti. Gli zii anche quell’estate, chiesero ai miei genitori di potermi ospitare al Conte per le vacanze estive. Accettai con gioia, perché così avrei rivisto i miei amici. Appena giunto, fui pesato come al solito, perché la zia ci teneva molto a verificare quanto la sua ottima cucina avrebbe contribuito a farmi acquistare un po’ di peso. Ero alto oltre un metro e mezzo, all’incirca come un bambino di dodici anni, e pesavo poco più di venticinque chili. Non a caso in inverno ero spesso debilitato da febbri influenzali, mal di gola e avevo le tonsille grosse come albicocche. Il medico ne aveva suggerito l’asportazione, allora era una prassi molto frequente e si faceva con la massima disinvoltura. I miei genitori, penso più saggi di lui, dicevano: «Se ci sono, vuol dire che servono! Meglio aspettare.» Dopo quel duro inverno in un appartamento non riscaldato, giunta l’estate mi sentivo proprio bene. Non tolleravo però il sole che mi arrostiva subito perché avevo la pelle bianchissima, ma la vita ruspante in campagna, senza il fumo della fonderia, e correndo a piedi e in bicicletta, giovò molto alla mia salute. Dopo qualche giorno, arrivò ospite degli zii anche mio cugino Giovanni. Fui molto contento, ricordavo ancora con piacere la mia breve vacanza a casa sua, ad Anzola. «Domattina vi porto a pescare nel macero qui vicino.» disse lo zio mentre cenavamo «ci alzeremo presto. I pesci non aspettano i pigri e con il troppo sole non abboccano mica!» Fui molto contento e al tempo stesso agitato perché non ero mai andato a pesca. Confidai però nell’esperienza dello zio. Salimmo sulla Topolino, ci avviammo per una strada sterrata e dopo qualche chilometro arrivammo nei pressi di quello che sembrava un piccolo lago.


173 «Ho preso tre canne da pesca con il mulinello, una serie di ami e i galleggianti, mancano solo le esche.» «Le esche?» chiesi. «Oï, i bigatti,108 cioè i vermi. Quelli ce li procuriamo qui, nel terreno. Scavate pure, ecco la vanga.» Giovanni, più esperto di me, si mise a scavare e comparvero i primi lombrichi che depose in un contenitore. Provai un senso di repulsione, soprattutto nel vedere con quale disinvoltura gli altri due li prendevano. «Eugenio guarda come si fa.» mi mostrò lo zio. «Tieni la canna in questo modo, poi la porti più indietro e con forza lanci la lenza con l’amo. I pesetti di piombo lo porteranno a fondo e quando vedi il galleggiante che si muove, significa che un pesce ha abboccato. Pian piano avvolgi la lenza con il mulinello, girando la manovella.» «Zio, io non me la sento di attaccare il verme, lo puoi fare tu, per favore?» domandai, ancora disgustato. «Sì, ma un bravo pescatore si deve arrangiare da solo!» «Grazie! Ma lo sai che a me il pesce non piace…» Lanciai la lenza: il tiro non fu molto potente, ma come prima volta poteva andar bene. Poco dopo vidi il galleggiante vibrare e poi sparire sott’acqua. «Tira! Tira! Ha abboccato un pesce!» mi urlò Giovanni. Avvolsi in fretta il mulinello e tirai a riva un piccolo pesce colorato. «Che pesce è? Domandai.» «Un pesce orologio, vedi, ha una forma rotonda. Be’, il primo pesce l’hai preso tu, sei contento?» «Sì, molto! Adesso bisogna staccarlo dall’amo, io non sono mica capace, poi mi fa senso toccarlo!» «Ah, che pazienza che ci vuole!» esclamò lo zio, rassegnato. «Guarda come si fa. Questo però lo ributtiamo in acqua, non si mangia mica.» «Guardate, ho pescato un pesce anch’io!» gridò Giovanni entusiasta. «È un pesce gatto! Devi stare attento perché i baffi forano» lo avvertì lo zio. «Adesso però, andate a pescare un po’ più in là.» Pronunciò l’ultima frase con un certo nervosismo, anche perché lui era l’unico a non aver preso nulla, mentre noi inesperti ne avevamo già catturato uno ciascuno, e poi facevamo troppo baccano. 108 Dal dialetto bigât: lombrico, verme.


174 Ci spostammo dall’altro lato del macero, e Giovanni lanciò la lenza. «Ahi!» gridai «Be’, che cosa c’è?» chiese Giovanni. «Mi si è piantato il tuo amo nel sopracciglio Ahi, non vedi?» Quando mio cugino aveva mosso la canna indietro, per acquistare più forza per il lancio, mi aveva arpionato. «Toglimelo, ti prego, fai presto!» «Sì, ma non urlare così, che lo zio se ne accorge, poi ci sgrida. Guarda che non è mica facile, c’è l’arpione e se tiro si pianta di più!» Non so chi dei due fosse più terrorizzato. «Toglilo, usa le forbici e taglia subito il filo!» urlai, fuori di me. «No, no che lo zio scopre che non c’è più l’amo nella lenza. Adesso provo a fare adagio…» Dopo diversi tentativi, e cercando di non farmi male, Giovanni riuscì, quasi per miracolo, a sfilare quel maledetto arpione. Tutto sommato mi rimase soltanto un puntino rosso, e il male e la paura svanirono. «Senti, adesso ci avviciniamo allo zio» comunicai «tu però stammi lontano, che non capiti ancora.» Lui annuì. «Va bene.» Rincuorato, mi feci mettere l’esca, e dopo essermi un po’ allontanato, lanciai con forza la lenza. Forse ci misi troppo vigore poiché invece di andare in acqua s’impigliò nel ramo di un grosso salice al mio fianco. «Zio, zio, mi si è impigliato l’amo nell’albero!» «Una cosa è certa: aspetterò un bel pezzo prima di portare voi due ancora a pesca.» Con pazienza tagliò la bava e, saliti di nuovo sulla Topolino, tornammo a casa. «Bén allora, com’è andata? Che cosa avete preso?» chiese la zia appena entrammo in cucina. «Io, niente. Giovanni un pesce gatto, Eugenio un pesce orologio… e un salice!» «Ma che pesce è?» chiese Robertina. «Un albero, proprio un albero!» rise lo zio. Giovanni e io non raccontammo dell’incidente dell’amo, e quell’estate non andammo più a pescare. La mia permanenza dagli zii era piacevole, unico neo, la mia innata paura per gli animali, anche quelli domestici. A volte, mentre ci trovavamo a tavola, manifestavo uno strano comportamento.


175 «Eugenio, perché non mangi più? Eh, ma cos’è stato quel busso?» chiese la zio «È stato lui!» fece la spia Robertina, puntandomi l’indice contro. «Adesso ho capito.» intervenne la zia «ha tirato su in fretta le gambe, e ha sbattuto contro il tavolo perché è passato il gatto Ercole. Ma non devi avere paura, non fa niente! Adesso lo metto fuori.» Ogni volta che il gatto si sfregava contro le mie gambe nude, avevo il timore che mi graffiasse, per questo m’irrigidivo e le ritraevo, scattando come una molla. Accadde poi un episodio che mi fece ben più paura. Qualche giorno dopo, entrai correndo nella loggia di casa. In una frazione di secondo, senza quasi rendermene conto, vidi una cosa pelosa che, all’improvviso, volò sopra la mia testa, e provai un grande spavento! Lo zio, che era proprio lì vicino, scoppiò a ridere. “Ah, ma non c’è poi mica tanto da ridere!”, pensai. Poco dopo, lo zio andò dalla moglie in cucina a riferirle l’accaduto: «Sai, Natalina, prima che cosa è successo? Non ci crederesti: Eugenio stava entrando di corsa ed Ercole stava uscendo, quando il gatto si è trovato di fronte un ostacolo, per non scontrarsi con lui, ha preso lo slancio, e l’ha saltato! Avresti dovuto vedere Ercole, ha fatto un balzo così alto, che sembrava una tigre del circo quando salta nel cerchio di fuoco!» «Chissà che paura hai avuto!» intuì la zia, venendo verso di me. «Sei diventato pallido come uno straccio, vedi che poi non è successo niente. Mettiti un po’ lì seduto, che ti passa.» In effetti, dopo poco mi ripresi dallo spavento. Giurai però a me stesso che non sarei più entrato in casa di corsa. La zia, nel frattempo, aveva in serbo una bella sorpresa per Robertina e per me: «Sapete dove andremo domani sera?» «Al cinema?» chiesi io. «No, no, meglio ancora. Se siete bravi vi accompagno a vedere la televisione dai Sarti, che l’hanno appena comprata. Ci hanno invitato e mi hanno detto che c’è la trasmissione “Un, due, tre” con i comici Tognazzi e Vianello, che fanno tanto ridere.» Avevo visto la televisione solo in mostra nelle vetrine dei negozi, passando in città per le vie del centro. Per noi bambini questa sarebbe stata una piacevole novità. Erano davvero pochi quelli che ne


176 possedevano una, poiché il costo di un apparecchio televisivo era circa sei volte uno stipendio medio. Fu così che ci fu un incremento notevole di clienti nei bar forniti di Sale TV, dove ci si recava tutti insieme per assistere alle trasmissioni. Dopo cena, la zia prese dal vano oggetti della Topolino la torcia che serviva per le emergenze, perché saremmo tornati tardi, e al buio. Ci avviammo sull’argine del fiume Reno e lo percorremmo per oltre un chilometro, poi scendemmo lungo una rampa sterrata che portava alla bella villa della famiglia Sarti. Fummo accolti con cortesia, e subito la signora offrì a noi bimbi del croccante fatto con semi di albicocca, e dell’aranciata. La puntata televisiva fu esilarante. Ci divertimmo moltissimo con la gag nella quale Vianello raffigurava un contadino toscano baffuto e irascibile, mentre Tognazzi, vestito da donna – che doveva interpretare sua moglie – con il fazzoletto annodato alla maniera contadina dietro alla nuca, saltava atterrando con il sedere sul tagliere, per distendere la sfoglia. L’ultima volta che avevo riso tanto, fu quando la mamma mi portò a vedere un film con Totò, che “sgonfiò” il seno di una prosperosa signora, applicandole con un lungo spillone una medaglietta della Croce Rossa. Tornammo alcune volte dalla famiglia Sarti per vedere la televisione, non di frequente per non disturbare, così aveva deciso la zia. Noi bimbi intanto continuavamo a giocare tutto il giorno, fino a sera tardi, ed eravamo sempre a caccia di novità. Un’amica di scuola di Bruna le aveva detto che si poteva realizzare una specie di telefono, “rudimentale”, solo con lo spago e due barattoli di latta. Quando lo raccontò ci entusiasmammo e desiderammo costruirlo, iniziando da subito a cercare in casa gli oggetti adatti. Fui molto fortunato poiché gli zii utilizzavano il caffè solubile “Ecco” e la lattina di alluminio era proprio idonea al nostro scopo. Ne trovai due vuote. Gino intanto procurò la cordicella. Praticammo un foro sul fondo del barattolo, e fissammo un lungo spago con un paio di nodi e così facemmo per l’altro. Poi a distanza, tendendo il filo, ci mettemmo a parlare e ad ascoltare dentro alla lattina. La cosa parve funzionare, soprattutto con l’aiuto della nostra immaginazione.


177 Una cosa era certa, che noi bambini non ci annoiavamo mai, ed eravamo sempre a caccia di nuove idee. In una bella giornata di sole con Bruna, Maria, Gino, e Rino M, uno dei bimbi di Padre Marella, decidemmo di andare al fiume Reno. Nessuno di noi aveva un costume, così ci bagnammo nell’acqua soltanto le gambe. Gino, a un certo punto, richiamò la nostra attenzione: «Guardate qui dove c’è l’acqua bassa, è pieno di girini. Che carini, prendiamoli!» Solo dopo mi spiegò che cos’erano. Ci guardammo attorno e trovammo un vasetto di vetro abbandonato, Rino lo prese e, tenendone il bordo a pelo dell’acqua, ne catturò parecchi. «Adesso che cosa ce ne facciamo?» chiese Bruna. «So io dove metterli, poi lo saprete!» esclamò Rino. Ritornammo a casa e facemmo le solite corse in bicicletta. Il mattino seguente fummo svegliati da grida acute. «Aiuto! Oh mamma mia! Aiuto!» Quello strepito proveniva dalla zona centrale del castello, abitata dai bambini e dalle suore di Padre Marella. Lo zio indossò in fretta la vestaglia, impugnò la pistola che di notte teneva sul comodino, uscì di corsa e in pochi balzi salì lo scalone. Entrato dal salone centrale, si precipitò nella stanza delle suore. Questa volta ci fu un urlo generale: un uomo nella loro stanza non avrebbe mai dovuto mettere piede! «Signor Emilio, che cosa ci fa qui? Ma non vede che siamo tutte nude, vada via subito!» inveì suor Frumenzia. «Macché nude, con quei camicioni! Quale sorella ha gridato aiuto prima, e che cosa è successo?» «Fono ftata io.» disse tremante suor “Peppona”. «Lì, dento il bicchiefe, dove ho meffo la dentieva pev la notte, c’è qualcofa che fi muove!» «Sorella, be’? Lei ha urlato per questo? Ma sono solo dei girini, prenda… anzi, se ha paura, gliela tolgo io la dentiera dal bicchiere, vada pure a lavarla e se la metta, non è successo niente! Saranno stati i bambini a farle uno scherzo.» «Gafie tante, non fto bene, ma ova pefò pvendo subito la mia medifina!» La solita birra…


178 Lo zio rise di gusto, ritornò e ci raccontò tutto. Robertina fu poi incaricata di mettere i girini nella fontana e restituire il bicchiere alla suora. Quello fu l’ultimo episodio buffo che capitò durante la mia vacanza al Conte.


179 OTTOBRE – DICEMBRE 1958 Nel palazzo, ormai anche le pietre erano a conoscenza che la fornaia Cesarina avrebbe comprato il televisore, sfido io, con tutti i soldi che guadagnava con il negozio! Quel tam-tam che lei fece in giro per vantarsi, ebbe ripercussione anche nel quartiere. Confesso che provai un po’ d’invidia, poiché avevo visto alcuni programmi televisivi dai Sarti, che mi erano piaciuti moltissimo. Per la nostra famiglia non era certo il momento per acquistare un televisore, perché dovevamo ancora finire di pagare la cucina. «Lo compreremo quando costerà meno.» ribadì il papà. «Ora non si può, e vedrete che poi succederà!» «Mamma vieni, corri!» urlai mentre ero ancora a letto. «Ho sentito dei rumori, su nel solaio ci sono i topi!» Mia madre rimase in ascolto per alcuni istanti, poi esordì: «Hai proprio ragione, qualcosa si muove… eh, bén bén, ma che fracasso!» Subito dopo udimmo un grido orribile provenire dall’alto: «Ahi, la mia gamba!» «Bén mò… oddio! Oddio!» urlò la mamma, quando piovvero grossi calcinacci sul letto matrimoniale, e vedemmo penzolare una gamba che usciva dal soffitto. La mamma e io ci spaventammo a morte. «Ivano, tirami su, dai, tirami su subito!» La gamba sparì, ma nel soffitto rimase una voragine di almeno cinquanta centimetri. Nel frattempo arrivò il papà che era in cucina, si rese conto di ciò che era successo e si precipitò fuori, sul pianerottolo di casa. Dalla scaletta posta in corrispondenza della botola per l’accesso al solaio, scesero l’elettricista e il suo aiutante, quest’ultimo tutto bianco di gesso. «Ma che cosa avete combinato?» chiese mio padre. «Be’, dobbiamo installare sul tetto l’antenna della televisione della fornaia.»


180 «E per questo sfondate il soffitto? Mi meraviglio di voi! Non sapete che non si deve camminare sulle arelle?109 Sono elettricista anch’io, e lo so bene! Ci sono le travi portanti che sostengono il controsoffitto, dovevate camminare su quelle, non al centro. Si poteva far male qualcuno, di sotto stava dormendo un bambino!» «Ci dispiace, ma il mio aiutante non lo sapeva, e ha camminato fuori dalle travi.» «Abbiamo visto! Adesso però occorre riparare il soffitto, chi ci pensa?» aggiunse il papà. «Non certo noi! Non è colpa nostra se avete dei solai del cavolo! Se la prenda con il padrone di casa che non fa manutenzione, su è anche tutto tarlato.» rispose l’antennista con tono arrogante. «Come? Adesso non sarà mica colpa mia? Questo soffitto si reggeva ancora, prima che arrivaste voi.» «Senta, ora però noi dobbiamo finire il nostro lavoro, ne parli bén con la fornaia che ci ha richiesto l’installazione dell’antenna.» La mamma intervenne e cercò di calmare il papà. «Angelo dai, vieni via, non serve litigare. Poi vedremo come sistemare questa cosa.» Il papà si lasciò convincere, ma aggiunse: «Be’, non finisce qui, e guai a voi se tornate nel sottotetto, altrimenti vengo su io e vi butto giù, ma questa volta, con tutte e due le gambe!» Le padrone di casa furono subito informate, dovevano sapere che non eravamo stati noi a fare quell’enorme buco, dal quale di certo avrebbe iniziato a filtrare la pioggia, come era già capitato in tanti altri punti del soffitto. «Spetta all’inquilino conservare l’appartamento nelle migliori condizioni.» sentenziò quella boriosa di Giuliana. «Se c’è stato un danno all’appartamento, ne risponde sempre il conduttore che può rivalersi su chi l’ha prodotto. Credo proprio che quel danneggiamento debba essere sistemato al più presto!» «Sono d’accordo con lei, anche perché ci viviamo noi là sotto! Era solo per informarla» spiegò il papà, manifestando un certo nervosismo. Quando poi lui ne parlò anche con la fornaia, quella babbuina isterica non volle sentire ragioni: «Mi scusi, ma io che cosa c’entro? Ho ordinato un lavoro che mi costa anche un bel po’ di soldi. Se gli 109 Fasci di sottili canne palustri impastate con il gesso, che costituivano il controsoffitto, fra una trave portante e l’altra, poste a una certa distanza.


181 antennisti hanno sfondato il suo soffitto, è solo colpa loro: faccia eseguire il lavoro, poi addebiti le spese alla loro ditta.» «Guardi, Cesarina, che non è mica facile. Ho provato, quelli danno la colpa al soffitto marcio e se ne lavano le mani. Se potesse convincerli lei…» «Ah, io? Non ci penso proprio, magari poi per ripicca mi aumentano anche il costo dei lavori!» Papà capì che non c’era niente da fare, e con rassegnazione e pazienza, una domenica pomeriggio salì sulla scala, e alla meglio chiuse quel grande buco con il cemento. La sagoma di quella toppa, dalla forma di una grande nuvola grigia, continuò a farsi notare almeno per venti anni. Il papà appose un cartello all’interno del portone d’ingresso, che indicava che chiunque si fosse recato sul tetto, avrebbe dovuto usare l’accortezza di camminare sulle travi, per non creare incidenti. “Dato che quella baggiana della Cesarina non si è comportata bene con il papà, merita proprio una bella punizione, e devo trovare il modo di castigarla, ma come posso fare?”, pensai arrabbiato. Ciò che stava tanto a cuore a quella nevrotica, era il prezioso telefono, quindi bisognava occuparlo il più possibile affinché non potesse né fare, né ricevere telefonate. Così, per esasperarla, escogitai un semplice e innocuo strattagemma. Andai in cantina e mi procurai un legnetto sottile, che posi sotto la cornetta del telefono, in modo che stesse appena sollevata dal suo aggancio. Non si notava e in apparenza sembrava tutto normale, ma la linea restava occupata da noi, addirittura per ore intere! Poi, a mio piacimento, toglievo quel piccolo spessore, affinché non se ne accorgessero i miei genitori. Quante suonate di campanello fece Cesarina! «Eh bén, ma chi è che suona il campanello in questo modo? «Che sia la Cesarina?» chiedeva la nonna. «No, no, la cornetta è al suo posto» rispondeva la mamma, dopo aver dato un’occhiata sommaria al telefono da lontano. «Forse sarà la Fernanda, ma Eugenio è qui in casa… lui non c’entra di sicuro. Lasciamo pure che suoni!» Quanto mi divertivo! Ora era giunto il momento di punire anche le padrone di casa, per non aver mai fatto nulla per rendere il nostro appartamento più vivibile, quando loro d’inverno tenevano i loro bei grugni al calduccio.


182 Pensai a qualcosa che non fosse il solito scherzo telefonico, e soprattutto che potesse procurare loro almeno qualche danno. Ne parlai con Vittorio, e lui mi suggerì un’ottima idea. Una domenica mattina, dopo essere stati in chiesa, tornammo a casa in fretta. Sapevamo che le signorine Bartoletti si fermavano, alla fine della Messa, a chiacchierare a lungo con le conoscenti, e ritornavano camminando come due vecchie testuggini. Salimmo in fretta la scala del civico 99, e arrivammo al secondo piano, il loro. Avevo sottratto alcuni chiodi molto sottili dalla borsa degli attrezzi del papà, e li infilammo con cura e quasi interamente, nella larga serratura della porta di quelle carampane. Vittorio poi diede il tocco finale: si tolse una scarpa, e con il tacco iniziò a battere, tanto da far sparire le piccole teste dei chiodi all’interno della toppa. Non avemmo timore di essere uditi dal padre, che era all’interno dell’appartamento, tanto era quasi del tutto sordo. Andammo al piano superiore, e attendemmo l’arrivo di Giuliana e Margherita, per goderci la scena. «Ma com’è? Sai, Margherita, che la chiave non entra mica bene nella toppa?» «Sei tu che sbagli, guarda di non infilarla a rovescio!» «Ma no, così va bene, vedi?» «Fammi provare» disse, togliendole di mano le chiavi e armeggiando a sua volta. «Hai ragione, la porta non si apre proprio, e adesso come facciamo? Chissà quanto ci viene a costare una nuova serratura!» Di certo Margherita era la più tirchia delle due. «E al povero babbo non ci pensi? Da solo là dentro, magari si agita se non ci vede arrivare. Proviamo a chiamare, e bussiamo forte alla porta.» Quel dinosauro continuò a non sentire nulla! In compenso il continuo bussare di quelle due citrulle, si udì fino al primo piano da Claudio, che corse su per vedere che cosa stesse succedendo. «Ah, questo è proprio un bel problema, oggi è domenica, e giù in officina non c’è il fabbro Santi per farci aiutare. Sentite, signorine, spostatevi dalla porta che adesso ci provo io!» Si mise a dare spallate all’uscio e a tirare dei calci peggio di un mulo. «Ma no, no, non così! Non vede che ce la sfonda!» urlò Giuliana. «Bén, ma non dovete entrare?» Claudio fece spallucce.


183 «Sì, sì, ma con la chiave, non in questo modo!» Claudio si fermò, e all’ultimo colpo, finalmente, il padre aprì la porta. Qualche giorno dopo passai di proposito sul pianerottolo delle padrone, e notai che era stata montata una nuova serratura. Vedendo i chiodi nella toppa, pensarono che fosse stato un tentativo di effrazione compiuto dai ladri, e noi ce la ridemmo. *** Il primo giorno di scuola, con grande sorpresa e dispiacere, noi alunni trovammo un nuovo insegnante: il maestro Moretti, che abitava nella palazzina che dava sul mio cortilone, e che già conoscevo di vista. Notammo subito il suo carattere irascibile. Era brusco e privo di pazienza. Forse eravamo stati abituati troppo bene con la cara maestra Pellegrini e il suo successore Capaldo; ora invece il nostro percorso scolastico sarebbe stato difficoltoso, ponendoci in uno stato d’ansia che prima non avevamo mai provato. Quando eravamo interrogati alla cattedra sulle tabelline, se sbagliavamo prendevamo delle bacchettate sulle mani con lo spigolo del righello. Chi le ritraeva ne riceveva una in aggiunta. Quell’anno scolastico iniziò molto male, anche se la maggior parte di noi cercò di adeguarsi a questi nuovi metodi. A casa a volte mi lamentavo, ma il torto ricadeva sempre su di me: dovevo impegnarmi di più. I problemi di matematica per me risultavano ostici, e non ne capivo il senso. Per assurdo, occorreva spesso calcolare il numero dei litri d’acqua e il tempo che occorreva per riempire vasche da bagno, a opera di frenetici rubinetti sempre in funzione! O divisioni di torte golose di alcuni chili fra tanti bambini, e al povero Pierino spettava solo una piccola fetta in grammi. Ogni domenica mattina, dopo la Messa, la mamma veniva sempre avvicinata da una strana coppia piuttosto anziana, che aveva avuto un figlio in tarda età e che era un mio compagno di classe. «Sa, signora Adriana, che sono proprio soddisfatto del maestro di Gianfranco! Quest’anno finalmente i bambini lavorano sodo. Altro che caramelle, giochi, e indovinelli a premi! Ci vuole polso, e il maestro


184 Moretti dimostra di saper tenere la disciplina. Gianfranco non esce mai in cortile senza aver fatto tutti i compiti, più i problemi che gli assegno io per esercitarlo. Sa che risolve anche quelli con cinque operazioni?» «Addirittura cinque?» si meravigliò la mamma. «Credo che saprebbe affrontarne anche di più difficili!» Ogni volta il solito ritornello, ed era sempre il padre a parlare e a vantarsi, la madre di Gianfranco, una spilungona quasi calva, si limitava ad annuire. Quando la mamma ci riportò quella e altre conversazioni, fu inevitabile fare commenti: «Cerco sempre di evitarli.» confessò «ma loro mi aspettano fuori dalla chiesa, e mi attaccano un bottone: “il loro figlio qui, il loro figlio là…” be’, mi hanno proprio stufato! Almeno andasse bene a scuola… mi risulta invece che non sia poi tanto bravo, vero Eugenio?» «Oï, è vero.» risposi convinto. Quel povero Gianfranco faceva un po’ pena, con un padre despota che lo vessava di continuo, immagino perché non era il figlio che avrebbe desiderato; e lui, povero bambino, era gonfio come una palla. Forse il suo unico rifugio era nel cibo! Anche per Gianfranco arrivò il giorno dell’interrogazione. Non doveva neppure salire sullo scaleno,110 poiché, con la sua statura, arrivava alla lavagna anche senza. Il maestro Moretti gli dettò un problema che doveva risolvere al momento. Notammo il suo grande impaccio, si fece tutto rosso e ci lanciò qualche occhiata, con l’intento di captare dei suggerimenti, che però non arrivarono. «Su, sveglia Gianfranco! Con quale operazione inizi a risolvere questo problema?» «Ci vuole una più?» «No!» «Una meno?» «No!» «Allora una per?» «No!» «Forse Una diviso?» 110 Larga scaletta di legno con tre gradini.


185 «No! Ciuccio che non sei altro, per prima cosa devi iniziare con un’equivalenza! Vai subito al posto, e vergognati!» La classe scoppiò in una risata, quando il maestro mise sul capo di Gianfranco il berretto di cartone con le orecchie d’asino. Da quel momento, i genitori di Gianfranco non bloccarono più la mamma all’uscita della chiesa, anzi si dileguavano a grande velocità. Un giorno accadde un episodio che mise in imbarazzo il maestro Moretti. Un nostro compagno, un certo Massimo, quando il maestro era alla lavagna e voltava le spalle, si divertiva a catturare le mosche, che tuffava nel calamaio pieno d’inchiostro del vicino di banco. Il poveretto, quando intingeva il pennino per scrivere, a volte pescava anche una delle mosche che stavano sul fondo. Come risultato… uno splash sul quaderno che generava una gigantesca macchia d’inchiostro. Poiché era proibito strappare i fogli dal quaderno, quella larga chiazza rimaneva, ed era difficile dimostrare che era stata provocata da una mosca in caduta libera, morta per annegamento. «Senti Massimo, devi smetterla di fare quello stupido scherzo ai tuoi compagni!» gridò il maestro «desidero vedere la tua mamma, dille di venire presto a parlare con me!» «Quale?» chiese intimorito. «Ma quante mamme hai, tu?» «Due: quella vera, e l’altra…» Il maestro solo allora si rese conto di aver commesso una gaffe, e sviò il discorso. A volte capitava che si stancasse d’insegnare, forse di urlare, e noi lo intuivamo subito, perché dava il via libera a Jader T, che raccontava alla classe l’ultimo film che aveva visto. Era un bambino robusto, irsuto, dai capelli rossicci, dal viso rubicondo pieno di efelidi, e dalla chiacchiera sciolta. Il genere che prediligeva era quello dell’orrore, che era di moda, e stranamente non era proibito ai minori. Dietro richiesta del maestro, Jader iniziò a raccontare la trama di: “La strage di Frankenstein” del regista Strock del 1957.


186 «Victor è uno studioso che va di notte fra le tombe a cercare dei morti. Vuole prendere delle parti dei loro corpi e poi li mette insieme: un occhio di uno, un orecchio di un altro e…» «Basta, basta, ma che schifo!» intervenne Gianfranco, e noi invece incoraggiammo Jader a proseguire: «No, continua pure!» «Victor va in laboratorio e costruisce un uomo alto, ma con la faccia da mostro con tutte le parti del corpo che ha trovato nel cimitero. Quest’uomo è ancora morto, ma lui vuole farlo vivere e così gli mette una spina, e gli dà una grande scossa elettrica. Lui diventa vivo, si mette in piedi, zoppica e mette le mani in avanti per strozzare Victor.» «Basta!» gridò Gianfranco, turandosi le orecchie con le dita. «Mi fa paura, poi me lo sogno di notte!» «Va bene, per oggi basta, Jader. Vai pure al posto, riprendiamo il racconto un’altra volta.» intervenne il maestro. Probabilmente Gianfranco aveva identificato Frankenstein con suo padre, non perché fosse un mostro, ma perché spesso si comportava in modo violento, e lo prendeva a colpi di scudiscio, come ci aveva raccontato. *** Arrivò il freddo e io presi un brutto raffreddore, con febbre alta. La mamma mi tenne a casa da scuola qualche giorno, ma a me dispiacque perché vi andavo volentieri. L’unica nota positiva di quel riposo forzato era l’aranciata, che solo in quella circostanza la mamma mi faceva bere, perché era ricca di vitamina C. Accadde un fattaccio, proprio durante la mia breve infermità, che ebbe grande ripercussione in tutta la scuola. L’alunno Pini, mentre prendeva il sussidiario dalla cartella, fece cadere per terra un grosso coltellaccio da cucina. Il maestro Moretti si insospettì e allarmato, controllò le cartelle di tutti gli alunni della classe. La perquisizione diede come risultato che altri due bambini avevano dei lunghi coltelli. Furono subito interrogati, ma non risposero alle domande. Intervenne allora il Caposcuola, informato dell’accaduto, che chiese spiegazioni. «Be’, abbiamo portato i coltelli perché volevamo uccidere il maestro Moretti.» Fu la risposta unanime.


187 Quei tre provenivano dalle case popolari abitate da ferrovieri, ma anche da ladri (la banda del Chiù), prostitute e alcolizzati. Non avevano ricevuto una vera educazione, ed erano cresciuti in un clima di violenza e soprusi. Furono chiamati tutti i genitori della classe, quel fatto grave fu condannato, e i colpevoli furono rimproverati con durezza; poi sia per il buon nome della scuola, sia per non favorire eventuali episodi di emulazione, tutto fu messo a tacere. Quel fatto procurò una grande amarezza al maestro, che si sentì addirittura odiato. Anche se ciò che era accaduto era opera di bambini, restava comunque di estrema gravità. A scuola m’impegnavo molto. Certo, di nove e di dieci ne vedevo meno rispetto ai due anni precedenti, comunque me la cavavo benino: ero il terzo della classe. Il maestro Moretti, avendo individuato il più bravo di tutti, l’alunno Frontini, e il secondo, Turri, consigliò loro di iscriversi direttamente in quinta classe, saltando la quarta. Poi parlò con la mamma: «Guardi signora, che anche Eugenio potrebbe iscriversi alla quinta classe, come i suoi due compagni, e farebbe la sua bella figura.» «Signor maestro, la ringrazio per la fiducia che ha in lui. Io non ho studiato, quindi non sono esperta d’istruzione, però credo che a Eugenio serva un insegnamento senza interruzioni o salti, penso che potrebbe incontrare più avanti delle difficoltà maggiori.» spiegò mia madre. Il maestro non tornò più sull’argomento. I miei due compagni ci salutarono, e frequentarono la classe quinta del Caposcuola. La nostra preparazione scolastica fu piuttosto omogenea nei primi due anni; mentre in quel terzo anno si notò un certo divario fra i più bravi, e gli altri che presentavano maggiori difficoltà di apprendimento. Fra questi ultimi c’erano: Gianfranco M, Jader T, Rosolino P, Rinaldi G., Magrefi M., e Pulinas F, un bimbo sardo, da poco residente a Bologna. Pulinas dimostrava scarsa padronanza nella concatenazione delle frasi nell’esercizio di brevi componimenti, inserendo vocaboli della lingua sarda, e a volte anche parole prive di senso. «Pulinas, il tuo scritto è illeggibile, scrivi come una zampa di gallina, e in più non si capisce ciò che intendi dire.» lo riprese il maestro. «Poi guarda qui… che cosa significa quello che hai scritto alla fine del compito: “E lupa renne”. Me lo spieghi? È per caso una parola sarda?»


188 «No, non lo so!» «Come non lo sai?» «Mi sarà scappata.» «Be’, un’altra volta impari, adesso ti metto un brutto voto!» Noi tutti ridemmo, senza renderci conto che quel povero bambino si sentì umiliato. Alla fine di quell’anno problematico, fummo tutti ammessi alla classe quarta, e questi compagni, di cui ho accennato, raggiunsero appena la sufficienza. L’anno 1958 stava finendo, e la vita nel palazzo procedeva senza episodi di rilievo. Per Santa Barbara ci furono i soliti scherzi con le castagnole lanciate da Vittorio con la fionda a Prassede e alle bambine. Marzia portava le consuete lasagne a cuocere nel forno della Cesarina, ma più che lasagne parevano degli scuri castagnacci. Dina metteva nel frigo sempre più candele e fiammiferi. Umberto andava quasi tutti i giorni ad assistere ai processi in Tribunale. Pipingo sistemava ancora i certosini sotto il letto matrimoniale, e sempre in maggior quantità. Le padrone Bartoletti non finivano mai di pavoneggiarsi con i nuovi cappellini alla moda, anche se a me sembravano proprio degli stampi per budino rovesciati, e il vecchio dinosauro era diventato sempre più rimbambito. Pietro, in occasione del suo compleanno, non smetteva di chiedere alla moglie di fare l’amore. Claudio continuava a far chiacchiere in negozio, raccontando le solite smargiassate. Fernanda e Cesarina avevano il dito indice sempre più piatto, a forza di suonare i campanelli. La nonna Amedea si mostrava ancora più brontolona. Insomma, tutto era come sempre.


189 ANNO 1959 Nel giorno dell’Epifania del 1959, come dono ebbi delle matite colorate, un album da disegno, una calza piena di dolci e il libro di “Peter Pan”, che mi piacque moltissimo. A Vittorio, la cara Befana invece portò un carro armato di metallo che si caricava con la molla e, disponendo di una pietra focaia all’interno, con il movimento produceva scintille. Con i suoi robusti cingoli superava gli ostacoli più impensati, tanto che anche la schiena di sua nonna Aurelia, ne provò l’efficienza, mentre stava a letto a pancia in giù. Ricevette inoltre un piccolo razzo, provvisto di una calotta, dove si mettevano i cic-ciac111, con la punta in cima. Questo veniva lanciato in aria e, quando ricadeva, l’estremità rientrava, facendo scoppiare quel minuscolo petardo. In quel periodo Fernanda non ebbe momenti di pace, poiché facevamo un gran fracasso sul terrazzone con quel razzo. *** Una sera, il papà rincasò tardi. Era bianco in volto, sembrava che avesse visto un fantasma. La mamma gli andò subito incontro preoccupata. «Angelo che cosa c’è, non ti senti bene? È per il gran freddo che hai preso?» «No, no, è che mi hanno rubato il motorino!» «Rubato? Non è che ti sei scordato dove l’avevi parcheggiato?» «Lo so benissimo, era vicino all’ingresso della Rhenania,112 dove sono entrato. All’uscita non c’era più! Sul momento non ho pensato a un furto, e ho chiesto ai commessi del negozio, convinto che si trattasse di uno scherzo, ma mi hanno assicurato che loro non c’entravano.» 111 Piccoli coriandoli esplosivi. 112 Grande magazzino di elettroforniture nel centro di Bologna.


190 Con il motorino gli era stata anche rubata la borsa degli attrezzi, che teneva legata dietro, sul sellino. Per lui, povero artigiano, fu un duro colpo. Dopo aver girato per oltre trent’anni in bicicletta, quel mezzo gli aveva risparmiato molta fatica negli spostamenti, e soprattutto tempo. Per la nostra famiglia fu quasi un lutto, tale era il nostro stato d’animo, e soprattutto quello del papà, cui veniva impedito di spostarsi per poter lavorare. Un suo caro amico, informato dell’accaduto, lo rassicurò: «Senti, Angelo, è da un po’ di tempo che volevo acquistare un motorino. Se ne compriamo due ci faranno un bello sconto! Ti presto io il denaro che ti manca. Quando vuoi, andiamo insieme dal rivenditore.» All’inizio papà non volle accettare, ma da quel mezzo dipendeva la possibilità di lavorare. Circa due settimane dopo il furto, acquistò un Zìgolo della Guzzi, un 98 cc, grigio e nero, che resistette per oltre venticinque anni. I commenti della nonna, sia per il furto sia per il nuovo acquisto, contribuirono a logorare il nostro stato d’animo già piuttosto provato. *** Finalmente arrivò la fine di gennaio, e il tanto atteso avvenimento televisivo: il Festival della Canzone Italiana di Sanremo. La mamma mi promise che, se mi fossi comportato bene, mi avrebbe accompagnato nella saletta TV del bar di Romano, un mio compagno di scuola, per vedere la trasmissione. In tutta onestà, credo che mi avrebbe portato comunque, tanta era la sua passione per le canzoni. Si mise d’accordo con la signora Maura, e con Vittorio andammo tutti e quattro al bar. La saletta era gremita di gente, poiché quell’evento era divenuto quasi un fatto nazionale. Occorreva ordinare la consumazione e a noi bambini fu servito un bicchiere di Oransoda, che a me piacque molto, soprattutto per i piccoli pezzi di polpa che nuotavano all’interno di quel liquido, pieno di bollicine. Quell’anno i cantanti in gara erano numerosi, alcuni avevano partecipato anche all’edizione precedente, e per la seconda volta vinse la coppia di cantanti Domenico Modugno - Johnny Dorelli con la canzone “Piove”, meglio conosciuta come “Ciao, ciao, bambina”.


191 Il testo creò un vero scandalo, perché conteneva velati riferimenti alla Legge Merlin del 1958 che aveva disposto la chiusura delle case di tolleranza. Andammo altre volte nella saletta del bar, sempre di sabato sera, perché trasmettevano delle fiction tratte da romanzi famosi o delle commedie, che alla mamma interessavano. Il papà e la nonna restarono sempre a casa: la televisione non faceva per loro. «Adriana, io non so proprio che cosa ci trova a guardare dentro a quello scatolone di legno» commentò la nonna. «A me verrebbe subito male agli occhi!» «Ma no, lo faccio per portare un po’ fuori Eugenio, così si distrae, perché ci sono altri bambini nella saletta.» «Sì, sì… ma non m’incanta mica, dica pure che è a lei che piace andare a vedere la televisione!» «Be’, e se fosse? Che cosa c’è di male se qualche volta mi diverto un po’ anch’io, visto che sto sempre qui chiusa in casa?» «Ai miei tempi…» Non riuscì a terminare la frase che la mamma intervenne. «Oh, senta, ai suoi tempi la televisione non c’era, e nemmeno la radio. Ora le piace pure ascoltarla! Non stacca mai l’orecchio anche quando danno il comunicato della Borsa Valori…» «Ma che cos’è ’sta borsa?» «È quel lungo elenco di nomi e numeri che leggono alla fine del Giornale Radio, dove dicono: Cucirini Cantoni, Fiat, Liquigas… si ricorda?» «Sì, sì, ma il Liquigas ce l’abbiamo anche noi nel fornello.» «Be’, comunque, lasci che mi distragga un po’ anch’io!» Il battibecco finì lì, poiché era arrivato il papà, ed entrambe non volevano dare l’impressione di litigare. *** Avevo sentito parlare i miei compagni di classe del romanzo di R. L. Stevenson “L’isola del Tesoro” e m’informarono che sabato 7 febbraio sarebbe stata trasmessa la prima puntata in versione televisiva. Non avevo ancora letto il libro e, provando grande curiosità, convinsi la mamma ad accompagnarmi alla saletta TV del bar.


192 La tetra ambientazione della locanda di Jim, il protagonista, mi fece rabbrividire e al tempo stesso mi affascinò, come il resto della storia dei pirati a caccia di un tesoro nascosto nella giungla. Ciò che mi mise più spavento, fu il canto piratesco dai lugubri versi, di Long John Silver: “Quindici uomini sulla cassa del morto Yoh - oh - oh, e una bottiglia di rhum. Bevi, e che il diavolo faccia il resto Yoh - oh - oh”. Vedemmo tutte le puntate, e anche la mamma si appassionò. Lessi poi il libro che presi dalla biblioteca scolastica, ma conoscendo già la trama, un po’ mi deluse. Ho potuto notare che, a distanza di tempo, ciò che da bambino più mi attraeva sia nei film, sia nei romanzi, era l’azzeccato binomio misteropaura, e questo svolge ancora oggi un ruolo decisivo nella mia scelta di alcune letture. Eravamo nel pieno del Carnevale, e quello era il momento adatto per riprendere i nostri scherzi, dopo averli sospesi per qualche tempo. Poiché Fernanda abitava in quell’angusto monolocale, non aveva spazio sufficiente per stendere il bucato a casa, e quindi aveva teso sul terrazzone una corda. Ovviamente stendeva la biancheria quando noi bimbi eravamo a scuola, proprio per non rischiare brutte sorprese a causa nostra. Quel giorno si era dimenticata di ritirare un paio di mutandoni di lana del marito, color pelle, e nel pomeriggio erano ancora appesi. Fu osservandoli che a Marzia balenò l’idea di sfruttare quell’occasione propizia. Dopo aver fatto una piccola colletta fra noi, raccogliemmo qualche decina di lire, e mandammo Luciana, più grande di noi, dalla cartolaia, specificando ciò che avrebbe dovuto acquistare. Tornò tutta trionfante: «Pensate che con quei soldi sono riuscita a comprare ben tre bustine di polvere prurito!» «Brava, adesso alza i mutandoni da una parte, che gliela butto sopra!» disse Andrea. Fernanda, dopo aver udito i nostri schiamazzi, si precipitò a ritirare la biancheria rimasta, ma la nostra monelleria ormai aveva già preso corpo. Quando spiammo dalla finestra, notammo che li aveva distesi sul letto, per piegarli assieme all’altra biancheria.


193 L’epilogo della nostra burla, lo raccontò la signora Maura alla mamma, poiché il dottor Mondini, che aveva visitato i due coniugi Mazzotti, gliel’aveva riferito. «Sa, signora Maura, che sono venuti in ambulatorio i Mazzotti? Non lo dovrei dire, ma noi siamo in confidenza e conto sempre sulla sua discrezione, poi non si tratta di cose gravi da tener segrete. Volevo raccontarlo perché quei due si sono comportati in modo veramente buffo! Lui quasi saltellava dal prurito, e lei s’infilava la mano su per la sottana e si sfregava il basso ventre. Fernanda a un certo punto mi ha detto: “Senta, dottore, da ieri mio marito e io abbiamo la grattaròla, insomma un grande prurito dappertutto!”. «Io ho più prurito di mia moglie.» aggiunse Mauro. «Si spogli pure, e mi indichi dove avverte il pizzicore.» «Qui… poi qui… qui, e anche qui…» «Beh, quasi dappertutto. «Poi, sa dottore che mi è venuto anche al brusacùl?.» «Eh, signor Mazzotti, ma come si esprime!» «Perché dire in italiano “bruciaculo” è forse più fine? Beh, così mi capisce meglio!» «Va bene, avevo già capito. Io però non vedo nulla: né un principio di orticaria, né segni di punture.» Ho fatto varie domande di rito, per capire se avessero mangiato qualcosa di irritante, se avessero animali in casa, o insetti: come ragni e cimici. Hanno negato, quasi offesi dalle mie parole, e allora ho spiegato che poteva trattarsi di una dermatite da contatto. Alla fine ho detto alla signora Fernanda: “Il mio consiglio e quello di bollire la biancheria che avete usato negli ultimi giorni, poi dovete cospargere sul corpo del talco mentolato, per lenire gli attacchi di prurigine, che lo potete trovare in farmacia”.» Quando venni a sapere della cosa, corsi subito a informare gli amici del cortile. La potente polverina aveva mantenuto ciò che era promesso sulla busta. A quel punto decidemmo di lasciare un po’ tranquilla Fernanda, e rivolgere ad altri le nostre simpatiche attenzioni. Questa volta fu la mamma a escogitarne uno. Sì, proprio la mamma! Quel mese di febbraio si stava rivelando molto freddo, e stranamente anche molto piovoso.


194 La pioggia per noi significava dover collocare almeno un paio di catinelle per terra, per raccoglierla. Le avevamo sistemate in corrispondenza delle infiltrazioni d’acqua che provenivano dal controsoffitto. Due o tre volte al giorno dovevano essere svuotate, e questa era la media. Quando la mamma ne parlava con la signora Maura, lamentando questo problema, e riferiva che le signorine Bartoletti non se ne curavano, non avendo mai fatto riparare il tetto, lei cercava di sminuire la cosa; era ovvio, abitando sotto di noi, quel problema non la riguardava affatto. «Sa Maura quante catinelle piene d’acqua svuoto al giorno? Ma non è solo quello… si crea molta umidità e muffa, e ci vuole tanto tempo per farle andar via. Cominciamo a non poterne più: a volte si bagna anche il letto. La nonna ha i reumatismi, e senza riscaldamento, quando piove per giorni, diventa un problema serio! Eugenio poi soffre di tonsille, e la nostra salute ne risente.» «La capisco, ma sa, con il poco affitto che si paga, le Bartoletti non vogliono spendere una lira per la manutenzione. Io ho il water crepato da tre anni, e si sono sempre rifiutate di cambiarlo.» «Be’, lei ha un affitto bloccato da diverso tempo, noi siamo tra gli ultimi arrivati, e paghiamo molto di più, e tra l’altro lei ha tre camere, e non due come noi. Comunque sia, non si possono tenere delle persone con un bambino e un’anziana in queste condizioni.» «Certamente, ha ragione, anche se le signorine Bartoletti mi hanno detto che alcune volte hanno mandato il muratore sui tetti per sostituire qualche tegola rotta.» rispose la signora Maura. «Sarà… ma appena si rattoppa un buco da una parte, piove da un’altra: quel soffitto è proprio un colabrodo! Chissà poi che cosa ha sistemato il muratore, se è sempre andato in casa dalla Prassede! Questo me l’ha raccontato proprio lei, Maura!» Lei annuì. «Ah sì, è vero.» «Quell’omino ha passato più tempo nella casa della vedova che sui tetti, e noi sempre con l’acqua in casa.» disse la mamma, cercando di sorridere. «Sono d’accordo, ma quando piove, lo sa anche lei che non si può andare sul tetto, si scivola ed è pericoloso.» «Ma allora non è mai il momento adatto… questa è proprio la scusa che trovano le Bartoletti: se piove non si può, se non piove non si riesce a capire bene da dove viene la perdita! Qualcosa bisogna pur fare, io non


195 voglio passare il prossimo inverno così. Il tetto è importante, e poi copre l’intero palazzo. Non immagino che cosa può succedere se viene una grande nevicata! Già crolla tutto quando montano le antenne della televisione e vengono giù dal soffitto con le gambe. Bisognerebbe rifare l’intero controsoffitto, anzi, ci vorrebbe anche un tetto nuovo.» «Adriana se lo sogni pure! Sappiamo come sono fatte le padrone…» La conversazione andò avanti per un po’, mentre la mamma maturava già la sua idea. Una sera più piovosa del solito, senza essere udita dalla nonna, esclamò: «Be’, adesso ci penso io, visto che questo sembra sia soltanto un problema nostro, come ripete sempre la Prassede ridendo. Ho notato che anche dal soffitto del pianerottolo inizia a filtrare acqua. Un modo per coinvolgere tutti l’ho trovato!» riferì al papà. «Voi andate pure a letto, che io vengo dopo.» Sul tardi, la mamma iniziò a svuotare le catinelle già colme d’acqua, sul pianerottolo, e fin giù per le scale. Non del tutto soddisfatta, ne riempì altre tre, e giù a scroscio. Poi fece lo stesso con il pavimento della cucina. Il mattino seguente, Maura si precipitò in casa nostra. «Bén, ma Adriana, ma è venuta giù l’acqua anche da me, ho tutto il soffitto che sgocciola!» «Lo immaginavo… come vede sto asciugando tutta l’acqua che è caduta. Questa notte ha piovuto così forte che si è riempito il pavimento della nostra cucina.» «Be’, ma non aveva messo le catinelle per raccoglierla?» «Certo che le ho messe, ma qui ha piovuto dappertutto!» «Vedesse anche le scale come sono ridotte, sono tutte bagnate!» Maura sembrava costernata. «Ah! Be’, che cosa le avevo detto? Qui, se non si fa qualcosa, si allaga tutto!» A stento si trattenne dal ridere. «Ah, ma adesso mando subito mio marito dalle Bartoletti, e vedrà che lui lo ascoltano!» «Fa proprio bene!» tagliò corto la mamma. Per quasi tutta la mattina in casa nostra ci fu una processione di vicini: la Pipingo, la Biondi, la madre della Marzia, Pietro, Prassede, e Dina: tutti si lamentavano dell’acqua per le scale, che era arrivata fino al primo piano.


196 «Vedi mò come si muovono, se la cosa li tocca da vicino!» commentò la mamma. Fatto del tutto eccezionale, arrivò in casa nostra persino quella gallinaccia della Giuliana, che non aveva potuto sottrarsi alle lamentele di tanti inquilini, volendo poi controllare di persona che cosa fosse successo. «Vede, signorina, questo capiterà ogni volta che piove forte!» Giuliana replicò piccata: «Senta signora Adriana, se non le va bene l’appartamento, può sempre traslocare da un’altra parte!» «Che cosa? No, io pago un bell’affitto e la mia famiglia resta qui. Solo che non vorremmo bagnarci quando piove.» «Eh bén, ma se la vedo fuori, in giro a far chiacchiere anche quando diluvia, mica si bagna in casa allora!» esclamò quella malefica. «Che discorsi, mi meraviglio di lei! Ma guardi che fuori con l’ombrello mi bagno molto meno che qui in casa!» Quella discussione si sarebbe protratta per molto tempo se la mamma non avesse tagliato corto: «Senta, adesso qui ho il mio bel da fare per asciugare il pavimento prima che vada giù ancora dell’acqua.» «Sì, sì, ora la lascio, cara. Asciughi, asciughi pure!» Passò qualche giorno, e arrivarono il muratore e il suo aiutante, portando alcune tegole nuove. La situazione si modificò di poco, o meglio, si spostò la zona dell’infiltrazione dal soffitto. Quella che proprio non cambiò, fu l’assidua frequentazione del muratore in casa di Prassede.


197 PASQUA Quell’anno Pasqua cadeva il 29 marzo, e alcuni giorni prima venne in casa nostra Adelma per la consueta visita. «Sa, Amedea» riferì alla nonna «che le signorine Bartoletti si sono comprate tutte e due una nuova pelliccia di Astrakan? Adesso va molto di moda, e poi si vede su tutte le riviste. La vogliono indossare il giorno di Pasqua per la Messa solenne, me l’hanno detto loro. Di sicuro lo fanno per mettersi in mostra e per vantarsi.» «Eh, Delma, ma le sembra giusto? Noi stiamo all’acqua perché non riparano il tetto, mentre quelle due cataplasme si scaldano anche quando non fa più freddo. Poi hanno un bel da mostrarsi in giro, tanto restano sempre due zavaglie!113» «Loro invece dicono che il muratore sul tetto c’è andato e ha fatto anche delle riparazioni.» «Quello che io so di sicuro, è che lui va sempre da quella busona della Prassede!» «Bén, Amedea, ma che cosa dice!» «Sì, sì, busona, perché da quando è vedova, prende sempre in casa gli uomini.» «Ma a lei chi l’ha detto?» «La Maura, che li vede di continuo entrare e uscire.» «Che cosa ci vuol fare, si vede che è nella sua natura… Be’, cambiando discorso, a proposito di quello che le dicevo prima riguardo alle pellicce, si vede che le padrone, con i soldi dei nostri affitti, si tolgono tutte le loro voglie!» Quei commenti continuarono ancora per un po’. Io, che avevo ascoltato, pensai: “Bene, bene… anche Vittorio e io andremo proprio a quella Messa, e se ne accorgeranno!”. Il giorno di Pasqua andai in chiesa verso le 11:00, assieme a Vittorio. 113 Persone da poco, donne brutte e inutili. Si dice anche per gli oggetti di scarso valore.


198 «Li hai poi presi?» chiese lui, bisbigliando. «Sì, certo, ce li ho qui in tasca!» risposi. Dopo l’Elevazione, ci dirigemmo verso la balaustra per ricevere la Comunione, passando lentamente accanto alle Bartoletti tutte impellicciate che stavano in piedi – non si inginocchiavano mai per non rovinare le calze – e con gli occhi chiusi, assorte nella preghiera. Zac, Zac sulle loro rispettive sedie. Ricevemmo la Comunione, e subito dopo ci scambiammo un sorriso malizioso d’intesa. “Credo che il Signore ci perdonerà”, pensai. Dopo essersi abbassate un po’, quelle due tabalòrie114 si sedettero, tirando la sedia sotto i loro culi secchi e piatti come taglieri. Lo scherzo era più semplice di quanto si pensi. Io e Vittorio avevamo nascosto, tra le mani giunte, il buon formaggino Mio senza stagnola. Quando ci eravamo avvicinati alle sedie delle Bartoletti, avevamo “lanciato” i formaggini sui loro sedili. Terminata la Messa, uscimmo tutti, e ci appostammo a breve distanza dalle nostre vittime, che nel frattempo scambiavano i consueti auguri con i conoscenti, ricevendo anche tanti complimenti per le loro belle pellicce. Poi a un tratto: «Eh be’, Margherita, ma cos’è quel bianco appiccicoso che hai dietro, sulla pelliccia?» Lei se la tolse subito per controllare. «Oh, mamma mia, che rovina! Ma ce l’hai anche tu Giuliana. Eh, bén bén che paciugo, e che puzza di formaggio!» «Sarà stato certo qualche ingordo miscredente che l’ha mangiato in chiesa e poi gli è caduto!» «Mamma mia, ma che sacrilegio!» ragliò Margherita in preda all’ira. «Ma chi c’era dietro di noi?» «Bén, ma non ti ricordi? C’erano il dottor Mondini con sua moglie. Non credo però che sia stato lui, è una persona così perbene. Ma sua moglie, quella brutta lardosa, deve essere stata proprio lei. Secondo me deve avere il verme solitario, per mangiare anche in chiesa! Sì, sì, e il dottore dice agli altri di fare la dieta, ma che si vergogni pure!» 114 Schiocche.


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