49 «Sa, Maura, che cosa è successo? Ah, mi vergogno anche a raccontarlo: i bambini nel terrazzone, giocavano al dottore, e pensi che si facevano le supposte con le pillole di Brera!» «Oh! Addirittura, ma che cosa mi dice!» pronunciò con finto tono scandalizzato, trattenendo il riso a stento. «Ah, ma il suo Vittorio no, non c’entra mica sa, è stato quello sporcaccione di Eugenio a portare le pillole.» I commenti si protrassero a lungo, e il loro tono di voce si abbassava quando entrava un nuovo cliente. Ma se ormai lo sapevano già tutti! E così anche in casa mia arrivò presto la notizia. A pranzo la nonna mi sgridò, e mia madre rincarò la dose, però ottenni la promessa che a mio padre non sarebbe stato raccontato nulla. Infatti la sera, appena rincasò: «Ah bén, quasi me lo immaginavo!» esordì la nonna. «Che cosa?» «Gnînt, ma gnînt»29 «Come, niente?» «Se ti ho detto niente, è niente» «Ah, non me la racconti mica giusta!» «Qal cinno… ma gnînt… tant a’l’ho bèla bravè mé.»30 «Che cosa ha combinato Eugenio stavolta?» chiese il papà. La mamma intervenne raccontando la cosa per sommi capi, cercando di sminuire l’accaduto. Fui sgridato di nuovo, ma con toni non troppo aspri. Conoscendo il carattere di papà, mi sarei aspettato quasi di peggio. Quella sera poi udii che lui diceva alla mamma: «Senti mò, Adriana, queste sono cose da bambini. Noi poi abbiamo un figlio maschio, e chi ha le femmine che se le badi!» 29 (Pron. gn come in gnomo) “Niente, ma niente”. 30 Quel bambino… ma niente… tanto l’ho già sgridato io.
50 1955 SESTO COMPLEANNO LA MILLE MIGLIA 31 Andando indietro nel tempo, con i tanti ricordi accumulati, spesso mi chiedo dove sia la dimensione in cui potersi perdere senza soffrire troppo di nostalgia. A volte riesco a cogliere, per un attimo, il grande stupore di me bambino, indeciso se giocare con i soldatini o cercare di capire l’imminente futuro; oppure costruire un castello con i cartoni e perdersi nei giochi di cortile, sempre libero però di dipingere le proprie illusioni usando ancora i colori dell’ingenuità e della fantasia. Attendevo con ansia il 29 aprile, giorno del mio sesto compleanno. Quella mattina mi alzai presto per vedere i regali che i miei genitori mi avevano fatto. Sul tavolo della cucina notai subito un maglioncino di lana color blu elettrico, quel colore mi piaceva molto e lo volli indossare subito, anche se non faceva per niente freddo. Come dono ebbi anche una grande scatola che conteneva il famoso “Meccano”, quel gioco formato da svariate parti metalliche da assemblare per costruire macchine di fantasia. Era un giocattolo che ai bambini di allora piaceva moltissimo e così mi misi subito all’opera. Fui distolto dalla mia occupazione quando la nonna volle accendere la radio per ascoltare in diretta lo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica (era già il quarto scrutinio). Ormai l’attesa di un esito positivo, che si protraeva da diversi giorni, aveva un po’ logorato l’animo degli italiani, e anche quello della nonna, che sembrava eccitatissima. 31 Gara automobilistica stradale di velocità a tratti, disputata in Italia in 24 edizioni dal 1927 al 1957, con interruzioni e con partenza da Brescia, in cui i concorrenti arrivavano fino a Roma e facevano ritorno a Brescia. Il nome della gara ha origine dalla lunghezza del percorso; che rimase pressoché invariato nel tempo, di circa 1600 chilometri, equivalenti a circa mille miglia britanniche.
51 «Leggono ad alta voce i nomi dei votati sulle schede, adesso state zitti che voglio sentire!» ingiunse. Giovanni Gronchi, scheda bianca, Pajetta, Togliatti, Leone, Gronchi, Giovanni Leone, Maria Luisa Badaloni, Badaloni. «Chi è poi ’sta Badaloni? Boh!» chiese ad alta voce la nonna. «Mah, sarà una senatrice» rispose la mamma. «Con quel cognome lì? Boh!» Gronchi Giovanni, Sophia Loren. «Bén, mò anche la Loren è una deputata?» si stupì la nonna. «Ma no, nonna» rise la mamma «è una burla di chi non vuole votare altri candidati.» «Sst! Stè zét!32 Che voglio sentire.» «Ma nessuno ha parlato, nonna.» «Bén zitti lo stesso!» pronunciò con autorità, e la mamma rise. I nomi proseguirono. Gronchi, Teddy Reno, Moira Orfei. «Bén, ma non è quella che sale sugli elefanti?» «Sì, ma anche questi sono scherzi.» E ancora: Scheda bianca, Totò, Giovanni Gronchi, Gina L’oca rigida33. «Eh, bén bén, ma cos’è ’sta porcheria, allora anche questa è una presa in giro? Che robe…» «Senta, nonna, sembra proprio che questi politici non facciano sul serio. Speriamo che il nuovo Presidente eletto, sia almeno lui una brava persona.» Lo spoglio proseguì non senza altri voti “burla” e finalmente, dopo una lunga attesa, fu eletto terzo Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi. *** Il mio amico Vittorio, con entusiasmo, m’informò che il giorno seguente sarebbero sfilate, proprio davanti a casa nostra, le auto da corsa delle Mille Miglia. Io non ne avevo mai sentito parlare. «Sai che domani passa la Mille Miglia proprio qui davanti? Così possiamo vedere la corsa, e ci sarà anche Fantazzini con la sua nuova Pors34 rossa?» 32 State zitti! 33 Gina Lollobrigida.
52 «Che cosa?» «Ma dai, è quello che cuoce i brustullini nel cortilone!» «Sì lo conosco, ma non sapevo mica che avesse la Pors! Bene, domani guarderemo la corsa.» «Ma non è mica la prima volta, sai? Anche l’anno scorso è passato di qua! E ho visto la sua automobile, quella di prima era nera, e quando è arrivato davanti a casa sua piano piano, si è quasi fermato per farsi vedere. Le altre auto l’hanno superato tutte, poi ha acceso i fari e si è messo a suonare forte il classon che non finiva più.» «No, e poi no. Voi bambini non potete stare giù per la strada, è troppo pericoloso! E se un’auto sbanda? Poi vi viene addosso, e dopo?» intervenne con tono serio la mamma di Vittorio. «No, se proprio volete vedere la corsa, la guardate dal nostro terrazzino.» Il mio appartamento al quarto piano non l’aveva, ma quello di Vittorio, al piano di sotto, sì. Eravamo piuttosto delusi, ma avremmo lo stesso potuto goderci lo spettacolo dall’alto. Il balcone era esposto a sud, e nel primo pomeriggio picchiava un gran sole. La signora Maura, srotolò una tenda di tela verde, che dall’alto della parete esterna scendeva a quarantacinque gradi sulla balaustra del terrazzino. Vittorio e io comodamente seduti, aspettavamo che passassero le prime auto. Lo spazio disponibile era solo per un paio di sedie, per l’appunto le nostre. Ai genitori di Vittorio la Mille Miglia non interessava proprio, così noi restammo soli, e nell’attesa che arrivassero le prime auto, eravamo liberi d’inventarci anche qualche nuova e divertente monelleria. Nel frattempo il marciapiede sotto casa si riempì di curiosi che desideravano vedere da vicino il passaggio dei bolidi. L’aspettativa però si stava protraendo. In quel tratto di strada era stata impedita la normale viabilità, così gli spettatori più impazienti scendevano dal marciapiede, sporgendosi per scorgere le prime auto in arrivo. Niente! Anche Vittorio e io ci stavamo annoiando attendendo che succedesse qualcosa, anche se proprio fermi non eravamo… avevamo sputato in 34 Fantazzini, che tostava le arachidi in cortile, aveva appena acquistato una nuova auto Porsche da corsa.
53 basso, ma gli sputi non avevano raggiunto gli spettatori. Grande delusione! Riempimmo allora un catino colmo d’acqua, e il tentativo di inzuppare qualcuno, fallì. L’acqua cadde proprio verticalmente al fabbricato, con uno splash, ma nessuno se ne accorse, intento com’era a guardare la strada. Occorreva lanciare dal balcone qualcosa di più “consistente”, che avesse almeno attirato l’attenzione. Vittorio fu preso dalla smania di cercare ciò che potesse servire al nostro intento. Lui frugò, e io lo aiutai. Su uno scaffale scorsi il vecchio banjo del suo povero nonno. «Dai, gettiamo giù quello!» suggerii. «No, quello no, sei pazzo? Mio padre dice sempre “Guai a chi lo tocca!”» «Allora buttiamo questa borsa di gomma dell’acqua calda?» «No, ma scherzi? La usa sempre mia nonna Aurelia. Poi se manca, la mamma se ne accorge.» Vittorio mi fermò quando già la brandivo come arma volante. «Ma uffa! E allora?» Frugai ancora e quando aprii un cassetto della credenza, lo vidi stracolmo di buste, tutte uguali. «Che cosa sono queste?» chiesi. «Dentro c’è del semolino.» «E che cos’è?» «Una farina che si mangia.» «Questo va bene. Ci sono tante buste e la tua mamma di sicuro non ci fa caso se ne prendiamo qualcuna.» Non fu soltanto qualche busta che aprimmo, ma un discreto numero. Ne versammo il contenuto nel catino che quasi si riempì. Corremmo alla balaustra del terrazzino e lo versammo giù, a pioggia. Occorre dire che in quel giorno, nonostante il caldo afoso, spirava un bel venticello che sospinse il semolino dappertutto, infarinando molti di quelli che stavano di sotto. Uh! Mamma mia, non immaginavo che ci si potesse arrabbiare fino a quel punto! Collezionammo un gran numero di offese che fecero aumentare il nostro divertimento, mentre in pieno anonimato, restavamo nascosti dietro la provvidenziale tenda verde del balcone: “Ah, brutto busone, se ti prendo ti faccio un culo così! – Boia d’uno sfigato!” Per citarne un paio.
54 Poco dopo iniziarono a sfilare le prime auto. Quelli che, dopo essere stati infarinati, stavano con il naso all’insù e non avevano staccato gli occhi dai balconi per individuare il colpevole, dopo essersi scrollati il “portentoso” semolino di dosso, si voltarono verso la strada, dimenticando ciò che era successo. Anche noi bimbi, scostando con cautela un po’ il tendone, assistemmo all’arrivo delle prime auto, bellissime, con un numero nero applicato bene in vista. «Bimbi, state facendo i bravi, vero?» chiese la signora Maura, entrando per un attimo nella stanza per controllarci. «Sì certo, mamma.» «È già passato Fantazzini?» «No, mamma.» Sfilò un gruppo di auto abbastanza compatto, poi un secondo, infine altri bolidi alla spicciolata. Che fine aveva fatto la Porsche di Fantazzini? «Aspettiamo pure, però non buttiamo giù più niente, vero?» s’informò Vittorio. «Be’, qualcosa ci sarebbe ancora, guarda che cosa ho trovato in quel cassetto! Sono dei coriandoli.» suggerii. Erano in un vecchio sacchetto, di certo dimenticati dall’ultimo Carnevale. Li lanciammo, ma il fatto non produsse alcuna reazione fra gli spettatori, e noi rimanemmo proprio delusi. «Toh, ecco che arriva l’auto rossa di Fantazzini!» «Sì, ma guarda come va piano!» risposi. Era lui. Accese gli abbaglianti e azionò il clacson. Nel senso di marcia dell’auto, dal lato destro del marciapiede, c’era sua moglie: una signora robusta, bassa e mora, con accanto il figlio Ilario, che si sbracciavano per salutarlo. Dall’altra parte della strada, quasi di fronte, c’era la friggiòna che sventolava come un’ossessa una bandiera tricolore. Quel soprannome veniva affibbiato in senso dispregiativo a una cuoca, che aveva più dimestichezza nel friggere quasi tutto, piuttosto che cucinare in altro modo dei piatti scelti e ricercati. La trattoria “Rita”, quasi di fronte al nostro palazzo, serviva i pasti agli impiegati delle due fabbriche vicine: la Calzoni e la Sabiem. Era di proprietà della menzionata friggiòna, al secolo “signorina Rita”, una
55 zitella corpulenta, dal seno prosperoso, e dai capelli ricci color miele d’acacia, nonché amante segreta del Fantazzini. Che poi tanto segreta non era, poiché lo sapevamo anche noi bambini. «Eugenio, hai visto che c’è anche la friggiòna?» commentò Vittorio. «Oï! Quella donnona puzza sempre di grasso, che però c’ha anche un gran bel paio di titte!» aggiunsi. Quando vidi il film di Fellini “Amarcord” notai come la signorina Rita, somigliasse nel fisico alla famosa tabaccaia. La birichinata del semolino non passò certo inosservata. La sera stessa venne in casa nostra la signora Maura. Spesso lo faceva, per l’amicizia che la legava alla mamma. «Sa, Adriana, che cosa hanno combinato oggi, quei due? Be’, mi sono accorta che in camera c’era del semolino per terra, allora sono andata a vedere nel cassetto, e mancavano molte buste. Le avevo lì da tempo, erano del Dono Svizzero35. Questo glielo dico, mica per il semolino che non mi interessa, ma perché non so che cosa abbiano pasticciato quei due!» «Dove l’avete messo?» chiese la mamma. «L’abbiamo mangiato.» risposi io. Lei mi lanciò un’occhiataccia. «Non ci credo, dimmi la verità!» «Be’, l’abbiamo tirato.» «Dove?» «Giù.» «Giù dove?» «Per la strada.» «Non sono cose che si fanno, e chiedi subito scusa alla signora Maura!» aggiunse, arrabbiata. Con le mie scuse tutto si appianò. In fondo non era successo nulla di grave. Devo ammettere che potrei provare la stessa ebbrezza di allora, se dovessi lanciare ancor oggi qualcosa dalla finestra. 35 Il Dono Svizzero era un’unione di enti assistenziali di vario tipo, istituita dal Consiglio Federale Svizzero, con lo scopo di prestare aiuto umanitario nel dopoguerra.
56 ANNO 1955-1956 SCUOLA MATERNA E PRIMA ELEMENTARE Nel 1955 avevo frequentato la scuola materna “Caterina De’ Vigri”, dove rimanevo solo mezza giornata, non restando per la refezione. La mamma, infatti, desiderava che mi nutrissi in modo regolare e voleva esserne sicura, per cercare di contrastare la mia persistente gracilità. Quell’anno non fu traumatico per me, soprattutto perché nella mia sezione erano stati inseriti i miei amici Andrea, Marzia e Lauretta, e fu come continuare i giochi di cortile. Oltre alla parte ludica, imparammo alcuni esercizi di ginnastica e cantare al suono di una pianola. Ciò che mi aveva affascinato e ancora ne conservo il ricordo, era il piccolo visore bioculare View-Master36 con dischetti rotanti, dove erano inserite delle diapositive a colori che scorrevano, abbassando di volta in volta una leva. Esisteva in commercio una vasta collezione di quei dischetti con vari soggetti, soprattutto con le vedute d’Italia. Solo la pazienza della maestra riusciva a tenere a bada tanti bambini in attesa del proprio turno per visionare le immagini. E il mio amico Vittorio, il capo branco? Dopo aver frequentato per tre giorni e pianto per due, la signora Maura pensò bene di tenere il figlio a casa. Per me invece fu una bella esperienza e continuai per l’intero anno. *** Passata l’estate, che trascorsi a casa con i miei, presto arrivò il mese di ottobre e così l’inizio dell’anno scolastico. 36 Era un sistema di visione stereoscopica mediante dischetti, ciascuno con quattordici diapositive.
57 Avrei frequentato il primo anno della scuola elementare che si trovava nello stesso edificio della materna, non molto distante da casa, e per fortuna dallo stesso lato della strada. Si percorrevano all’incirca trecento metri, oltrepassando alcuni caseggiati e la parte estrema della fabbrica Sabiem, che era molto estesa. L’attesa di questo evento mi provocava una certa euforia: avrei imparato a leggere e scrivere, anche se me la cavavo già bene con la scrittura in stampatello, e avrei avuto anche l’opportunità di conoscere nuovi amici. Il giorno precedente la mamma ritirò il grembiule nero che Adelma aveva confezionato per me, e un colletto bianco inamidato con le asole da fissare a un bottone perché non ruotasse attorno al collo. Dalla merciaia acquistò un nastro azzurro per fare il fiocco. Sulla spalla destra del grembiule era stato apposto il numero romano I in stoffa bianca, che indicava la classe frequentata. Le bambine invece indossavano un grembiule bianco con un fiocco rosa. L’amico di mio padre, lo stesso che aveva regalato il triciclo arrugginito, mi portò una piccola cartella grigia di plastica ruvida. Conteneva un astuccio di stoffa con una matita nera e cinque colorate, un temperino, una gomma, un righello, una cannetta di legno porta pennini, e una scatolina di cartone con sei pennini da inchiostro – pennino a torretta – il migliore. Con grande sorpresa vidi che c’erano anche un abbecedario e un libro sussidiario di prima classe, unico testo per gli insegnamenti, dal titolo “Anni d’oro”, la cui copertina riportava la foto di due bambini sorridenti su un “otto volante”. Ma quali Anni d’oro! Nella miseria in cui tutti eravamo, sarebbe stato più appropriato il titolo Anni di merda! La mamma mi accompagnò a scuola la prima settimana, venendomi a riprendere affinché acquistassi dimestichezza del tragitto, che in seguito avrei percorso con i miei compagni, vicini di casa. Avrei tanto desiderato frequentare la stessa classe di Vittorio, ma questo non capitò. Io fui inserito in una sezione maschile di trentadue bimbi con la maestra Elvira Pellegrini, mentre lui era in una classe mista, con la maestra Boschi. Il terzo giorno di scuola la mamma mi accompagnò con dieci minuti di ritardo. Subimmo entrambi un sonoro rimprovero dal caposcuola Domenico Ruggiano, e la mamma ne fu molto dispiaciuta!
58 Il maestro Ruggiano, che insegnava nella quinta classe e fungeva anche da caposcuola, godeva fama di essere molto bravo, ma anche molto severo. Allora non potevo certo immaginare che quel burbero signore, dai folti baffetti neri, diciotto anni dopo, sarebbe diventato mio zio, avendo io sposato sua nipote! La maestra Pellegrini era giovane, alta, snella, con un certo pallore nel viso. Aveva un’espressione spesso triste e dolce allo stesso tempo. Forse era soltanto stanca di dirimere una masnada scatenata di trentadue bimbi. Con il suo paziente insegnamento, imparammo tutti a leggere e a scrivere, tanto che a Natale compilammo, con parole nostre, la classica letterina per i genitori. All’inizio per me non fu semplice abbozzare le varie lettere. Occorreva imprimere la giusta inclinazione alla cannetta, per non far buchi sul quaderno o peggio, se il pennino si fosse bloccato sulla pagina di carta ruvida, si sarebbe formata una vistosa macchia d’inchiostro. I bambini diligenti di macchie non ne dovevano fare, tantomeno sgualciture ai libri e ai quaderni. Inutile dire che questo capitava spesso perché qualche bambino prendeva a quadernate un compagno, o peggio ancora a librate. La punizione consisteva nel ricopiare molte parole, per diverse pagine. I voti erano assegnati in decimi, e nessun alunno scese mai sotto il sette. Non rammento che in quell’anno fossero accaduti in classe gravi episodi, o grandi arrabbiature della maestra. Pur provenendo da famiglie povere e non acculturate, avevamo ricevuto una discreta educazione. Ci univa soprattutto un denominatore comune: il rispetto per l’autorità e per gli adulti, almeno a scuola. Credo che la carta vincente giocata da quella brava insegnante, fosse anche l’esperienza maturata in famiglia, essendo la mamma di due gemelli. Quell’anno scolastico passò in fretta, e ricordo che noi bambini ci eravamo affezionati a lei, e ne fummo ricambiati. Piansi quando la salutai l’ultimo giorno, sapendo che l’anno successivo avremmo cambiato maestra. Come suo ricordo mi regalò un libricino di alcune pagine, che avrei letto durante le vacanze, del quale rammento ancora il titolo, le figure, e in modo sommario anche il contenuto: “Il sogno più bello.
59 “Mamma, questa notte ho fatto un bel sogno!” disse uno dei due fratelli. “Anch’io mamma, ma il mio è più bello del suo, vinco io!” intervenne l’altro. “Adesso non litigate, fate i buoni; sono sicura che tutti e due avete sognato delle cose belle”. “Sì” risposero in coro. “Il modo migliore per conoscere i vostri bei sogni, è che me li diciate tutti e due insieme”. “Ho sognato di te, mamma”. “Ti ho sognato, mamma!”. La mamma attirò entrambi i bimbi a sé, e li abbracciò. “Avete proprio vinto tutti e due!”. Inutile dire che la storia di quel libretto mi commosse.
60 ESTATE 1956 Giunta l’estate, il cortilone si spopolò: Andrea e le sue sorelle andarono dagli zii a Vicenza, Marzia dalla zia sarta che viveva a Monza, Lauretta dalla nonna in campagna a Medicina, Vittorio al mare a Milano Marittima con la madre e una zia di Roma. E io? Sarei rimasto l’unico bimbo nel palazzo, ma i miei genitori per tempo mi avevano trovato una sistemazione estiva. «Sai, Eugenio, il papà e io abbiamo pensato di mandarti al mare, in colonia a Cesenatico. Ci saranno tanti altri bambini, poi l’aria ti farà bene.» m’informò la mamma. Non avevo idea di che cosa fosse una colonia, mi sarebbe andata bene qualsiasi soluzione, pur di non rimanere a casa a giocare da solo. La struttura “Stella Maris”, come il nome richiamava, era gestito da suore. Per la verità tutte molto gentili, e mi dispiacque quando feci ritorno a casa. I ritmi erano scanditi come in un convento… per bimbi, s’intende. Il mattino, dopo una breve colazione, iniziava con la recita delle Lodi, cui seguiva l’alza bandiera nel cortile. Una mezz’oretta era dedicata alla ginnastica, poi si andava tutti in spiaggia, dalle 10:00 alle 11:30, sistemati sotto una grande tenda. Alle 10:30 il bagno: fra spruzzi e urla, all’incirca una decina di minuti, il termine era segnalato dal fischietto del bagnino. Dopo il rientro ci lavavamo per toglierci la sabbia di dosso. La preghiera dell’Angelus prima del leggero pranzo. Riposo pomeridiano fino alle 16:00, giochi in cortile fino alle 19:00. Recita del Santo Rosario, cena con pastina in brodo e frittata, di nuovo giochi fino alle 21:00, poi a letto in grandi camerate. Ogni giorno uguale agli altri. Ricordo che prima di partire, la mamma mi diede alcune monete per comprarmi qualcosa, se ne avessi avuto il desiderio. Così scelsi di acquistare “La Settimana Enigmistica”, una matita con il gommino in cima, e un limone di plastica, giallo con la foglia verde, che
61 conteneva del succo molto aspro, che non mi piaceva per niente, ma che sorseggiai comunque, perché mi era stato insegnato che non si doveva mai sprecare nulla. «Eugenio hai delle caramelle?» mi chiese un bimbo, un certo Stefano Santoro. «No, non ci ho neanche pensato di comprarle!» «Ah, nemmeno io. Sai però che cosa mi hanno insegnato?» «Che cosa?» «Che si può mangiare il dentifricio del tubetto, è buono, sai, e sa di menta.» Il dentifricio io non l’avevo, allora non era molto in uso. Ricordo che i miei genitori si lavavano i denti con lo spazzolino e con il bicarbonato di sodio. Avevo visto soltanto la pubblicità del Durban’s in una rivista della nonna. «Provalo! Mettine un po’ del mio sul tuo dito, senti che buono, eh?» Io feci come mi aveva suggerito, e subito comparve una smorfia sul mio viso. «Mica poi tanto, mi pizzica. Mangialo tu.» Stefano mise il tubo in bocca e ne strizzò il contenuto, be’ a lui piaceva proprio! Poi mi disse: «Conosci quel bambino panciuto e culuto che si chiama Mario Testi, e ha la branda vicino alla mia? Quello che tutti chiamano Marione, perché è tondo come una palla?» Annuii. «Sì, certo.» «Sai che in spiaggia mi fa sempre dei dispetti?» «Be’, allora fagliene anche tu.» risposi candidamente. «Hai proprio ragione!» Quella sera, prima che gli altri bimbi si fossero sistemati nelle loro brande, Stefano non visto, cosparse il cuscino di Marione con quel famoso dentifricio, tirò il lenzuolo sopra, e ci mettemmo a letto. Passarono soltanto alcuni minuti quando, nel buio totale, si udì un grido acuto: «Suor Plautilla! Suora! Aiuto! Sono tutto sporco di menta!» La povera suora, in vestaglia da camera e cuffietta bianca, arrivò subito. Si accesero tutte le luci. «Ma di quale menta parli? Oddio… ma sei tutto verde di dentifricio! Ah ecco, è perché mangiavi il dentifricio a letto, vero?» Noi sotto le lenzuola non resistevamo più dalle risate. «No, no, c’era già!» «Allora l’avevi nascosto lì, prima di venire a letto?» «Ma no, no, qualcuno ce l’ha messo apposta.»
62 «Be’, se trovo il colpevole lo punirò, intanto tu corri a lavarti, che ne hai bisogno.» Pronunciò l’ultima frase senza troppa convinzione, e con una punta d’ironia. Forse quello scherzo l’aveva perfino divertita, ebbi l’impressione che quel dispettoso di Marione stesse sulle scatole anche a lei. Il colpevole non fu mai individuato. Un giorno Marione mi si parò davanti con la sua stazza, bloccandomi nei lavatoi, poi a bruciapelo mi chiese: «Ma tu sei democristiano o comunista?» Bella domanda. Dovetti rispondere per non prendere le botte, anche se non avevo consapevolezza di che cosa fossero i partiti. Risposi a caso, così come mi venne in mente: «Democristiano.» pronunciai timoroso: era la risposta sbagliata! «Be’, e non ti vergogni?» Vergognarmi, io? E di che cosa? Di ciò che non conoscevo? Di sicuro Marione avrebbe ascoltato il signor Umberto con maggiore interesse di quanto ne provassi io, ragionai. Per mia fortuna, nonostante tutto, quella volta scansai le botte. Marione credeva di essere furbo, anche se penso che fosse molto più goloso che scaltro. Non era mai sazio, pertanto aveva inventato un sistema tutto suo, per sbafare più di una merenda. «Sai come si fa? Faccio la fila, mangio in fretta, poi torno in coda: una volta con il cappellino sugli occhi, la volta dopo mi tolgo la maglietta, la volta dopo ancora con la visiera del berretto dietro, così sembro sempre un bimbo diverso! Sono furbo vero?» “Come no!”. Gli andò bene solo la seconda volta, alla terza fu beccato. «Ehi! Ma tu non hai già avuto la merenda?» «No, io no!» «Ma se hai ancora le labbra sporche di cotognata! Poi tu sei Marione, ti conosco!» esclamò la suora che distribuiva le merende. Con la sua mole, non poteva certo passare inosservato.
63 Questo bambino che forse si sentiva un po’ emarginato dagli altri, aumentò la sua prepotenza, manifestandola soprattutto verso i più piccoli. Stefano Santoro, che si atteggiava a difensore dei più deboli, fosse solo perché Marione gli stava proprio sui calli, pensò di fargli un nuovo scherzo. Sempre di sera, prima di andare a dormire, trafficò un po’ con le lenzuola della branda della sua vittima. «Vedi Eugenio, gli ho fatto il sacco! Me l’ha insegnato un mio cugino.» «E che cos’è?» chiesi «Non so spiegarti bene come si fa, però stai a vedere che cosa succede dopo!» Quando fummo a letto, sentimmo di nuovo le urla acute di Marione, e subito le luci si accesero. «Suora! Suora! Suor Plautilla!» La monaca che non aveva nessuna voglia di alzarsi, e percorrere tutta la camerata, si limitò a chiedere a distanza: «Che cosa c’è? Che cos’hai? Sei Marione, vero? Be’, smettila subito di urlare che svegli tutti.» «Sì suora, sono io, è che non riesco a entrare nel mio letto!» «È perché mangi troppo, brutto ingordo!» fu la risposta. Tutti noi bambini scoppiammo a ridere. «No, no, ma la colpa è del lenzuolo, se non ci entro sotto.» «Allora dormici sopra!» continuò secca la povera suora, e le luci si spensero. Il periodo trascorso al mare nella colonia estiva passò in fretta, e quasi controvoglia feci ritorno a casa.
64 UNA STRANA COPPIA Nell’atrio del civico 99 sulla sinistra, prima della rampa di scale, c’era un monolocale con annesso un minuscolo bagno, affittato ai coniugi Mazzotti. La finestra piuttosto bassa provvista d’inferriata, e un oblò con graticcio del servizio, si affacciavano sul terrazzone dei nostri giochi. Quei due mi parevano allora già dei vecchi decrepiti, anche se magari avevano appena sessant’anni. Lui, Mauro, ex ferroviere, non era molto alto. Era corpulento e con una vistosa pancia, le labbra pendenti e carnose, e i capelli brizzolati tagliati corti a spazzola. Indossava sempre dei pantaloni larghi di fustagno, con la vita alta, quasi Fantozziani, che si reggevano con delle tiracche,37 direttamente sulla canottiera; non l’ho mai visto con maglie, camicie o altro, neppure d’inverno. Lei, Fernanda, era molto grassa, e doveva avere l’aorta ormai ridotta come una collana di salsicce. Aveva le gambe corte e seni sgonfi e penduli, che si posavano su una pancia prominente, tanto che in piedi sembrava stesse seduta. Tutti la chiamavano la portinaia, già prima che andassi ad abitare nel palazzo. Quando fu costruito lo stabile, l’appartamento del piano terra era stato adibito a portineria. Le signorine Bartoletti, per il modico affitto che la coppia pagava, chiesero a lei e al marito di dare anche un’occhiata in giro, e controllare chi entrava e usciva dal palazzo. Questo tipo d’incarico ben si addiceva al carattere di Fernanda, che era una vera sbraghîra, cioè una ficcanaso piena di malizia, che si faceva i fatti degli altri, spiando mosse e spostamenti dei residenti del civico 99, un po’ meno quelli della nostra porta, essendo più distante. 37 Italianizzato dal dialetto tiràc = bretelle.
65 Si poteva senz’altro affermare, che la portinaia circolasse tutto il giorno molto più di una moneta falsa! Di solito girovagava lungo il marciapiede, entrava nei negozi per far chiacchiere, e soprattutto spiava noi bimbi dalla finestra, quando giocavamo sul terrazzone. Il vero tormento per la coppia Mazzotti eravamo proprio noi bambini, e per un nulla lei ci rimproverava di continuo. Pensandoci oggi, non riesco a immaginare come si potesse vivere in quell’angusto antro buio e umido, fra continue urla e schiamazzi. Devo peraltro dire che i nostri genitori ci facevano rispettare le ore del riposo, ma non è detto che coincidessero con quelle dei Mazzotti. Posso senz’altro aggiungere, che vi era una totale reciproca intolleranza fra noi bambini e quella coppia bizzarra. Quando noi eravamo a scuola, per loro era di tutto riposo, forse anche troppo, perché non potevano origliare i nostri discorsi e carpire, dalla nostra ingenuità, qualche segreto di famiglia. Il resto della giornata, però… Era consuetudine di quei due, che dopo cena quando c’era bel tempo, si portassero le sedie sul marciapiede per fare commenti e godersi il passeggio. Non credo di aver mai visto Fernanda sorridente o rilassata: mostrava sempre il consueto broncio, che oggi potremmo proprio definire una perenne incazzatura. Immagino che ce l’avesse con tutti, infatti non vi era nessuno nel palazzo con cui non avesse avuto un piccolo screzio. Il suo intercalare: “Boia ch’lighé Dio!” nei momenti di maggior irritazione, poteva apparire quasi blasfemo, anche se la traduzione con un’interpretazione più ampia poteva spiegarsi come: “Boia chi ha legato Dio: cioè chi ha incarcerato e fatto patire Cristo”. Sarà pur stato un modo di dire dei vecchi bolognesi, ma a nessuno piaceva sentirselo ripetere nelle orecchie. La “perfida” Fernanda aveva escogitato un sistema per sfogare la rabbia che provava nei confronti di noi bambini. Iniziando dal civico 99, per poi passare al 101, suonava tutti i campanelli della pulsantiera e, guardando in alto dalla tromba delle scale, urlava il consueto elenco di offese. Gli inquilini del palazzo udendo quelle scampanellate, si sporgevano dalla ringhiera delle scale, per verificare cosa stesse succedendo.
66 «I vostri figli sono dei gran maleducati, dei scalpestrati, dei delinquenti, disturbano, urlano, tirano la palla, saltano che trema tutta la casa…» «Ma io non ho figli!» le gridava Dina. «Nemmeno io!» si univa Prassede. «I miei sono già grandi, e non vanno più in cortile!» replicava Giulia Testoni. Ogni volta Fernanda rispondeva: «Bén, ma è lo stesso, così mi sentono tutti!» Dopo diverse volte in cui la mamma si era affacciata, sorbendosi l’intera predica, aveva imparato a riconoscere quella insistente scampanellata, e non abboccava più. Ci cascavano sempre, invece, le anziane signore che non avevano figli. «Bén, mò chi è che suona così?» chiedeva la nonna «È sempre la Fernanda, nonna. Non ci faccia caso, stia pur tranquilla.» ribadiva la mamma. Questo non significava che la mamma non mi sgridasse spesso. «Eugenio comportati da bambino educato, devi sempre rispettare gli anziani, e non devi urlare in cortile. Dillo anche ai tuoi amici, si può giocare anche senza far troppo chiasso, mi hai capito?» «Sì, mamma.» «Oh be’, ma che scocciatura questa Mazzotti, sempre a rimproverarci tutti!» disse Vittorio. «Uffa, appena iniziamo a giocare, lei corre subito a suonare tutti i campanelli.» «Sentite, io ho pensato una cosa.» intervenne Marzia «e se per farle un bel dispetto le lanciassimo qualcosa in casa, dall’inferriata della finestra?» «Sì dai, ma che cosa?» chiese Lauretta, con entusiasmo. «Ah non lo so, ma la cerchiamo» suggerì Andrea. Ci suddividemmo in vari punti del cortile, a caccia di un oggetto che a nostro giudizio fosse adatto. «Io ho trovato un chiodo» ci mostrò Maria. «Non va bene» rispose Vittorio, che funse da supervisore. «Ho trovato un pezzo di copertone di una ruota di bicicletta.» Esibì Luciana. Vittorio scosse di nuovo la testa. «No, non va bene.» Io, per quanto mi sforzassi di osservare per terra, non trovai niente che potesse interessare.
67 Vittorio, anche lui intento alla ricerca, all’improvviso lanciò un urlo, e fece un balzo indietro. «Ecco, guardate qui, ho trovato un topo morto, questo sì che va proprio bene!» proruppe tutto trionfante. «Sì, ma adesso chi lo prende su da terra, e poi lo getta in casa della Mazzotti?» chiese Maria, preoccupata. «Ci penso io» rispose con convinzione Lauretta. «Io non c’ho mica paura!» Osservammo Lauretta mentre afferrava il povero roditore per la coda, con il fazzoletto che aveva in tasca. La seguimmo a breve distanza, fin quando arrivò sotto la finestra della Mazzotti, mettendosi a chinino, per non farsi vedere. Poi si alzò di scatto e lo scaraventò con forza all’interno di quello stambugio. Niente, la nostra balda prodezza, sul momento, non produsse nessuna reazione, da dentro proveniva soltanto la musica della radio. Ci chiedevamo dove fosse atterrato il topo. Stavamo già per riprendere i nostri consueti giochi sul terrazzone, quando udimmo lo strillo acuto di Fernanda. «E té sòccmel! A’i’é un pändg in mèz al lèt!»38 «Bén, mò proprio lì doveva andare a morire?» le fece eco Mauro, colto da timor panico. Pensò di sicuro che il topo fosse arrivato lì per caso, anche perché non presentava segni di frollatura! Per noi fu un grande spasso, e ci rincuorammo al pensiero che quei due non nutrissero sospetti su di noi. Quella birichinata aveva un po’ pareggiato i conti con i Mazzotti, per i tanti rimproveri subiti, ma non sarebbe certo finita lì. 38 Pronuncia cc dolce come in cedro. Trad. “Tu succhiamelo!”. Famoso intercalare volgare bolognese che esprime meraviglia, come sòccia = succhia, cioè “Accidenti! C’è un topo in mezzo al letto!”
68 NOVITÀ «Sai, Adriana» riferì il papà «oggi mi ha fermato la fornaia nell’atrio, e mi ha chiesto se vogliamo anche noi il telefono, potremmo condividere la sua stessa linea, e con un attacco Duplex, sarebbe un grande risparmio sulla bolletta. Se facciamo la richiesta alla TIMO39 ci installano il telefono in poco tempo. Mi servirebbe proprio, i clienti così potrebbero chiamarmi, e io avrei anche più richieste di lavoro, pensiamoci!» «Mi sembra una buona idea. Ma poi come funziona?» chiese la mamma con curiosità. «Si tratta di un normale telefono, e ai due utenti vengono forniti due differenti numeri. L’unico problema è che, essendo una linea unica, funziona in modo alternato: chi chiama o risponde per primo occupa la linea e l’altro deve aspettare che si liberi, cioè che si metta giù la cornetta. Se si sente il suono tu-tu-tu… è libero, se la cornetta è muta, è occupato. Semplice! Poi ogni volta che si telefona si paga un solo scatto e si può stare per tutto il tempo che si vuole.» «Penso che sarebbe molto pratico.» Annuì la mamma. La nonna, anche se era un po’ sorda, aveva captato la conversazione e intervenne all’istante, era sempre contraria a ogni tipo d’innovazione. «Ah sì? Be’ adesso ci mancava anche il telefono! Ma che bisogno ce n’è? Non siamo mica un ospedale o una banca, ah ma voi fate pure tutto quello che volete, tanto i miei consigli non li ascoltate mai.» «Senti mamma, per il mio lavoro invece servirebbe molto, vedrai che potrà essere utile anche a te.» «A me? A me no di sicuro!» La nonna si dovette presto ricredere perché, da quando le sue nipoti e sua sorella vennero a sapere che avevamo la linea telefonica, si sbizzarrirono a chiamarla, e la cosa fu reciproca. 39 TIMO (Telefoni Italia Medio Orientale) unico gestore della telefonia in Emilia - Romagna, fondata nel 1923.
69 L’installatore dopo aver fermato con delle graffette un sottile cavo grigio lungo la parete, fece un paio di fori in alto nel muro, e vi fissò un apparecchio telefonico di quelli che usavano allora: in massiccia bachelite nera. Ci consegnò poi un foglietto con il nostro numero che ancora ricordo:382306. All’inizio tutto filò liscio: i clienti di mio padre chiamarono numerosi, e la nonna rispondeva alle telefonate delle nipoti; anche la mamma stava a lungo al telefono con Adelma, pur abitando nella scala vicina. Non trascorse molto tempo che il telefono risultò spesso occupato, soprattutto durante le ore di punta del negozio della fornaia: era proprio da immaginare. A questo si aggiunse il passaparola dei vicini, e poiché noi avevamo il telefono, ne approfittarono: la famiglia Biondi e quella di Marzia; poi la signora Maura, la vecchia Dina, e la vedova Prassede. Cercammo di essere gentili con tutti, però quel continuo andirivieni ci procurò un certo disagio. A questo si aggiunse lo stillicidio del fastidioso suono del campanello della porta: era lo stratagemma adottato dalla fornaia Cesarina per ottenere la linea libera. Incollava il dito al bottone della pulsantiera dei campanelli, e lo pigiava a raffica come un’ossessa, era addirittura molto peggio di Fernanda! Il suo negozio aveva una piccola porta che si affacciava proprio nell’androne del palazzo, quindi nulla di più semplice che precipitarsi a suonare. Lo scopo era di farci riattaccare la cornetta per andare ad aprire la porta, così avremmo liberato la linea. Dopo alcune volte in cui cademmo nel tranello, diventammo più furbi: invece di riattaccare il ricevitore, lasciavamo penzolare la cornetta lungo la parete per verificare chi fosse, senza interrompere la comunicazione, ovviamente era sempre lei. Poi non ci facemmo più caso, chi poteva mai suonare il campanello quando eravamo al telefono? La statistica ci avrebbe dato ragione. A quel punto oltre a quel trillo fastidioso, si aggiunse pure il suo grido da cornacchia, che proveniva amplificato dalla tromba delle scale: «Agganciate bén ’sta cornetta e liberate il telefono, che adesso ne ho bisogno io!» Se la telefonata era importante, ad esempio quella di un cliente del papà, niente linea libera, altrimenti era a nostra completa discrezione.
70 Poiché eravamo suoi clienti, la fornaia non fece mai menzione della cosa in modo diretto, tantomeno in negozio. Per fortuna dopo qualche tempo ridusse la smania delle scampanellate, forse aveva capito che la pazienza avrebbe sortito un effetto migliore. Caro, vecchio telefono! Amico e complice, utile strumento dei nostri scherzi! Anche noi bimbi avevamo compreso le sue straordinarie potenzialità! Le prime vittime che vennero in mente a Vittorio e a me, chi l’avrebbe mai detto? Erano proprio le signorine Bartoletti. Mia madre un giorno si raccomandò con noi: «Bimbi fate i bravi, giocate pure. Io vado giù a fare un po’ di spesa, ma torno subito e, mi raccomando, non fate arrabbiare la nonna Amedea!» «Vai pure, mamma.» Appena si chiuse la porta, aprii la rubrica che conteneva i numeri telefonici scritti a matita, e salii su una sedia posta sotto il telefono, per arrivare alla cornetta. Avevo visto un film in cui Totò mascherava la sua voce, ponendo sul microfono della cornetta un imbuto rovesciato, e io feci la stessa cosa. Ne risultò così un timbro di voce un po’cupo e modificato. «Pronto, qui casa Bartoletti, chi parla?» rispose Giuliana. «Non è casa Barattoletti?» «No, Bartoletti, ma chi cerca?» «Cerco dei Barattoletti di conserva di pomodoro. Piscia – cacca – merda – culo!» «Ah, brutto screanzato!» esclamò per poi riattaccare subito dopo. Quante risate! «Adesso, tocca a te, e fai presto, prima che torni la mamma» dissi a Vittorio, mostrandogli la rubrica. Nel frattempo la nonna era nella sua stanza a sistemare il letto, e non si accorse di nulla. «Pronto, casa Fantazzini, chi parla?» «C’è mica suo marito?» «No, mio marito non è in casa, ma chi parla?» «Sono la sua bella friggiòna, quella che c’ha le titte come i meloni!» «Chi? Friggiòna? Meloni? Ma quale friggiòna?» «Quella che frigge le tue lunghe corna nella padella!» Riattaccammo. Altre risate!
71 «Per oggi basta, sta per arrivare la mamma, faremo nuovi scherzi un’altra volta, ma adesso è meglio che fingiamo di giocare con i soldatini.» proposi.
72 LA RACCOLTA DEL FERRO Liliano S era l’aiutante del papà, e ogni fine mese veniva a casa nostra per il conteggio delle ore di lavoro, e quindi ricevere lo stipendio. All’apparenza era un ragazzo timido, alto e allampanato, dall’aria simpatica, e con un naso molto lungo. Credo che avesse circa diciotto anni. Si muoveva di continuo, e non stava mai fermo; infatti non voleva mai sedersi. Altra caratteristica: ruminava di continuo con lo stesso nervosismo. «Ha visto, Adriana, che quel ragazzo ha sempre fame?» esordì la nonna. «Come ha sempre fame, ma lei come lo sa?» «Oï, al biassa sémper!»40 «Ma no, nonna, mastica la cicles, cioè la ciuinga41 be’ insomma, la gomma americana.» «Che cosa vuole che ne sappia io, che si mastica anche la gomma!» «Ma sì, durante la guerra la usavano i soldati americani, e la regalavano alla gente.» «Be’, a me mai!» «Ma lei era già anziana, la usavano i giovani che avevano i denti buoni. Si tiene in bocca finché ha sapore, poi la si getta via.» «Bén bén, adesso che lo so, quel ragazzo mi fa un po’ meno pena!» Era la prima volta che ne sentivo parlare, ed ebbi la curiosità di provarla. Andai dalla lattaia che le vendeva, così come le caramelle, le bustine a sorpresa della Luss Bert, e tanti altri dolciumi. «Quanto costa una cicles?» domandai. «Cinque lire.»42 40 Certo, mastica sempre! 41 La parola Cicles (Chicles) era in uso nel Nord Italia. Derivava da Tziktli, parola dell’antica lingua Nahuatl (per indicare una gomma naturale da masticare, ricavata da una pianta tropicale: la Manilkara chicle, del Centro America. Ciuinga (storpiatura dell’inglese Chewing Gum). 42 Circa 8 centesimi attuali.
73 «Bene, le chiedo alla mamma, poi torno!» Mi feci dare una monetina dalla mamma, quella con inciso il delfino, e comprai un fantastico quadratino verde di gomma da masticare, dal robusto sapore di menta piperita. Fra i bimbi del cortile ormai non si parlava d’altro, e tutti la vollero provare. Monetine alla mano, ci fu un vero accaparramento di chewing gum. Presto imparammo anche a fare il pallone, e fra noi iniziò la gara di chi lo facesse più grande. Andrea scoprì che mescolando due gomme di diverso colore se ne otteneva una unica e di colore differente! Così con una gomma gialla e una blu ne ottenemmo una verde, con una blu e una rossa ne ottenemmo una viola, e via di seguito, avevamo scoperto da soli come ottenere vari colori. Per noi fu una vera conquista. Ormai in cortile masticavano tutti. «Guarda che a forza di masticare ti passa la fame, sai? Stai ben attento a non masticare quando entri in chiesa!» Furono i soliti predicozzi della nonna Amedea. La cosa iniziò un po’ a smorzarsi, non perché avesse perso interesse, anzi… ma perché i nostri genitori non volevano più darci le monetine per comprare la gomma da masticare, ritenendo che fossero soltanto soldi sprecati. Noi bambini, allora, ci riunimmo per escogitare un piano per procurarci il denaro senza chiederlo in casa. «Ah, ma i soldi io li prendo dal catuìno43 di mia mamma» esordì Vittorio con sfrontatezza. «No, ma dai, allora li rubi? E se poi ti scopre? Be’, noi non vogliamo mica prendere le botte.» replicò Andrea, che di certo parlava anche a nome delle sorelle. «Ma allora, che cosa facciamo?» chiese Marzia. Intervenne Luciana, che era la maggiore di tutti noi: «Mi è venuto in mente che tutte le settimane passa di qui il solfanaio44 con il suo carretto, e raccoglie ogni cosa, soprattutto il ferro. E se facessimo la raccolta del ferro? Poi ci dividiamo i soldi.» La proposta fu subito accolta da tutti con grande entusiasmo. 43 Portamonete (italianizzato dal dial. catuén). 44 Robivecchi. (dial. sulfanèr, italianizzato in solfanaio, deriva da solfa; cioè la cantilena che faceva per richiamare la gente al suo arrivo).
74 Il cortilone era proprio l’ideale, pieno com’era di tanti frammenti di ferro che il fabbro Santi buttava. Occorreva solo raccoglierli. Lauretta procurò un sacco vuoto di juta delle patate, sottratto in negozio, per metterci i nostri preziosi ritrovamenti. Iniziammo così la nostra prima attività economica: tutti chini, e con occhi attenti, sempre rivolti a terra! Di sera nascondevamo il prezioso sacco, cui si aggiungeva il raccolto della giornata, dietro a una colonna, in fondo al corridoio delle cantine del civico 99. «Il solfanaio è un gran griccio45» ci informò Luciana, preoccupata. «Mi ha detto che ci dà solo venti lire il chilo. Gli ho detto di sì, sennò il ferro noi a chi lo vendiamo?» «Boh, ma quant’è un chilo di ferro?» chiese Marzia. «È come una bottiglia di vetro piena d’acqua, me l’ha detto il papà» rispose Andrea. «Allora del ferro ce ne vuole proprio un bel po’, per far del peso!» osservò Marzia. Ripulendo il cortilone, senza saperlo, eravamo stati i pionieri dell’ecologia moderna, e soprattutto del riciclaggio dei materiali. «Guardate che ora il sacco non è poi mica tanto pesante, e per far soldi dobbiamo cercare ancora dell’altro ferro. Ma dove?» intervenne Lauretta. Vittorio si propose, sicuro di sé: «Adesso ci penso io!» «Come?» chiedemmo in coro. «Come abbiamo fatto con il falegname Isola, vi ricordate?» Ci appostammo accanto all’antro del fabbro Santi, e aspettammo con pazienza, che quel vecchio barbogio andasse a pisciare nel cortiletto di Fantazzini, nascosto dietro un muro come faceva sempre. Non appena la nostra vittima girò l’angolo, furtivo e velocissimo, Vittorio s’introdusse nel suo stambugio e uscì quasi subito, piegato in due dal peso. Ci precipitammo ad aiutarlo, poi ci rifugiammo subito nelle cantine. «Oh, mamma mia!» esclamò Marzia «bén, ma hai preso un’incudine!» «Be’, e allora? Era la più piccola… ed è di ferro, vedrai che questa pesa.» «E se Santi scopre che manca?» si preoccupò Luciana. 45 Tirchio, avaro (italianizzato dal dialetto gréc pronuncia c come in ciliegia).
75 «Ma no, ne ha delle altre più grandi!» La “refurtiva”, con il resto del sacco, fu nascosta di nuovo in cantina, dietro la solita colonna. Il giorno successivo consegnammo al solfanaio il sacco con l’intera raccolta, incudine compresa. Lui lo soppesò, sollevandolo con un braccio, valutandone il peso a occhio. Quel “puffarôl”46ci allungò solo tre monete da cinquanta lire che, guarda caso, ritraevano da un lato un uomo nudo che martellava un ferro proprio su un’incudine! Si trattava del Dio Vulcano, ma questo lo avrei appreso in seguito. Eravamo stati imbrogliati, e ce n’eravamo anche accorti, ma dal terrore che quell’omino facesse la spia al fabbro, a causa dell’incudine insieme al resto del ferro, prendemmo subito i soldi, e corremmo dalla lattaia per fare una gran scorta di chewing gum, che ci bastò per quasi una settimana! 46 Imbroglione, truffatore.
76 SPIANDO… Quell’infame Fernanda aveva continuato con le sue solite scampanellate a tutti gli inquilini; e noi bambini, in cortile, con il solito baccano. Pur trascorrendo i mesi, la vita del palazzo non subì grandi cambiamenti. L’unica variante fu che i Mazzotti cominciarono a lasciare semiaperta la porta del loro bugigattolo. Forse per creare un po’ di corrente e rinfrescare l’ambiente, ma anche per avere la visuale e un controllo dell’atrio. Quel tardo pomeriggio, saranno state circa le 18:30, eravamo solo in tre sul terrazzone: Vittorio, Marzia e io, e ci stavamo proprio annoiando. «Per far qualcosa, perché non andiamo a spiare che cosa stanno facendo i Mazzotti? Hanno la porta sempre mezza aperta.» propose Vittorio. «Sì, dai!» risposi, tutto eccitato. Arrivammo in punta di piedi dietro alla porta, e piegati ci appostammo in fila indiana: Marzia davanti, che era la più bassa e in posizione privilegiata per vedere meglio, poi c’ero io e, quasi di fianco a me, Vittorio. «Dicci che cosa fanno, che noi da qui non vediamo bene.» Chiedemmo a Marzia. «Mangiano.» «E che cosa?» «Boh, mi sembra del pollo in umido con i piselli.» «E poi?» «Adesso Mauro sta bevendo del vino rosso. Oddio, si è alzato!» Ci ritraemmo e lasciammo passare un minuto. «No, adesso si è seduto di nuovo, e ha anche fatto un gran rutto!» «Sì be’, quello lo abbiamo sentito anche noi! E poi?» «La Fernanda gli ha detto “salute!” e ora beve.» «E fa dei rutti anche lei?» «No, no, lei no.» «E poi?» «Poi Mauro si è messo uno stuzzicadenti in bocca.»
77 «E dopo?» «Niente, ascoltano la radio.» Aspettammo, ma all’interno non succedeva proprio un bel niente, neppure un breve dialogo fra i due. Spiare era servito a ben poco, e non avevamo scoperto nulla d’interessante. All’improvviso sentii nascere in me un incontenibile impulso, e per la voglia di compiere una bravata, detti un forte spintone a Marzia che era piegata. Lei, colta di sorpresa, spinse le mani in avanti, spalancando completamente la porta, e balzò nel centro della stanza, facendo quasi un inchino. Fece questa mossa per mantenersi in equilibrio e non rovinare stesa per terra. La reazione di Mauro fu immediata, e con il tovagliolo ancora attorno al collo, si alzò di scatto dalla sedia. «Oh boia, brutti cinni!» Fu la prima esclamazione che riuscì a formulare, alla quale aggiunse: «lerci e schifosi!» Marzia si riprese subito, scattò in piedi e corse fuori, seguita da me e Vittorio. Pensavamo che Mauro si sarebbe limitato soltanto a farci paura. Dalla sua reazione intuimmo che non desiderava soltanto sgridarci lì all’istante, ma proprio acchiapparci, poi chissà… Usciti dall’androne del palazzo, prendemmo il marciapiede alla nostra destra, e corremmo più che potemmo in direzione della scuola elementare. Lui dietro. Non avrei mai immaginato che quell’anziano panzone corresse così in fretta. I bambini, si sa sono molto svelti e hanno un allenamento ben diverso, ma la distanza fra noi e quell’energumeno non era tanta. Oltrepassammo la scuola con lui sempre alle costole. Arrivammo alla chiesa, e con gli alberi posti sulla destra lui non ci vide svoltare, l’aggirammo e rifacemmo al contrario la strada già percorsa, indirizzandoci verso casa. Mauro, pur avendoci perso di vista, inviperito com’era, proseguì ancora. Poi ritornò a casa mogio; questo lo riferì Fernanda ad Adelma, che a sua volta lo raccontò alla nonna. «Bén, ma allora li hai presi?» chiese la moglie.
78 «Macché, correvano come saette! Ah, ma se mi capitano fra le mani, giuro che li imbèrlo!»47 Per fortuna la cosa finì lì, poiché nei giorni seguenti non ci diede più la caccia. 47 Li deformo! (Parola italianizzata che si usava soprattutto riferito a una bicicletta che aveva un cerchione deformato = bicicletta tutta imberlata).
79 1957 GIUGNO ANZOLA DELL’EMILIA, FESTA DEI SANTI PATRONI Lo zio Giuseppe, fratello della mamma, le disse che mi avrebbe ospitato volentieri a casa sua in campagna per qualche giorno. Era anche l’occasione per partecipare alla festa dei Santi Patroni Pietro e Paolo la domenica successiva, ad Anzola dell’Emilia. Aveva due figli: uno era mio coetaneo, l’altro più piccolo. Avrei avuto anche l’opportunità di conoscere meglio il nonno Aristide, il papà della mamma, che viveva con loro e che avevo visto soltanto un paio di volte. I miei genitori acconsentirono e mi accompagnarono con il pullman. Il modesto appartamento dello zio, posto al primo piano di una vecchia palazzina, faceva parte di una grande tenuta agricola, accanto a una stupenda villa del 1700, confinante con una piccola cappella. «Tu dormirai in questa camera con la nonna Carolina, mamma della zia Giulia, con Giovanni e Antonio. L’altra camera è la mia e della zia, lì vicino c’è quella del nonno Aristide, e in fondo al corridoio c’é il bagno.» mi mostrò lo zio. Il nonno era molto anziano e non si ricordava di me, ma mi sorrideva sempre. Non era di molte parole e la mamma mi spiegò che questo faceva parte del suo carattere. Era un uomo alto, robusto, e con i baffi grigi. La più bella immagine del nonno che ho fissato nella mente, è quella di un uomo sereno, immerso nei suoi pensieri, seduto all’ombra di un enorme salice, intento a fumare un sigaro toscano. Me lo ricorda tanto lo stupendo dipinto del “Fumatore” di Johann Carl Loth. La nonna Carolina era un’anziana signora non molto alta, che portava sempre un fazzoletto annodato sulla nuca alla guisa contadina. Nonostante l’età era molto dinamica, infatti amava andare in bicicletta, e spesso si recava anche al botteghino del lotto, per giocare il suo “ambino”, due numeri che a volte riceveva in sogno. La fortuna pareva baciarla, perché vinceva spesso!
80 Era di una simpatia unica, e con le sue battute in dialetto avrebbe fatto sorridere chiunque. Aveva un animo sensibile e generoso, e adorava i suoi nipoti che un po’ ne approfittavano. La ricorrenza dei Patroni era la festa più amata del paese, e in quell’occasione erano presenti tante bancarelle, con alcuni punti di ristoro. Alle 23:00 venivano lanciati i fuochi d’artificio e molti paesani, per l’occasione, si riversavano nella piazza principale in piena allegria. Quella domenica, subito dopo cena, noi bambini arrivammo in paese a piedi, accompagnati dalla nonna Carolina. «Nonna.» dissero i miei cugini «noi andiamo nella canonica a vedere la pesca di beneficienza.» «Sì, ma non vi allontanate, che poi vi vengo a prendere e facciamo un giro; io intanto vado in chiesa a pregare.» Entrammo nello stanzone dove si svolgeva la pesca e ammirammo i numerosi premi esposti. Noi però non avevamo un soldo, e questo ci dispiaceva. Mio cugino Giovanni, il maggiore, però ebbe un’idea: «Vedi, Eugenio, danno un piccolo premio ogni cinque serie, anche a chi non vince, se si consegnano i biglietti con la scritta “serie”.» «Sì, l’ho letto nel cartello, ma noi non abbiamo né soldi, né biglietti…» «Be’? Ma li possiamo trovare! Vedi quanti ce ne sono in giro per terra e nel cestino dei rifiuti? Raccogliamoli!» Chini, ci mettemmo a caccia delle “serie”, e ciascuno di noi ne raccattò almeno una ventina. Eravamo divertiti e soddisfatti del risultato. Facemmo un rapido conto: venti biglietti diviso cinque, sono quattro premi per ciascuno. Eravamo in tre, quindi potevamo ritirare ben dodici premi. «Adesso andiamo a vedere che cosa ci danno!» pronunciò d’un fiato Antonio. La signora addetta alla consegna dei premi ci offrì una doppia scelta: «Bimbi, con cinque serie vi posso dare: o una matita, o un bastoncino di stelle scintillanti.» «Che cos’è?» chiesi, in riferimento alla seconda opzione. «È come quello che si mette sulla torta del compleanno, si accende e sprizza delle stelline luminose. Allora, bambini, che cosa vi do?» Non avemmo dubbi, chiedemmo dei bastoncini di stelline scintillanti. Ringraziammo, e contenti ritirammo il nostro prezioso sacchetto. Poco dopo la nonna Carolina ci venne incontro.
81 «Ma che cosa c’avete in quel cartoccio?» chiese, sapendo che non avremmo potuto spendere nulla, e Giovanni raccontò una mezza verità, o come allora veniva chiamata, una “bugia bianca”: «Abbiamo dato alla signora della pesca le serie che abbiamo trovato per terra, e come premio ci ha regalato delle matite.» rispose. «Bravi!» disse compiaciuta, e dopo un breve giro per la piazza, tornammo a casa. Noi cugini ci sistemammo nel letto matrimoniale e la nonna Carolina in un letto singolo. Spense la luce e, stanca per aver camminato a lungo, si addormentò quasi subito. «Hai preso gli svedesi per dar fuoco ai bastoncini?» bisbigliai a Giovanni «Sì, certo, dal camino.» «Allora dai, accendili subito! Metti molti bastoncini vicini, così faranno più luce, e anche più stelline luminose.» suggerii. Ci fu uno sfrigolio infernale, e iniziò un’alta cascata luminescente di miriadi di stelline, tanto che la stanza s’illuminò quasi a giorno. «Oddio mé, oddio mé, cs’é quâl?48» urlò la nonna, svegliandosi di soprassalto per il forte crepitio. «Non è niente, sta’ zitta nonna! Che sennò svegli la mamma. Sono solo delle stelline luminose, dormi pure!» cercò di calmarla Antonio. «Mò sòrbole!49 Mò quali stelline? Stelline i mî cuaiôn,50 che mi state bruciando il letto!» «Taci che sono gli ultimi, nonna, adesso non ne abbiamo più» replicò Giovanni. Purtroppo anche l’ultimo bastoncino si spense, ma non si smorzarono certo le nostre risate. Tornato il buio completo nella stanza, la nonna parve calmarsi. Cercammo di dormire, ma non ci riuscimmo subito: la nonna per la preoccupazione, e noi per l’eccitazione. Il mattino seguente ci svegliammo tardi, la nonna Carolina spalancò le persiane, e la luce rischiarò la stanza. «Eh bén? Oh! Ma che cosa ci avete fatto alla mia coperta, che è tutta quanta strinata!51 E poi, guarda qui… sembra che ci siano passate sopra 48 Dio mio, Dio mio, cos’è quello? 49 Tipica espressione bolognese che sta per: “Accipicchia!”. 50 I miei coglioni. 51 Segnata da bruciature.
82 le tarme, con tutti quei buchi! Per me voi tre sbacchettate!52» esclamò la nonna tra lo sbigottito e l’arrabbiato. «Ma dai che non è niente, nonna!» cercò di calmarla Giovanni. «Poi la laviamo e la cuciamo noi.» «Ah, per l’amor di Dio! Oï bän! Di disâster a n’avì bèla fat asè, l’é ona cuêrta bèla arvinè!53» «Nonna, per favore non dirlo alla mamma!» la scongiurò Antonio «tanto ci scalda lo stesso.» Giovanni intervenne: «Sai, nonna, che se era di lana non si sarebbe bruciata, la lana mica brucia, l’ha detto il mio maestro.» «Sì, però si strina! Ma guarda te che lingua!» La nonna poco a poco si sbollì, e ci rassicurò che la zia non avrebbe saputo di quel fattaccio, e fece subito sparire la povera coperta dentro l’armadio. Mantenne la parola. Il nonno Aristide, così poco loquace, aveva invece un atteggiamento diverso nei confronti della nonna, sua consuocera. Spesso fra i due s’instaurava un dialogo a suon di battute ironiche, dandosi sempre del “voi”, in segno di rispetto, com’era consuetudine un tempo. «Voi che mi attaccate sempre il pippone54 del gioco del Lotto, fatela mò finita, tanto perdete sempre!» «Non è vero! Poi la farò finita quando voi smetterete di fumare cal tuscàn puzlånt55!» «Ma se fumo solo un ammezzato!56» «Bén, sarà anche una metà, ma vi dura una vita!» «Ma è perché si spegne sempre.» «Ah, magari!» «E voi che lasciate sempre i vostri scartarini57 in giro?» rintuzzò il nonno. «Bén, ma li devo pur controllare!» 52 Date di matto! - Non siete normali! 53 Ma certo! Dei disastri ne avete già (bèla) fatti abbastanza (asè, pronuncia s come in salsa ), è una coperta già rovinata! (dial, asè deriva dal francese assez). 54 Fare un monologo tedioso e lungo. 55 Quel sigaro toscano puzzolente! 56 Mezzo sigaro. 57 Italianizzato dal dialetto scartarén: biglietto del Lotto, della Lotteria.
83 «Poi, a proposito del fumo… ma se fumate anche voi, e per giunta di nascosto!» «Questa sì che è bella, io non ho mai fumato!» «Ah! Non me la date mica ad intendere… ma se l’altra notte ho fiutato un gran fumo che veniva fuori dalla vostra camera!» «Fumo? Ah, ecco, ma erano i…» La nonna stava per raccontare ciò che era accaduto e del fumo che si era sprigionato dall’accensione dei bastoncini, e sviò il discorso, salvandoci. A noi bambini balenò un’idea: «Facciamo come il nonno, perché non fumiamo anche noi il sigaro?» propose Giovanni. «Be’, e chi ce l’ha? Non glielo vorrai mica rubare!» mi agitai. «No, no, lo facciamo da noi, l’ho visto in un film di guerra. Riempivano la carta con le foglie.» spiegò Giovanni. «Quali foglie?» chiesi. «Quelle secche dei pioppi.» «Ma in questa stagione se ne trovano di secche?» «Le cerchiamo.» «E la carta?» interrogai dubbioso. «So quale prendere, ci penso io.» Giovanni andò in cucina e prese un grande foglio di carta gialla, quella che serviva ad assorbire l’olio della frittura. Prese le forbici e andammo nel pioppeto a cercare le foglie. In effetti di secche, in quel periodo quasi estivo, se ne trovavano poche. «Forse bastano. Sono quattro belle grandi.» ipotizzò Antonio. «Sì, basteranno.» rispose l’altro fratello. «Andiamo in cantina a tagliare la carta e a tritare le foglie.» Quel tipo di carta era particolarmente grossa, e risultò difficile arrotolarla, tanto che ci riuscimmo a stento. Inserimmo le foglie ben triturate, ma sorse però il problema di chiudere quella specie di “tubo” che avevamo costruito. Giovanni s’illuminò. «Ho un’idea! Prendo della Collamidina,58 vedrete che così sta chiuso.» Riuscimmo a incollarlo in modo rudimentale. «Lo accendo io.» si offrì Giovanni. «Oh cavoli, che fiammata! Ma si tira lo stesso.» 58 Colla in pasta bianca venduta in cartoleria, dal forte odore di mandorla. Serviva soprattutto per attaccare le figurine agli album.
84 Fece appena in tempo a succhiare il fumo, senza aspirarlo, e passarmi quel tubo grezzo cui diedi anch’io una ciucciata prima che si aprisse facendo cadere per terra le foglie bruciacchiate. Emettemmo anche parecchi colpi di tosse. «Come ti è sembrato?» chiese Giovanni. «Ma sa di bruciato, e non è per niente buono.» risposi convinto. «Anche a me è piaciuto poco, però abbiamo fumato!» Le due ore successive soffrii di mal di stomaco e nausea, che per fortuna passarono, senza altre complicazioni. La vacanza finì. Gli zii furono contenti di aver ospitato “il bimbo di città, così educato e studioso”, ignorando che non ero proprio “uno stinco di Santo”, come una volta riferì il maestro Moretti alla mamma.
85 GIUGNO 1957 – SECONDA VACANZA IN COLONIA I miei genitori decisero che anche quell’estate sarei andato al mare, ma in un’altra colonia, la UNSI di Misano Adriatico. Si trattava di un’imponente struttura ben attrezzata, consigliata dalle amiche della mamma che conoscevano perché negli anni precedenti avevano mandato i loro figli. Fui amareggiato perché a Cesenatico mi ero proprio divertito, ma accettai la loro decisione senza brontolare. «Il mare, è mare dappertutto.» disse la nonna Amedea, che il mare l’aveva visto in vita sua soltanto una volta. «Mica poi tanto vero!» le replicai al mio ritorno. Quella costruzione, che ogni anno ospitava centinaia di bambini, aveva una dépendance con gli uffici e un’infermeria. Era più simile alla caserma che avevo visto in un film, che a un luogo di vacanza. Il grande parco di pini marittimi in cui era immerso l’intero fabbricato, aveva un viale centrale che lo divideva in due: da una parte giocavano le bambine, dall’altra i maschi. Le maestre e anche il personale non erano così gentili e preparati come le suore della colonia del mio precedente soggiorno. La nostra maestra si faceva chiamare Gabì – forse Gabriella – che noi per scherzo, segretamente, chiamavamo Gabì-netti. Pronunciava le parole come se avesse una pallina da ping-pong in bocca: con una modulazione della voce greve e palatale. I ritmi e le cadenze orarie erano come quelle dell’altra colonia, però, tolte le preghiere e i rosari, restava più tempo per i giochi. Durante le ore di ricreazione iniziammo a fare dei lavoretti con il pongo, che a quell’epoca era grigio e puzzolente, non come l’attuale pasta da modellare che ha vari colori. Io lo provai, abbozzando la forma di un cane, e soddisfatto lo mostrai alla maestra Gabì, ed ebbi subito la mia prima valutazione: «Eh, ma non vedi com’è brutto?»
86 Sincerità per sincerità, pensai: “Sei proprio una gran cretina!”. Anche se capii subito che l’arte della scultura non era il mio forte. Non ci furono altri esperimenti, perché da quel momento mi rifiutai di usare ancora quella pasta fetida e unta. La bionda Gabì non fece nulla per accattivarsi la mia simpatia, e neppure quella degli altri. Chiamava quasi tutti i bambini con il soprannome “rimbàmbo” – rimbambito – e la detestai anche perché mi costringeva a mangiare il fegato, per il quale provavo un profondo disgusto. Il suo sapore e l’odore acre mi nauseavano, tanto da precipitarmi in bagno a vomitare, e l’avversione che provavo allora, non è mutata nel corso degli anni. Nonostante facessimo tutti i giorni il bagno in mare, dovevamo sottoporci alla doccia del sabato mattina. Noi maschi entravamo tutti nudi in un grande stanzone, e in alto, un lungo tubo forato spruzzava acqua dappertutto: a volte gelida e a volte bollente, sempre accolta con urla e gemiti da parte nostra. Ma questo non era certo il lato peggiore… il dramma per me era essere asciugato in gran fretta – poiché i bambini erano tanti – dalle robuste mani delle inservienti, che usavano dei canaponi di una ruvidezza unica, come la carta vetrata, tanto che spesso controllavo se avessi ancora il pistolino. Lo stanzone che ospitava i nostri lettini era molto lungo e stretto. In fondo vi era un paravento bianco, e dietro c’era il letto della maestra Gabì, che doveva prendersi cura di noi e sorvegliarci. Forse avremmo dovuto noi controllare lei. Alcune notti, sperando di non essere visto, s’introduceva un ragazzo, probabilmente l’amante di Gabì. Come poi facesse a eludere la sorveglianza per entrare nell’edificio, per me rimane ancora un mistero. Resta che, pur nella semioscurità, il paravento evidenziasse delle nitide “ombre cinesi” in pieno movimento, e si udivano miagolii come di gatti. Una mattina, mentre eravamo intenti a giocare con la palla, un bambino attirò la nostra attenzione: «Avete visto quei frutti rossi della siepe? Io li ho mangiati, e sono anche buoni.» Altri seguirono il suo esempio. Io mi limitai ad assaggiarne uno, ma proprio non mi piaceva, poiché aveva un sapore aspro e amarognolo. Qualche ora dopo lo stesso bambino manifestò qualche dolore alla pancia, e confessò alla maestra di aver mangiato quelle che sembravano delle bacche. Ci fu un consulto ai vertici, e venne la direttrice: «Chi ha mangiato le bacche rosse si metta da questa parte, gli altri possono
87 tornare a giocare.» pronunciò con autorevolezza. Io fui preso dal panico ed ebbi paura di essermi avvelenato. Pur avendo assaggiato una sola bacca, mi aggiunsi a quelli che avevano gustato “i frutti proibiti”. Arrivò l’infermiera, reggendo un vassoio con sopra un bottiglione e un grande cucchiaio: era olio di ricino, sempre utile per ogni evenienza. Inghiottii quell’orrido liquido oleoso, provando un profondo disgusto che mi diede persino i brividi: era il primo rimedio che a quei tempi veniva usato in casi simili. «Adesso voi bimbi venite con me in infermeria, dove il dottore vi terrà sotto controllo per un po’. Fummo addirittura ricoverati e smistati in diverse camerette. Se l’avessi immaginato, non mi sarei mai inserito nel gruppo dei probabili avvelenati. A ognuno fu assegnato un armadietto e un lettino, il mio era vicino a quello di un bambino che era degente da un giorno. «Ciao, come ti chiami? Io sono Eugenio. Perché sei qui?» «Io sono Fausto. Ogni tanto, la sera, sento un po’di male qui quando respiro.» Mi mostrò con la mano il petto. «E tu?» «Per le bacche velenose!» spiegai. «Oh, mamma mia!» «Forse non sono poi così grave, perché non mi sento dei mali. Io sono di Bologna e tu?» «Io vengo da Sondalo, in Valtellina, dove ci sono delle alte montagne.» «Ah, allora sei venuto qui perché avevi voglia di mare?» «Sì, i miei genitori hanno detto che cambiare aria mi farà bene.» «Anche i miei dicono così. Il dottore ti ha dato delle medicine?» «No, ha detto solo che devo mangiare leggero. Ma io sono un po’ goloso.» «Be’, per quello anch’io. Che cosa ti piace? A me la cioccolata e i gelati.» «A me piace molto anche la slìnzega che è un salame, e il Casèra.» «Che cos’é?» «Un formaggio.» Mi parlò di altre specialità della Valtellina, e io decantai le nostre lasagne e i tortellini. Così parlando ci venne anche molta fame.
88 «Be’, questa sera penso che mangeremo proprio poco.» profetizzai «già ci davano sempre quel brodo con le anelline, vedrai che anche oggi sarà lo stesso.» Mi sbagliai. L’inserviente portò a ciascuno: dello stracchino, un panino e una banana. «È proprio buono questo stracchino, ne mangerei ancora, è così poco!» esclamò con rimpianto. Nonostante fossi un bambino, avevo intuito che il malessere del quale soffriva Fausto era dovuto in massima parte alla nostalgia che aveva di casa. Mi aveva detto, infatti, che era la prima volta che si allontanava dai suoi genitori. Anch’io verso sera avvertivo lo stesso malessere, una sensazione di vuoto che mi prendeva alla bocca dello stomaco. Nell’infermeria erano presenti di solito un giovane dottore e un’infermiera: la signorina Titti, una ragazza bionda molto carina. Che ci fosse del tenero fra i due? Ho pensato in età adulta. A quel tempo certe malizie non mi sfioravano proprio. Perché ho creduto questo? Perché quando un bambino li chiamava per una necessità, loro comparivano solo dopo diverso tempo, e il dottorino aveva sempre i capelli scompigliati. Era già notte, e tutti dormivano. «Eugenio, Eugenio! Anche tu non dormi, vero?» «E mi hai svegliato per chiedermi questo?» domandai arrabbiato. «No, è che non sto bene. Chiama per me il dottore e la signorina Titti.» «Ma dai, va là, dormi che non è niente vedrai!» «No, no, chiamali subito!» «Be’, allora chiamali tu.» «No, adesso non ho voce. Te ti sentiranno. Se li chiami, tòh, ti regalo trenta lire.» Fausto era un bambino timido, e certo gli mancava il coraggio. «Non le voglio. E va bene, lo faccio lo stesso, ma solo per farti un piacere.» «Infermiera, signorina Titti, dottore, signorina Titti, dottore!» urlai. Trascorsero almeno dieci minuti senza che nessuno comparisse. «Non arrivano, tornali a chiamare, dai.» «Oh, ma uffa!» Li chiamai di nuovo e finalmente comparve il dottore, si accesero le luci della stanza, e dopo un po’ arrivò anche Titti. «Si può sapere che cos’hai?» chiese l’infermiera
89 «Non mi sento bene.» spiegò Fausto. «Ah, però quando urlavi a squarciagola come un matto per chiamarci, allora stavi bene!» esordì il dottorino. «Non sono stato io, ha chiamato lui.» disse indicandomi. «Adesso ti visito. Dove ti fa male?» «Qui.» Indicò il petto. «Più su, o più giù?» «Più giù.» «Questo è lo stomaco. Hai mangiato qualcosa?» «Niente.» «La pressione va bene, niente febbre, bene anche il ritmo cardiaco. Vedi, Titti, non mi sembra che abbia niente. Forse ha un po’ di dolori addominali. Passeranno presto. Adesso dormi!» «No, dottore, ma è il cuore.» «Il cuore? Ma se non ha niente! Da dove vieni?» «Da Sondalo, dalla Valtellina.» «Eh, ma uno che è abituato a vivere a mille metri, non deve certo avere problemi qui al mare.» intervenne Titti, che dando un’occhiata all’armadietto di Fausto, con l’anta semi aperta, esclamò: «Oh mio Dio, guarda qui!» Si mise a frugare all’interno in modo frenetico. «Uh, ma questa roba che cos’è? Be’? Addirittura un mezzo salame e un coltellino da scout! Guarda… e poi ci sono anche delle tavolette di cioccolato fondente Block!» «No, è della slìnzega!» specificò Fausto. «E che cos’è?» chiese il dottore. «Del salame.» chiarì. Titti riprese: «Ecco, sfido io che ti lamenti perché hai il mal di stomaco. Non si mangiano queste cose! Adesso ’sta roba la prendo io, e domani starai a digiuno per un giorno.» Il povero Fausto ci restò male. L’epilogo era scontato. Diverse volte ho ripensato a quell’episodio, e mi è venuto spontaneo confrontare Fausto con Paolone, il bambino grasso e viziato del film di Pozzetto “Sette chili in sette giorni”, la similitudine fra i due è evidente. Fausto e io fummo dimessi il pomeriggio seguente, e lui grato, divise con me una parte del cioccolato che gli era rimasto, nascosto dentro al cappellino. Finita la vacanza fui contento di ritornare a casa, anche per riassaporare la buona cucina della mamma.
90 IL CONTE – LUGLIO-AGOSTO 1957 VACANZA AL CASTELLO, QUANDO SI ANDAVA IN TOPOLINO La zia Natalina, mamma di Robertina, propose ai miei genitori di ospitarmi in campagna, per trascorrere buona parte delle vacanze estive. «Adriana, mi devi proprio portare Eugenio, non vedi come è magro per un bimbo della sua età? Lì in città con quel fumo della fabbrica non sta mai bene, non ha appetito, e non mangia. Qui c’é sole, aria buona, e cibo genuino, vedrai che si rimetterà!» Ero molto affezionato agli zii, e fui entusiasta. Emilio e Natalina ospitavano spesso uno stuolo di altri nipoti, e forse perché ero il più mingherlino di tutti, ero anche il cocchino della zia. Lo zio Emilio era il fattore di una grande tenuta agricola chiamata “Il Conte”, e viveva in un autentico piccolo castello rinascimentale, dove trascorrevo almeno un paio di mesi di vacanza in estate. Gli zii vivevano nell’ala est del castello59 che era stato rimaneggiato nel tempo. Aveva la forma di un largo parallelepipedo su due piani, più un solaio, e quattro torri disposte ai lati. A me fu assegnata la camera al primo piano nella torre di sud-est, accanto a quella degli zii e a quella di Robertina. Abituato a vivere in un appartamento piccolo e modesto, vedermi immerso in spazi molto ampi, questo mi procurò un certo disagio, ma poi mi abituai. Penso che sia molto più difficile il contrario. 59 Costruito nel 1578 da Giovanni Francesco Tossignani. Alla sua morte, senza eredi, dopo vari passaggi, arrivò stabilmente nel 1675 al Conte Antonio Giuseppe Zambeccari di Bologna, infine l’ultimo proprietario lo acquistò negli anni ’40 .
91 Tutte le camere avevano il soffitto a cassettoni, suddiviso in campate, e le travi portanti avevano dei bellissimi dipinti a volute con elementi floreali e grottesche. Le finestre erano enormi, con persiane di legno massello, senza griglie, e munite di feritoia con spioncino per controllare l’esterno. Il bagno all’ammezzato era dotato di una piccola finestra, aveva una turca alla quale lo zio aveva fatto applicare un rialzo di legno con sedile, e un piccolo lavandino. L’acqua corrente non c’era, occorreva procurarsela con un secchio alla fontana dove una pompa manuale la prelevava dal pozzo. Al piano terreno, su un ampio atrio si affacciavano: a sinistra una cucina molto spaziosa, confinante con lo studio dello zio, dove noi bimbi non potevamo entrare. Dalla parte destra dell’atrio vi era una fresca cantina disposta su due livelli. Sul fondo si sviluppava un enorme magazzino che occupava tutto il piano terreno del castello, congiungendosi con l’altra ala. Al suo interno era conservato il materiale che serviva per l’agricoltura: sementi, concimi, anticrittogamici, attrezzi, qualche piccolo mezzo meccanico, e anche delle biciclette. Fungeva altresì da garage della potente motocicletta dello zio: una Guzzi 500 “Falcone”, rossa. Quella stupenda moto gli serviva per gli spostamenti all’interno della tenuta, e per recarsi nei paesi più vicini: a San Giovanni – undici chilometri – o a Bagno di Piano – quattro chilometri. Al castello si arrivava percorrendo un lungo viale diritto, delimitato alla fine da due grandi aiuole circolari di siepe di bosso. Al centro di ognuna si ergeva un alto pino marittimo. Proseguendo, si stagliava questa imponente costruzione, servita da due lunghe scalinate in muratura, contrapposte e sghembe rispetto all’ingresso centrale. Di fronte all’ala est del castello, che era la parte riservata agli zii, c’era un’aia, una palazzina con la pesa pubblica, cui seguiva un giardino confinante con il pollaio della zia Natalina, e sul fondo un’ampia costruzione suddivisa in tre parti: un magazzino per attrezzi agricoli, la lavanderia e un forno a legna. Poco oltre, iniziava una stradina in salita che portava all’argine del fiume Reno.
92 La parte larga del castello, quella opposta alle scalinate, aveva di fronte un basso caseificio con annessa porcilaia; e a fianco una casa di contadini, una stalla, e poco oltre si stagliava un bianco silos cilindrico per la conservazione delle granaglie. La zona centrale, la più ampia del castello, ospitava al primo piano, per volontà della defunta moglie dell’attuale proprietario, una ventina di bambini, la maggior parte di loro orfani o abbandonati, della Pia Opera di Padre Marella. Si alternavano ad accudirli delle suore, ma non tutte erano consacrate. La zia mi aveva raccontato che in tempo di guerra, alcune signore ebree, peraltro molto facoltose, per sfuggire ai rastrellamenti, avevano trovato rifugio nel castello, vestendo l’abito monacale, per non essere individuate. Con puro gesto di carità e di generosità Padre Marella,60 le aveva accolte, disposto a sacrificare la propria vita se la cosa fosse stata scoperta. Solo per un miracolo non furono identificate, poiché la parte del castello abitata dagli zii, fu requisita per un certo periodo, agli inizi del 1944, per diventare la sede del quartiere generale delle SS tedesche di quella zona. Ricordo molto bene Padre Marella, l’anziano frate dalla lunga barba, che pedalava ricurvo su una bicicletta sgangherata e arrugginita. Il manubrio era carico dei manici delle sporte di paglia appese, che contenevano derrate alimentari e caramelle per i bambini. Provenendo da Bologna, percorreva circa venticinque chilometri e arrivava quasi stremato. Il volto era sempre sorridente, quando i bimbi festosi gli andavano incontro e gli tiravano la barba. «Il padre! Il padre! È arrivato il padre!» Era il grido di gioia sulla bocca di tutti. «Che il Signore vi benedica, putèi!» pronunciava con inflessione veneta. La presenza di quei bambini non era certo ignorata all’interno della tenuta: molti contadini e gli zii stessi, si prodigavano a procurare frutta e verdura per la loro alimentazione. Dai paesi vicini arrivavano anche montagne di scarpe usate, spesso spaiate, e una miriade d’indumenti. 60 Don Olinto Giuseppe Marella (Pellestrina – Venezia 14 giugno 1882 – San Lazzaro di Savena – Bologna 6 settembre 1969). Beatificato il 4 ottobre 2020.
93 Alcune industrie inviavano una grande quantità dei loro prodotti, a volte purtroppo anche non in perfetto stato di conservazione. Capitava che i bimbi mangiassero per diversi giorni solo maccheroni, o delle scatolette di tonno, o dei formaggini, o della mortadella; non era certo un compito facile gestire in modo equilibrato e diversificato la loro alimentazione. Questo dipendeva dalla varietà e dalla disponibilità di cibo conservato nella grande dispensa. Spesso giocavo con alcuni di quei bambini, che a volte si chiamavano per cognome: Macrì, Di Biase, Gigli, Mecco, poi Simone ed Ernesto. Capivo anche di essere più fortunato di loro perché, pur essendo povero, avevo una famiglia premurosa che si occupava di me, e forse anche un po’ troppo. Mia cugina Robertina aveva già le sue amiche, e a me non rimase che socializzare anche con altri bambini della mia età, figli di contadini: Maria M, Bruna F, e Gino G. La zia disse che durante il mio soggiorno avrei avuto l’opportunità d’imparare ad andare in bicicletta, considerando che in città sarebbe stato più difficile per il traffico e anche perché a casa non ne possedevo una. Mi fece provare con apprensione la sua vecchia Bianchi da donna, quella dello zio era improponibile perché aveva la canna di traverso, e non sarei arrivato ai pedali; oltretutto ne era anche molto geloso. Grazie ai miei amici, che già pedalavano sicuri, appresi da loro a rimanere in equilibrio esercitandomi nell’aia pavimentata. Per me fu una conquista, non solo perché avrei potuto fare scorribande in giro, ma perché questo mi era costato fatica e anche qualche sbucciatura alle ginocchia. Avevo cercato però di essere sempre prudente, tenendo presente una vecchia gag: “Mamma, guarda come vado bene in bicicletta: senza mani! Senza piedi! Ops… senza denti!”. I miei nuovi compagni m’insegnarono altri giochi: come saltare da un sacco pieno di grano all’altro, rotolare dalla cima di un cumulo di sabbia, andare sull’altalena, giocare a nascondino in un campo di mais, o di canapa, solo per citarne alcuni. Pian piano cercai anche di dominare la paura che avevo nei confronti degli animali domestici: cani e gatti, con i quali in città, non ero mai venuto a contatto.
94 Mi ambientai presto, e non ebbi alcuna difficoltà a comprendere le persone del luogo e gli zii, che si esprimevano di norma in dialetto, come i miei genitori e la nonna; anche se non ero ancora in grado di parlarlo. Un giorno lo zio Emilio portò noi cugini a San Giovanni in moto: Robertina sul sellino posteriore, e io sul serbatoio. Era la prima volta che provavo l’ebbrezza della velocità e il vento in faccia. Lo zio si fermò ad acquistare solo alcune cose in drogheria, perché in casa c’era sempre di tutto, e in un banchetto del mercato comprò due paia di occhialini da sole per noi. La zia Natalina si era ormai rimessa dal brutto incidente che aveva avuto l’anno precedente quando, in bicicletta, fu investita da un signore in moto. Nella caduta aveva riportato una brutta frattura alla gamba destra. Fu operata al Traumatologico, ricevendo delle buone cure, e fu persino risarcita. Lo zio Emilio, nel frattempo prese la patente, sostenendo l’idoneità alla guida presso il circolo ferroviario di Bologna. Con una buona parte della somma riscossa dall’assicurazione, gli zii decisero di acquistare un’auto: così avrebbero potuto viaggiare più comodi, ed evitare il freddo nei mesi invernali. Poco dopo si presentò un’occasione favorevole. Un mediatore di granaglie del paese, persona facoltosa e volubile, aveva acquistato la nuova Fiat 600, così vendette allo zio la sua Fiat Topolino color verde bottiglia, che era quasi nuova. Aveva la capote di tela nera. Le frecce di direzione erano delle semplici levette attivate dall’interno, che fuoriuscivano dalla carrozzeria. Le portiere non erano ancora controvento. Solida e robusta, non diede mai nessun problema. Il sabato mattina era dedicato al lavaggio della Topolino e noi cugini con secchi e spugne aiutavamo lo zio attingendo l’acqua dalla fontana. Per noi era un vero divertimento, anche se alla fine eravamo bagnati fradici. «Dateci pure dello sméco con la spugna, proprio lì sui targôni.»61 Diceva sempre lo zio, per farci ridere con parole derivate dal dialetto, e italianizzate di proposito. 61 Dateci pure con (vigore, forza ) con la spugna sulle (incrostature).
95 Ricordo ancora quando una sera gli zii ci portarono a San Giovanni al cinema all’aperto, per vedere un film della serie: “Pane, amore…” con Vittorio De Sica e Sophia Loren, che alla zia piacevano tanto. Era bello viaggiare in Topolino e quella per me fu la prima volta in cui salii su un’automobile. Al ritorno, Robertina e io, sdraiati sul sedile dietro, ci addormentammo cullati dai sobbalzi che l’auto faceva percorrendo una polverosa strada sterrata, e provammo una grande delusione nello svegliarci troppo presto, perché eravamo già arrivati a casa. Era un grande vanto dello zio Emilio stipare la Topolino con tante persone, e sorrideva notando l’espressione sbigottita di chi ci vedeva scendere e poi ci contava. Tra adulti e bambini arrivammo a sette! Tre davanti e quattro dietro. Nessuno avrebbe mai pensato che la Topolino, nelle mani dello zio Emilio, sarebbe diventata anche una potente arma da caccia. Di notte, al ritorno da San Giovanni, dove si recava con gli amici a giocare a biliardo, capitava che abbagliasse con i fari una povera lepre, poi un colpetto e via. La settimana seguente, passato il tempo di frollatura, la zia faceva le tagliatelle con il sugo di lepre; neppure a dirlo, a me quella carne stopposa, non piaceva proprio. Cara, vecchia e fedele Topolino, quanto carico umano hai trasportato! Lo zio pesava oltre un quintale, e la zia poco meno. Quando lui saliva, l’auto s’inclinava ondeggiando tutta dalla sua parte, e, analoga cosa, dall’altra, quando si sistemava la zia, ma così almeno finiva per bilanciarsi. Dopo alcuni giorni di permanenza al castello, dovevo sottopormi al rito della pesatura, proprio come fanno i pugili, questo poi avveniva anche periodicamente. Gli zii erano apprensivi per la mia persistente magrezza, e desideravano che almeno aumentassi qualche etto. Niente da fare. Constatando ogni volta nei loro visi una cocente delusione, escogitai il sistema di mettermi in tasca qualche sasso prima della consueta operazione, proprio per farli contenti. Lo strattagemma, infatti, parve funzionare. Lo scopo principale che mi ero prefissato era quello di placare la loro continua ossessione di rimpinzarmi a tutti i costi.
96 «Guarda, Eugenio, che la colazione del mattino è importante. Bevi il latte con l’orzo che la zia ha tostato apposta, e riempi la tazza di pane, fin quando il cucchiaio non sta bello dritto al centro!» raccomandava lo zio. A me il latte e l’orzo non piacevano. Con santa pazienza, non visto dalla zia, aggiungeva al latte anche qualche goccia di liquore Sassolino – anice – per rendermelo più gradevole. Devo ammettere che in quel modo riuscivo a berlo. Lo zio Emilio manifestava sempre un carattere allegro, nonostante i forti dolori all’anca e a un’ulcera duodenale che lo affliggevano da qualche tempo. Per il problema all’anca avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento chirurgico con il suo fissaggio e conseguente blocco dell’articolazione: non esistevano ancora delle valide protesi per ovviare a questa invalidità. «Non voglio mica che mi blocchino l’anca, che poi camminerò sempre con la gamba rigida. Farò l’intervento quando avranno inventato qualcosa di meglio, per ora cerco di resistere.» Aveva ragione; infatti, dopo qualche anno gli fu posta una protesi di berillio – molibdeno così, pur zoppicando un po’, riuscì a camminare in modo adeguato, e soprattutto senza dolore. Per alleviare gli spasmi allo stomaco, ricordo che assumeva un farmaco chiamato Alucol con Belladonna, con l’aggiunta di una strana polvere nera, che poi scoprii essere del carbone vegetale. “Chi sarà poi questa Bella donna?” mi domandavo. «Bevi, bevi pure, che poi ti passa il mal di stomaco.» disse la zia porgendogli un cucchiaio di polvere nera da mettere nell’acqua.» Lo zio si mise a rimescolare a lungo quell’intruglio, e quel nero non si sciolse molto, anzi, precipitò sul fondo del bicchiere. «Ma che strano! Oggi non si scioglie bene. Mah!» Bevve il contenuto del bicchiere, mostrando un certo disgusto, e le labbra gli divennero tutte nere. «Eh, mò sént comm la sgrénẓla såtta i dént!62 Bén, Natalina, ma che cosa mi hai dato?» «Oï, visto che la tua polvere era finita, ho pensato che se è carbone vegetale, poteva andar bene anche la carbonella che uso dentro al ferro 62 Eh, ma senti com’è granulosa, sotto i denti!
97 da stiro. È sempre carbone di legna, no? Sai, l’ho tritata fine con il macinino del caffè.» riferì, ingenua. «Di’ bén che mi volevi avvelenare!» Quella sostituzione non provocò allo zio nessun disturbo, anzi, si placarono all’istante i dolori allo stomaco, e alla fine ne risero insieme. Capitava a volte, infatti, che la zia prendesse qualche iniziativa un po’ avventata. Un giorno, lo zio Emilio si lavò i denti senza mettersi gli occhiali. «Natalina, eh mò sté dentifréẓi qué, al sgrénẓla såtta i dént!63 Uh, ma senti che saporaccio orribile che ha, e poi non fa neanche la schiuma!» «Ma quale dentifricio hai usato?» «Oï, quello sulla mensola, a destra.» «Eh, Emilio, ma cos’hai fatto! Non è mica il dentifricio quello lì, è il tubo della mia pomata per le emorroidi!» Lo zio, schifato, corse subito a sciacquarsi la bocca. Non gli successe nulla, e non se la prese con la zia, in fondo era lui ad aver sbagliato tubo. Quando ripensavano a quello che era successo, si scatenava il loro buon umore. Spesso fra loro brontolavano, provocando l’ilarità di chi li ascoltava in quel momento, anche se provavano un grande affetto l’uno per l’altra. Lo zio era calmo, mentre la zia si agitava spesso, e amava la puntualità. Lui, al contrario, era sempre in ritardo: questi due opposti caratteri, si compensavano alla perfezione. La zia Natalina vestiva in modo sobrio e non si truccava mai. Allo zio Emilio piaceva essere sempre elegante. Fumava ogni tanto le sigarette Serraglio, tra le più costose, e faceva il bagno nel profumo Pino Silvestre Vidal, quello della nota bottiglietta verde a forma di pigna. Al suo passaggio lasciava una scia inconfondibile e persistente, tanto che anche gli interni della Topolino, odoravano di pino. La vecchia Gina B, moglie del casaro – una veneta grassa, pettegola e molto ignorante – spiava sempre ciò che facevano gli zii e non mancava di presentarsi a sorpresa al momento meno opportuno. «Oh, ma dove va questa volta, signor Emilio, che profuma come una putàna? Poi così elegante!» In quanto a sfrontatezza non la batteva nessuno. 63 Natalina, ma questo dentifricio qui, è granuloso sotto i denti!
98 «Be’, e non lo immagina? Vado a putàne… proprio dove ce la mando io!» rispose lo zio. Per fortuna la famiglia di Gina si trasferì poco dopo a Bologna, il caseificio fu venduto, e arrivarono i nuovi proprietari. Come ho già accennato, ero un bimbo sbadato e altrettanto curioso, e quel giorno questo mio lato del carattere poteva essermi addirittura fatale. Lo zio girava sempre armato fin dalla guerra: per la sicurezza della famiglia, ed evitare il pericolo di eventuali aggressioni, poiché il castello era piuttosto isolato in mezzo alla campagna. Gigo-giago, era il nome di pura invenzione dato da noi cugini alla sua pistola Beretta 85F calibro 9 corto, piccola e maneggevole. Un giorno lui la poggiò sul tavolo e io la presi in mano. Lo zio fu tempestivo, e me la tolse subito, lanciando un forte urlo, cui seguirono sonori rimproveri. Capii la lezione e la pericolosità di quell’arma che lui teneva sempre con il colpo in canna. Non la toccai mai più, anche se sapevo che a volte la poneva nella tasca portaoggetti laterale dell’auto. *** Ogni sabato, dopo l’accurata toelettatura della preziosa Topolino, si procedeva anche alla nostra pulizia personale. La zia, nella lavanderia, accendeva il fuoco sotto il calderone di rame colmo di acqua. La nostra vasca da bagno consisteva in un grande mastello di legno, alto quanto noi bambini. Era piacevole immergersi fino al collo nell’acqua calda, ma l’odore del sapone casalingo, fatto con soda caustica e grasso animale, proprio mi disgustava. «Sgùrati64 bene con il sapone, vedi che bella schiuma che fa?» «Sì, sì, zia.» annuii, mentre pensavo solo a quell’odore schifoso. Prima facevano il bagno gli adulti, poi noi bimbi, nella stessa acqua saponosa, proprio perché nulla andasse sprecato: né la legna per il fuoco, né l’acqua. *** 64 Sfregati a fondo.