99 Mia cugina Robertina aveva il terrore degli zingari, e io prima di allora, non ne avevo mai visti. Lì in campagna, però, ogni tanto si aggirava qualche zingarella, forse cercando l’occasione di rubacchiare qualche frutto, ma non erano mai capitati episodi spiacevoli. «Lo sai, mamma, che le zingare rubano i bambini? E io non voglio essere portata via!» diceva spaventata Robertina. «Ma chi te l’ha detto? No, no, stai tranquilla, ci siamo qui noi, nessuno ti viene a prendere!» la rassicurava la zia. Ero in campagna da circa venti giorni, quando una notte la zia si svegliò di soprassalto poiché aveva udito le galline schiamazzare nel pollaio. «Hai sentito, Emilio?» «Che cosa?» «Bén, mò nel pollaio, non senti che baccano fanno le galline? Non ci sarà mica entrata una faina?» Seguì ancora un gran trambusto. «Che cos’è stato, mamma?» chiese preoccupata Robertina. Anche noi bambini ci eravamo svegliati di soprassalto. «Mmh, credo proprio che sia una faina con due gambe… ma adesso ci penso io!» Lo zio uscì di scatto dalla stanza e si precipitò nel corridoio. Staccò il fucile da caccia appeso a un chiodo nel muro, in alto. Ruotò la zeppa di legno che chiudeva lo spioncino della persiana, e infilò la canna del fucile in direzione del pollaio. Sparò tre colpi, e poco dopo altri due. Noi bimbi ci turammo le orecchie con le mani. Il rimbombo fu molto forte, e l’eco risuonò per tutta la campagna. Nello stesso istante si udirono delle grida acute, seguite da parole pronunciate in modo concitato in una lingua sconosciuta:65 «Bunătatea mine! Dumnezeul meu! Trage! Trage!» Cui si aggiunse, subito dopo, la voce di un giovane, che urlò in italiano stentato: «Oh mama mea! Spàrrano ancòrra!» «Ah, te lo dicevo io… hai sentito? Hanno detto che “sparano”. Vedi, sono degli zingari ladri di polli!» «Ma li hai colpiti?» gridò la zia in preda al panico. 65 Quelle parole le avevo subito memorizzate: si sa che i bambini hanno una grande capacità di ricordare ciò che li ha maggiormente colpiti, a seguito di eventi particolari. (“Bontà divina, mio Dio, sparano! Sparano!” – Rumeno)
100 «Ma figurati, non sono mica matto! Ho sparato in alto, ma così in alto, più di un’aquila in volo!» La zia si calmò e tornò il silenzio. I ladri fuggirono, e fummo certi che quell’episodio li avrebbe tenuti lontano. Il mattino seguente notammo che la rete del pollaio era stata tranciata in un punto, e le galline si erano prese la libertà di zampettare fuori nella corte. La zia le contò, e c’erano tutte. Per un bimbo di città, oltretutto sbadato com’ero io, era quasi scontato mettersi nei guai e incappare nei pericoli, che in campagna si presentavano spesso. Per questo motivo gli zii mostravano una certa apprensione nei miei confronti, soprattutto la zia, che seguiva i miei movimenti con un occhio sempre vigile. Una domenica mattina ci recammo in Topolino, a pranzo a Mirandola da un’anziana parente dello zio. Dopo aver terminato, noi bimbi fummo liberi di andare a giocare all’aperto. Io m’infilai nella stalla, dove c’era un bel cavallo, con il pelo lucido e una lunga coda. Pensai di fare una treccia con la coda del cavallo. Volevo imitare la nonna Amedea che teneva i capelli lunghi, li attorcigliava, e li sistemava in cima alla nuca con un concio. Mi posi dietro al cavallo, che sembrava molto paziente, e iniziai a incrociare i crini, più che con perizia, con grande impegno. Avevo appena incominciato, che mi sentì strattonare dalla zia, fui sbattuto da una parte, e ci rimasi molto male. «Oh, ma guarda, non ti posso lasciare solo un momento! Che cosa ci facevi dietro al mulo? Non sai che i muli sono famosi per tirare calci?» «Un mulo? Ma io credevo che era un bel cavallo!» «Santo Cielo! Loro puntano il loro peso sulle zampe davanti, e sollevano quelle dietro, calciando con forza. Mamma mia, l’hai scampata proprio bella!» Per giorni al Conte non si parlò d’altro, e tutti i contadini del vicinato ne ridevano: non certo per il pericolo che avevo corso, ma perché avevo scambiato un mulo per un cavallo. «Ah, ma quel bambino dobbiamo sempre tenerlo d’occhio!» ripeteva continuamente la zia al marito. «Eugenio, vieni a vedere i conigli, qui sotto il còrico66, se vuoi puoi anche accarezzarli!» 66 Struttura di legno o metallo provvista di una rete, posata per terra, per tenere sotto animali domestici: galline, pulcini, conigli.
101 Io ben contento, infilai la testa dentro all’apertura in alto, per vedere meglio, e zàcchete! Il pesante sportello cadde giù all’improvviso sul mio collo, come una ghigliottina! Non fu il colpo ricevuto quello che mi fece più male, ma la botta nel mento che ricevetti con il contraccolpo contro il metallo di sotto. La zia si sentì in colpa per non aver impedito l’incidente, non ne parlò con lo zio. E neppure io, perché mi vergognavo. Trascorsi alcuni giorni la sbucciatura sul mento guarì, e non rimase che un insignificante piccolo segno rosso. *** Suor Giuseppina di Padre Marella, conosciuta con il soprannome di suor Peppona, era una donnona grassa, con visibili baffi scuri. Una mattina mi chiese di aiutarla a portare un secchio d’acqua dalla fontana. «Mi puoi dare una mano? Gli altri bimbi sono in aula con il maestro che è venuto per fare il ripasso di aritmetica. Oggi non mi sento molto bene, e poi non ho più la mia medicina!» Andai con lei alla fontana e l’aiutai, sorreggendo metà del manico del pesante secchio. Entrato in casa lo raccontai agli zii. «Hai fatto bene! Be’, e poi ha anche parlato della sua medicina? Ha detto proprio così?» Si misero a ridere, ovviamente io non capii. «Sì, sì, ha detto proprio così!» Ancora risate da parte loro. Quando arrivò un fattorino con un furgone Ape, e si avviò per la scalinata con una cassa piena di bottiglie di birra Pedavena, anche se ero un bambino, compresi di quale medicina si trattasse, e anche le grasse risate degli zii. Quella vacanza si rivelò proprio piacevole, soprattutto quando un contadino ˗ Francesco detto Checco, zio di Bruna, mi portò con un piccolo trattore blu – che lui chiamava Carioca, cui aggiungeva la frase: che con i piedi si gioca – attraverso i campi, e mi mise seduto davanti a lui. «Guida, prova mò tu, adesso.» Checco lasciò libero il volante, io lo afferrai con le mie piccole mani e iniziai a ruotarlo con un po’ di fatica.
102 «Attento, che vai tutto storto, gira il volante!» Con tempo e pazienza, imparai ad andare più dritto. Quel tipo simpatico, sposato e senza figli, aveva però intuito come rendere felice un bambino. Come ennesima dimostrazione del suo affetto, mi consegnò una “finta patente” di guida fatta con il cartoncino, copiata in modo egregio dalla sua originale. Al colmo della gioia, ricevetti i complimenti di tutti coloro cui la esibii con ostentazione. A volte si divertiva a prendermi in giro, e io ci cascavo sempre, perché di lui mi fidavo. «Eugenio, ti piace andare al cinema?» «Sì, mi piace molto. A Bologna vado al cinema parrocchiale.» «E quale film hai visto per ultimo?» «“La nonna Sabella”, con Peppino e Tina Pica, faceva ridere.» «Eh, ma i film belli e divertenti sono quelli che ho visto io a San Giovanni!» «Davvero? E quali?» «Be’… per esempio: “La fuga del cavallo morto”, “Ghiacciai in fiamme” e “Biancaneve e i lunghi nani”.» Trovai strani quei titoli, ma non gli chiesi spiegazione, e non mi accorsi della burla, né mi feci raccontare le trame. Non altrettanto gentile fu nei miei confronti sua madre Emma, quella vecchia e rancida “Abelarda”, brutta e rinsecchita, che appariva del tutto simile all’immagine classica che noi abbiamo della Befana. Credo che di bambini ne avesse avuto piene le tasche: con otto figli, e contornata da altrettanti nipoti, tra i quali la mia cara amica Bruna, la più piccola. Con Maria, Gino e Bruna spesso giocavamo nei pressi della casa di quella orribile megera. Un gioco che a noi piaceva molto era quello del negoziante. Su un carretto di legno ponevamo i prodotti alimentari che Bruna riusciva a sottrarre a sua nonna, e noi facevamo finta di acquistarli o venderli fra noi, poi li mangiavamo. Quel giorno avevamo esposto: un pezzo di pane, un pomodoro, un po’ di formaggio, un paio di pesche, due peperoni sott’aceto, e alcune fette sottili di barbabietola. Il gioco si protrasse a lungo. Io poi fui colto dal mal di pancia, forse la barbabietola non c’entrava, ma io pensai fosse stata quella la causa, perché per me era una novità. «Ho un gran mal di pancia, e adesso vado subito a casa.»
103 «Ma no, vai nel cesso là dietro, così dopo continuiamo a giocare.» consigliò Bruna. Feci così. Non lontano c’era un casotto in muratura. Al suo interno si trovava una base di cemento con un largo foro, e appeso alla parete un gancio, come quello che usava il macellaio per appendere la carne, in cui erano piantate le pagine patinate e lucide di una rivista, che sostituivano la carta igienica, che ancora non si vedeva in commercio. Mi colpì un puzzo tremendo, perché il casotto era posto proprio sul pozzo nero della porcilaia che si trovava accanto, per non parlare delle mosche. Nonostante tutto il ribrezzo che provai, riuscii a liberarmi, e finalmente uscii con gran sollievo, a respirare aria pulita. Feci appena in tempo a porre il piede fuori, che arrivò la vecchia befana e mi affrontò: «Ma tu, bimbo, chi sei?» «Sono un amico della Bruna, il nipote del fattore.» «Be’, non m’interessa, e che cosa ci facevi lì dentro?» «Ma…» balbettai «avevo bisogno…» «Ah! Perché di merda qui noi non ne abbiamo già abbastanza, vero? Allora dobbiamo prendere anche quella degli altri, mò vai bén a cagare a casa tua!» Io ci rimasi molto male, e andai subito a raccontarlo agli zii. Immaginando la scena, si misero a ridere di gusto, mentre io rimasi serio per il rimprovero ricevuto. *** Arrivò Ferragosto, e gli zii pensarono d’invitare tutti i parenti, “un’occasione per ritrovarci tutti”, disse la zia. Eravamo più di una ventina. Dopo la Messa nella chiesetta padronale dedicata a Sant’Antonio, in fondo al viottolo, quella dove si erano sposati i miei genitori, seguì il pranzo all’aperto nell’aia, degno delle migliori cuoche della famosa cucina bolognese. La cosa più importante di quell’afoso giorno estivo furono le foto che lo zio Emilio scattò a tutti noi. «Finché ci siamo ancora, e in buona salute, mi fa piacere che Emilio ci faccia delle foto, così possiamo ricordarci di questo bel giorno.» Come non dare ragione alla zia, in un intervallo di tempo piuttosto breve, molti ci lasciarono.
104 Dopo tanti anni, guardando quelle foto con commozione e nostalgia, mi rendo conto che ormai siamo rimasti solo noi nipoti, e siamo quasi tutti nonni. *** I bambini sono spesso poco rispettosi nei confronti dei loro coetanei, soprattutto se qualcuno di loro presenta problemi o difetti. Anche i bimbi di Padre Marella, avendo avuto una prima infanzia travagliata, pur vivendo in un ambiente religioso, non erano esenti da monellerie e piccole cattiverie. A un bambino di nome Ernesto, un po’ più grande degli altri, era stato affibbiato il soprannome: “coda”. Penso che molti di loro provassero gelosia nei suoi confronti, soprattutto perché una lontana zia ogni tanto veniva a trovarlo, mentre gli altri non ricevevano mai nessuna visita. «Coda, coda, Ernesto c’ha la coda!» dicevano in coro. «Non è vero, siete dei bugiardi, io non ho la coda!» si difendeva. «Sì che ce l’hai!» ripetevano in modo ossessivo. Devo ammettere che la cosa mi aveva incuriosito. “Forse dicono una bugia” pensai. “Ma com’è possibile che un bambino come me possa avere la coda?”. «Svestiti, Ernesto! Così fai vedere a Eugenio la tua coda, che non ci crede.» Il poverino si spogliò di malavoglia. «Ah, ma non è mica una coda!» dissi dopo aver guardato con attenzione «sono peli che ha anche un mio cugino più grande di me.» Ernesto si sentì rincuorato e gli altri bambini rimasero delusi. Tennero per buona la mia perizia, e da quel momento non fu più chiamato coda. Quei bambini pestiferi avevano inventato anche uno scherzo-tortura, scegliendo a caso la vittima del momento. La volta in cui fui presente, la sorte toccò al povero S Gigli. «Insacchettiamo Gigli, sì dai, insacchettiamo Gigli!» Tre bambini afferrarono i pantaloncini del penitente dalla cintura, e lo sollevarono a strattoni, a più riprese. Poiché il cavallo dei pantaloni era piuttosto stretto, il malcapitato lanciò degli urli, mentre gli altri ridevano. La fantasia dei bambini era davvero senza limiti, ma questo lo avevo già capito frequentando i miei amici del cortile.
105 La comunità della tenuta Il Conte, fatta di una ventina di case coloniche sparse per la campagna, non si fece mancare proprio nulla durante la mia vacanza: da un piccolo incidente, a un buffo scandalo. L’incidente fu il rogo di un vecchio fienile, di cui vidi le fiamme e un denso fumo stando alla finestra della stanza degli zii. Per fortuna fu di sera tardi, e nessuno si fece male. Forse era di origine dolosa, magari una vendetta, o come si vociferava, era stato architettato per riscuotere la polizza assicurativa. Il piccolo scandalo, invece, alimentò il tam-tam delle chiacchiere per qualche tempo. La prima a spargere la notizia fu la signora Ida Ligabue, la moglie del nuovo casaro. «Ma ha saputo che cosa è successo?» chiese a mia zia. «Boh, non lo so, me lo racconti.» «Eh, ma qui ci sono i bambini!» «Oh, loro giocano, non fanno mica caso ai nostri discorsi» rispose ingenuamente la zia. «Bén, mi ha detto la Solidea, che quando faceva già buio ha visto due uomini tutti nudi su una moto! Avevano solo una mascherina nera sulla faccia, e le scarpe!» «Avranno avuto caldo.» cercò di ironizzare la zia. «Eh, macché, vuol scherzare? Oh, e poi mi ha detto che quando si sono accorti che lei li guardava, si sono alzati in piedi, in equilibrio sui pedali, e lei è riuscita a vedere anche i loro pendagli! Mamma mia, oh ma che scandalo!» «Bén, addirittura? Però bisogna dire che la Solidea c’ha anche una buona vista!» «Oï!» «Ma si sa chi erano?» «No, perché come le ho detto, portavano una mascherina in faccia. Poi, quando si sono allontanati, l’uomo che stava dietro si è seduto, e ha spostato le gambe mettendo i piedi sulla targa, perché non si vedesse il numero.» «È proprio una vergogna!» esclamò la zia. «Ah, ma non è poi mica finita lì, sa… quei due anche ieri sono venuti di nuovo qui intorno, sempre nudi. Li ha visti anche Adolfina, che per la paura ormai le veniva uno smalvìno!67» 67 Uno svenimento.
106 «Perché erano nudi, o perché avevano la faccia mascherata?» «Boh, chi lo sa, era così confusa!» «Ah ma ’sta storia deve finire. Bisogna scoprire chi sono, e farli smettere.» replicò la zia in modo fermo. Quella bravata non si ripeté più. Nessuno seppe chi fossero i due nudisti misteriosi, tranne noi bambini… La mia amica Bruna disse che aveva ascoltato una conversazione di suo fratello Lorenzo con un suo amico, in cui si vantava della sbruffonata della moto fatta con Paolo, figlio di contadini della tenuta. Ci raccomandò poi di non raccontarlo a nessuno, e noi mantenemmo la parola. A proposito di piccoli scandali, e immagini osé, a quei tempi se ne occupavano anche le riviste più famose. La signora Ida, maliziosa per carattere, non mancava di scoprire avvenimenti piccanti, poi, facendo la finta scandalizzata, li andava subito a spifferare alla zia. «Sa, Natalina, che ho letto qui su “OGGI” l’ultima novità.» disse, mostrando alcune foto del settimanale. «Ah, però!» esclamò la zia osservando le immagini. «Sì, sì, e poi guardi… qui c’è proprio la foto della B.B. Bordò in topoles!»68 Mostrando quelle pagine diventò tutta rossa, e sorridendo distese i baffetti biondi, che le spuntavano dal labbro superiore. «E pubblicano ’sta roba qui? Brôtta spurcazzôna,69 bén ma non si vergogna?» si meravigliò la zia. «Dicono che è la moda di adesso!» «Ma la moda non erano dei vestiti? Io, sa, quel topo-les che dice lei, non lo vedo mica! Qui la Bordò mostra solo un paio di tette nude!» replicò la zia, indicando la foto. «Ah, ma è proprio quello che ho penso anch’io! E poi vede che lì dietro, nel sedere, le hanno messo una specie di tagliatella per il lungo?» «Ah, questa poi… Be’, faranno per risparmiare la stoffa!» cercò di argomentare la zia. 68 Brigitte Bardot in topless. 69 Brutta sporcacciona!
107 «Macché, costa più quella striscia di stoffa del mio paltò70 di lana!» replicò Ida con irritazione. Questa conversazione, andò avanti per un pezzo, entrambe continuarono a sfogliare la rivista additando via via le foto che comparivano nelle varie pagine. Alla fine della mia permanenza al Conte fui pesato, e avevo acquisito un chilo e duecento grammi di peso, e questa volta… senza sassi in tasca. 70 Paletot, cappotto.
108 SETTEMBRE 1957˗ RITORNO IN CITTÀ Le vacanze erano terminate, e al ritorno dalla campagna fui contento di rivedere i miei genitori, la nonna e gli amici del cortile. Ora dovevo prepararmi ad affrontare un nuovo anno scolastico, così ultimai i compiti che mi erano stati assegnati. Sapevo che in seconda classe avrei cambiato maestra, e questo mi rattristava. Mi sentii veramente a casa solo quando il brontolamento della nonna Amedea riprese con regolarità, mentre dagli zii non ne sentii per niente la mancanza. Avevo invece provato una certa nostalgia delle nostre monellerie, quelle che il branco portava a termine con fervida fantasia. «Bén mò Eugenio, ma che cosa te ne fai di quella corda? Non senti che fa puzza di stalla? Buttala via subito, che non ti serve mica.» consigliò la nonna. “Col cavolo!”, pensai. Quella grossa corda di canapa che serviva per legare le mucche, era il ricordo che avevo portato dalla campagna, e l’avevo chiesta a Checco quando ero entrato nella stalla per osservare la mungitura. Mi disse che la potevo prendere, perché era uno spezzone troppo corto per l’uso al quale era destinata. A me invece sarebbe stata molto utile, e avevo già l’idea di come usarla. La mostrai a Vittorio, che subito diede un’alzata di spalle e fece una smorfia che mostrava tutto il suo disgusto. «Uh, ma ’sta corda puzza di caprone, e poi che cosa ce ne facciamo?» «Intanto andiamo sul mio pianerottolo, poi sta’ a vedere…» Appena fummo in cima alle scale, arrivammo di fronte ai due appartamenti confinanti: quello della Biondi e quello della Marzia, con le porte poste fra loro a novanta gradi. «Perché lo scherzo funzioni, dobbiamo calcolare bene il tempo.» spiegai a Vittorio, e mi feci aiutare da lui a legare gli estremi della corda alle rispettive maniglie delle porte dei due appartamenti, lasciandola un po’ lenta. «Ma di quale tempo stai parlando?» chiese Vittorio pieno di curiosità.
109 «Quello che passa prima che la signora Biondi e la Marzia vadano ad aprire.» La Biondi aveva un lungo corridoio da percorrere, Marzia aveva la cucina subito dopo l’entrata. Feci un rapido conto: la Biondi avrebbe impiegato circa nove secondi, Marzia meno di cinque. Suonammo con energia il campanello della Biondi, e poi contammo fino a cinque e pigiammo il campanello della Marzia. Arrivarono così alle relative porte in contemporanea, neppure un cronometro svizzero avrebbe potuto fare di meglio! Vittorio e io ci nascondemmo dietro una sporgenza del muro. Quando una delle due “vittime” tirava a sé la porta per aprirla, faceva chiudere sbattendo con fragore quella dell’altra, e viceversa. Quelle poverine lanciarono le prime esclamazioni: «Ma chi è?» chiese la Biondi. «Chi ha suonato?» domandò la Marzia. «Ah, Marzia! Allora sei tu che mi sbatti la porta! Che cosa cavolo vuoi?» Dall’interno non si vedeva la corda tesa e neppure all’esterno, perché la porta si apriva appena. «Ma non sono io, é lei che me la chiude!» Io e Vittorio cercammo di soffocare le risate. «Io? Ma brutta cretina, sei pazza? Smettila subito!» «No, adesso chiuda lei, che apro io!» «No, scema! Chiudi tu!» Alla fine saltammo fuori ridendo, e togliemmo la corda dalle maniglie. Tutto quel trambusto richiamò l’attenzione di alcuni inquilini che si riversarono sulle scale, però non si resero conto di quanto era accaduto. Marzia accettò di buon grado il nostro scherzo, ma la Biondi ci tenne il broncio per una settimana.
110 1957 AUTUNNO Gli inquilini del mio palazzo, nel corso degli anni, risultarono essere i più longevi di tutto il quartiere Santa Viola. Si andava da un minimo di ottanta anni a un massimo di centotre. In merito alla longevità, accadde un fatto che provocò una certa ilarità tra gli inquilini. Una mattina Prassede, confinante con l’appartamento di Vittorio al terzo piano, vedova sulla sessantina “sconsolata”, ma sempre alla ricerca di un nuovo affetto, scendendo le scale, incontrò Fiorella del secondo piano, moglie di Pietro M, che singhiozzava. «Bén ma che cos’ha Fiorella, che piange come una fontana?» «Niente, niente!» «Ma qualcosa deve pur esserle capitato.» «Non so se dirlo… be’ ieri era il compleanno di Pietro, novant’anni, pensi!» «E allora, lei piange per questo?» «Ma no, mica per questo.» «Quindi?» «Oï, stanòt, Pietro l’a vlô fèr l’amöur»71 Prassede, sempre petulante e curiosa, rintuzzò: «Allora piange perché non ci è riuscito?» «No, no.» «Ci è riuscito dunque?» «No, no.» «Mò allora, io proprio non la capisco!» «Oï, ma io piango perché Pietro mi ha commosso!» Povera Fiorella, come darle torto? Il tenero gesto del marito, forse un po’ patetico considerando la sua età, l’aveva scossa emotivamente. «Su, Fiorella, si faccia coraggio, che poi non è successo niente!» pronunciò d’un fiato, quasi a sottolineare l’evidente doppio senso… 71 Questa notte, Pietro ha voluto fare l’amore.
111 Fiorella si consolò, e Prassede poi ne rise, raccontandolo, in giro. Prassede, omonima di quella bigotta e maldicente dei “Promessi Sposi”, senza rendersene conto ne emulava anche il carattere, e avrebbe fatto bene a occuparsi di se stessa, invece di ciarlare degli altri. Era rimasta vedova, senza figli, e manifestava i tipici sintomi dell’ipocondria. Ogni settimana si recava dal medico, portandosi a casa ogni volta sacchetti pieni di medicine. Anche la signora Maura aveva lo stesso medico curante, il bravo dottor Mondini, che in totale confidenza e amicizia, si sfogò con lei: «Per correttezza deontologica non dovrei dirlo… ma sa che la signora Prassede, la sua vicina di casa, è tornata in ambulatorio? Non soffre di mali gravi, ma tutti i giorni dice di sentirne di nuovi. Ah, con lei mi vuole una bella pazienza!» Così riferì la signora Maura alla mamma. Per contro, la stessa Prassede, confidò alla Maura ciò che le era capitato in ambulatorio: «Sa, Maura, che ieri sono andata in ambulatorio dal dottor Mondini, bén mò non mi ha neanche visitata, mi ha guardata, e mi ha dato solo la ricetta delle medicine, poi in modo spiccio mi ha detto: “Ora vadi, vadi pure”.» «Be’, e le ha detto solo così?» «Sì… ma che roba!» La signora Maura trattenne a stento una risata. Il dottor Mondini, oltre a essere un valente medico, era anche un uomo piuttosto piacente, e alla signora Maura era balenato il sospetto, non poi tanto azzardato, che Prassede amasse troppo essere toccata… cioé visitata da lui… Questo, forse era anche il pensiero del dottore. «Domenica mi sono anche confessata.» le riferì ancora «e sa che cosa ho detto al monsignore?» «Per carità, c’è il segreto, non mi racconti nulla, non lo voglio proprio conoscere!» alzò le mani, come a non volerne sapere niente. «Lo so, lo so che c’è il segreto, ma se glielo dico io va poi bene. Così, allora gli ho detto che faccio la voglia di un uomo. Ah, se solo fossi più giovane! Ma sa che il cappellano don Maurizio è proprio un gran bel ragazzo: alto e moro! Sì, ma tanto quello fila dietro alla delegata.» «Eh, che cosa mi dice, sul serio?» La signora Maura si mostrò stupita. «Ma se ormai lo sanno tutti, lei è proprio l’unica… be’, adesso la storia gliela racconto io.» «Se vuole.»
112 «Sì, sì, certi scandali si devono proprio sapere in giro. Sa che li hanno visti insieme?» «Per forza, è la delegata della parrocchia.» «No, ma no, mica alla chiesa, li hanno scoperti su per San Luca, pensi, in collina! Là ci sono andati con la Fiat 600 di quella zitella con gli occhiali, che poi mi sembra proprio una bambola di celluloide cotta nel forno.» «Nel forno?» «Sì, be’ è tutta sfatta e con le gote cadenti, con le borse sotto gli occhi, e ha i seni piccoli come due prugne! Non so proprio che cosa ci trovi in lei il cappellano.» «Ma saranno andati lassù a San Luca, per visitare il Santuario della Madonna.» «Di notte? Senta, adesso non faccia mica l’ingenua! Be’ insomma hanno fatto proprio un bel patatrac, perché la macchina si è rotta proprio prima della curva delle Orfanelle, e loro hanno telefonato dal bar della Funivia, per farsi riportare in canonica. Anche il monsignore, don Alfonso, c’è rimasto male. Oh, ma se fosse stato per lui, non si sarebbe mica mai saputo! È la sagrestana che me l’ha raccontato.» «Allora è lei che ha fatto la spia… però come corrono le notizie!» commentò la signora Maura. «No, no, lei ripete sempre che non fa mai la spia proprio per non commettere peccato, dice che si limita soltanto a rievocare i fatti… Ah, ma c’è anche dell’altro, sa!» «Un’altra delegata?» chiese, mentre se la rideva. «Ma no, si figuri! Si tratta di una faccenda molto delicata e poco pulita, ecco: lui porta all’estero dei soldi, e tutti sanno che è proibito dalla legge. Credo che vada a Londra.» «Dei soldi suoi?» «No, lui non ne ha mica. Ma è ben per questo motivo che va in giro! Qui nel quartiere ci sono delle fabbriche, e i proprietari gli affidano una parte dei loro guadagni per metterli al sicuro fuori dall’Italia, in cambio di una piccola percentuale. Lui passa la frontiera senza problemi, perché ai preti non controllano mai la valigia in dogana, si fidano. Poi lui racconta a tutti che va là per studiare l’inglese… Eh, eh, ma quale inglese!» «Mi hanno detto che sua madre è vedova, e ha un figlio più piccolo che studia ancora, si vede che lo fa per aiutare la sua famiglia.» «Be’, queste cose non si fanno lo stesso!» replicò Prassede seccata.
113 «Andare con la delegata, o portare i soldi all’estero?» chiese con ironia Maura, sorridendo. «Tutte e due.» «Io mi meraviglio di lei, Prassede, che è così religiosa… io che non vado in chiesa, non vedo tutto il male che lei pensa.» «Ah, me lo dica bén, ma allora lei è una comunista? Be’, me l’ero proprio immaginato!» «Senta, questi sono solo affari miei, lei invece, pensi bén a curarsi, che è meglio.» Tagliò corto la signora Maura, ben sapendo che lei non se la sarebbe certo presa. Dopo qualche giorno, avrebbe dimenticato quel piccolo screzio, tornando ancora alla carica, magari con nuovi pettegolezzi. Non passò molto tempo che dalla casa della Prassede si vide entrare e uscire un uomo… Aveva dato ospitalità a un signore alto, distinto ed elegante, un certo Dante V, ex assicuratore in pensione. Non sapevamo se fosse vedovo, separato o altro. Aveva però una figlia che non voleva più occuparsi di lui, così diceva. In seguito immaginammo il perché. Per alcuni mesi sembrò che il loro rapporto di coppia filasse liscio. Prassede aveva migliorato il suo pessimo carattere e si fermava sempre meno a spettegolare, e a stazionare sul pianerottolo in cerca di qualcuno di passaggio da agganciare, cui raccontare le ultime maldicenze. Nel frattempo Dante, con una parte della sua liquidazione, aveva acquistato un Maggiolone Volkswagen di seconda mano, color verde pisello, con il quale portava in giro Prassede. Un giorno quell’intrigante fermò la signora Maura: «Sa che cos’è capitato a Dante? Ben mò la macchina l’ha lasciato a piedi! Lui l’ha spinta fin dal benzinaio, e gli ha detto che la macchina non andava più e si era rotta. Chiese se poteva darle un’occhiata. Il benzinaio si mise a ridere, dicendo: “Sfido io, come potrebbe mai andare? Lei è rimasto senza benzina!”» «Be’, non ci avevo proprio pensato!» fu la risposta. Questo e altri segnali ben più gravi di una certa e galoppante instabilità mentale, si presentarono presto. Infatti, qualche giorno dopo… «Sa, Maura, che cosa mi è successo?» raccontò Prassede allarmata e al colmo dell’agitazione. «Ah non se lo immagina di sicuro! Bén, quando ho aperto il cassetto della biancheria, ho trovato tutte le mie mutandine
114 di pizzo tagliuzzate con le forbici. Ho chiesto a Dante perché avesse agito così, e sa lui che cosa mi ha risposto? Mi ha detto: “Sì, l’ho fatto perché sei proprio una gran busona, che prendi in casa tutti gli altri uomini, e poi ti fai montare peggio della cavallina Storna, vergognati lercia d’una sboldròna!”72 Ma chi è poi questa Storna? » «Sarà un detto popolare, e di sicuro voleva farle un dispetto.» «Mah, sarà proprio così! Poi mi ha anche urlato: “L’ho visto sai quel topone Dall’Olio che gira sempre sul cornicione del palazzo e poi viene in casa a chiavarti”. Io ci sono rimasta così male che ho pianto tanto, e non capivo più niente!» «Me lo immagino. E chi sarebbe poi ’sto topone Dall’Olio?» «Che cosa vuole che ne sappia io, non lo conosco. Se lo sarà proprio inventato!» «Tranne Dante, non è venuto nessun altro in casa sua?» «No, a parte il muratore che doveva sistemare una crepa sul muro. Solo dopo ho notato che aveva lasciato dappertutto le impronte delle suole delle scarpe, bianche di gesso. Si vede che Dante se n’è accorto.» «Ma il muratore ha girato anche sul cornicione? E come cognome fa Dall’Olio?» «Macché, no, poi lui si chiama Bertini!» «Strano!» «Sì, e poi sa che cosa mi ha fatto? Quando mi sono svegliata ieri mattina, mi sono trovata le mani legate con una corda, e lui è stato seduto su una sedia vicino al letto tutta la notte, e ne teneva stretto il capo. Allora ho urlato, ma lui non mi voleva mica slegare, poi ha iniziato a gridare: “Ah, brutta maiala schifa, vedi, ti sei mossa, eh? Volevi andare ad aprire la porta al tuo amico, vero?” Io ho pianto, e solo dopo mi ha tolto la corda. Be’, io gli volevo bene: mi portava su la legna per la stufa, faceva la spesa, andavamo in auto… ma adesso non lo voglio più in casa mia!» «Fa bene, mi sembra un uomo pericoloso: prima le forbici, poi la corda. Non si fidi più!» «Certo, è quello che ho pensato anch’io.» Tutti gli inquilini del palazzo ne parlarono, e tirarono un sospiro di sollievo quando Dante se ne andò. Un pazzo simile meglio non averlo tra i piedi, soprattutto per chi aveva dei bambini. 72 Donna poco seria.
115 Prassede, dopo un’intesa amorosa che durò soltanto alcuni mesi, continuò a essere una vedova inconsolabile, manifestando il solito carattere, anzi, forse peggiorò. Vittorio e io, nei pomeriggi di pioggia, non potendo andare in cortile a giocare, sostavamo a chiacchierare per ore sul suo pianerottolo, che era anche quello di Prassede e della vecchia Dina M. Per noi stare lì era piacevole perché nessun adulto avrebbe potuto ascoltare le nostre confidenze e i nostri piccoli segreti. Nessuno? Prassede, invece sì! «Sai che la Prassede sta a sentire tutto quello che ci diciamo?» bisbigliò Vittorio. Lo guardai stupito. «Ma dici sul serio?» «Ne sono sicuro. Ho sentito dei rumori là, dietro la porta. Forse la tiene anche socchiusa per spiare meglio!» «A noi poi che cosa interessa?» «Be’, invece a me scoccia molto!» ribadì Vittorio piuttosto irritato. Prassede, proprio in quel momento, si affacciò sul pianerottolo: «Ecco, vi ho portato un bicchiere d’acqua, ormai vi si sarà seccata la lingua in bocca, dopo tutte quelle chiacchiere!» «Grazie.» rispose Vittorio, afferrando il bicchiere in modo sgarbato «ma non abbiamo mica ancora finito, sa!» «Ah! Bén, allora…» Quell’intrigante si ritirò sbattendo la porta, ma di certo rimase ancora a origliare. Noi continuammo con i nostri discorsi senza curarci di nulla. Passò circa una mezz’ora e la porta si aprì di nuovo. «Insomma, adesso vi dico che è proprio ora di finirla… e cic- e cic, sempre a spingere il pulsante della luce delle scale! Perché la corrente non costa niente, vero? La pago anch’io, che non la uso!» L’illuminazione delle scale andava con un temporizzatore posto nel quadro elettrico dell’atrio. «Bén, vuole che restiamo al buio? Mio padre che è elettricista mi ha detto che consuma molto poco.» risposi «e poi quelle lampadine sembrano dei lumini da morto!» «Be’, le vostre belle chiacchiere le potete fare anche al buio! Non c’è proprio niente da vedere!» «Lo dice poi lei, noi non vogliamo mica inciamparci sugli scalini.» replicò Vittorio. Prassede sembrò rassegnarsi ed entrò in casa sbattendo di nuovo la porta.
116 «Vedi? Quella vecchiaccia randagia sta sempre lì dietro, e ascolta tutto quello che diciamo.» Passarono dieci minuti e si sentì ancora un rumore. Vittorio si precipitò verso la porta, mettendo la bocca contro la larga toppa della chiave, poiché era sicuro che Prassede utilizzava quella fessura per spiarci. A quel punto cominciò a sputare a raffica: «Puh - Puh - spia, spia, non sei figlia di Maria! Puh - Puh!» «Oddio mé!» si udì subito. «Vedi, era ancora lì!» Ridemmo parecchio per quella bravata. Dopo quella volta, credo che lei fosse diventata più prudente, perché non si sentiva più nessun rumore provenire dall’interno, anche se penso che non avesse perso l’abitudine di spiare di nascosto. La poveretta non sapeva che avevamo in serbo per lei un altro simpatico scherzetto, ma tempo al tempo…
117 IL PREZIOSO TUBERO Il papà diverse volte ci aveva raccontato che in autunno un suo amico andava alla ricerca di tartufi, e ne trovava parecchi, poi li vendeva ai ristoranti del centro, mettendo da parte un discreto gruzzolo. Il merito della sua piccola fortuna lo doveva all’infallibile fiuto della sua cagnolina Liz, di razza spinone. Questo anziano signore, ormai pensionato, partiva molto prima dell’alba in motorino con una cassettina di legno legata sul portapacchi, dove sistemava Liz avvolta in una coperta di lana. I cercatori di funghi e tartufi non rivelano mai le zone in cui si recano, ma al papà, che non era certo in concorrenza con lui, svelò che le colline attorno a Savigno erano generose di tartufi bianchi, i più pregiati. Una volta il papà gli chiese se gliene poteva vendere uno piccolo, visto i costi. «No, non te lo vendo, te lo regalo!» Il papà, dopo aver insistito per pagarlo, lo accettò molto volentieri e tornò a casa, ben contento di farci una sorpresa. «Non indovinerete di sicuro che cosa c’è in questo pacchettino!» «Che cos’é?» chiesi incuriosito. «Mé invézi al le sò bèla: a î’é dla tréfla!»73 esclamò la nonna, mettendo subito il broncio. «Be’, e come hai fatto a indovinare?» si stupì il papà. «Oï, ma non senti? Fa una puzza di liquigas che non ci si sta vicino…» rispose con aria di disgusto. «Be’ mamma, sì è vero fa odore, ha un profumo molto forte.» La nonna scosse la testa. «Ah, io non ne voglio mica sapere né di tartufi, né di funghi, che sono velenosi.» «Alcuni funghi lo sono, ma non i tartufi.» cercò di farla ragionare il papà. 73 Io invece lo so già: c’è del tartufo!
118 «Bén, bén, a me non interessa, mangiatelo pure voi.» La mamma intervenne per interrompere quel bisticcio: «Angelo, ti ha detto il tuo amico come si conserva? Perché lo affetterei domenica prossima sulle tagliatelle.» «Sì, si mette in un contenitore di vetro in mezzo al riso.» Il tartufo fu custodito come il papà aveva detto. La domenica seguente, quando il vasetto fu aperto, la mamma notò che il tartufo era tutto ammuffito, e ci rimase malissimo! Non ho mai capito se era già vecchio, o se era stata una potente iettatura lanciata dalla nonna.
119 SCHERZI INNOCENTI… Le idee per compiere monellerie, a noi bambini non mancavano mai. A volte nascevano in modo spontaneo, altre volte scaturivano da un’occasione particolare. La mamma di Andrea aveva ascoltato alla radio la pubblicità di un ottimo amaro che faceva digerire anche i sassi, così lo volle provare. «Vai da Dino, il droghiere, e chiedi questo amaro, ho scritto qui sul foglio il nome, ecco i soldi.» «Non importa mamma, me lo ricordo.» Vittorio e io lo accompagnammo, e camminando parlammo della scuola e di altre cose, e lui si distrasse. Entrato dal droghiere, rammentò solo vagamente la marca del liquore. «La mamma mi ha detto di comprare un amaro, ma non mi ricordo bene…» «Vuoi il Fernet? Il Cynar? O il Ramazzotti?» «No, no voglio il Bone Petruskacamp!» Vittorio e io ci mettemmo a ridere, e capimmo che cosa avrebbe dovuto chiedere. «Ah, vuoi il Petrus Boonekamp “l’amarissimo che fa benissimo”, quello della pubblicità alla radio?» «Sì, proprio quello.» Di ritorno a casa noi due lo sbeffeggiammo e Andrea cercò di giustificarsi: «Ma voi non dimenticate mai niente? Prendetemi pure in giro…» Sentendosi mortificato, volle recuperare la nostra stima mostrandoci una scatoletta. «Guardate che cos’ho qui: una cosa che di certo voi non avete mai visto!» Ci mostrò una scatola di fiammiferi. «Be’, sono solo dei fiammiferi, e allora?» domandai, facendo spallucce. «Non sono mica quelli normali, sono antivento, quelli che non si spengono mai!» «Che cosa te ne fai?» chiese Vittorio.
120 «Si può fare un razzo, guardate… l’ho imparato in Veneto dai miei amici quando ero in vacanza.» Andammo sul terrazzone, prese tre fiammiferi, avvicinò le capocchie fra loro, e le avvolse con la stagnola, così formarono un treppiede, li appoggiò per terra e vi diede fuoco. Il razzetto rudimentale partì, alzandosi un paio di metri. Presto però ci stancammo. Occorreva trovare qualcosa di più divertente da fare con quei “preziosi” fiammiferi. Mentre pensavamo, nel cortile sottostante passò l’anziano fabbro Santi, con la sua solita andatura lenta da lumaca, e barcollante per i troppi bicchieri, lo stesso al quale Vittorio aveva sottratto l’incudine. Accendemmo alcuni fiammiferi, e dal terrazzone glieli gettammo molto vicino ma non accadde nulla, non li vide nemmeno. Ne accesi uno anch’io e lo lanciai. Senza volere, né mirando apposta, guarda caso, finì dritto nell’ampia tasca del suo grembiulone nero! «Boh! Ma non se n’è mica accorto, si sarà spento.» pronunciò Andrea deluso. Trascorsi alcuni secondi, dalla tasca uscì un fumo denso e nero. Il poveretto a quel punto si mise a saltare come un grillo. Sembrava in preda al delirio, e si dimenava se come fosse stato colto dalla febbre terzana; mentre si dava delle manate contro la tasca del grembiule, poi cercò di liberarsi di un grosso fazzoletto tutto bruciacchiato, e ancora fumante! Prima che guardasse in alto, verso il terrazzone, noi corremmo a rifugiarci nelle cantine. Riuscimmo però, a sentire gli improperi che lanciò: «Quella brutta troia di un’Eva! Boia d’un porco e d’un delinquente, che se ti prendo, ti tiro il collo come a una gallina! Ti do una botta in testa, che il muro te ne dà un’altra!» Ovviamente ci divertimmo moltissimo! Per prudenza non ci facemmo vedere giù in cortile per qualche tempo. Decidemmo che per un po’ avremmo messo in atto monellerie meno roventi, e per questo pensammo a un innocente scherzo telefonico: anzi a diversi. In passato il signor Biondi, che era venuto in casa mia per approfittare del telefono, aveva portato un foglietto con un numero, preceduto dal nome, e distrattamente l’aveva dimenticato sulla mensola. Io l’avevo conservato con cura, nell’attesa poi di servirmene. Quando qualcuno veniva per telefonare, io mi appostavo dietro alla porta della camera della nonna, per origliare, e quindi avevo ascoltato anche la telefonata di Biondi.
121 «Sono Biondi. È lei signor Roffi? Sì, sabato e domenica sono libero, posso fare il servizio. Ah, si tratta di un matrimonio? Bene, allora sistemo il tavolo Imperiale. Mi dice che sono esigenti? Allora useremo il servizio di piatti della Ginori, i bicchieri di cristallo e le tovaglie di fiandra. Mi dica anche il menu e i vini; così mi segno tutto, e poi quando arrivo, so già come sistemare l’apparecchiatura.» Man mano che parlava, prendeva appunti su un foglietto. La conversazione proseguì ancora per un po’. Il signor Biondi faceva un doppio lavoro: come cameriere in un famoso ristorante in centro a Bologna nei weekend, e il resto della settimana in un altro più modesto. Dalla telefonata a Roffi, erano trascorsi da allora un paio di mesi, e nel frattempo anche Biondi aveva installato il telefono in casa. Con Vittorio, approfittando dell’assenza della mamma, che era scesa per fare la spesa, telefonammo a Biondi, con il solito strattagemma della voce camuffata con l’imbuto. Occorre aggiungere che Biondi era una persona sempliciotta, come del resto lo erano anche la figlia Sarina, e sua moglie. «Pro-onto, so-ono Roffi, sa che un cliente è venuto a lamentarsi e ha detto che lei è lento come una tartaruga! Poi mi ha anche detto che lei ha rotto tre bicchieri di cristallo! Sa, così non va mica bene…» «Bén, ma che cosa dice, signor Roffi, io vado sempre con il mio passo, poi io non ho rotto proprio niente.» «Allora va come una lumaca! E i bicchieri costano! No, non va bene… ne parliamo poi quando viene qui.» Riattaccammo, e ridendo corremmo a origliare alla porta di Biondi, per ascoltare ciò che avrebbe riferito alla moglie. «Oh! Sai che era Roffi al telefono, e ha detto che sono lento, e che ho rotto dei bicchieri, ma non è mica vero!» «Dei bicchieri non lo so, che sei lento ha ragione, hai i piedi piatti!» «Ma se Roffi mi fa sempre correre quando sono là, come fa a dire così?» «Si vede che corri piano!» Il battibecco proseguì ancora. Immaginammo che Biondi avesse poi chiarito la questione con Roffi, e forse ne avessero riso entrambi. Vittime del secondo scherzo chi potevano mai essere, se non le padrone di casa, le signorine Bartoletti? «Pronto, qui casa Bartoletti, chi parla?»
122 «Sei Giuliana?» «Sì, sono Giuliana Bartoletti, ma chi parla?» «Sai che tu mi piaci quando ridi?» «Ma chi è? Che cosa vuole?» «Usi il dentifricio Colgate con Gardòl?» «Che cosa?» «Sì, quando ti lavi la dentiera!» «Scemo d’un maleducato!» Riattaccammo, e giù risate. Poi Vittorio, prese l’elenco telefonico e iniziò a sfogliarlo. «Senti, Eugenio, potremmo fare degli scherzi a chi non conosciamo, così non ci scoprono di sicuro! Andiamo a vedere sull’elenco i cognomi più buffi, e poi li chiamiamo.» Acconsentii subito, tanto la mamma non sarebbe rientrata presto. «Pronto, casa Soffritti, chi parla?» rispose una voce femminile. «Attenta che non li bruci!» «Pronto, parla Pancaldi, chi è? «I pani se li mangi freddi!» «Pronto qui casa Baffoni.» «Perché poi non se li taglia?» «Qui casa Gatti, chi parla?» «Miaooo!» «Pronto, sono la signora Migliavacca, chi è?» «Mi serve un litro di latte, vada bén a farsi mungere!» «Pronto, qui famiglia Melalavo, chi parla?» «Si lavi con il sapone, e si sciacqui anche!» «Pronto, casa Rosa, che cosa desidera?» «Che cosa? Sei la merda rosa, che in bocca tua riposa, e in bocca tua si sposa!»74 «Pronto, sono Viola Chiappetta, con chi parlo?» «Perché poi Viola? Mò si tinga bén il culo di un altro colore!» «Pronto, pronto… parlo con casa Leone?» chiese Vittorio. «No, qui parla Orsi.» «Ah, mi scusi signora, devo aver sbagliato gabbia!» Mamma mia quante risate! 74 Era parte di una Filastrocca rimata che ripetevamo noi bimbi, che seguiva alla domanda: “Che cosa?”.
123 «Be’, adesso poi basta, ormai arriva la mamma, e se ci scopre sono guai!» *** Anche in un quartiere popolare come il mio, c’era sempre qualcosa da rubacchiare: piccoli furti quasi tutti compiuti da poveracci, ma sempre a caccia di soldi e oggetti d’oro. Quello che invece avvenne nella tabaccheria accanto al civico 101 fu abbastanza strano. Dalla cantina sottostante, che era quella di Vittorio, di notte fu praticato un largo foro nel soffitto e il ladro s’introdusse nel negozio e rubò tutti i valori bollati. Credo che gli inquirenti non avessero compiuto molti accertamenti, in fondo il caso non si presentava interessante, e a quel tempo, di furti di poco conto se ne registravano molti e venivano derubricati a “opera di ignoti”. Se quell’episodio aveva creato un certo scalpore nei dintorni, quello che successe dopo, mise proprio in agitazione gli abitanti dell’intero palazzo, e confesso che Vittorio e io un po’ c’entravamo… La signorina Maria V, un’anziana zitella, era la sorella della fornaia Cesarina e l’aiutava in negozio. Abitava un piccolo appartamento al primo piano del civico 101, accanto al suo. Era una donna molto religiosa e gentile d’animo, al contrario di Cesarina, sempre agitata e in preda alla collera. Nel palazzo si vociferava che entrambe fossero affette da arteriosclerosi: la prima da una forma ipo, l’altra iper Si ricorreva spesso a questi termini, con una “diagnosi fai da te”, quando una persona manifestava alcuni strani sintomi o disturbi del comportamento. La signorina Maria, sempre immersa nei suoi pensieri e nella preghiera, spesso quando saliva i pochi gradini per arrivare in casa, impiegava diverso tempo: ne saliva tre o quattro e ne scendeva all’indietro un paio. Questo lo ripeteva diverse volte. Se però qualcuno passava in quel momento, sembrava scuotersi e riprendeva a salire normalmente. Tutto questo doveva di certo causarle una certa fragilità psicologica, e ogni imprevisto le metteva grande ansia. Una sera, finito il turno nel negozio, notò che la porta di casa sua era socchiusa. Lanciò un grido, e Cesarina accorse subito. «Cosa ti è capitato, Maria, che gridi come una scimmia?»
124 «Non vedi, la porta è aperta…» «Ma certo che si è aperta.» «No, no, voglio dire che era già aperta, qui sono venuti i ladri, e io c’ho paura a entrare!» «Vado subito a prendere il mattarello, e poi…» All’interno non c’era nessuno, ma tutto era in disordine: qualcuno aveva rovistato dappertutto e aveva rubato tutti gli oggetti d’oro di Maria. La serratura della porta fu riparata e dopo un paio di notti passate nell’appartamento della sorella, per paura di restare sola, la poveretta ritornò a vivere nel suo. A Cesarina venne un’idea “geniale” da usare come deterrente per i ladri, e scrisse un cartello in stampatello, che attaccò alla porta di Maria: “QUI NON C’È PIÙ GNIENTE DA RUBARE, I LADRI SONO GIÀ VENUTI”. Gli inquilini del palazzo cercarono di consolare la povera Maria per il furto subìto, e si complimentarono per la brillante idea che Cesarina aveva avuto affiggendo quel cartello. Ricordo che la mamma quando lo lesse sorrise, e ne parlò con i vicini, compresa Prassede. Al contrario di altri, lei rimase molto turbata da quella scritta. «Non mi sembra proprio una buona idea, così i ladri magari prendono di mira gli altri appartamenti, e io ho una bella paura!» «Ma no, si tranquillizzi, che da lei non vengono.» sottolineò la mamma. «Dice bene, ma io non mi sento mica sicura!» Anche noi bambini ridemmo, ascoltando le chiacchiere degli adulti, e ci rendemmo conto dell’ingenuità di quel messaggio. A me balenò subito l’idea di combinare una burla, e Vittorio eseguì manualmente una piccola aggiunta sullo stesso cartello: “QUI NON C’È PIÙ GNIENTE DA RUBARE, I LADRI SONO GIÀ VENUTI – E NOI TORNEREMO”. Non si può certo immaginare il putiferio che si scatenò nel palazzo per quella frase! «Avete letto? I ladri hanno risposto che ritorneranno!» «Ah, qui ormai non si sta più tranquilli!» «Ma da chi andranno stavolta?» «Da me non c’è niente da rubare, ma se entrano in casa mia, ho paura delle botte.» «Non è per quello che possono portarmi via, ma ho paura che mi rovinino tutto!»
125 Molti altri furono i commenti da parte degli inquilini, e nessuno, che io sappia, pensò che si trattasse di uno scherzo, soprattutto concepito da bambini. Dopo alcuni giorni il cartello sparì. *** Vittorio era un bambino irrequieto, al contrario di me che ero più calmo e riflessivo. Proprio per questo suo carattere, il mio amico anche in casa, sfogava parte della sua aggressività soprattutto nei confronti della nonna, che gli voleva un gran bene, ed era affetta da una forma progressiva di demenza senile. Per questo motivo si sentiva spinto a compiere pesanti molestie verso la povera vecchietta, pur non desiderando farle del male… «Sa che cos’ha combinato ieri, Vittorio?» disse la signora Maura alla mamma. «Che cosa?» «Non lo immagina di sicuro! Ho sentito dei lamenti, erano proprio come dei rantoli, che provenivano dalla camera della nonna Aurelia, e sono subito corsa a vedere.» «Si sentiva male?» «Ah certo, sfido io, Vittorio la stava impunturando! La nonna era sdraiata sul letto a pancia in giù, e aveva la mia siringa con tutto l’ago piantato in una culatta!75» «Avrà cercato di imitare lei che fa le punture.» «Sì, sì, ma lui non doveva fare le prove sulla nonna. L’ho sgridato, e ha detto che non lo farà mai più.» Quel misfatto fu presto dimenticato, e in casa di Vittorio tutto tornò alla normalità. Nel frattempo mi attivai anch’io: non per fare scherzi pesanti alla nonna, ma per portare avanti un mio “simpatico” esperimento casalingo. La mamma curava molto la sua persona. Anche allora i prodotti di “bellezza” costavano parecchio e di soldi in casa ne giravano pochi. Ogni tanto però faceva una piccola eccezione acquistando la classica bottiglietta di vetro blu di Acqua di Rose. «Mamma, ma che cos’è quel liquido che ti dai in faccia con il cotone?» 75 Gluteo.
126 «È l’acqua di rose, e serve per mantenere pulita la pelle.» «Be’, ma per questo non basta il sapone?» «Oh, senti, sono cose di donne, vai mò a fare i tuoi giochi!» «Ma com’è fatta?» «Si fa con i petali delle rose profumate che restano a bagno nell’acqua e nell’alcol, penso che sia così.» Soddisfatto della spiegazione, pensai che fosse molto semplice crearla anche in casa. Andando a passeggio con la nonna, vidi che in un giardino fuoriuscivano dalla rete delle stupende rose rosse profumate, e io ne raccolsi alcune. Quando tornai a casa, mostrai a mia madre i fiori. «Mamma, voglio mettere a bagno nell’acqua i petali delle rose, così diventa profumata!» La mamma sorrise e mi lasciò fare. Presi un pentolino di alluminio, e immersi i fiori interi, immaginando che avrebbero rilasciato più profumo. Aspettai qualche giorno, e le rose cominciarono ad appassire, ma l’acqua emanava ben poca fragranza, anzi… Mi ricordai che non avevo aggiunto l’alcol, come aveva detto la mamma. Un pomeriggio, approfittando della sua assenza, perché era andata da Adelma, presi il recipiente, lo posi nel secchiaio, e a quell’intruglio aggiunsi una grande quantità di alcol denaturato. Attesi che la nonna si fosse spostata nella sua camera, e vi diedi fuoco con un fiammifero. Accidenti! Si alzò subito un’alta fiamma che sviluppò un denso fumo, che lambendo la cappa in muratura, la annerì tutta. A quella vista mi spaventai, e lanciai un urlo. Arrivò la nonna e si mise a urlare anche lei, più forte: «Eh, vé76 mò qui che vampata! Ma vuoi dar fuoco alla casa? Adesso quando viene tuo padre, glielo dico io!» Aprii subito il rubinetto dell’acqua, spensi la fiamma e la supplicai di non dire nulla, ma l’intonaco bruciacchiato, rivelò il fattaccio! Quella volta la nonna mi salvò dalle sgridate del papà, dicendo che si trattava del nerofumo di una candela che lei aveva acceso per liquefare il miele contenuto in un barattolino di vetro. *** 76 Guarda.
127 Trascorse quasi tutto il mese di novembre senza particolari avvenimenti all’interno del palazzo e nessuna monelleria da parte nostra. La nostra attenzione dal compiere nuove burle, infatti, fu allentata per un po’ dall’impegno che mettemmo nel costruire portachiavi con gli Scooby doo. «Mamma, lo sai che se compriamo lo shampoo “Bio Dop al Calophyllà”, come dice Mike Bongiorno alla radio, poi ci regalano lo Scooby doo? Anche Andrea e le sue sorelle ce l’hanno. Sua mamma ha sentito la pubblicità, e l’ha comprato dal droghiere.» «Ma che cos’è ’sto Scubi?» interrogò la mamma. «Sono dei lunghi fili di plastica colorati, da intrecciare e farne dei portachiavi.» specificai. La nonna, che aveva origliato la nostra conversazione, intervenne ma, a causa della sordità, aveva captato soltanto alcune parole: «Ah, andiamo proprio bene, ’sto cìnno,77 adesso vuole fare anche lo stupidù! Be’, io dico che in giro di stupidi ce ne sono già abbastanza!» Noi ridemmo e cercai di spiegarle che cosa fosse. Quella sera, ne parlai al papà: «Se proprio vuoi dei fili da intrecciare, te li procuro io: lunghi e colorati, non è necessario comprare lo shampoo per averli.» Dopo cena, prese dalla cantina alcune matasse di filo elettrico, ne tagliò dei pezzi, e con pazienza si mise, a sfilare il rame contenuto all’interno. Alla fine, anche se un po’ meno lucidi degli originali, ebbi anch’io i miei Scooby doo colorati. Gli amici del cortile ne furono invidiosi, perché i miei erano più lunghi e di molti colori; così sfogarono in altro modo la loro irritazione verso di me: «Avete visto?» indicò Luciana «Eugenio porta dei pantaloni alla cretinetti!» «Non è vero!» replicai con rabbia, anche se quei pantaloni che arrivavano al ginocchio, con due bottoni cuciti a lato, non piacevano neppure a me. Li aveva confezionati Adelma, con uno scampolo di tessuto a quadri scozzesi. «Cretinetti! Cretinetti!» continuarono a prendersi gioco di me. «I cretini siete voi, che non sapete che li mette anche il principe Carlo d’Inghilterra!» Così mi aveva detto Adelma che, avendo visto le foto sulla rivista “OGGI”, aveva preso l’ispirazione. 77 Questo bambino.
128 «Eh, ma tu non sei il principe… sei solo un cretinetti!» Erano soprattutto le bambine ad accanirsi nei miei confronti. Fui colto dalla rabbia, e lanciai contro di loro quello che trovai a portata di mano: presi una manciata di sale del baccalà, da una cassetta messa dal fruttivendolo sul terrazzone. «Aiuto! Mamma, aiuto! Mi pizzica! Non ci vedo più!» Avevo colpito Maria in pieno viso. Che pizzicasse, me lo immaginai, che non ci vedesse poi… be’, teneva gli occhi chiusi! La mamma di Maria arrivò di corsa e portò subito la figlia a sciacquarsi la faccia, andando nel retrobottega del fruttivendolo. Quando uscì, dovetti sottostare a un lungo interrogatorio, infarcito di aspri rimproveri. Per diversi giorni non andai in cortile, e non per punizione, ma per la collera che ancora non mi era passata. Mi affacciavo alla finestra a guardare gli amici giocare, e a osservare il movimento delle gru per la costruzione del nuovo Ospedale Maggiore. Una bella sorpresa arrivò a consolarmi nei pomeriggi passati in casa in solitudine forzata. Dietro suggerimento di un amico, il papà aveva acquistato un taglio di tessuto di lana Marzotto per farsi un completo, e con questo veniva dato in omaggio una fonovaligia78 di marca Mambo. Il giorno stesso lo mettemmo in funzione e io guardai il papà che, dopo avere letto le istruzioni, mise un disco in vinile sul piatto e pose il braccio con la puntina sui solchi. Anche quella sera passammo il tempo ad ascoltare alcune canzoni. Il pomeriggio successivo fui preso dalla curiosità, mi misi a osservarlo, e notai una levetta: 220V - 125V. “Che cosa sarà?”. Osservai un piccolo interruttore a slitta posto su 220V, e lo spostai su 125V79. “Vediamo ora che cosa succede”. Il povero Mambo iniziò a fumare, e una puzza di plastica bruciata invase la cucina, cui seguì una fiammata e un forte botto! Presi in fretta il giradischi, ancora sotto tensione, e lo misi nel secchiaio, e feci scorrere l’acqua. Potevo restarci secco! Mi salvò il fusibile a turacciolo del contatore che, anche se un po’ in ritardo, interruppe la corrente. Arrivò la nonna e si mise a tossire per il fumo, sul momento non riuscì neppure a urlare, poi si riprese: «Io dico che tu sei proprio fuori dallo 78 Piccolo giradischi portatile. 79 Occorre sapere che la spina era collegata a 220 V.
129 sparadello!80 Una volta hai dato fuoco alle rose, e adesso anche a quell’affare lì!» «Ma non l’ho mica bruciato io, l’ha fatto da solo!» mi giustificai. Staccammo la spina, rimisi la levetta al suo posto, e aspettammo il ritorno del papà. Raccontai una bugia, anche se non era mia abitudine, e dissi che all’improvviso l’apparecchio si era messo a fumare e aveva preso fuoco. Quella sera stessa il Mambo, fu sottoposto ad autopsia: l’interno era tutto annerito e alcune parti di plastica erano fuse, quindi non era semplice scoprire la causa del guasto. La diagnosi fu: «Certamente era un prodotto difettoso, proverò a farlo riparare.» Per fortuna la garanzia coprì il “malfunzionamento” e il Mambo fu sistemato con la sostituzione dei componenti elettrici bruciati e la plastica fusa; così tornò come nuovo. Non feci più nulla d’imprudente, e la fonovaligia funzionò ancora per molti anni. *** La signora Maura e la mamma, allora quasi quarantenni, vivevano in quel palazzo abitato per la maggior parte da vecchi, e avvertivano il dovere di aiutarli. La signora Maura oltre a Prassede, dava una mano anche alla sua dirimpettaia: l’anziana Dina. «Pensi, Adriana, che ieri sul pianerottolo ho visto la Dina che si faceva vento sbattendosi in faccia il suo grembiulone e diceva: «“Eh, bén bén, eh, bén bén, oddio, eh, bén bén!”. Ripeteva solo quello.» «Avrà avuto le scalmane!» intuì la mamma. «Macché, alla sua età? Sembra che qui intorno ’sti vecchi, abbiano tutti l’arteriosclerosi! Io poi le ho domandato che cosa avesse, e ha risposto: “Niente, mi farebbe un po’ di spesa, lei che ha le gambe buone?”. Le ho detto di sì e mi ha fatto un piccolo elenco. Sono andata giù dal fruttivendolo, e ho approfittato per fare la spesa anch’io. Quando sono entrata in casa sua con la sporta, e lei ha aperto il frigorifero, ho visto che era quasi vuoto. Poi ho notato una cosa molto strana, ossia la presenza di candele e fiammiferi nel frigo. Lei si è giustificata dicendo che non 80 Sei proprio matto! (Lo sparadello è un termine dell’arte del calzolaio e indica la sporgenza laterale del bordo esterno della suola di cuoio).
130 aveva nient’altro da metterci lì dentro. Poveretta! Per fortuna che spesso viene una sua nipote ad aiutarla» continuò la signora Maura. «Non sono solo i bambini a compiere stravaganze. Speriamo che qualche anziano del palazzo non dimentichi il gas aperto, io ho sempre una gran paura… anche quando la nonna fa il soffritto, o si fa il pancotto» aggiunse la mamma. *** La domenica mattina noi amici andavamo alla Messa delle 11 in gruppo, per la verità solo noi maschi, le femmine non venivano mai. Restavamo in piedi in fondo alla chiesa, così potevamo chiacchierare e fare i nostri commenti. Chi si sedeva, doveva pagare alla sagrestana 10 lire per il nolo, quando passava per la riscossione durante la Messa. Quella era proprio una strana parrocchia, dove accadevano da tempo, dei fatti poco limpidi: come l’esportazione clandestina di valuta, l’amorazzo del cappellano e aggiungo, anche lo sfruttamento di noi bimbi a liberare dai sassi il terreno parrocchiale di via del Giacinto, poi venduto a un palazzinaro a caro prezzo. La celebrazione della Messa allora avveniva in latino, e noi non capivamo nulla, quindi passavamo il tempo a spettegolare, fintanto che qualcuno non ci zittiva. All’uscita della chiesa, appeso al muro sulla sinistra, era esposto l’elenco dei film all’indice (quelli proibiti) e quelli che erano consentiti, la stessa cosa anche per le letture. Se non si seguivano quei consigli, si commetteva un grave peccato. Così diceva il nostro parroco. Vi erano tre tipi di giudizio: visibile a tutti, visibile con riserva, e sconsigliato. Non riuscivo a comprendere come i film di Totò potessero essere sconsigliati. Fra i giornalini per ragazzi era raccomandato “Il Vittorioso, di matrice cattolica, il “Corriere dei Piccoli” e “Selezione dei Ragazzi”. All’indice vi erano “Il Pioniere”, il “Monello” e “Black Macigno”, che si diceva manifestassero idee comuniste. Il cinema parrocchiale era uno stambugio con una platea per i maschi, di circa cinquanta di posti, e una “piccionaia”, una minuscola galleria per le femmine, di una ventina di posti, sorvegliate a vista da due suore. Di solito proiettava film western nei quali i poveri indiani avevano sempre la peggio. Quel genere di film non compariva nell’elenco. Ripensando in età matura alle assurde proibizioni dell’indice, dove erano
131 sconsigliati tutti i film d’amore, ritengo che proprio i western sarebbero stati da vietare poiché le carneficine degli indiani, e la discriminazione razziale, costituivano l’ossatura della trama stessa. Anche noi ragazzi andavamo al cinema la domenica pomeriggio, non solo per vedere il film, ma soprattutto per schiamazzare, tirarci le bucce di semi di zucca, di lupini, e lanciare pallottole di carta alle bambine, in galleria. Spesso colpivamo una suora che inveiva, era proprio questa la cosa che più ci divertiva! Il sabato pomeriggio, Battistoni, un ragazzo brutto, dentone, antipatico, e anche molto bigotto, che era il tirapiedi del monsignore, confezionava nella sagrestia le bustine di semi di zucca e di lupini, da venderci il giorno seguente. «Sa, monsignove, che cosa ho pensato? Non cvedo che sia una buona idea metteve molti semi nelle bustine. Mettiamone meno, così la pavvocchia ci guadagna di più!» Lo avevo sentito fare questo discorso, con la sua erre moscia. “Ah, brutto infame!” pensai. Una domenica, dopo l’uscita dei fedeli dalla chiesa, prima che Battistoni sigillasse le porte come faceva di solito, Vittorio e io indugiammo per giocare al prete e al peccatore, nel confessionale. «Io adesso entro qui nel confessionale, tu t’inginocchi, apro lo sportellino e ti confessi.» dissi a Vittorio. «Bene.» Così iniziammo quello che per noi doveva essere solo un gioco, non volevamo certo commettere un atto sacrilego! Dopo alcuni minuti, si precipitò come una furia Battistoni, e iniziò a urlare come uno spiritato: «Aiuto! Aiuto! Covva monsignove, pvesto covva! Oh, ma che vevgogna, ci sono due sacvileghi che si stanno confessando! Bvutti e levci peccatovi!» Lo strepito prodotto da quella scimmia urlatrice, attirò l’attenzione del parroco, che era in canonica e arrivò subito, per poi afferrarci per le orecchie. Ci sgridò aspramente, e dopo un bel po’ di tempo, ritenendoci pentiti, ci lasciò andare. Ci dispiacque, per prima cosa perché pensavamo che nessuno ci avrebbe scoperto, in secondo luogo perché non avevamo valutato la gravità di quel gioco. Ripensando, però, all’espressione scandalizzata di Battistoni, e a quel suo incontrollato gesticolare, che pareva volesse strapparsi i vestiti di dosso come un fariseo nel Tempio, ridemmo di buon gusto.
132 CLASSE SECONDA ELEMENTARE Lunedì primo ottobre81 iniziò l’anno scolastico, e fui iscritto in seconda elementare. Come già sapevo, avrei cambiato maestra. Era luogo comune pensare che l’insegnante elementare dovesse essere una donna, alla mia classe invece fu assegnato il maestro Capaldo: alto, distinto, e sempre sorridente. Era molto tollerante con noi bambini e grande dispensatore di caramelle. Per invogliarci allo studio aveva promosso una gara a punti con premi: per ogni risposta corretta e per i compiti a casa svolti con diligenza. Questo tipo di competizione aiutò anche i più svogliati a impegnarsi. Ricordo che quando raggiunsi i mille punti, ebbi in dono una cornicetta di legno intagliata, molto probabilmente l’aveva eseguita il maestro stesso con il traforo. Era molto comprensivo e non dava mai troppi compiti da svolgere. Sapeva come attirare la nostra attenzione unendo avvenimenti e aneddoti della storia romana a suoi fatti personali. Lo spazio che lasciava al gioco e allo svago era maggiore di quello che dedicava all’insegnamento, anche se a mio avviso tutto era utile e proficuo per la nostra crescita. Girarono varie voci, e alcuni genitori si lamentarono con il caposcuola. «Il maestro Capaldo è una brava persona, buono e paziente, forse troppo. Fa giocare i bambini e questo va bene, ma i nostri figli così imparano ben poco!» Questo era il ritornello che circolava. Fu poi lo stesso caposcuola a mettere a tacere quei commenti malevoli. Il maestro non cambiò il proprio atteggiamento e quell’anno per noi fu di tutto riposo, o almeno così ci sembrò. 81 Giorno dedicato a San Remigio di Reims. Gli alunni delle elementari, a quel tempo, venivano anche chiamati “Remigini”.
133 Seppi, molti anni dopo, che quel maestro dall’aria semplice e dal sorriso accattivante, non solo era laureato in matematica, ma aveva vinto anche una cattedra all’Università di Bologna, dove poi insegnò fino al raggiungimento della pensione.
134 NOVEMBRE «Ora che abbiamo la Topolino, potete venire a passare qualche giorno da noi per la ricorrenza dei defunti, così Emilio ci può accompagnare a visitare le tombe dei nostri cari, e incontrare i parenti.» propose la zia Natalina. La mamma fu contenta dell’invito, e il 31 ottobre salimmo sulla corriera. Dopo circa un’ora arrivammo a Bagno di Piano quando faceva già buio, spirava un vento gelido e c’era anche una densa coltre nebbia. Là ci avrebbe atteso lo zio, per accompagnarci al Conte. Appena scesi, il pullman si allontanò e la mamma e io rimanemmo nella totale oscurità. «Adriana! Eugenio! Ci siete?» «Sì, zio, siamo qui!» gridai. Lui spostò la Topolino, che non avevamo proprio visto, e ci illuminò con i fari. Ci sentimmo rincuorati perché l’alternativa di dover percorrere diversi chilometri a piedi, in quelle condizioni e con una valigia, sarebbe stata proprio un’impresa. La zia e Robertina ci accolsero con gioia. Tornavo al castello dopo la vacanza estiva, e la campagna aveva mutato aspetto: gli alberi spogli e i campi arati davano un senso di desolazione, anche se devo ammettere che quel castello, nella bruma autunnale rivelava ancora di più il suo fascino misterioso. Cenammo in piena allegria. «Mentre Emilio castra82 i marroni, io vado a mettere le suore83 nei letti, così stanotte starete più caldi.» La zia era sempre premurosa, ben sapendo che quelle enormi camere erano delle autentiche ghiacciaie. 82 Castra, da castrare, cioè praticare un taglio orizzontale per non far scoppiare i marroni o le castagne nel fuoco. 83 Nome della fantasia popolare: erano dei piccoli scaldini di metallo, con braci di carbone di legna all’interno.
135 Il giorno seguente mi svegliai con un piacevole profumo di mele nell’aria: la zia ne aveva poste una discreta quantità sotto i letti, per conservarle al buio e al fresco durante l’inverno. Il maestro Capaldo aveva chiesto a ogni alunno, come compito per le vacanze di Tutti i Santi, di costruire un erbario: si trattava di uno schedario con pagine mobili, dove avremmo inserito le foglie raccolte dai vari alberi, con l’etichetta dei loro nomi. Ci tenevo a fare bella figura e avevo pensato che in campagna avrei potuto arricchire la mia raccolta e guadagnare molti punti premio. A questo proposito chiesi allo zio di aiutarmi, e lui acconsentì con piacere. «Vedi, Eugenio, se la raccolta fosse stata fatta in estate, avremmo trovato molte più foglie, e tutte belle verdi! Adesso, quelle poche sono quasi tutte secche, è un vero peccato!» «Be’ zio, ma anche a tenerle nell’erbario dopo un po’ si seccano, vanno bene così.» «Bravo, non ci avevo pensato!» Saliti sulla Topolino, andammo a zonzo per la campagna. Lo zio, avendo studiato scienze agrarie, conosceva molto bene le varie piante, me le mostrò e dettagliò ogni specie, anche con il loro nome botanico. Raccogliemmo una ventina di foglie da piante diverse, alcune anche doppie, e una volta a casa avremmo scelto le più belle da inserire nell’album. In classe avrei certo fatto un figurone! La zia, con l’aiuto della mamma, si distinse in cucina con i suoi ottimi tortellini che nuotavano nel brodo di cappone, poi con la faraona arrosto con patate al rosmarino, infine la classica torta di riso. Il pomeriggio fu di completo relax, poiché con quel freddo a nessuno venne voglia di uscire, così lo trascorremmo facendo le parole crociate e ascoltando la radio. Il giorno seguente facemmo visita ai cimiteri – luogo per niente allegro per un bambino – e incontrammo altri zii e cugini. Quel giorno per me fu piuttosto lungo e noioso. Faticai a sorridere e mostrarmi educato per compiacere persone che conoscevo poco e altre che non avevo mai visto. Dopo gli ultimi saluti e abbracci, con mio sollievo, salimmo sulla Topolino per tornare a casa da Corporeno, un paesino della bassa ferrarese dov’era nata la mamma. Lo zio avviò la Topolino e accese i fari.
136 «Ma Emilio, anche con i fanali accesi, con questa nebbia non si vede proprio niente, neppure a un metro di distanza!» si lamentò la zia. «Sai che conosco bene la strada.» In parte era vero, ma disse così anche per rassicurarci. Dopo qualche chilometro non si distingueva né il ciglio della strada con il fosso, né la mezzeria, che a volte non era segnata. In quel momento non passava nessuno. «È meglio se ci fermiamo in una rientranza, aspettiamo, e quando passa un’auto con fari più potenti di questa, la seguiamo, così almeno ci guiderà sulla provinciale che è più larga e trafficata.» Fu una buona idea, e attendemmo qualche minuto. Passò una Fiat 1100, bell’auto per l’epoca, “una vettura da ricchi!” pensai. Per fortuna andava piano, e noi subito ci accodammo. Percorremmo un discreto tratto di strada, infine distinguemmo una luce fioca in lontananza. L’auto davanti a noi si fermò, e anche lo zio arrestò la Topolino. L’uomo alla guida scese e arrivò in corrispondenza del finestrino dello zio. «Scusi, non so lei… ma io sono già arrivato a casa mia!» L’avevamo seguito lungo una cavedagna,84 proprio all’interno del suo podere, e noi restammo basiti. Quel signore fu molto gentile, e diede indicazioni allo zio per trovare la giusta direzione da seguire, soprattutto con precisi riferimenti. Fino a casa però nessuno parlò. Una volta arrivati, la zia ruppe il silenzio: «Per fortuna che conoscevi la strada, abbiamo fatto proprio una bella figura! Ma non importa, siamo arrivati senza incidenti.» «Se penso a quella scena.» intervenne la mamma per stemperare la tensione che lo zio aveva accumulato «immagino quante risate avrà fatto quel signore alle nostre spalle, poi lo stupore sul suo viso meritava proprio di essere fotografato!» Questo riuscì a strappare un sorriso anche allo zio. Il giorno seguente ritornai a Bologna con la mamma. La cosa che più mi dispiacque fu di non aver rivisto i miei amici di campagna, perché nessuno di loro era uscito a causa del freddo. Il mio ingresso in classe fu trionfale: l’erbario che avevo preparato era il più ricco e ordinato di tutti gli altri alunni, così ricevetti i complimenti del maestro e i tanto desiderati mille punti premio. 84 Strada stretta sterrata fra i campi.
137 4 DICEMBRE SANTA BARBARA Andrea, Vittorio e io eravamo impazienti che arrivasse il 4 dicembre, giorno dedicato a Santa Barbara, patrona degli artificieri e dei marinai. Allora sì che avremmo fatto fuochi e fiamme! Era consuetudine in quella data fare esplodere dei petardi, e quasi tutti i ragazzini del quartiere se li procuravano a poco prezzo. La cartolaia vendeva le castagnole: piccoli involucri di cartoncino pressato, grandi quanto una caramella, e legati con uno spago; riempiti con polveri detonanti e pietruzze, che esplodevano se scagliate contro una superficie solida. Lo scoppio era piuttosto forte, simile a un colpo di pistola! Chi si trovava molto vicino rischiava di essere investito dalle schegge, che erano anche in grado di creare delle piccole ferite. Di fatto potevano rivelarsi delle armi pericolose, soprattutto per gli occhi, anche se venivano vendute senza alcun divieto. Noi bimbi, alla vigilia del 4 dicembre ne facemmo incetta, poiché costavano soltanto cinque lire l’una, come la gomma da masticare. Per farle esplodere occorreva un forte impatto sul terreno o contro un muro, e Vittorio, che era l’armaiolo del gruppo, possedeva un tirìno;85 e con quello si potevano scagliare con una discreta potenza, senza rischiare che cadessero a terra inesplose. Per divertirci non bastava farle scoppiare, occorreva trovare un bersaglio vicino, cioè dei martiri per ridere alle loro spalle, e osservare la paura che avremmo loro procurato. Nel nostro caso, era scontato che le bambine potessero fungere da vittime sacrificali! Vittorio si mise a scagliare le castagnole con la fionda vicino alle gambe delle nostre amiche. «Ahi, oh mamma mia che pizzicore, brutto scemo mi hai bruciato una calza!» urlò Marzia, saltando come una cavalletta, per sfuggire alla successione di lanci che Vittorio metteva a segno vicino ai suoi piedi, ricaricando la fionda con grande velocità. 85 “Una fionda”, italianizzato dal dialetto bolognese tirén.
138 «Marzia stai ballando il tip-tap?» le chiesi ridendo. Quella similitudine mi sembrò appropriata, proprio per i saltelli che faceva per scansare le esplosioni. Anche Andrea e Vittorio scoppiarono in una risata. A turno, anche a Maria, Luciana e Lauretta toccò la stessa sorte. Quello che non avevo previsto, è che quelle arpie si avventassero su di me prendendomi a graffi e a calci, soltanto perché avevo osato ridere! Sapevano bene che Vittorio sarebbe stato un osso duro da battere e che, oltre a essere il carnefice, era soprattutto il loro beniamino! Se la presero con me perché ero il più mingherlino, anche se mi difesi, parando la maggior parte dei colpi. Riportai solo qualche graffio. Poi tornò la calma e le bambine si ritirarono, controllando i danni che avevano subìto le loro calze, e le piccole punture sulle gambe a causa delle pietruzze. Andrea, per solidarietà fraterna accompagnò in casa le sorelle. Rimanemmo solo Vittorio e io, con alcune castagnole inesplose ancora in tasca. «Sai, ho visto che il marito della Mazzotti è andato via.» Suggerii, e fu subito intesa… Aspettammo che quell’arpia di Fernanda si affacciasse sulla porta per spiare in giro, e Vittorio prese la mira, lanciandole tra le gambe una castagnola. Con la tromba delle scale di quattro piani si può soltanto immaginare il rimbombo dello scoppio. «Oddio mé, sòccia bän, i’ŭm màzan!»86 urlò chiudendosi in casa, e noi scappammo. Ci eravamo presi una piccola rivincita per i suoi reiterati brontolamenti e per le consuete scampanellate. Andammo al civico 101 e salimmo al terzo piano, quello di Vittorio, sapendo che lì avremmo trovato la nostra ultima “vittima”. Sostammo come sempre a chiacchierare sul pianerottolo, e ripensando a ciò che era accaduto in cortile, etichettammo la nostra avventura esplosiva come: “Pomeriggio di fuoco”, per parodiare il film del 1952 “Mezzogiorno di fuoco”, che avevamo visto di recente al cinema parrocchiale. Avvertimmo qualche rumore dietro la porta di Prassede, che di sicuro era origliante nella solita postazione di ascolto, e aspettammo che uscisse 86 “Oddio mio, (sòccia bàn significato volgare “succhia ben” cioè Accidenti!) mi ammazzano!”.
139 per ossessionarci con la sua consueta invettiva sul consumo della luce delle scale. «Ah be’, ma allora siete sempre qui, e la luce poi…» Non fece in tempo a finire la frase che Vittorio salì in fretta alcuni scalini, in modo da avere la porta di Prassede quasi di fronte, prese la mira con la fionda e scoccò la castagnola, cui seguì un boato assordante da far tremare i vetri sottilissimi della finestra delle scale. «Aiuto! Mi hanno sparato!» urlò come un’ossessa. Non aveva capito di che cosa si trattasse e si abbassò di scatto, come per sottrarsi a un secondo colpo. Forse Vittorio aveva preso male la mira o forse era stato proprio la sua intenzione, resta il fatto che invece di tirare in basso ai suoi piedi, colpì il muro vicino lo stipite della porta, in alto, a una ventina di centimetri dal viso della donna. I vicini accorsero numerosi, e annusarono solo una gran puzza di bruciato, poi videro il fumo. Alcuni pensarono a uno scoppio dovuto al gas, altri temettero che fosse arrivato Dante e avesse sparato a Prassede. Noi tranquillizzammo tutti dicendo che era stata un’innocua castagnola che era caduta a terra! Quello scoppio lasciò come ricordo sulla parete mai ridipinta, un grande alone circolare di bruciatura ben visibile. Rimase lì per quasi quarant’anni, almeno fino al 1990, data della mia ultima visita al palazzo, poiché la mamma traslocò in quell’anno. *** Il 14 dicembre era il compleanno della nonna Amedea: ottantuno anni. Era nata nel 1876, nella notte di Santa Lucia, Santa protettrice della vista, come lei amava ripetere spesso. Per allora era già una discreta età. Quando poi arrivò ai cento anni, di fronte alla torta con una grossa candelina al centro, esclamò: «Be’ insomma, c’è poco da festeggiare, la vita è proprio una bella sofferenza, per quei due giorni che si vive!» «Mica solo due!» le ricordai. Per quell’occasione, il papà e la mamma pensarono di regalarle una nuova vestaglia da camera. Quella che aveva era ormai logora e piena di toppe e rammendi che lei stessa aveva cucito. In cambio non ricevettero alcuna soddisfazione, anzi sembrò quasi che le avessero fatto proprio un dispetto: ma si sa, la nonna era fatta così. Di fronte alle novità storceva il naso, poiché aveva vissuto nel poco e con
140 l’indispensabile, inoltre era abitudinaria e difficilmente si adattava al minimo cambiamento. «Ah sì, per essere bella, è bella e mi sta anche bene, ma non ce n’era mica bisogno, ho la mia, che mi va ancora.» «Ma se è tutta un tapòne87, non vede?» spiegò la mamma. «Be’, vuol dire che la nuova la metto poi quando sarò vecchia…» disse, riponendola nell’armadio. I miei ci rimasero piuttosto male, anche se conoscevano il carattere della nonna. Accadde poi un fatto piuttosto buffo, che contribuì ad accrescere il suo malumore, che già teneva il broncio da una settimana per il regalo ricevuto. «Sai, Adriana, ho fatto una piccola pazzia.» confessò il papà. «Vedo tutta la fatica che fai a lavare le lenzuola e le coperte, e per questo ho comprato una moderna lavabiancheria elettrica, che costa 60.00088 Lire. Dove mi rifornisco di materiale elettrico, mi hanno fatto uno sconto, e l’ho pagata soltanto 50.000 Lire, poi hanno detto che posso rimborsarla in due volte.» «Certo a me fa piacere averla, ma dove la mettiamo? E la nonna poi che cosa dirà?» «Ho pensato di sistemarla in cucina nell’angolo della finestra, vicino al secchiaio, così prende acqua da lì, e può anche scaricare. Vedrai che la nonna poi si abituerà, tanto sappiamo come fa!» Dopo alcuni giorni arrivarono due trasportatori che portarono, sbuffando e imprecando, la lavatrice fin su in casa. Quattro piani senza ascensore non erano proprio una sciocchezza! Si trattava dell’ultimo modello: la Candy Matic da tre chili. «Mamma, facciamola funzionare subito, così vediamo se va!» esclamai. «Stai scherzando? No, no, solo quando torna il papà. Poi bisogna collegare il cavo e il tubo dell’acqua.» ribatté la mamma con fermezza. «Ma se la attacchiamo alla corrente, anche senza acqua, almeno vediamo se gira!» «No, ho detto di no!» Approfittando del momento in cui la mamma era in camera e la nonna in bagno, collegai la spina alla corrente, poi spinsi il pulsante dell’avvio. Si 87 Tutta piena di rattoppi. 88 All’incirca più di due mensilità dello stipendio di un operaio.
141 accese la spia verde e all’istante la macchina sembrò come “impazzita”. Iniziò a sbattere con violenza contro la parete, da farla addirittura tremare. Faceva pensare a un rinoceronte che, inferocito, prendesse a cornate una jeep in un safari. Poi iniziò a roteare come la miglior danzatrice di danza del ventre, colpendo ancora e ripetutamente con forza il muro, sbucciandolo tutto! La mamma e la nonna corsero in cucina urlando, quando impaurito io stesso, avevo appena spinto il pulsante di arresto. «Per la miseria, ma che cosa è successo?» urlò la nonna in preda al panico, e la mamma le fece eco. «Ma che cos’hai combinato che sembrava che venissero giù i muri?» rintuzzò la mamma. «Io? Ma niente. Ho solo collegato la spina alla corrente, l’ho avviata, poi ha fatto tutto da sola…» «Ah no, io quell’arnese in casa non lo voglio mica, se per fare il bucato vien giù la casa!» strepitò la nonna, pestando i piedi. Faceva così quando veniva presa da una collera incontrollata. «Be’, intanto occorre sapere bene come funziona, ma se fa così ha proprio ragione, la lavabiancheria se la possono proprio tenere in negozio.» aggiunse la mamma. «Vi prego non ditelo al papà, poi quando arriva la prova lui.» supplicai. «Era quello che ti avevo detto io, ma tu sei un gran cocciuto e non stai mai capìto89!» inveì la mamma. La mamma e la nonna non osarono dire a mio padre dell’avvio della lavabiancheria, dal timore di essere rimproverate a loro volta. Dopo cena il papà collegò l’acqua e sistemò il tubo di scarico. «Oh, be’? Ma guarda un po’… per fortuna che me ne sono accorto! C’è una staffa di metallo che tiene bloccato il cestello per non farlo muovere e rovinarlo durante il trasporto.» Noi tre, complici, ci scambiammo uno sguardo che esprimeva tutta la nostra sorpresa. La macchina, con nostro sollievo, funzionò alla perfezione, e si dimostrò anche abbastanza silenziosa. Il mattino seguente la mamma scese per fare la spesa. Arrivata al secondo piano, incontrò Fiorella per le scale. 89 Non ti lasci convincere.
142 «Ma lei, Adriana, ha avuto paura ieri sera?» «Per che cosa?» «Per il terremoto! Bén, ma lei non l’ha sentito? Ah, se ne sono accorti tutti nella scala! Delle forti scosse da far vibrare i muri, e tremavano anche i vetri! Stavo per correre giù per mettermi in salvo, quando ha smesso. Per fortuna che è durato poco!» «Qualche rumore l’ho sentito anch’io, ma non ho pensato che fosse il terremoto» rispose la mamma per assecondarla, soprattutto non vedeva l’ora di essere sola per sfogare le risate che aveva trattenuto troppo a lungo. Anche la signora Maura, al piano di sotto, aveva avvertito “le scosse”, con maggiore intensità. Nessuno però, ne conobbe mai la vera causa. “Accipicchia, che grande potenza ha ’sta macchina, se quel fracasso infernale si è udito anche due piani di sotto!”, pensai quando la mamma mi riferì, ridendo, i commenti delle vicine.
143 NATALE ED EPIFANIA Si avvicinavano le feste natalizie, quando finalmente noi bambini avremmo avuto una lunga vacanza. Nel frattempo avevo iniziato a costruire un presepe con le immagini pubblicate a puntate nel giornalino “Il Corriere dei Piccoli”. Seguivo le linee tratteggiate, ritagliando le figurine, e le incollavo sul cartoncino, usando la Collamidina. Ripiegavo poi la base, per farne il sostegno. Ero molto soddisfatto del mio lavoro, e avevo già raggiunto il numero di quindici immaginette. Il papà portò a casa un piccolo ramo d’abete e le luci per l’addobbo per rallegrare la nostra modesta casa. Erano proprio belle con la loro forma di lanternine cinesi di vari colori. Lui era l’elettricista di fiducia del rinomato Hotel Baglioni di via dell’Indipendenza, il più noto della città, e nella hall aveva allestito l’impianto luminoso di un maestoso albero natalizio. Nella settimana che precedette il Natale, la nostra confinante di pianerottolo, la Pipìngo – Giulia Testoni – chiamò la mamma in casa sua. Non seppi mai perché le fosse stato affibbiato quel nomignolo. «Venga a vedere, Adriana, tutti i certosini che ho fatto per la fornaia Cesarina, lei poi li cuoce e li vende come suoi. Secondo me loro non li sanno fare, e io almeno guadagno qualcosa.» Ne aveva composti più di quaranta! «Bén, e li tiene tutti lì sotto il letto?» chiese la mamma scandalizzata. «Oï bén, ma dove vuole che li metta? Ho solo camera e cucina, e siamo in quattro!» «Ah, be’…» La mamma troncò il discorso. Lei poi lo riferì alla signora Maura. «Sa, Maura, che la Pipìngo tiene i certosini che fa per la Cesarina sotto il letto?» «Ma, Adriana, io credevo che li facesse la fornaia! Tutti dicono che sono così buoni, e vengono anche da fuori per comprarli. Chissà poi quanta polvere prendono!»
144 «Sì, l’ho immaginato anch’io, e non ci penso proprio a comprarli: caso mai il certosino lo faccio io, e lo metto nel forno della stufa.» affermò la mamma. «Ah, quella donna mi sa proprio di poco pulita, poi ha sempre i capelli unti e per aria. Ha nasato90 quella puzza di fritto e di rancido che c’è sempre per le scale?» rintuzzò Maura. «Lo viene a dire a me che le abito di fianco? Quella, per far andar via gli odori da casa, spalanca sempre la porta e la lascia aperta per ore, e così quel tanfo si sparge dappertutto.» «Ma non soffriva di fegato?» chiese la signora Maura. «Sì, me lo aveva detto. Sfido io, frigge tutto il giorno!» Maura pensò bene a divulgare la notizia dei certosini, che fece il giro del palazzo; così tutti ne risero, e quell’anno nessun inquilino li comprò. 90 Fiutato, odorato. Italianizzato dal dialetto: nasè.
145 ANNO 1958 La festa più attesa da noi bambini era il 6 gennaio, l’Epifania, giorno nel quale la Befana portava i regali. Pur non avendo molti mezzi, i miei genitori non mi facevano mai mancare un piccolo dono, segno che la Befana era passata anche a casa nostra. A quella vecchietta brutta ma generosa, che volava a cavalcioni di una scopa, noi bimbi credevamo ancora! La mattina del 6 gennaio trovai i regali sul tavolo di cucina: un puzzle fatto di cubi di legno, dal quale si realizzavano sei immagini diverse; degli acquerelli e un libro di Salgari: “I misteri delle jungla nera”. I miei genitori conoscevano bene i miei gusti, e sapevano che preferivo i libri di avventura ad altri. La nonna Amedea, un po’ per gelosia, o forse per rivendicare un passato trascorso in estrema povertà, ripeteva il solito sermone degli anni precedenti. «Ah, ma voi bambini di oggi, siete ben fortunati, la Befana vi porta tanti regali! Ai miei tempi, quando andava bene, trovavamo due mandarini, due noci e tre castagne secche! Ci accontentavamo anche con poco, ma adesso, invece…» «Senta.» intervenne la mamma «lo sappiamo bene che i suoi erano altri tempi, e così è stato anche per me. Non si può certo far pesare questo ai bambini che vivono in quest’epoca di maggior benessere. Si sa, le nuove generazioni sono sempre più fortunate!» «Ah, ma io non dico mica gnente… sono contenta che Eugenio abbia avuto i suoi regali.» La mamma poi cercò di far cadere il discorso, che altrimenti sarebbe continuato ancora per un bel po’. Vittorio, pur nelle mie stesse condizioni economiche, riceveva in quell’occasione dei regali sempre più costosi. Poiché amava apparire l’armaiolo del branco, chiese in dono alla Befana un fucile ad aria compressa che sparava pallottole di gomma.
146 «Vedi, Eugenio, la Befana mi ha portato in regalo proprio un bel fucile che spara pallini. È di marca Hurri cane91 anche se non so che cosa c’entra il “cane”…» «Ah sì, è proprio un bel fucile! Ma a me le armi non piacciono molto.» dissi in tutta sincerità, senza provare la minima invidia. «Be’, a me invece sì, e tanto. La Befana mi ha proprio accontentato!» Io gli descrissi i regali che avevo ricevuto, e lui diede un’alzata di spalle. Me l’ero immaginato, era un bambino, che al contrario di me, non amava la lettura. Trascorsi un paio di giorni, la signora Maura salì a trovare la mamma. «Sa, Adriana, che cos’ha combinato Vittorio? Ah, ma non lo immagina di sicuro! Pensi che dalla camera della nonna sento una serie strana di colpi e lamenti. Bén mò era Vittorio che sparava i pallini nel sedere della nonna Aurelia, proprio con il fucile regalato per la Befana!» «Eh, che roba!» esclamò la mamma, scandalizzata. «Mi sono fatta promettere che non lo farà più, altrimenti lo prendo a sberle, e ho detto che il fucile glielo metto via. Adesso sembra che abbia capito.» «Speriamo!» commentò la mamma. *** Subito dopo le feste natalizie, la signora Adelma, riprese le sue consuete visite alla nonna. Il primo pomeriggio era il momento in cui mio padre faceva i conti e tracciava sui mappali gli schemi elettrici degli impianti che doveva eseguire. La mamma lavava i piatti, e io in “teoria” avrei dovuto fare i compiti. Non è facile immaginare cinque persone in una piccola cucina attorno a un unico tavolo, a cui si aggiungevano le chiacchiere della nonna, di Adelma, e magari la radio accesa come sottofondo… be’, quelli erano dei validi motivi di distrazione per me, così combinavo poco o nulla. «Sa, Delma, quando ero piccola, un birocciaio che stava vicino a noi mi raccontò che gli era annegato il cavallo? Poveretto, quell’animale era tutto per lui! Senza cavallo rimase senza lavoro. Dopo tempo, tutto il 91 La marca era in inglese: Hurricane.
147 vicinato con una colletta, lo aiutò a comprarne un altro. Era più vecchio del primo, però era robusto e faceva bene i trasporti con il carro.» «Bén, ma come fece ad annegare?» «Oï bén, ma s’annegò per il culo, attraversando il fiume Reno!» Io, dopo aver ascoltato quella conversazione, intervenni: «Sai, nonna, il maestro ci ripete sempre che non si dicono le parolacce, e poi io ho fatto il bagno nel fiume Reno quand’ero dalla zia, e non sono annegato per il sedere!» «Sta’ zitto tu, lingua merda, che non sai niente!» inveì la nonna. «Senti, mamma» s’intromise il papà «penso che tu abbia capito male… una spiegazione forse c’è: il cavallo ha il sedere alto, e la testa è quasi alla stessa altezza, vuol dire che se l’acqua arriva fin lì, arriva anche alla sua bocca, e annega. Forse il birocciaio si era espresso male e voleva dire questo.» La nonna fece spallucce. «Bén, io ho proprio capito così. Ah, ma voi non mi credete mai!» Adelma cercò di calmare la nonna: «No, no, le credono. Quello che non è certo, è la versione del birocciaio, che forse non le ha spiegato bene il fatto. Be’, ma ora parliamo bén d’altro…» «Sì, che è meglio. Pensi che domenica pomeriggio Adriana mi ha accompagnata al cinema, al Supercine, quello nuovo aperto da poco di fronte alla chiesa. Avevo voglia di vedere un bel film, era da tanto che non ci andavo.» «Allora, le è piaciuto? E quale film avete visto?» «Eh, mò stia buona Delma, era un vero e proprio troiaio! Guardando i cartelloni appesi fuori, noi credevamo che ci fosse un film della Chieburn92, invece quello era per la settimana dopo. Ormai che eravamo arrivate fin lì, siamo entrate lo stesso. Pensi che il titolo era: “Conte Valdracula”93.» «Bén, mò che strano titolo!» si stupì Adelma. «È proprio quello che abbiamo pensato anche noi. L’attore era un uomo, ma così brutto, peggio del peccato della serva!94 Con delle labbra rosse come le braci, e poi con dei dentoni lunghi da far paura! Sa che 92 Audrey Hepburn. 93 Vlad, conte Dracula. 94 Detto popolare bolognese: “brutto come il peccato della serva”.
148 morsicava le donne nel collo e poi volava via? E dopo un po’, era sempre di quella! Io non c’ho proprio capito niente. La cosa strana è che quelle ragazze sembravano tutte delle puttanelle che, dopo i primi morsi, si facevano mordere ancora di più; poi facevano anche l’amore, e non avevano più paura di lui! Be’, io ci sono rimasta così male, che con Adriana abbiamo deciso di uscire prima della fine del film.» «Non è piaciuto neanche a lei, vero?» interrogò Adelma, rivolgendosi alla mamma. «Ah, no di sicuro! Un cinema che dà sempre dei bei film, proprio quando andiamo noi, doveva dare una simile boiata? Mi meraviglio proprio che non l’abbiano proibito, aspettano un bel pezzo, prima che ci torniamo!» «A me invece era piaciuto “Via col vento”» continuò Adelma «ma adesso che mi dice che danno anche quelle porcherie, al cinema non ci vado più! Adesso cambiamo bén discorso… e la musica l’ascolta alla radio?» «Sì, qualche canzonetta, ma trasmettono sempre della musica americana.» rispose la nonna. «Allora non le piace Sinatra?» «Sì mi piace, anche se non ci capisco niente!» «Ah, se è per questo, nemmeno io. E il jazz l’ha mai ascoltato?» «Al giàz,95 ma che cosa c’entra?» chiese la nonna, aggrottando la fronte. «No, non il ghiaccio! È una musica americana di soli strumenti molto disordinata e senza capo né coda.» «Ah, adesso sì che ho capito! No, no, neanche un po’. E poi i suoni di quelle cornette96 mi sembrano tutte scorregge di lupo!» «Be’, Medea, ma cosa dice, perché, lei le ha mai sentite?» «No, no, mai, però me lo immagino!» Era molto divertente ascoltare i discorsi fra la nonna e Adelma, perché non si sapeva mai cosa poteva venirne fuori. *** Quando per la festa di Tutti i Santi ero stato al Conte, la zia mi aveva mostrato un paio di galline che stavano covando le uova nel nido, per far 95 In dialetto bolognese: il ghiaccio. 96 Sax, trombe.