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L’infanzia di Eugenio non fu molto diversa da quella dei suoi coetanei cresciuti in ristrettezze a Santa Viola, un quartiere popolare della periferia di Bologna. Il cortile in cui giocava era una porzione importante del suo mondo dove la fantasia, l’ingenua furbizia, l’allegria e la complicità si fondevano necessariamente per portare a termine delle simpatiche monellerie. Negli anni ’50, quando l’auto non fu appannaggio solo dei più abbienti, iniziò a circolare con maggior numero di esemplari la mitica Topolino della Fiat: è ad essa che sono legati i ricordi più significativi. Questo romanzo non vuol essere il diario di una vita, ma un graffiante affresco della società di quegli anni, fatto di episodi a volte comici e a volte irriverenti, che hanno accompagnato i primi dieci anni dell’autore, narrati secondo il pensiero e le parole di un bambino.

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Published by Quelli di ZEd, 2023-07-17 06:52:45

Quando si andava in Topolino, Eugenio Zini

L’infanzia di Eugenio non fu molto diversa da quella dei suoi coetanei cresciuti in ristrettezze a Santa Viola, un quartiere popolare della periferia di Bologna. Il cortile in cui giocava era una porzione importante del suo mondo dove la fantasia, l’ingenua furbizia, l’allegria e la complicità si fondevano necessariamente per portare a termine delle simpatiche monellerie. Negli anni ’50, quando l’auto non fu appannaggio solo dei più abbienti, iniziò a circolare con maggior numero di esemplari la mitica Topolino della Fiat: è ad essa che sono legati i ricordi più significativi. Questo romanzo non vuol essere il diario di una vita, ma un graffiante affresco della società di quegli anni, fatto di episodi a volte comici e a volte irriverenti, che hanno accompagnato i primi dieci anni dell’autore, narrati secondo il pensiero e le parole di un bambino.

199 «E poi nel giorno di Pasqua! Quella è proprio una sbutenfia115 sacrilega, ecco che cos’è.» fece eco Margherita, scandalizzata. Non restò loro che mettersi le pellicce sotto braccio, e avviarsi lentamente verso casa, umiliate e avvilite. Tutto il palazzo seppe dell’incidente, e anche dei sospetti, non poi tanto velati, che le Bartoletti avevano sparso in giro. *** Dopo l’ultimo scherzo, la fantasia di noi bambini non aveva ancora messo a fuoco quello che poteva essere adatto come pesce d’aprile, e neppure fissato “l’obiettivo” da colpire; intanto il tempo passava e mancavano ormai solo pochi giorni a quella data, quando Andrea tutto soddisfatto, ci mostrò un cartello. «Guardate che cosa ho trovato!» «Dove?» chiese incuriosita Lauretta. Ci fece vedere il cartello. «L’ho staccato dalla serranda della fioraia Preti, quel negozio che è vicino alla Farmacia Santa Viola.» Marzia lesse la scritta. «“CHIUSO PER MALATTIA”, e allora?» chiese. «Perché l’hai tolto?» domandò Luciana. «Forse può esserci utile, tanto si vede che il negozio è chiuso. Ho già un’idea.» spiegò Andrea. «Ho capito» intervenni «lo vuoi appiccicare da qualche altra parte.» «Ma che malattia avrà la fioraia?» chiese Maria «A noi che interessa? Magari l’asiatica, l’hanno presa in tanti!» esclamò Vittorio. Si trattava di una terribile pandemia influenzale che causò milioni di morti dal 1957 al 1960. «Allora che cosa ci facciamo con ’sto cartello?» s’informò Marzia. «Dobbiamo attaccarlo in un altro negozio, per fare una burla.» definì Andrea Lauretta mise subito le mani avanti: «Però non a quello di mio padre.» Andrea scosse la testa. «No, no, magari a quello della Cesarina.» «Ecco, va bene» concordò Vittorio. 115 Grassa fino a scoppiare.


200 «Ma quando la Cesarina va ad aprire la serranda e lo vede, lo stacca, poi lo scherzo finisce subito!» fece notare Luciana. «No, no, deve rimanere per un bel po’: bisogna metterlo di sera e toglierlo al mattino prima dell’apertura del negozio, e così fino al primo di aprile. In questo modo la gente che passa lo vede, ma la Cesarina non se ne accorge.» proposi. «Ma i fornai si alzano presto per fare il pane, e lo vedranno.» obiettò Marzia. «No, loro scendono le scale del primo piano ed entrano dalla porticina dell’atrio, non guardano certo la serranda di fuori, che di notte rimane chiusa.» replicai con sicurezza. «Ci penso io.» assicurò Lauretta. «Lo metto di sera, appena chiudono i negozi, poi lo tolgo il mattino, prima di andare a scuola, tanto la fornaia come il papà, apre solo alle 8.» Vittorio ebbe da obiettare: «Sì, ma di sera non girano poi in tanti, e non si accorgeranno del cartello!» «Guarda, basta che lo veda qualcuno, che lo dice a tutti. Poiché penseranno che la Cesarina o un altro della sua famiglia ha l’asiatica, allora andranno da un altro fornaio per non prendere l’influenza.» ribadì Luciana. Così facemmo, tanto non avevamo nulla da perdere. Il primo di Aprile cadeva di mercoledì, e domenica sera Lauretta mise il cartello, così come il lunedì sera. Martedì mattina il cartello era già stato tolto, quando Fernanda entrò dalla fornaia. «Bén, mò Cesarina, allora il negozio è aperto! Ma chi è che sta male?» «Perché? Nessuno! Chi gliel’ha detto?» «Oï, c’era scritto sul cartello, venga mò a vedere…» Uscirono entrambe per controllare. «E dov’è?» «Be’, ieri sera c’era, ma adesso è sparito!» «Senta, Fernanda, lei invece è sicura di star bene? Ha forse bevuto qualche cicchetto di troppo? Che sento anche l’odore.» «Se ho preso un po’ di cordiale è perché mi tiene su il cuore, ma giuro che l’ho visto!» La signora Maura, e poco dopo anche Prassede, andarono in negozio, e posero a Cesarina la stessa domanda. «Non so proprio che cosa sia ’sta strana cosa! Il negozio è aperto, perché forse non si vede?»


201 «Allora, quel cartello che c’era?» chiese Prassede. «Ma quale? Io non ho messo niente, dunque stia mò capìta!116» Cesarina non era del tutto convinta di ciò che le avevano riferito ben tre persone, ne ebbe la certezza solo quando la mattina del primo aprile, vide e tolse con rabbia lei stessa il cartello! Ne parlò subito con sua sorella Maria e con i figli: «Vorrei proprio sapere chi è quel minchione che ha messo questo cartello! Ah, che se lo agguanto gli strappo via i maròni a morsi!» «Senti, mamma.» disse uno dei figli «oggi è il primo aprile, ti avranno fatto uno scherzo.» «Scherzo al mî pugnàt!117 Mi hanno fatto anche passare da imbambìta118 con i clienti, poi molti non sono venuti in negozio per paura di ammalarsi mangiando il pane!» «Sarà stato un fornaio invidioso, adesso è tutto a posto.» commentò Marietto, e Cesarina poi si calmò, noi però ci prendemmo la nostra soddisfazione. *** Il 29 aprile era il mio decimo compleanno. Gli zii Emilio e Natalina fecero una scappata a Bologna e mi donarono un libro per bambini: “Marcellino in cielo”. Lo lessi e mi procurò grande tristezza. Già il film “Marcellino, pane e vino” che avevo visto al cinema parrocchiale non era molto allegro, questo romanzo, il sequel del film, peggio ancora, non mi piacque per niente. Mi consolai però leggendo “I Pirati della Malesia” di Salgari. Finalmente arrivò la fine dell’anno scolastico, e fummo tutti promossi, anche Rosolino che molto probabilmente aveva qualche problema di autismo, ma a quei tempi questo disturbo era poco conosciuto. Venimmo a sapere che il maestro Moretti, avendo una laurea in filosofia, aveva vinto un concorso e l’anno successivo avrebbe insegnato italiano alla scuola media. Meglio così: nessuno di noi alunni avrebbe rimpianto la sua mancanza. 116 Sia certa di questo, resti persuasa. 117 Le mie pugnette (volg.). 118 Italianizzato dal dialetto “imbambé” rimbambito/a.


202 Il sabato sera, la mamma e io continuavamo ad andare al bar di Romano, a vedere la televisione. Il 13 giugno ci sarebbe stata la finale del Festival della Canzone Napoletana. La mamma non voleva perdere la trasmissione, quindi ci recammo presto nella saletta per trovare posto. Non avrei mai immaginato che ci fossero tante persone interessate a quell’evento che a noi bambini risultò così lagnoso! Tra i presenti c’erano anche gli anziani coniugi Zòsteri, di origine veneta, che non si perdevano mai un sabato, seduti a tavolino in prima fila, e con una bella bottiglia di Albana frizzante. Dopo l’esibizione dei cantanti: Cigliano, Fierro, Martino e altri, venne il turno del tanto acclamato Sergio Bruni, che presentava la canzone “Viéneme ‘nzuonno”. Fu proprio durante l’esecuzione del ritornello: “Viéneme ‘nzuonno, sì, viéneme ‘nzuonno, nun me scetà’” che si udì un russare fragoroso, era il signor Zòsteri. Esplosero le risate, e anche qualche battuta: «Guarda mò che con quelle parole il sonno gli è venuto sul serio, e poi Sergio Bruni dice anche di non svegliarlo!» L’ilarità generale continuò, anche se pochi fra i presenti, ressero fino alla proclamazione del vincitore: fu una catalessi generale. Che fosse proprio quello il brevetto di un nuovo sonnifero? La trasmissione che preferivo era Un, due, tre con Tognazzi e Vianello, che già conoscevo per aver visto alcune puntate dalla famiglia Sarti, e purtroppo venne sospesa, ma noi non ne conoscemmo mai il motivo. Fu proprio un vero peccato! La ragione della cessazione però c’era, eccome… Il 23 giugno ci fu un piccolo incidente al Teatro alla Scala. Per disattenzione di un inserviente, non fu avvicinata la sedia dietro al Presidente della Repubblica Gronchi che, nell’atto di sedersi a fianco del presidente della Repubblica Francese De Gaulle, in visita ufficiale in Italia, cadde a terra rovinosamente. Il Presidente della Camera Leone, accorse e lo aiutò ad alzarsi. La scena era stata trasmessa in diretta televisiva, ma l’accaduto era stato taciuto dai principali organi d’informazione. I due comici parodiarono quella scena nella loro trasmissione televisiva: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che stava per sedersi e gli disse: “Ma chi ti credi di essere?”, e lui, seduto sul pavimento, allargò le braccia rispondendo: “Tutti possono cadere!”.


203 Nello studio della RAI, la scenetta fu accolta da una fragorosa risata, ma i vertici non furono dello stesso avviso, e presero subito dei provvedimenti, licenziando i due comici. La sera stessa il direttore decretò la cancellazione della trasmissione dalla programmazione televisiva, e il responsabile del centro di produzione fu rimosso.


204 SÌ, GLI SCHERZI CONTINUANO… Fu Marietto, il garzone della fornaia, che ci diede l’input per una nuova burla da mettere in atto. «Prendete questo mezzo panetto fresco di lievito di birra, e annusate… vedrete poi voi come usarlo.» Aveva un odore molto acre e nauseante, simile al puzzo dell’urina di gatto. Fu Lauretta ad avere l’idea di come utilizzarlo. Stilammo l’elenco delle persone più antipatiche del palazzo: le Bartoletti, Fernanda, Prassede, Cesarina, Pipingo e la Biondi. Passammo davanti alle singole porte dei loro appartamenti, e spalmammo con cura un po’ di quel fetido lievito sui rispettivi zerbini. Ne fecero le spese le proprietarie dei gatti, due in tutto: le signorine Tomasello del civico 99 e Dina del 101, incolpate di aver fatto circolare i loro gatti per il pianerottolo. Nel palazzo fu tutto uno sciorinare e un disinfettare di tappetini, nemmeno fosse scoppiata la peste. Dal 1958 erano entrate in circolazione le monete d’argento da cinquecento lire, quelle con l’immagine delle caravelle o quella di Dante. Con una di queste si poteva fare una modica spesa per un paio di giorni. I miei genitori qualche volta me ne regalavano una, che conservavo gelosamente in un salvadanaio blu di metallo a forma di libro, era il dono della Cassa di Risparmio. Ero arrivato a collezionarne circa una quindicina, e con quel piccolo tesoro, mi sentivo un bambino ricco. Quel salvadanaio mi era molto utile anche per produrre rumore. Una volta vidi che Dante saliva le scale per andare a trovare Prassede – continuavano a vedersi, anche se di rado – e, nascosto sul pianerottolo, agitai quel contenitore di monete. Il fracasso che produsse fu davvero insopportabile, e fece eco nella tromba delle scale.


205 «Fatti vedere topone schifoso, brutto porco!» urlò Dante. «Ah, sei andato da quella busona, eh?» Io mi rifugiai in casa, chiudendo la porta senza far rumore, poi guardai dallo spioncino. Lui salì con circospezione fino al mio piano. Lo vidi agitarsi e, rosso in viso, origliare a tutte le porte. Ispezionò dappertutto, controllando eventuali impronte di scarpe sul pianerottolo, o altri segni che potessero confermare i suoi sospetti. Poi udii l’alterco che ebbe con Prassede per le scale. «Chi c’era qui, prima che arrivassi io? C’era il topone, vero?» «Nessuno, nessun topone, non so nemmeno chi sia, Dante, te lo giuro!» «Ah spergiura! Non raccontarmi delle fregne brutta troia, tu che ti metti sempre a cul busone119 davanti al topone; sei più porca della Ramarri!120 Poi ho sentito sai che facevate festa, e sbattevate anche delle pentole!» «Poi chi è questa Ramarri? Ma quali pentole? Anch’io, sai, ho udito un gran fracasso per le scale.» Vedendo che Dante era alterato, Prassede non entrò in casa, dove sarebbe stata più vulnerabile. Dopo tutto quel frastuono, infatti, anche altri inquilini si affacciarono, così lui dovette andar via, anche se in preda al delirio, con buona pace di quella poveretta. All’ennesima marachella Fernanda venne a suonare tutti i campanelli, urlando come sempre dall’atrio, e io utilizzai il mio prezioso salvadanaio come deterrente nei confronti di quell’oca starnazzante. Lo agitai con forza come avevo fatto con Dante, e Fernanda, pensando che le si riversasse in testa del ferrame, dall’alto della tromba delle scale; fuggì via terrorizzata. 119 Chinata 120 Nota prostituta della zona.


206 TRISTEZZA Una cosa che molti adulti ignorano, è la tristezza che può pervadere l’animo di un bambino, e questo rimane tra i ricordi più vivi che lo accompagnano fino alla vecchiaia. Io l’ho provato, e anche profondamente in alcuni momenti della mia infanzia. Lo stato di ristrettezza in cui versava la mia famiglia, e di cui mi rendevo conto, era per me motivo di inquietudine e questo mi era trasmesso in parte ascoltando i discorsi dei miei genitori, in parte alle rinunce a cui ero costretto. Riguardavano cose che avrei desiderato e non mi venivano accordate. In quel caso veniva spontaneo il confronto con gli altri miei coetanei, e rimanevo deluso per non avere le stesse opportunità. A questa mia amarezza si aggiungeva il malessere che provavo nel vedermi magro, con la fronte alta, e anche bruttino. Vittorio e Andrea erano considerati i “belli” del cortile, spesso oggetto di complimenti da parte dei vicini, e io mi sentivo proprio come il “brutto anatroccolo”. Quando ne parlavo in casa, i miei cercavano di consolarmi, ma non mi rasserenava: capivo che lo facevano perché mi volevano bene e quindi non li sentivo del tutto sinceri. «Papà, io sono bello?» Lui ci pensò un po’. Che cosa poteva dirmi? Scelse una risposta diplomatica che non riportasse un vero giudizio. «Be’… diciamo che non sei né bello, né brutto.» Provai una cocente delusione. «Mamma, mi dicono tutti che ho la fronte troppo alta.» «Be’, e ti lamenti? Sai, significa avere una grande intelligenza!» “Sarà…” pensai. Un altro motivo era vivere in una famiglia di anziani, in un palazzo di vecchi. La nonna era ormai ultraottantenne, il papà aveva allora cinquantaquattro anni e io lo consideravo già vecchio, sia per l’aspetto sia per le sue idee,


207 poiché era cresciuto nei primi del ’900. Una volta quando mi accompagnò a scuola, fu scambiato per mio nonno, e io ci restai malissimo. Il mio umore era piuttosto mutevole, e scendeva “in cantina” soprattutto quando udivo alcune canzoni piagnucolose. “Torna piccina”, di Buti121: la melodia e le parole strappalacrime, provocavano in me quell’effetto. “Nella mia vita triste e senza amore Tutto svanisce e nulla mi sorride più. Ho una speranza ancora in fondo al cuore Questa speranza mia sei solo tu Torna piccina mia Torna dal tuo papà Egli t’aspetta sempre con ansietà Fra le sue braccia, amore Egli ti stringerà La ninna nanna ancora ti canterà Sei tutta la mia vita Tutto tu sei per me Certo sarà finita Se resto senza te, mio bene…” Altro che ninna nanna, quell’insulso “miagolio melodico”, neppure tanto soporifero, su di me sortiva ben altro effetto. Per non parlare poi della canzone di Giorgio Consolini “Tutte le mamme”. “Mamme, mamme, mamme, questo è il dono che Dio ti dà Tra batuffoli e fasce Mille sogni nel cuor Per un bimbo che nasce quante gioie e dolor. Son tutte belle le mamme del mondo Quando un bambino si stringono al cuor. Son le bellezze di un bene profondo Fatto di sogni e rinunce d’amor. 121 Famoso cantante in voga negli anni ’50: Carlo Giuseppe Eugenio Buti (Firenze,14 novembre 1902 – Montelupo Fiorentino, 16 novembre 1963).


208 È tanto bello quel volto di donna Che veglia un bimbo e riposo non ha. E gli anni passano i bimbi crescono. Le mamme imbiancano Ma non sfiorirà la loro beltà…” Questo illustre cantante era proprio nato al primo piano del civico 101 del mio palazzo. Un altro personaggio illustre che vi ha abitato? Quello, modestamente sono io… Credo di essere sincero quando affermo che la canzone melodica, non era nelle mie corde: né allora, né adesso, benché alla mamma piacesse tanto, e io ho sempre rispettato i suoi gusti senza mai criticarli.


209 ESTATE 1959 Con l’estate arrivò anche il periodo delle vacanze che avrei passato, come di consueto, dagli zii al Conte. Ero sempre molto contento di andare in campagna e ritrovare i miei amici, ben sapendo che da subito avrei dovuto sottopormi alla “routine” della bascula, che avrebbe misurato il mio peso iniziale. Dopo un anno, alcune cose erano cambiate: gli zii avevano acquistato il televisore! Così la zia poteva vederlo comodamente da casa, senza doversi recare ogni tanto dai Sarti. Per noi bimbi era una vera gioia poter vedere la televisione anche di pomeriggio con il programma: la TV dei ragazzi, un’ora intera dedicata a noi! Un’altra novità era che Robertina, che aveva appena compiuto tredici anni, pare che avesse un morosetto, un compagno di classe, così riferivano i vicini. Gigi era il figlio minore dei contadini dai quali andavo a prendere il latte, in bicicletta, con un bidoncino da tre litri attaccato al manubrio. Era un ragazzino educato e molto studioso, un vero sapientino: in pratica un adulto in miniatura. S’intuiva molto bene che Gigi fosse attratto da mia cugina, per le attenzioni che le dimostrava. Lei, al contrario, non sembrava per nulla interessarsi a lui, anzi si dimostrava perfino seccata quando la zia ne parlava: «È venuto Gigi, è stato gentile a portarti un bel libro da leggere, guarda il titolo è “Zanna Bianca”» disse, mostrandole il volume. «Eh be’, sarà la storia di un elefante… non m’interessa.» «Ma no, sulla copertina c’è invece la foto di un lupo.» «È lo stesso, non mi piace!» «Se non l’hai nemmeno letto, come fai a dirlo?» «Uffa, mamma, leggilo tu!» Un’altra volta: «Vedi, Gigi ti ha portato un cestino di ciliegie!»


210 «Lo sai che mi fanno venire il mal di pancia, non le mangio! Dalle ai bimbi di Padre Marella.» Ancora: «Gigi ha chiesto se vuoi andare con lui in bicicletta a Bagno, nel pomeriggio, a mangiare il gelato. Io gli ho detto che eri ancora a letto, e lui verrà a prenderti.» «No, no, fa troppo caldo, non vado certo in bici con quel sole…» Smisi di seguire tutte quelle storie, stando sempre fuori a giocare, anche per non udire quel tira e molla. Insomma, Gigi alla Robertina non piaceva, punto e basta! Io intanto provavo molta simpatia per la Bruna. Gli zii erano più permissivi rispetto ai miei: potevo andare a letto più tardi perché c’era la televisione, poi non dovevo alzarmi presto la mattina per andare a scuola. Per me era una grande conquista. A volte lo zio usciva la sera, per andare in paese a giocare a biliardo con gli amici. Robertina e io stavamo comodi sull’ottomana, mentre la zia si sedeva sul tavolo, per avvicinarsi al lampadario e vederci meglio, mentre faceva la maglia. Spesso accadeva che si disattivasse la corrente, e a me veniva un po’ di paura. La zia, era previdente, e teneva a portata di mano una miriade di candele. Per riavere la luce, occorreva che lo zio si recasse al bacino idroelettrico, a qualche chilometro di distanza, per farsi riconnettere, il che significava restare senza corrente almeno un paio d’ore. Quando lo zio non c’era, niente televisione, e si andava a letto a lume di candela. La programmazione televisiva negli anni ’50, completamente differente da come viene proposta oggi, era appannaggio di un unico canale RAI, e devo ammettere che in generale non si avvertiva l’esigenza di una scelta più ampia di canali, anche perché la televisione in Italia era una realtà recente, non tanto diffusa. Diciamo che le persone, bambini compresi, si adeguavano di buon grado al palinsesto trasmesso, e a differenza della TV attuale, offriva molti contenuti culturali ed educativi. Fu proprio in quel periodo che iniziai ad apprezzare alcuni film di Cary Grant, che vidi in televisione: “Arsenico e vecchi merletti” e “Susanna!”, e mi divertì, cosa un po’ strana per un bambino, la commedia di Shakespeare “La dodicesima notte” con i personaggi di Malvolio e Padre Topas. ***


211 Lo zio Emilio, come fattore della tenuta, aveva l’obbligo di stilare un resoconto settimanale da inviare al “padrone” e il ricavato della vendita dei prodotti. Era compito della zia Natalina ricopiare in bella scrittura il rendiconto dalla minuta che lo zio le passava, per poi spedirla per posta. Il rapporto che legava con un contratto agrario il proprietario del fondo e i contadini, era la mezzadria. Questi dividevano a metà i prodotti, e/o gli utili dell’azienda agricola con il padrone. Quest’ultimo provvedeva a coprire le spese di acquisto delle sementi, dei macchinari, dei prodotti chimici per i trattamenti alle piante, e dava in comodato d’uso la casa, le stalle e le relative pertinenze a coloro che prestavano la loro mano d’opera. Vi era poi la categoria dei “braccianti”, che non risiedevano sul fondo ma prestavano aiuto nei campi, dietro un compenso orario. La posizione lavorativa dello zio era piuttosto delicata, perché doveva fare da tramite, e da ago della bilancia, fra il proprietario e i conduttori dei terreni. Da un lato, il padrone era sempre più esigente dal timore che i mezzadri ne approfittassero intascando parte del dovuto, dall’altra i contadini, con famiglie numerose, avanzavano richieste pressanti per ottenere maggiori guadagni. Era quindi compito dello zio mediare e rendere questo difficile rapporto il più equo possibile, anche se so per certo che poneva maggior riguardo nei confronti dei più deboli. L’ho pensato perché avevo udito alcuni discorsi dei coloni, che portavano le loro rivendicazioni allo zio affinché potesse riferirle al padrone e lui cercava sempre di rassicurarli. Tante volte ho visto lo zio immerso nello studio delle coltivazioni, e a volte si consultava con la zia. «Sai, Natalina, è un po’ di tempo che penso quale prodotto possa essere più redditizio per i nostri contadini. La canapa richiede una lunga lavorazione ed è pagata poco: se ne produce troppa e il prezzo cala ogni anno. Il mais non ha un grande mercato nella nostra regione. La vite richiede grande impegno, i nostri vini sono poco alcolici, e le viti sono molto vecchie, quindi la produzione è bassa. Occorre trovare altri tipi di coltivazioni. Leggevo sul settimanale “L’Italia Vinicola e Agraria” che molti si stanno indirizzando alla coltura delle pesche, che in città sono molto richieste.» Mostrò la rivista alla zia e lessero insieme l’articolo.


212 «Qui dice che si possono ottenere anche duecentocinquanta quintali per ettaro» commentò lei. «Mi sembra un buon quantitativo, ma dopo la messa a dimora delle piantine, si devono aspettare almeno tre anni prima di raccogliere i frutti.» «Oltre a quello, occorre un investimento di denaro non indifferente per l’acquisto delle piante.» specificò lo zio. «Però ho letto che a Cesena ci sono grossi vivai con peschi a un costo non eccessivo, e già in produzione. Sai che cosa faccio? Chiedo a Checco di accompagnarmi lì e mi procuro due piante per studiarne la crescita sui nostri terreni. Verifico assieme ai contadini della zona la qualità di quelle pesche, semmai ne compro una cassa. Se la cosa mi convince, ne parlerò con il padrone per chiedere il permesso e i fondi per iniziare la coltivazione.» «Bén, Emilio, ma sei matto? Come fai a portare due piante da Cesena fin qui con la tua Topolino?» «Ah, questo non è un problema. Aprirò la capote, lascia fare a me!» Andò con Checco, e dopo un paio di giorni ritornò trionfante con due belle piante che fuoriuscivano dalla Topolino per quasi due metri! Lo zio poi raccontò di essere stato fermato sulla via Emilia dalla polizia stradale. «Alberi… ma dove state portando questa Topolino?» Risero nel vedere le dimensioni delle piante, e chiesero allo zio dei chiarimenti. Lui spiegò il suo intento e fu libero di ripartire. «Vedi, Natalina, non sono piante giovani e spero proprio che l’anno prossimo entrino in produzione. Le concimiamo solo con ottimo stallatico, e quello certo non ci manca. Le mettiamo in pieno sole nel nostro orto, guai l’ombra anche se solo per qualche ora, poi vedremo.» Quelle due piante diventarono il vanto degli zii: l’anno successivo produssero delle pesche nettarine enormi. Quello fu l’inizio della coltura dei peschi nei diversi ettari di terreno della tenuta. Con raccolti abbondanti, e frutti da primato per qualità e sapore, ci fu per molti anni un notevole guadagno per i mezzadri e per il padrone, anche perché lo zio sapeva come vendere bene i prodotti. Amava molto il suo lavoro, soprattutto perché ne ricavava, oltre al salario, anche grandi soddisfazioni, e nutriva un profondo rispetto per il proprietario, il commendatore: uomo straricco, incostante e semi analfabeta. A volte capitava che quest’ultimo sguinzagliasse al Conte il suo tirapiedi, il ragionier Leonelli, a controllare di persona l’operato dello zio


213 che, in questi casi, si faceva prendere un po’ dall’ansia e dal timore di aver commesso degli errori, il che gli causava il riacutizzarsi dell’ulcera duodenale. Tutto doveva essere in ordine: i libri contabili, le fatture, e ogni pratica burocratica inerente alla gestione dei fondi. In quell’occasione, la zia ci faceva pranzare prima dell’arrivo del ragioniere, poiché spesso, dietro invito degli zii, questi si concedeva una pausa pranzo, facendosi tentare dall’ottima cucina della zia. «Voi andate pure in camera, e non scendete fintanto che non vi chiamo. Non voglio che Leonelli vi trovi qui e pensi, parlando con il commendatore, che in questa casa si faccia baldoria a sue spese, con altre bocche da sfamare…» Probabilmente la zia si riferiva a me, non alla loro figlia. Questo gesto prudente poteva sembrare eccessivo, quasi una punizione per noi, credo invece che fosse fondato, poiché era nota la grettezza del padrone, che poteva pensare che quel cibo uscisse dalle sue tasche. A parte quella parentesi, noi bambini continuavamo a giocare all’aperto in piena allegria. Quando lo zio rientrava tardi la notte, dopo essere stato al bar a San Giovanni a giocare a biliardo, a volte ci portava il gelato, che io mangiavo a occhi chiusi, poiché ero ancora assonnato. Accadeva poi che arrivasse con un gran vassoio di paste, la rimanenza della giornata, per distribuirle ai bambini di Padre Marella. Quando erano abbondanti, la zia ne teneva due da parte per noi, per la colazione del mattino, altro che pane inzuppato nel latte! La prosperosa suor Peppona, oltre a bere a grandi sorsate la “sua medicina”, era anche molto golosa pur essendo diabetica, o poiché era diabetica era molto golosa? Be’, non sta a me indagare, resta il fatto che anche lei agguantava almeno una pasta dal cabaret, con il risultato di mostrare i suoi baffetti, bianchi di zucchero a velo. Noi pensammo di farle una burla, proprio facendo leva sulla sua smisurata ingordigia. Sapevamo qual era la pasta che preferiva: la sfogliata alla crema con lo zucchero a velo. Una volta posto il vassoio con i dolci sul tavolo del salone, Gino si fece dare da Gigli, il bambino che spesso veniva insacchettato, un famoso ingrediente segreto, io poi avevo preso in prestito dalla cucina della zia l’utensile giusto, affinché lo scherzo riuscisse alla perfezione.


214 «Siamo d’accordo, vero?» raccomandò Bruna ai bimbi. «Lasciate a suor Peppona la pasta che le piace tanto, mangiate solo le altre, poi rideremo!» La suora sputò tutto per terra. «Gesummaria! Ma che cosa ci mettono in questi dolci? Sfido io che rimangono e li regalano! Quelli del bar dovrebbero andare in galera per vendere simili schifi!Ma a voi bambini sono piaciuti? Non avete sentito un saporaccio strano?» Ci fu un coro d’assenso per la prima domanda, e di diniego per la seconda. «Be’, vorrà dire che li mangerete voi, io certo non ne voglio più sapere!» Senza volerlo, avevamo compiuto due gesti eroici: il primo fu di tenerle a bada la glicemia, il secondo di evitarle il peccato di gola… Che cosa avevamo mai combinato? Gigli era entrato nell’aula scolastica e aveva preso alcuni pezzetti di gesso vicino alla lavagna, io invece mi ero procurato una piccola grattugia, quella che si usa per la noce moscata, così avevamo polverizzato di gesso la sfogliata, tanto da apparire del tutto simile allo zucchero. Proprio geniale! Nel vassoio di paste ne era rimasta una sola: quella al cioccolato, che dopo un paio d’ore sparì misteriosamente. Non si seppe mai chi l’avesse mangiata, era proprio quella sulla quale avevo cosparso una fine polvere di noce moscata.


215 IL FANTASMA DEL CONTE Come tutti i castelli che si rispettano, anche quello del Conte annoverava il suo bel fantasma! La vera storia di quell’antico palazzo del 1500, la zia la conosceva bene ma, per quanto insistessi, non me l’aveva mai rivelata. Raccontò invece di aver sentito spesso dire che fosse visitato da un fantasma. Il medico condotto, parlando con lei, si espresse così: «Si tratta di un’oscura presenza, una figura senza tempo, che ridà voce a un torbido passato.» Questo anziano dottore era solito evocare gli spiriti in riunioni segrete frequentate da pochi eletti, che poi tanto segrete non erano, visto che ormai lo sapevano tutti! Una sera, Robertina chiese alla zia: «Mamma, ci racconti la storia del fantasma del castello?» «Ma la conosci già.» replicò lei. «Sì, ma Eugenio non l’ha mai sentita!» «No, che poi si prende paura!» «Tanto qualche volta di notte ho già paura, raccontala pure!» la invitai. «Se proprio volete… Il Conte, proprietario del castello, aveva un fratello più giovane di nome Ascanio, che viveva qui. A questo ragazzo piaceva fare la bella vita, andare all’osteria a giocare e ubriacarsi. Tante nobili ragazze lo ammiravano perché era molto bello, forte, e bravissimo ad andare a cavallo. Volentieri si sarebbero fidanzate con lui, il giovane Conte, però, era innamorato della bella e ricca Adele, che purtroppo era stata promessa dal padre a un altro nobile: il Conte Ubaldo da Venizzano. Adele e Ascanio perciò s’incontravano di nascosto, e quando Ubaldo lo venne a sapere, divenne furioso dalla gelosia. Pensò subito di vendicarsi, e inviò quattro dei suoi sgherri a tendere un agguato al povero Ascanio. Una notte, due di questi malandrini si nascosero dietro la chiesina di S. Antonio e…» «Quella in fondo al vialetto dove si sono sposati i miei genitori?» interruppi io.


216 «Sì, sì, proprio quella… Quando il Contino rientrò a cavallo dalla taverna, fu ferito a morte, proprio davanti alla chiesina. Riuscì a stento ad arrivare al castello, salì a fatica lo scalone, e poco dopo morì.» «È una storia triste» commentai. «Ma il fantasma, allora?» «Be’, se hai pazienza, parlo anche di quello! Quando con lo zio siamo venuti ad abitare qui eravamo appena sposati, e suor Peppona ci mise subito in guardia, dicendoci che questo palazzo era abitato anche da un fantasma. Io fui subito scettica, e le domandai se lei lo avesse mai visto. Rispose che no, non l’aveva visto ma i segni che aveva lasciato sì, ossia delle impronte di stivali sullo scalone. Raccontò inoltre, che di notte, dalla chiesina di S. Antonio, a volte provenivano musiche demoniache assordanti, suonate con il vecchio organo, poi dall’interno giungevano dei lamenti, simili a ululati di lupo, che facevano agghiacciare il sangue! Quando un giorno, lei e le sorelle aprirono il portone della chiesina, perché volevano entrare a pregare, furono invase da un intenso profumo di giglio da rimanerne inebriate. «Ma non è mica finita qui…» mi disse la suora «a notte fonda a volte si sente il Contino Ascanio cavalcare, e si odono distintamente gli zoccoli del suo cavallo sul selciato. Il contadino Maselli giura di aver visto anche la sua ombra seduta vicino alla fontana, mentre lavava le sue ferite. Questo poi è niente rispetto al fracasso che abbiamo udito provenire dal salone mentre eravamo a letto! Cammina senza sosta su e giù, e batte anche gli speroni contro il tavolo. Per non parlare degli scricchiolii, dei tonfi, e dei lunghi gemiti.» La zia, vedendoci spaventati, aggiunse: «Be’, per ora basta. Semmai continuo il racconto un’altra volta.» «Ma tu e lo zio l’avete mai visto? Hai mai sentito questi rumori?» chiesi, pieno di curiosità. «In effetti di notte ho sentito solo degli scricchiolii, come aveva detto la suora!» Fui pervaso dalla paura perché li avevo uditi anch’io, e più di una volta, ma non dissi nulla. «E tu, zia, non hai paura del fantasma?» chiesi, invece. «Credo che abbia più paura lui di me, se vede le mie rughe!» rispose lei sdrammatizzando, e ci mettemmo a ridere. Quando chiesi anche allo zio Emilio se avesse paura dei fantasmi, mi rispose che aveva solo paura dei vivi, per questo girava sempre armato.


217 Avrei desiderato conoscere altri particolari della storia del Contino Ascanio anche se, quando al buio andavo a prendere l’acqua alla fontana, avevo sempre i brividi. Una volta, per fare più in fretta e restare là il meno possibile, fui maldestro e mi cadde la bottiglia di vetro, e le schegge, rimbalzando sul marmo, mi ferirono a una gamba. Incuriositi, assieme a Robertina e ai miei amici, ci mettemmo a caccia d’indizi di quella scomoda presenza. La nostra ricerca non diede alcun frutto, se non la scoperta nella torre, seminascosta da una vecchia stampa, di una scritta sbiadita dal tempo, di cui non capimmo il significato, e la mostrammo agli zii: “PARVA, SED APTA MIHI!”122 Quando di notte nella cameretta, udivo quegli scricchiolii del soffitto a cassettoni, ripensavo al racconto del fantasma, e provavo sempre una certa paura, ma visto che non mi capitava nulla, e non vedevo presenze strane, pian piano mi abituai. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei fatto raccontare da suor Peppona ulteriori particolari sul fantasma del castello, rimandai però questa mia curiosità all’anno successivo, poiché la mia vacanza in campagna era terminata. *** Verso la fine del mese di agosto, nel palazzo di via Emilia Ponente, non si parlava d’altro e si attendeva con curiosità che quell’evento si ripetesse. Era consuetudine che al termine dell’estate, il noto comico Gino Bramieri,123 al ritorno dalle vacanze a Cesenatico, facesse una 122 Questa scritta sul muro nella torre riprendeva la frase in latino che fu posta sulla facciata della casa di Ludovico Ariosto quando, nel 1525, tornò dalla Garfagnana dove era governatore, nella città di Ferrara in cui si stabilì definitivamente: trad: “Piccola, ma adatta a me”. 123 Gino (Luigi) Bramieri (Milano 21/6/1928 – Milano 18/6/1996). A Cesenatico, alla fine degli anni ’50, si stabilì una specie di “comunità culturale delle vacanze” che si ritrovava ogni estate, creando una corrente creativa di idee e progetti, concorrendo a promuovere il gusto per lo spettacolo. Tra questi: Dario Fo e Franca Rame, Lina Volonghi, Walter Chiari, Paolo Ferrari e il calciatore Giorgio Ghezzi.


218 piccola sosta nel negozio di Cesarina per acquistare alcuni chili dei suoi rinomati tortellini. A quei tempi non esisteva ancora l’autostrada A 14 Adriatica, e si stava ultimando soltanto la Bologna-Milano, né c’era ancora la Tangenziale, ed era obbligo per chi provenisse dal mare, transitare davanti al nostro palazzo. «Domattina passa in negozio Gino Bramieri a prendere i tortellini, perché i miei sono i più buoni di Bologna. Mi ha telefonato di prepararli!» annunciò tutta eccitata Cesarina alla signora Maura, e la notizia si sparse in fretta nel palazzo. Il giorno seguente, l’attesa sul marciapiede di tanti curiosi fu premiata: il famoso comico arrivò sulla sua lussuosa auto sportiva, scese e passò in mezzo a un’ala di persone, regalando sorrisi e battute. Rimase nel negozio il minimo indispensabile, cioè appena pochi minuti e, con il suo “prezioso” sacchetto, ripartì sul suo bolide a tutta velocità verso Milano.


219 OTTOBRE 1959, 4° ANNO DELLA SCUOLA ELEMENTARE Con il nuovo anno scolastico cambiammo il maestro, ma questo lo sapevamo già. Si chiamava Cesare Tamburini: era alto, parzialmente calvo, e dall’aria severa che incuteva timore. Devo dire che apprezzammo molto la sua bravura nelle spiegazioni, soprattutto in aritmetica, che era la mia nota dolente. Fu anche piuttosto esigente con tutti noi. Ho potuto notare, durante il mio percorso scolastico, come gli insegnanti che si sono avvicendati negli anni, abbiano sempre imputato ai colleghi che li avevano preceduti la carente preparazione degli allievi, quasi a farne un luogo comune. Il maestro Tamburini rimase con noi anche in quinta elementare, e ci portò all’esame. Il maestro, molto preparato e interessato alla storia, ci fece studiare a memoria alcuni apologhi importanti, per recitarli in classe alla presenza del caposcuola. A me toccò il discorso di Giulio Cesare ai soldati, tratto dal “De Bello Gallico”. Al povero Gianfranco, invece, fu assegnato l’apologo di Menenio Agrippa, e quello che ne venne fuori fu un vero spasso, perché storpiò tutto il testo. Noi, che avevamo la copia sotto gli occhi, seguimmo la sua buffa declamazione, tra la confusione e l’ilarità generale. Il maestro, sconcertato per la magra figura fatta davanti al caposcuola, decise da quel momento di sospendere le recite, facendo leggere i testi ad alta voce, proprio per controllarci. Qualche tempo dopo accadde in classe un fatto a dir poco imbarazzante, che turbò il sereno andamento della lezione.


220 Noi bambini non ne capimmo la gravità, anzi non ci rendemmo proprio conto di nulla, e forse neppure l’ingenuo Jader, il colpevole, che stava da solo nell’ultimo banco in fondo all’aula. Il maestro stava scrivendo alla lavagna il testo di un problema da risolvere, e quando di scatto si voltò per controllarci, vide Jader rosso in viso, che stava “trafficando” con le mani sotto il banco. «Che cosa stai combinando Jader, che ti agiti così?» «Be’, signor maestro, mi sto facendo una pugnetta!» «Ah! Ma vergognati, brutto maiale! Vai subito fuori in castigo dal bidello Gianni!» Io non capii, come molti della classe, né il senso di quella parola, che avevo già sentito come imprecazione, né il motivo dell’allontanamento di Jader. «Signor maestro.» chiese subito dopo Gianfranco «ma che cos’è una prugnetta?» «Zitto tu, non t’impicciare, e pensa invece a scrivere il problema sul quaderno!» gli urlò, rosso in viso. Quel fatto non passò sotto silenzio: furono convocati tutti i genitori, e non seppi mai che cosa il maestro avesse raccontato loro. Jader fu mandato per una settimana, sotto stretto controllo, nella classe del caposcuola, e poi fu riammesso. Solo qualche tempo dopo compresi che cosa fosse realmente accaduto. Di quell’episodio, però, non se ne parlò più. *** Al quarto piano del civico 99 si liberò un appartamento, dove si sistemò la famiglia Bernardi: marito, moglie, figlioletta e nonna paterna. Il marito fu subito etichettato nel palazzo come: “al pulismàn”,124 per la sua professione. Era un uomo sulla quarantina, alto, ben piazzato, muscoloso e dalla folta capigliatura nera. Aveva un carattere irascibile, e per questo motivo quasi tutti cercavano di evitarlo, anche perché, nella sua posizione, si sentiva in dovere di riprendere gli inquilini per un nonnulla, e affibbiare 124 “Il vigile urbano”, storpiatura in dialetto bolognese della parola tratta dall’inglese: Policeman.


221 loro il suo sermone che terminava sempre con una morale confezionata a modo suo. Era il prototipo dell’antipatico, presuntuoso, borioso, spaccone, superbo, arrogante… Quando nel 1960 ho visto il film comico del regista Zampa, con Alberto Sordi nei panni di un vigile zelante e spaccone, ho pensato che il regista avesse conosciuto Bernardi e avesse colto alcuni tratti del suo carattere per realizzare la sua satira. Qualche settimana dopo, questo inquilino acquistò una stupenda Fiat 1100, proprio l’ultimo modello 103D, che a quel tempo era l’auto della media borghesia. Per quell’auto nutriva un attaccamento a dir poco morboso, quasi fosse una persona reale. Alcuni pomeriggi la piazzava nel cortilone per lavarla e lucidarla, e guai a chi osasse passare nelle vicinanze. «Voi bambini state lontani da qui, sciò, sciò… andate a giocare sul terrazzone, altrimenti si solleva la polvere sull’auto! Avete capito?» urlava, dando poi sfogo a noiose tiritere sulla delicatezza della vernice dell’automobile e altre elucubrazioni. «Che cosa ne dite, amici, Bernardi si merita proprio un bello scherzo, vero?» esordì Maria, con convinzione. «Sì, ma quale?» chiese Marzia. Andrea fece spallucce. «Ovvio, alla sua auto.» «Sei matto? Se quello ci scopre ci scotenna!» commentò Luciana. Andrea replicò: «Se lo facciamo bene, non scoprirà mai che siamo stati noi.» «Ma che cosa?» domandò ancora Marzia. Io intervenni: «Quando ero in campagna ho sentito che un contadino si lamentava con lo zio perché avevano fatto uno scherzo al suo trattore, forse funziona anche con l’auto di Bernardi.» «Per me siete proprio tutti pazzi!» esclamò Luciana. «No» la rassicurai «dobbiamo soltanto farci furbi, vedrai che sarà facile.» «Facile un paio di corni, ma se non si allontana mai dall’auto!» commentò lei. Vittorio scosse la testa. «No, dopo averla lavata va sempre in casa a cambiarsi.» «Ecco, è proprio quello il momento giusto!» esclamai.


222 «Io non ci sto capendo proprio niente, noi dunque che cosa dovremmo fare?» chiese Luciana. «Per questo scherzo abbiamo bisogno dell’aiuto della Lauretta» mi voltai verso di lei e dissi: «Ascolta, devi prendere dal negozio di tuo padre tre zucchine belle grosse.» «Ma lo volete forse avvelenare? Mica poi se le mangia!» commentò Luciana. «No, non hai capito! Non sono per lui, quelle servono per l’auto.» replicai. «L’auto? Boh…» disse Maria. «Allora… non ci resta che infilarle nel tubo di scappamento, vedrete che l’auto non partirà più! Dobbiamo solo aspettare che Bernardi vada su in casa, e zacchete…» spiegai. Lauretta procurò le zucchine, e noi sul terrazzone aspettammo che Bernardi se ne andasse, lasciando l’auto tutta bella lucida, e soprattutto incustodita. «Svelto dai, spingi bén dentro la zucchina.» sollecitai Vittorio. «Bene, ecco, e ora infila anche la seconda.» «Guarda che è grossa, e non ci entra!» «Spingi pure ancora con più forza!» lo esortai. «Vedrai che adesso ci va!» Vittorio si tolse la scarpa, e con il tacco iniziò a martellarla ripetutamente. Entrò tutta, anche se si era un po’sfilacciata. «Ora basta! Non ne mettiamo più, che se ci vede Bernardi qui attorno sono guai!» suggerì Marzia. «Sì, sì, andiamo subito sul terrazzone a spiare.» convenne Andrea. Passò circa un quarto d’ora, e ritornò quel borioso con la divisa da vigile, per recarsi al lavoro. L’auto, che in principio sembrò mettersi in moto, emise poi dei suoni sordi, seguiti da un paio di botti, e il motore si arrestò. Lui scese e aprì il cofano, guardò, lo richiuse, riprovò, ridiscese e controllò ancora nel vano motore. «Porca puttana, ma che cos’ha? Fortuna che è nuova!» Non ci fu verso di avviarla. Il vigile quasi scaricò la batteria, tanto si accanì a girare la chiavetta dell’avviamento. Noi ci affacciammo cercando di non ridere. «Ehi, bambini! Dai, venite giù a darmi una mano a spingerla su per la rampa, che la porto dal meccanico.»


223 «No, no, che poi con le mani la sporchiamo.» rispose Vittorio. «Oh, vacca boia!» Per fortuna, arrivarono in aiuto il fabbro Santi e il suo aiutante, che spinsero l’auto per la breve salita, per portarla sulla via Emilia. L’epilogo di quella monelleria lo conoscemmo il giorno seguente, dal racconto che ci fece Lauretta poiché era presente, quando Bernardi entrò come una furia nel suo negozio. «Senta, Claudio, il suo scherzo cretino non mi è mica piaciuto, sa? Mi è anche costato cinquemila lire dal meccanico.» «Di quale scherzo sta parlando? Io non ho fatto nessuno scherzo, per caso sragiona?» «Sì, quello delle zucchine nello scappamento della mia auto. È forse invidioso?» «Invidioso io? Guardi che io le zucchine le vendo e basta! Poi io che cosa c’entro? Come se nessun altro potesse averne in casa, ma pensa te!» si difese il fruttivendolo. «Be’, per quel che mi riguarda, le sue zucchine se le può mettere anche su per il culo, ma non nella mia auto!» urlò il vigile. «Ma come si permette, brutto busone.» strepitò Claudio. «Il busone sarà lei!» Il vigile finì di offendere, perché prima che i due venissero alle mani intervenne la moglie di Claudio cercando poi di calmare entrambi. «Smettetela e comportatevi bene, non vedete che qui c’è una bambina? Ragioniamo da persone educate.» Gli animi si placarono. «Allora chi è stato?» interrogò il vigile. «Ah, non saprei, forse come ha detto lei prima, magari è stata una persona gelosa per la sua bella automobile, e so che tanti la invidiano. Io, di auto come la sua, sa quante me ne potrei comprare?» si vantò Claudio, e la moglie intervenne di nuovo: «Senta, signor Bernardi, ormai il guaio è fatto, l’auto l’ha riparata e i soldi del meccanico a questo punto glieli rendo io, anche se mio marito non c’entra nulla, e la finiamo lì!» «Grazie, ma io non ho proprio bisogno dell’elemosina di nessuno!» Se ne andò sbattendo la porta del negozio così forte da far tremare l’intera vetrina.


224 Sapemmo che il vigile non si rassegnò molto presto, e continuò a dar la caccia al colpevole con domande, insinuazioni e a volte ingiurie, però non scoprì mai l’artefice di quella burla. Noi bambini, contenti di aver fatto imbestialire quel presuntuoso, sospendemmo le nostre monellerie per qualche tempo. Questa fu purtroppo l’ultima burla del branco dell’anno 1959, e con quella, chiudo il diario dei ricordi dei miei primi dieci anni. E gli anni successivi? Be’, poi vedremo…


225 INDICE QUANDO SI ANDAVA IN TOPOLINO .................................................. 1 PREFAZIONE ..................................................................................... 5 MAGGIO 1949 .................................................................................. 6 ESTATE 1952 ................................................................................... 7 CHE ANNO MEMORABILE IL 1953! .................................................. 18 VIA AURELIO SAFFI, 81 I PIANO .................................................... 22 MAGGIO 1953 ................................................................................ 24 PALAZZO – TERRAZZONE E CORTILONE .......................................... 29 INIZIAZIONE ................................................................................... 36 LE STORIELLE DI UMBERTO ........................................................... 41 CHIACCHIERE ................................................................................. 43 ANNO 1954 .................................................................................... 46 1955 SESTO COMPLEANNO LA MILLE MIGLIA .............................. 50 ANNO 1955-1956 SCUOLA MATERNA E PRIMA ELEMENTARE ...... 56 ESTATE 1956 ................................................................................. 60 UNA STRANA COPPIA ..................................................................... 64 NOVITÀ .......................................................................................... 68


LA RACCOLTA DEL FERRO .............................................................. 72 SPIANDO… .................................................................................... 76 1957 GIUGNO ANZOLA DELL’EMILIA, FESTA DEI SANTI PATRONI 79 GIUGNO 1957 – SECONDA VACANZA IN COLONIA .......................... 85 IL CONTE – LUGLIO-AGOSTO 1957 VACANZA AL CASTELLO, QUANDO SI ANDAVA IN TOPOLINO ................................................. 90 SETTEMBRE 1957˗ RITORNO IN CITTÀ .......................................... 108 1957 AUTUNNO ........................................................................... 110 IL PREZIOSO TUBERO .................................................................... 117 SCHERZI INNOCENTI… ................................................................. 119 CLASSE SECONDA ELEMENTARE .................................................. 132 NOVEMBRE .................................................................................. 134 4 DICEMBRE SANTA BARBARA .................................................... 137 NATALE ED EPIFANIA .................................................................. 143 ANNO 1958 .................................................................................. 145 PESCE D’APRILE ........................................................................... 162 CATECHISMO E SACRAMENTI – GIUGNO 1958 ............................. 166 ESTATE 1958 ............................................................................... 172 OTTOBRE – DICEMBRE 1958 ........................................................ 179 ANNO 1959 .................................................................................. 189 PASQUA ....................................................................................... 197


227 SÌ, GLI SCHERZI CONTINUANO… .................................................. 204 TRISTEZZA ................................................................................... 206 ESTATE 1959 ............................................................................... 209 IL FANTASMA DEL CONTE ............................................................ 215 OTTOBRE 1959, 4° ANNO DELLA SCUOLA ELEMENTARE .............. 219


229 AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 1.000” per tutti i generi, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2023) www.0111edizioni.com Ai primi 3 classificati verrà assegnato un premio in denaro pari a un totale di 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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