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Published by goroiamanuci, 2023-02-21 10:13:57

Lex Arcana - Italia

Lex Arcana - Italia

97 ARCANA SATURNIAE TELLURIS 3 Il portentoso rimedio. Un padre accompagna al tempio una bambina evidentemente debole e malata a fare un sacrificio alla dea per invocarne la guarigione. Mentre si dirigono verso la sommità, la conforta mostrandole un vasetto di terracotta: dice che l'ha appena comprato e che anche quello l’aiuterà a guarire. Se i Custodes si informano rivela che si tratta di miele ibleo (vedere pag. 102), che un commerciante in città vende a caro prezzo. 4 Giocando sulla riva.Una ragazzina adolescente giocherella sulla riva con della cera. L’acqua è calmissima. La fanciulla è in realtà in grado di effettuare un rituale di Ceromanzia (vedere pag. 166), che le ha insegnato l’anziana nonna, e si offre di farlo a chi le è simpatico chiedendo magari in cambio un favore o un regalino. Effettuato il rituale si tuffa in acqua per recuperare la cera, non senza prima aver chiesto agli eventuali uomini presenti di allontanarsi per potersi spogliare lontano da sguardi indiscreti. 5 La processione dei contadini. Un rumoroso corteo di contadini e loro familiari giunge al santuario recando offerte di grano, verdura e frutta di stagione. Viene a ringraziare la dea per la fertilità di campi e orti, che mantiene prospere le loro famiglie. 6 L’anziana mendicante. Una vecchia cenciosa e sporca cerca di afferrare il braccio di un Custos per farsi dare qualche moneta. Se maltrattata o comunque non soddisfatta, potrà lanciargli il malocchio (nei suoi prossimi tre lanci di dadi, quello con più facce verrà girato dal Demiurgo a indicare il risultato peggiore; se più dadi avranno lo stesso numero di facce, il Demiurgo sceglierà quello che ha ottenuto il risultato migliore). 7 Il generoso vino di Sicilia. Un possidente del posto, accompagnato da due schiavi viene a ringraziare la dea per avergli fatto la grazia di un nipote, nato felicemente dopo un parto difficile. Offre l’ottimo vino da lui prodotto a tutti i presenti. Se i Custodes non dicono esplicitamente di voler bere poco o di astenersi, vincendo le insistenze dell’uomo, devono superare un tiro di Vigor (SD 9) o finiranno per eccedere e risultare sonnolenti per 1d3 ore, con un temporaneo abbassamento di 2 punti di Coordinatio, Ingenium, Ratio e Sensibilitas. 8 Un pericolo inaspettato. All’improvviso, c’è un fuggi fuggi generale tra i fedeli: dentro il sacrario è apparsa all’improvviso una coppia di Dipsas (vedere pag. 198). I Custodes devono decidere se intervenire o fuggire a loro volta. 9 Un uomo rovinato. Un patrizio che possiede una vasta tenuta nei pressi di Ibla Minore, lungo il fiume Gela, a sei ore di cammino più a sud di Henna, è venuto a chiedere all’oracolo come risolvere la siccità che sta seccando i suoi campi e frutteti, allargandosi a macchia d’olio di giorno in giorno. L’oracolo dà indizi che indicano inequivocabilmente i Custodes. Se essi accetteranno di aiutarlo, li condurrà nella sua sontuosa villa ornata di mosaici raffinati. Il problema è dato da una Salamandra (vedere pag. 207), che si è insediata in un fosso tra due campi. Se la elimineranno, la gratitudine dell’uomo sarà fortissima. 10 Il possente amuleto. Un uomo dall’aria dimessa lamenta di non avere di che sfamare la sua famiglia ma di avere un possente amuleto che protegge i viaggiatori da ogni sventura, placando le bufere e tenendo lontani gli animali selvaggi purché lo si alzi al cielo stringendolo nella mano destra. A guardarlo sembra solo una vecchia moneta greca, consunta dal tempo e bucata per farci passare un nastro di cuoio da appendere al collo. È disposto a cederlo a qualche pellegrino per un pugno di sesterzi. In verità, è davvero una vecchia moneta che non possiede alcun potere.


98 ARCANA SATURNIAE TELLURIS I REGNI DI ANTICHE DEE Diverse regioni d’Italia sono caratterizzate dal fatto che qui sono ancora vivi i culti di antiche divinità femminili. Sono dee che hanno duplice aspetto di madri benevolenti ma anche di signore di poteri antichi e terribili. I BOSCHI DI VACUNA Il culto di Vacuna nacque nelle regioni dominate da Osci, Umbri e soprattutto Sabini e fu portato a Roma dal re Numa Pompilio, che era appunto di stirpe sabina. Fu molto onorata anche dall'Imperatore Vespasiano che era nativo di Reate: proprio nei boschi attorno a questa città si concentrava il culto della dea Vacuna. Ã VACUNA LA SILENZIOSA Vacuna è una dea sfuggente e difficile da identificare e descrivere. Gli Auguri hanno cercato di inserirla in una categoria definita di divinità, benevola o malevola, ma senza riuscirci. Viene perciò defininita incerta specie, "di un tipo indefinito". Il suo nome d'altra parte è associato al vuoto (vacuum) e all'assenza (vacatio). Lo storico Tacito l'amava molto per via di una certa assonanza tra il proprio nome e un soprannome della dea: la definiva infatti "Tacita perché silenziosa, incorruttibile, intelligibile". Il silenzio della dea è in gran parte dovuto ai molti misteri che ella custodisce. Non ama grandi santuari o culti rumorosi ma preferisce essere venerata nel silenzio dei boschi e nei corsi d'acqua che sussurrano. Vacuna è spesso considerata una divinità materna, ma come una madre può dare la vita e la morte. Dove ella si manifesta c'è la vita, dove ella resta invisibile c'è la morte. È anche una divinità della guerra, ma non perché ne prenda parte attivamente: accompagna gli uomini in guerra e poi accoglie i vincitori nella gloria e accompagna i morti nell'Oltretomba. Il culto di Vacuna è spesso ambivalente: c'è chi la prega come dea benevola e chi la maledice in silenzio perché portatrice di morte. Ã L'ISOLA CHE C'È E NON C'È Tra i tanti luoghi di culto di Vacuna ve n'è uno veramente inconsueto. Si tratta infatti di un'isoletta al centro del Lacus Cutiliensis, non lontano da Reate. Siamo in prossimità della cittadina di Tiora il cui tempio di Marte annoverava, a quanto narrano Donigi e Varrone, un insolito oracolo che si esprimeva attraverso un picchio dalla cima di una colonna di legno. In questo non era dissimile dall’oracolo di Dodona, in cui a vaticinare era una colomba dalla cima di una quercia sacra. Ma questi prodigi sono assai poca cosa, rispetto a ciò che sto per narrarti. TROVARE IL TEMPIO INVISIBILE DI VACUNA Si dice che i riti di divinazione eseguiti nel tempio di Vacuna diano indicazioni esatte a qualunque richiesta, anche la più difficile e su argomenti proibiti o dimenticati o misteriosi. Tuttavia si dice anche che sia impossibile trovare questo tempio. Nessuno, infatti, l’ha mai visto nonostante tutti i testi antichi testimoniano che esso si trovi al centro del lago Cutiliensis, sull’isola che va e viene. Qualcuno sostiene dunque che non esista né l’uno né l’altra. La prova è data dall’esperienza. Inutile fissare il centro del lago, o recarsi là con una barca: non si vede nulla e anzi, si rischia di cadere in acqua travolti da correnti misteriose. Altri invece pensano che isola e tempio siano visibili nelle notti di luna nuova, nel buio più assoluto, a chi sappia come guardare. Gli antichi documenti conservati presso il Collegio dei Pontefici suggeriscono di applicare questo procedimento. Bisogna accendere quattro fiaccole sulle rive del lago, collocate a croce nella posizione dei quattro principali punti di orientamento celeste: si comincerà accendendo una fiaccola sulla riva ovest, poi si collocherà quella simmetrica e opposta sulla riva est, poi quella a sud e infine quella a nord. Bisogna, insomma, tracciare il sacro schema del templum, come fanno gli Auguri quando vogliono trarre gli auspici nel cielo. Essendo il lago piuttosto piccolo, le fiaccole saranno ben visibili nella notte da qualunque posizione. Quando la notte sarà nel punto più scuro, il riflesso di ogni fiaccola che dalla riva si allunga verso il lago incrocerà quello delle altre tre, formando una croce luminosa sulla superficie scura dell’acqua. All’incrocio, nella posizione del “mundus”, la fossa sacra al centro di ogni schema del templum, si potrà intravedere un vuoto, un’assenza. È l’isola, che assorbe la luce e si rivela solo come un’interruzione nella scia delle fiaccole. Raggiungendo questo punto in barca si potrà mettere piede sull’isola. È assolutamente proibito accendere luci, pena la scomparsa dell’isola e probabilmente anche dei visitatori che si trovano su di essa. Al centro dell’isolotto si troverà un tempietto rotondo, un’ombra persino più scura del cielo privo di luna. Si potrà dunque entrare e compiere riti di Divinazione, che avranno la difficoltà abbassata di 1 livello se il rito delle fiaccole è stato eseguito correttamente.


99 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Le antiche leggende raccontano che attorno a questo lago fu stretta un'alleanza tra gli Aborigeni, i mitici primi abitanti d'Italia, e i Pelasgi, che vi arrivarono dall'est. Il lago a quei tempi era vuoto, e nessuna isola vi galleggiava. I Pelasgi, come era loro antico costume, cominciarono a fare sacrifici a Plutone gettando nel lago i prigionieri presi con la guerra. Si credeva, infatti, che questo lago fosse uno degli ingressi per il mondo dell'Oltretomba. La dea Vacuna, oltraggiata da questo comportamento e da tanto inutile spargimento di sangue, comandò di smettere queste pratiche e di sostituire la "luce" delle esistenze che venivano spente nel sacrificio con "luci" vere. Pelasgi e Aborigeni quindi fecero la pace e lasciarono andare sul lago delle lucerne galleggianti. Queste si arenarono al centro del lago sulle spiagge di un'isola fino a quel momento invisibile. Su di essa fu costruito un tempietto. Da allora l'isola va e viene, appare e scompare. Ormai da molti secoli è invisibile agli occhi, e anche coloro che hanno solcato il lago in barca testimoniano di non averla trovata. Eppure nelle notti senza luna, nel silenzio, si possono vedere molti lumini percorrere l'acqua e arenarsi al centro del lago. Al mattino tutto è scomparso. IL SANTUARIO DI CUPRA LA ROSSA Sulla costa adriatica del Picenum, nel territorio di Cupra Maritima, si trova il santuario della dea Cupra. Le origini di questo luogo di culto sono tanto antiche che si ritiene sia stato fondato dai mitici Pelasgi. L’ANELLO DI CUPRA Nelle regioni in cui è diffuso il culto di Cupra è molto popolare un amuleto eseguito nel metallo caro alla dea, il rame. Si tratta di un anello che a intervalli regolari ha un inspessimento, un “nodo”. Ogni anello ha sempre sei nodi. Gli anelli hanno un diametro simile al quello di un bicchiere, non si portano al dito ma neanche al braccio. Le donne li portano infilati nella cintura che cinge la vita. Questo ha portato a pensare che fossero antichi amuleti per la fertilità femminile, ma un osservatore più attento noterà che li portano anche gli uomini, spesso più di uno. I possessori di un anello, uomini e donne, lo fanno spesso girare tra le dita, toccando con il pollice un nodo dopo l’altro: sembra un gesto meccanico, un’abitudine senza importanza. Tuttavia osservatori attenti hanno notato che mentre eseguono questi gesti i proprietari degli anelli muovono leggermente le labbra, quasi pronunciassero veloci parole. Si tratta di qualche incantesimo? Magari un semplice esorcismo contro il malocchio? Gli studiosi pensano che questi anelli possano “vincolare” l’essenza vitale di una persona al corpo. Ciò dovrebbe ostacolare i processi naturali che portano alla morte indebolendo il corpo: malattie, fame, sete o stanchezza, ferite. Qualcuno si spinge a ipotizzare che gli anelli di Cupra potrebbero addirittura rallentare la vecchiaia. Ogni nodo avrebbe una specifica qualità, quindi gli anelli di Cupra sarebbero amuleti molto potenti. Gli abitanti del luogo ridono di queste teorie. Sono ornamenti tradizionali, dicono, semplici gioielli che si tramandano nelle famiglie. Il santuario di Cupra, in effetti, sostiene che simili amuleti non si producono più. Sono frutto di arti molto antiche oggi perdute. È difficile credere del tutto a questa informazione: alcuni anelli visibili sulle vesti dei locali sembrano di nuova fattura. Per giunta, praticamente tutti ne indossano uno. Sono veramente tutti risalenti agli antichi secoli prima di Roma? È possibile tuttavia chiedere a una sacerdotessa una speciale benedizione, legata ugualmente a una specie di anello: la sacerdotessa avvolge con un elaborato rituale un filo di rame attorno al polso del richiedente, ottenendo infine un braccialetto sigillato con sei nodi equidistanti. In termini di gioco, il braccialetto impedisce che l’anima di chi la indossa possa essere catturata (per esempio, a causa del potere magico Risucchio dell’Anima) per un numero di volte pari ai nodi ancora presenti su di esso (ogni volta che un effetto simile è stato prevenuto, uno dei nodi si scioglie). Le sacerdotesse di Cupra acconsentiranno alla creazione di un solo braccialetto di questo tipo per ciascun richiedente.


100 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Ã PROTETTRICE DEL SANGUE Cupra è un’antica dea, grandemente amata in tutta la regione e in quelle limitrofe. Poiché molti sono i popoli che la venerano fin dai tempi più antichi essa ha molti nomi: Cupra è quello corrente, in lingua latina, mentre Kubrar è il nome che le davano gli Umbri, Ikiperu i Piceni, Kupra per i Sabini. È una dea della terra, signora di ciò che dimora nel sottosuolo e pertanto le sono sacre le sorgenti sotterranee e i minerali. In particolare si manifesta nella potenza del sangue, che scorre nascosto all’interno del corpo dando vita agli esseri viventi. È rappresentata simbolicamente dal rame, il metallo rosso nascosto nelle viscere della terra. Con questo metallo si confezionano speciali amuleti, detti “anelli di Cupra” (vedere riquadro), e le lamine su cui i fedeli incidono le suppliche alla dea. Queste ultime vengono soprattutto dalle donne: poiché Cupra cura tutte le malattie legate al sangue, veglia anche sul flusso mensile delle donne e sulla salute femminile in generale. Ã LA CONFOEDERATIO PICENA Il più grande santuario dedicato a questa dea sorge su un’alta rocca nel territorio dei Piceni e guarda il mare Adriaticum. La fondazione di questo luogo sacro è perduta nelle nebbie del tempo. Si dice, infatti, che fu fondato dai Pelasgi, gli antichi progenitori degli Etruschi, per i quali fu sempre luogo sacro. Divenne però un luogo di capitale importanza per il popolo dei Piceni, un centro non solo religioso ma anche commerciale, tanto che i Greci che navigavano sull’Adriatico lo chiamavano “emporion”, luogo di commercio. Pur essendo diviso in tante piccole tribù, l’astuto popolo dei Piceni si rese conto che la divisione lo avrebbe reso vulnerabile nei confronti delle possenti popolazioni circostanti, primi tra tutti i Galli. Solo unite le tribù, sarebbero state in grado di resistere e prosperare. Istituì così una federazione delle tribù picene, la Confoederatio Picena. Ciascuna tribù manteneva il proprio capo e libera di decidere del proprio destino ma in caso di guerra o minacce si riunivano tutte sotto la guida di un solo condottiero comune. Il luogo in cui le tribù si incontravano periodicamente o in caso di decisione comuni fu sempre il santuario di Cupra. È da notare che con questo accorgimento i Piceni resistettero all’avanzata dei Galli dal nord e alle pressioni degli Etruschi da ovest. Una volta venuta a contatto con Roma, la Confederazione decise molto saggiamente di allearsi con la nuova potenza. Per questo la Confederazione non fu mai distrutta con la violenza della guerra ma fu assorbita senza traumi nel nuovo assetto politico. LE QUERCE SACRE DI MARÌCA Questa dea fu a lungo onorata dalle antiche popolazioni del Latium, soprattutto dagli Aurunci. Le antiche tradizioni la vogliono sposa del dio Fauno e madre del re Latino, dal quale dopo molte generazioni discesero i gemelli Romolo e Remo. Marìca quindi è un’antica progenitrice di Roma anche se il suo territorio si stendeva molto più a sud dell’Urbe. Marìca è una dea legata all’acqua: il suo nome contiene un’antica parola, mara, che indica le paludi. Protegge le creature selvagge dei boschi e detesta la caccia. Viene raffigurata vestita di veli e coronata di fiori, spesso sulla sponda di un fiume. Ã LA PALUDE SACRA Il principale santuario di Marìca sorge ancora sulla riva nord del Liris, il fiume che divide il Latium dalla Campania, a poche centinaia di piedi dalla foce. L’entrata del tempio è rivolta verso il corso d’acqua, da cui è separata solo da pochi gradini che costituiscono un approdo. È l’unico accesso, quindi ci si deve recare al tempio in barca. La zona circostante è cosparsa di acquitrini e aree paludose ed è meglio avere una guida locale per arrivarvi senza perdere tempo a individuare la via d’acqua giusta. Il tempio è ornato da colonne di tufo, materiale tipico della zona laziale, e ha mantenuto nei secoli il suo aspetto rustico e antico. I sacerdoti di Marìca hanno sempre rifiutato abbellimenti e aggiunte di marmi bianchi provenienti da luoghi lontani. Solo dopo un grave danneggiamento hanno accettato alcune riparazioni eseguite in travertino, ed esclusivamente perché è un marmo locale. Il tempio è corredato di un altare esterno, proprio sull’approdo delle barche: esso non viene utilizzato per sacrifici tradizionali poiché sull’ara di Marìca si bruciano solo erbe odorose o si accendono candele profumate eseguite con la più pura cera d’api. Ã IL LUCUS MARICAE Il vero luogo di culto di Marìca, tuttavia, fu in origine il bosco (lucus) di querce posto sulla riva sud del fiume Liris, la riva opposta al tempio. In questo bosco, la dea veniva onorata con l’offerta di corone di fiori appese con nastri colorati ai rami delle querce, oppure appendendo un piattino contenente primizie di fiori o frutti. Le venivano anche offerte statuine di terracotta, gettate nelle acque del fiume. I riti si compiono ancora nel bosco, che è coperto anche da stringenti divieti religiosi: tutto ciò che è dentro non può uscirne, perciò è vietato raccogliere la legna degli alberi anche se cade spontaneamente. Non si possono uccidere o ferire gli animali. Anche raccogliere erbe è vietato. L’unica eccezione si verifica nel giorno della festa della dea, quando i sacerdoti tagliano alcuni rametti con dei falcetti d’argento, li cospargono di oli profumati e li consegnano ai fedeli. Questi li portano attraverso il bosco seguendo in processione la statua della dea. Finita la festa, i fedeli portano nelle proprie case i rami benedetti e li bruciano sugli altari domestici per avere la protezione divina lungo tutto l’anno a venire. Ã IL SIGILLO DI MARÌCA Per questo speciale divieto di asporto il bosco di Marìca è utilizzato anche per custodire cose che si vogliono tenere segrete per sempre. Qua e là nel bosco si possono infatti notare casse di legno, o vere e proprie casseforti, oppure semplici ceste appoggiate accanto al tronco di un albero possente. Su ciascun oggetto compare il sigillo di Marìca, una foglia di quercia impressa sulla cera calda che i sacerdoti colano sulla superficie.


101 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Chiunque può depositare un oggetto nel bosco sacro. I sacerdoti non chiedono mai cosa contengono le casse, né vogliono vedere gli oggetti: queste cose saranno custodite per sempre da Marìca e nessuno potrà mai portarle via senza essere colpito dalla maledizione della dea. Questa speciale tutela, tuttavia, non è senza conseguenze. Bisogna essere ben consci che una cosa depositata nel bosco di Marìca non potrà più essere recuperata neppure dal legittimo proprietario. Inoltre, il divieto di asporto non impedisce che gli oggetti non possano essere visti da altri. Chiunque, aggirandosi nel bosco, può esaminare gli oggetti che eventualmente incontri nel cammino. Pertanto qualcuno preferisce collocare gli oggetti in cavità dei tronchi o tra i rami, se le dimensioni lo consentono, fuori dalla vista di qualunque visitatore. È necessario quindi appuntarsi molto bene il punto in cui l’oggetto è stato lasciato, per ritrovarlo e verificare nel tempo che nessuno lo abbia toccato. Marìca punisce tutti i trasgressori allo stesso modo, sia che venga sottratta una foglia che una corona d’oro. REITIA, SIGNORA DELLE CHIAVI Questa dea è venerata da tempo immemore dalle popolazioni di Venetia e Histria. Ella è una signora della natura e degli animali ma soprattutto è una dea “clavigera”, cioè portatrice e custode di chiavi. La più nota delle clavigere è certamente Ecate, signora della soglia, custode del passaggio tra il nostro mondo e quello infero. Ma altri ce ne sono: Giano, che guarda avanti e indietro e presiede al passaggio tra il passato e l’oggi; Sol, che apre la porta al giorno ogni mattina; Luna, che fa lo stesso con la notte. Reitia fa eccezione rispetto alle divinità che ho appena elencato poiché ella possiede diverse chiavi. Presiede infatti alla prima porta, la nascita, e poi apre o chiude davanti agli esseri umani le porte del destino. Con il suo intervento si costruisce il cammino dell’esistenza: Reitia ci fa imboccare un passaggio invece di un altro, poi un altro ancora e un altro ancora. Nel corso della nostra vita moltiplica di continuo le possibilità a nostra disposizione. Reitia è raffigurata con un costume assai particolare, piuttosto simile alle antiche dee cretesi: indossa un corpetto attillato ricamato con animali. Dalla vita scende una rigida gonna che si allarga verso i piedi, sulla quale è legato un ampio grembiule anch’esso ricamato. Sulla testa porta un’acconciatura a cono che sembra un cappellino ma è realizzata attorcigliando i capelli. Ã LA PERDUTA SAPIENZA DELLE PORTE Reitia era servita da una classe sacerdotale di sole donne, che passavano la vita a studiare e che possedevano la sapienza necessaria a utilizzare una speciale magia che si compiva attraverso le parole scritte. Quella particolare conoscenza rendeva possibile tracciare formule magiche per “aprire” e “chiudere” le porte dell’esistenza, manipolando il futuro. Le sacerdotesse esistono anche oggi, tuttavia hanno dimenticato l’antica arte. Oggi possono solo compiere sacrifici tradizionali come in ogni altro tempio dell’Impero, accendendo fuochi rituali sugli altari e sacrificando vittime sui sacri fuochi. Sono sempre assai studiose e sapienti, accettano studenti e studentesse che vogliano apprendere a servire la dea ma parlano, scrivono e leggono solo il latino. Nessuna è più in grado di scrivere, leggere e interpretare le antiche formule, e meno che mai crearne di nuove. Il futuro è sigillato e nessuno può più interferire. O almeno questo è ciò che oggi sostengono le sacerdotesse di Reitia. Ã LA SCRITTURA SACRA Secondo gli antichi veneti Reitia inventò la scrittura. In effetti queste antiche popolazioni avevano un proprio alfabeto ben prima di molti altri popoli italici, perciò si diffuse la leggenda che avessero ricevuto questo dono direttamente da una divinità. Da circa quattro secoli, comunque, nessuno usa più non solo l’alfabeto veneto ma neppure la lingua. Essendo questa, così si dice, affine al latino è stata del tutto assorbita nella parlata comune. Si dice anche che sulle montagne della Venetia qualcuno ancora ricordi qualche parola di antica lingua, ma non ci sono prove sicure. Scomparsa la lingua, a maggior ragione ne è scomparso l’alfabeto, ASPORTARE OGGETTI DAL BOSCO DI MARÌCA Chi volesse rubare un oggetto dal bosco andrebbe incontro a una forte Maledizione che lo perseguiterà a lungo: oltre a subire la condizione Maledetto, la difficoltà dei tiri di De Natura del trasgressore aumenterà di un livello e nei pressi di specchi d’acqua rischierà più spesso di cadervi e affogare, come se ne fosse attratto da una forza magnetica. Tutto questo finché il sacrilego non riparerà rimettendo a posto l’oggetto sottratto e con un sacrificio riparatore. Si può chiedere alla dea il permesso del tutto eccezionale di asportare un oggetto temporaneamente, ma solo per il tempo necessario a uno scopo ben preciso e comunque per non più di un mese e un giorno. Occorre fare un sacrificio bruciando erbe rare e preziose mentre si espone esattamente il motivo per cui lo si desidera, che deve essere onesto e altruistico. La dea soppesa la richiesta e risponde con segni nel fumo delle erbe che solo i suoi sacerdoti sanno interpretare. Spesso è un diniego, altrettanto spesso un permesso condizionato però prima a un servigio che prende forma di una missione spesso volta a ristabilire l’equilibrio naturale in un qualche luogo ove esso è stato turbato. Al Demiurgo giudicare se consentire o meno, ed eventualmente stabilire il genere di incarico che la dea affiderà ai richiedenti.


102 ARCANA SATURNIAE TELLURIS ormai soppiantato dal nostro. Questo non sarebbe un problema se all’antico alfabeto venetico non fossero legati i riti di apertura e chiusura delle porte del futuro e i famosi amuleti detti “chiavi di Reitia” (vedere pag. 182). Se perduti sono i riti, infatti, gli amuleti sono ancora piuttosto diffusi. Non si capisce però né a cosa servano né come attivarli. Il Collegio degli Auguri ritiene assai importante comprendere il potere legato a questi antichi amuleti e sta cercando di ricostruire alfabeto e lingua venetica. Alcuni studiosi ritengono che l’alfabeto venetico somigliasse un poco all’antico etrusco. Purtroppo l’etrusco è ormai del tutto scomparso, sia come lingua che come alfabeto. È quindi impossibile basarsi su questo per ricostruire l’alfabeto venetico. Anzi, si creano oggi molte confusioni, poiché non resta quasi più nessuno che parli né l’una né l’altra lingua e eventuali iscrizioni nei due alfabeti vengono attribuiti ora all’uno, ora all’altro linguaggio, che sono del tutto diversi tra loro. Si continua dunque a cercare qualche traccia più certa su cui basare gli studi sulle chiavi di Reitia ma stranamente nessun dato utile è mai provenuto dai templi, anche molto antichi, in cui ancora si venera questa dea. LE API DI HYBLAEA Sulla costa orientale della Sicilia, tra Catana e Syracusae, si trovava una città che anche sotto il dominio di Roma mantenne un nome greco, Megara Hyblaea, “la grande Hyblaea”. È il ricordo di un’antica dea locale, Hyblaea appunto, che le genti di queste terre non hanno mai dimenticato. La città andò distrutta nelle guerre che combattemmo contro Carthago e mai più ricostruita. Ma il ricordo della dea fu mantenuto in tutta la regione e sui monti che la circondano, detti, infatti, monti Iblei. Hyblaea era una dea della fecondità che i primi coloni greci giunti dall’Achaia identificarono con Afrodite, la nostra Venere. Anche nelle nostre tradizioni si parla della famosa Venere Iblea, associata alla ricchezza e alla piacevolezza di questa terra siciliana. L’antica Hyblaea però aveva altre caratteristiche che i Greci trascurarono di considerare. La dea siciliana era una “Pòthnia thèron”, una signora degli animali selvaggi. Il suo potere dominava tutta la sfera animale e aveva una speciale signoria sulle api, le piccole creature che, volando di fiore in fiore, spargono il polline e rendono possibile la produzione di frutti. In questo senso è effettivamente una dea della fertilità. La dea è da sempre rappresentata mentre regge nella mano destra un fascio di spighe e nella sinistra una fiaccola. Ã IL CORTEO DELLE API Nelle tre notti a cavallo delle kalende di aprile si celebra la grande festa di Hyblaea. In tutta la regione si allestiscono canti e danze e vengono “sacrificate” alla dea delle speciali focacce al miele. Le focacce sono anche consumate in famiglia e regalate agli amici. Sono preparate con il miele ibleo, rinomato in tutto l’Impero fin dall’antichità. Il miele viene prodotto in un modo inconsueto. Nelle giornate di festa i sacerdoti si incamminano attraverso i campi in fiore seguiti da un immenso, pulsante corteo di api. I sacerdoti usano antichi strumenti di bronzo che, percossi in un modo speciale, producono dei ronzii che richiamano le api da tutta la regione. Durante la processione le api si tuffano via via nei meravigliosi fiori che trovano sul cammino, grazie ai quali producono un miele speciale. Nei mesi successivi esso viene imbottigliato dai sacerdoti in vasetti grandi come una mela e conservato per curare chiunque ne faccia domanda. Dietro una modesta donazione i sacerdoti consegnano ai fedeli dei vasetti di miele con il sigillo di Hyblaea, una piccola ape. Il miele ibleo somiglia per certi versi a quello prodotto sul monte Imetto in Achaia: ha proprietà curative sia puro che mescolato in varie preparazioni medicinali e cosmetiche. È contraddistinto da un forte aroma di timo, pianta sacra a Hyblaea che cresce abbondante nella piana da lei dominata. MELIS HYBLAEUS MIELE IBLEO Benché sia un prodotto interamente naturale e non una preparazione medicamentosa è considerato dalla popolazione iblea un farmaco buono per tutti i mali, sia modesti che più gravi. Per gli strati più bassi della popolazione è spesso l’unica medicina a cui possano mai avere accesso. Si tratta essenzialmente di un ricostituente naturale e ha un forte effetto antinfiammatorio e purificante. Il miele ibleo è molto viscoso, di colore chiaro e con un forte profumo di timo, e viene soprattutto utilizzato come integratore per evitare gli effetti debilitanti più gravi della denutrizione e delle malattie (+1 ai risultati dei tiri di Vigor contro questi effetti). In questo senso è utile anche per sostenere chi debba sottoporsi a lunghe marce con poco cibo a disposizione. La dose adatta per questi malanni è un cucchiaio da tavola al giorno, ma la povera gente spesso riduce la dose a un cucchiaino per far durare il miele più a lungo, rendendo meno efficace l’effetto. Il miele ibleo è anche adatto a un uso esterno: applicato sulle ferite ne evita la cancrena e ne favorisce la cicatrizzazione (il Custos può segnare la casella Cura senza effettuare tiri di Primo Soccorso). Il miele costa circa un sesterzio per vasetto presso il tempio di Hyblaea; tra i 5 e i 10 sesterzi nella zona iblea; tra i 50 e i 100 in Sicilia; sopra i 200 nel resto dell’Impero.


103 ARCANA SATURNIAE TELLURIS LE TERRE DEI LUPI Nel cuore dell'Italia vi sono diversi popoli che dicono di incarnare lo spirito del lupo. Essi fanno risalire le loro origini a questi animali che rappresentano valori guerreschi, ma non solo. Il lupo, infatti, è certamente un animale pieno di forza, aggressivo e combattivo, tuttavia sa vivere in branchi con una gerarchia che ricorda quella delle comunità umane. Ha abbondanza di cuccioli e quindi simboleggia la fertilità. Si occupa dei piccoli e sa proteggere i deboli, intraprende lunghe marce per mettere al sicuro la propria comunità. Non a caso Roma esiste solo perché una lupa volle allevare e proteggere i nostri fondatori, i gemelli Romolo e Remo. Poiché le caratteristiche del lupo sono sia positive che negative, anche i popoli che discendono in un modo o nell'altro da questo animale riflettono le stesse qualità. Alcuni sono pacifici e devoti agli dèi buoni, altri sono aggressivi e seguono divinità oscure. HIRPINIA Questa terra prende il nome dalla popolazione degli Hirpini, in origine facente parte della grande famiglia sannitica. Gli Hirpini si distaccarono dai Sanniti con il rituale del ver sacrum, la “primavera sacra”. Migrarono dunque seguendo un animale-guida, il lupo. Il nome Hirpini deriva da hirpus, che nell’antica lingua di quel popolo vuol dire “lupo”. Il grande storico greco Strabone considerava gli Hirpini i più grandi guerrieri d’Italia. La verità di questa affermazione è stata provata dalla fatica con cui Roma debellò questo popolo nel corso delle guerre Sannitiche. Gli Hirpini, anzi, furono gli ultimi a deporre le armi e non per propria decisione ma solo perché non vi erano rimasti più guerrieri per imbracciarle contro di noi. Gli Hirpini, dunque, tecnicamente non si sono mai arresi a Roma. Ã IL COVO DEL LUPO Nella notte dei tempi, alcuni figli della primavera sacra dei Sanniti scelsero come animale-guida il lupo e cambiarono il loro nome in Hirpini, i figli del lupo. Nel loro pellegrinaggio si recarono verso i monti, luoghi quanto mai adatti a questi animali, anziché in pianura come avrebbero fatto altre popolazioni. Il più antico insediamento degli Hirpini, dunque, va riconosciuto in quella che oggi è la cittadina di Aeclanum, a circa 18 miglia a sud est di Beneventum. È una zona assai montuosa e Aeclanum controlla l’unico passo che consente l’attraversamento delle montagne. La via Appia passa proprio attraverso il centro abitato. Questa disposizione fa sì che Aeclanum sia costantemente presidiata da un contingente delle nostre truppe che assicurano che il passo sia sempre accessibile. Poiché da qui passano tutti i convogli che si recano in Campania, Aeclanum è sede di un piccolo ma ricco mercato. Tutt’intorno, invece, si trovano montagne coperte di foreste impenetrabili dove la civiltà sembra solo un pallido ricordo. Chi lascia la cittadina per dirigersi sulle montagne si troverà subito perduto in un intrico di rami che impediscono di vedere la luce del giorno. Di notte gli ululati dei lupi risuonano nelle selve e spesso la nebbia avvolge gli alberi rendendo difficile comprendere la direzione da cui arriva la minaccia. Queste sono le terre dei lupi nel senso più ampio. Non soltanto questi animali selvaggi percorrono indisturbati le foreste, ma la leggenda vuole che gli abitanti stessi siano in grado di tramutarsi in lupi (vedere riquadro). IL RITO DEL VER SACRUM Questo antico rito fu celebrato in tempi antichissimi da tutti i popoli mediterranei in periodi di grandi difficoltà, come una carestia o un’epidemia. Veniva richiesto l’aiuto degli dèi promettendo in cambio di dedicare in sacrificio tutte le primizie del popolo, cioè i primi frutti della terra e i primi nati degli animali della seguente primavera, considerata un ver sacrum, cioè una “primavera sacra”. In periodi particolarmente gravi si promettevano anche i bambini nati nello stesso periodo, che non venivano però letteralmente sacrificati. Venivano considerati sacrati, consacrati a compiere un’impresa per celebrare gli dèi una volta divenuti adulti. Vent’anni dopo la dedica, quindi, i giovani nati nella primavera sacra (maschi e femmine) lasciavano la comunità di origine per andare a fondare un nuovo popolo. In questa coraggiosa impresa erano guidati da un animale sacro che da quel momento in poi sarebbe stato il tramite tra la nuova comunità e gli dèi. Il capo di una migrazione del ver sacrum veniva sempre scelto tra coloro con più spiccate qualità di veggente: per restare in contatto con l’animale guida e gli dèi era necessaria una sensibilità non comune. Mancare di questa qualità poteva voler significare la morte di tutta la comunità e il fallimento dell’impresa sacra, con conseguenze nefaste anche per la comunità di origine. Accompagnati dall’animale guida, dunque, i consacrati si allontanavano in una specie di migrazione-pellegrinaggio, camminando fino a che non si fermava l’animale guida. Quella sarebbe stata la loro nuova terra. Gli animali tradizionalmente scelti come guida furono soprattutto il cinghiale, forte e prolifico; il cervo, maestoso e resistente; il toro, vigoroso e fecondo; il bove, robusto e paziente; e naturalmente il lupo, feroce combattente ma premuroso protettore del suo clan.


104 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Ã ADORATORI DELLA MADRE INFERNALE L’area in cui si insediarono gli antichi Hirpini si trova molto vicina al centro del culto di Mephitis, la Madre Infernale (vedere pag. 75). Il lago Amspanctus, infatti, si trova a sole 10 miglia a sud est da Aeclanum. Questa vicinanza non è solo geografica ma determinò già nell’antichità una vicinanza spirituale. Infatti, molti Hirpini divennero adoratori della temibile dea e ne allargarono molto la sfera di influenza sottomettendo territori e popoli limitrofi. Una combinazione davvero perniciosa: un popolo di indomiti guerrieri, dotati della forza del lupo e devoti a una divinità della morte e del caos! Non ci stancheremo mai di ripetere, dunque, che vagare impreparati nelle foreste attorno ad Aeclanum è una pericolosa sciocchezza. LUCANIA Questa regione si trova a sud della precedente e si distende in una terra assai fertile e ridente che trova i suoi confini a ovest nella costa tirrenica, a sud-est nel golfo di Tarentum e a nord nei Montes Apennini. L’area fu chiamata dai Greci Enotria, la terra del vino. Anche in questa terra risiedeva un popolo nato sotto il segno del lupo, i Lucani. Il nome di questa gente si fa, infatti, discendere dalla parola greca lykos, “lupo”. Esiste un’altra teoria che collega il nome della Lucania con il concetto di bosco sacro, lucus. Le due teorie non sono in contrasto, essendo comunque il lupo un abitatore dei boschi. La Lucania tuttavia non è particolarmente montuosa. Essa è costituita in massima parte da una bella pianura che produce abbondante grano e vino. Per questo, fu presto colonizzata dai Greci, contro i quali i Lucani dovettero combattere a lungo prima di poter reclamare la regione come loro esclusiva. Ã FIGLI DI APOLLO LYKEOS Si dice che anche i Lucani siano nati da un rito della primavera sacra, staccandosi dalle popolazioni di lingua osca. Contrariamente a quanto si crede, il nuovo popolo non prese il nome da un animale guida ma dall’uomo che li guidò nella prima migrazione, un certo Luceius o Lucius. Costui avrebbe preso il nome in omaggio al dio Apollo Lykeos, cioè “cacciatore di lupi”. Questo, dunque, li renderebbe diversi dagli Hirpini, che si considerarono figli del lupo e mai osarono alzare un’arma contro questo animale. I Lucani invece, dicendosi figli di un dio cacciatore di lupi, vollero sottolineare il loro atteggiamento di contrasto all’aggressività di questo animale e a tutto ciò che ruota attorno ad esso. Divennero quindi difensori della gente più indifesa, gli allevatori di pecore, e quindi cacciatori di lupi. Non soltanto cacciavano i lupi “normali” ma presto si specializzarono anche in lupi fuori dal normale, come il lupo di Iguvium (vedere pag. 198) o in lupi magici, come i Versipellis. Orgogliosi dello status di cacciatori, i Lucani posero il lupo sulle proprie monete come segno di scongiuro. Ancora oggi le rarissime monete lucane con l’effige del lupo sopravvissute all’oblio dei tempi vengono considerate dei preziosi talismani. Ã METAPONTUM, PERDUTO CENTRO DI POTERE L’attuale Lucania vanta molte ricche città. L’unica che mi sento di segnalare qui, per strano che possa sembrare, è invece una città scomparsa, l’antica Metapontum. Essa sorgeva non lontano dalla costa e si diceva fondata dall’eroe greco Nestore di ritorno dalle imprese della guerra di Troia. Divenne presto ricca e potente ma fu sempre ostile a Roma, prima fiancheggiando Pirro quando invase l’Italia, poi Annibale, infine dando asilo ai gladiatori ribelli di Spartaco. Fu infine distrutta e oggi solo rovine rimangono di quella che fu una potente città. È però importante ricordare che a Metapontum dimorò a lungo, e poi vi morì, il matematico greco Pitagora. Qui fondò una delle sue scuole filosofico-esoteriche e vi lasciò molti seguaci. Costoro continuarono a predicare le sue teorie magico-matematiche e dopo la distruzione di Metaponto si raccolsero tutti nella città di Kroton (vedere pag. 141). IL LUPUS HIRPINUS In queste terre si parla spesso di una creatura mitica, il Lupus Hirpinus. Le leggende locali raccontano che gli Hirpini siano in grado di trasformarsi in lupi a proprio piacere e dunque i “Lupi” sarebbero in realtà umani. Ma attenzione, non si tratterebbe di una situazione incontrollabile e perniciosa come nel caso del Versipellis, schiavo della sua maledizione! Gli abitanti dell’Hirpinia sarebbero in grado di trasformarsi volontariamente in lupi e di combattere sotto questa forma animale, tornando poi senza danno alla condizione iniziale. Si tratterebbe di un “dono” che si trasmetterebbe all’interno della linea di sangue di certe famiglie e che si conserverebbe solo mantenendo questo sangue puro. Per questo, alcune famiglie hirpine continuano da secoli a sposarsi solo tra loro ed evitano matrimoni con esterni. Non ci sono prove certe di questa abilità. In effetti esistono testimonianze di persone affidabili che hanno visto comparire un lupo là dove un attimo prima c’era un uomo, ma la mutazione non è mai stata osservata direttamente e quindi permane una certa indeterminatezza circa questa prodigiosa abilità degli Hirpini. Qualcuno sostiene che tutta la questione sia falsa o mal interpretata e non esistano affatto umani che si trasformano in lupi ma piuttosto che alcuni individui siano dotati di speciali doti di comunicazione con gli animali. Queste persone sarebbero in grado di utilizzare i lupi come aiutanti o famigli e quindi la confusione sarebbe dovuta al fatto che dove c’è uno di questi individui prima o poi spunta un lupo, e viceversa.


105 ARCANA SATURNIAE TELLURIS I CACCIATORI DELLA LUCANIA Le terre dei Lucani sono sempre state protette da una speciale stirpe di cacciatori. Costoro si dicono discendenti da Lucius, colui che per primo guidò la nuova comunità nella migrazione dalle terre degli Osci verso la Lucania. Lucius a sua volta prese il nome da Apollo Lyceo, cioè “Apollo che uccide il lupo”. Ispirandosi quindi a questa manifestazione del dio i discendenti di Lucius divennero specialmente esperti nell’utilizzo dell’arco, arma terribile dello stesso Apollo. I cacciatori della Lucania operano da secoli in questi territori. Inizialmente il loro incarico era quello di pattugliare le terre per difenderle dai lupi e impedire che essi abbandonassero le foreste per razziare gli inermi contadini o allevatori di pecore. In queste loro perlustrazioni vennero spesso in contatto anche con lupi dalla natura soprannaturale e impararono a affrontarli meglio di chiunque altro. Svilupparono quindi un’arma speciale, il fustibalus, una versione più potente della fionda a mano, armata con glandes argenteae, proiettili d’argento (vedere pag. 177). Parteciparono anche come guerrieri indipendenti alle varie guerre che si succedettero sulle terre di Lucania, sempre scegliendo lo schieramento che secondo loro avrebbe portato più vantaggio alla propria gente. Quando giunse in loco la potenza di Roma non si lasciarono assorbire dal nostro esercito e anzi, lo combatterono per anni e anni con una particolare tattica di guerra che ci causò molte perdite. I cacciatori restavano nascosti nelle foreste e poi uscivano per brevi e velocissime puntate contro obiettivi molti circoscritti. Prima che le nostre truppe potessero organizzarsi essi erano già spariti. Benché ogni volta i danni fossero modesti, l’enorme quantità di questi fastidiosi attacchi causò diverse perdite al nostro esercito, oltre a minare gravemente il morale delle truppe. Si giunse infine a una specie di tregua. Questa incredibile abilità di adattarsi a tutti i terreni e gli ambienti, la velocità di colpire il nemico senza farsi scoprire e la capacità di agire in piccoli gruppi fu apprezzata dal nostro esercito. Roma quindi offrì ai Cacciatori di entrare nei ranghi dell’esercito con una regolare paga e garantì di cancellare ogni crimine di cui si fossero macchiati se avessero insegnato anche a noi queste tattiche di “colpisci e fuggi”. La maggior parte accettò. Molti oggi sono anche istruttori della nuova Cohors Arcana, unità che agisce spesso in piccoli gruppi proprio come i Cacciatori. Altri, tuttavia, hanno preferito l’indipendenza e vivono raminghi nelle foreste lucane. Per la scheda dei Cacciatori della Lucania, vedere pag. 193. Altra cosa degna di segnalazione è il santuario di Apollo Liceo, un tempo assai fiorente e centro religioso di riferimento per tutti i popoli “cacciatori dei lupi”. Le autorità locali riferiscono di frequentazioni notturne del santuario ma sentinelle inviate a presidiare l’area, anche se ben nascoste, non sono mai riuscite a sorprendere alcun visitatore. IGUVIUM Infine, è necessario segnalare il particolare caso della cittadina di Iguvium, situata nella Regio VI Umbria. Essa fu in origine una città-stato di nome Ikuvium, orgogliosa benché piccina. Il popolo che la abitava apparteneva al popolo degli Umbri. Il territorio cittadino era diviso in 10 distretti, detti decuviae, ciascuno suddiviso in due aree sotto l’influenza di una famiglia nobile. In città, dunque, vi erano ben venti piccole comunità che anziché entrare in conflitto tra loro contribuivano al benessere della città. In caso di discordie, tutte le famiglie riconoscevano l’autorità suprema di un sacerdote cittadino, il flamine. La forte religiosità dell’insediamento può in qualche modo essere legata alla presenza dell’antico santuario di Giove Appennino, situato a non molta distanza tra le montagne (vedere pag. 90). Quando Roma cominciò la sua espansione in Italia, venendo a conflitto con i Sanniti, gli Etruschi e i Galli cisalpini, non trovò mai ostile Iguvium, ma neppure alleata. La piccola città mantenne fiera la propria indipendenza, riuscendo a restare neutrale nonostante la potenza di tutti i pericolosi vicini. Infine, fu inglobata nella sfera di influenza di Roma conservando il rispetto di tutti. Qualcuno sussurra che la tenace indipendenza di Iguvium non sarebbe dovuta solo a circostanze politiche: nel territorio attorno alla città da sempre dimorerebbe una varietà di lupo particolare, il Lupus Iguvinum, che se addomesticato avrebbe qualità molto utili agli uomini (vedere pag. 198). Ã LE TABULAE IGUVINAE Un altro motivo per segnalare alla tua attenzione questa piccola città è un reperto assai antico di oscura interpretazione. Si tratta di sette tavole di bronzo, inscritte con formule rituali in parte conosciute e in parte no. Il testo è, infatti, espresso per massima parte nell’antica lingua umbra, ormai dimenticata. Una parte minore è in etrusco, ahimè altra lingua scomparsa, e in latino. Grazie alla parte in latino, che sembra un riassunto della sezione in umbro, si è potuto capire che le Tabulae Iguvinae illustrano rituali ormai sconosciuti che riguardano le maledizioni. Ovviamente ci deve essere molto di più nel testo in lingua umbra, e il Collegio dei Pontefici


106 ARCANA SATURNIAE TELLURIS sta procedendo da tempo al recupero di tutte le iscrizioni in questa lingua sparse nel territorio di Iguvium, per poter avere una base da cui sviluppare una traduzione delle Tabulae. Segnaliamo infine un particolare inquietante che si aggiunge alla già oscura fama delle Tabulae Iguvinae: in origine sarebbero state otto e una oggi è mancante. È inevitabile chiedersi: cosa c’era scritto in quella scomparsa? E dov’è ora? MAGIA ITALICA LE ACQUE INCANTATE L’Italia è benedetta dalla presenza di innumerevoli fonti d’acqua. Esse rendono il territorio fertile e piacevole, consentendo la pratica dell’agricoltura e la presenza di molte ricche città. Non stupisce quindi che praticamente ogni angolo d’Italia vanti la presenza di una fonte magica che avrebbe effetti curativi di vario genere o nasconderebbe delle creature magiche. In realtà, le fonti veramente magiche non sono molto note. Di alcune si sospetta la presenza per la grande quantità di effetti positivi inspiegabili che si verificano nella regione. Altre sono attestate solo dalla tradizione popolare. La maggior parte, comunque, sono completamente sconosciute. Ã LE LYMPHAE Secondo l’erudito Servio nulla enim fons non sacer, “non esiste una fonte che non sia sacra”. Il Collegio dei Pontefici, in effetti, ha ordinato di trattare qualunque fonte italica come potenzialmente magica e si sospetta la presenza di una creatura soprannaturale in ogni sorgente. Nella Saturnia Tellus, infatti, abita una genìa speciale di ninfe dell’acqua, le Lymphae, che non vanno confuse con le greche Naiadi. Queste ninfe italiche esprimono il loro potere attraverso il liquido sacro dell’acqua. Sono tutte sempre legate alla guarigione e alla veggenza. Sono inoltre messaggere degli Inferi, amiche e seguaci della dea Proserpina, poiché è dalle profondità della terra che viene l’acqua. Le Lymphae presidiano anche il corso di alcuni fiumi, spingendosi fino alle foci. Si dice che proprio grazie all’aiuto delle Lymphae il popolo romano sia riuscito a intessere di incantesimi protettivi il fiume Rubicone, che a lungo segnò il confine di Roma verso le terre dei Galli. Le Lymphae sono solitamente ben disposte nei confronti degli esseri umani, tuttavia hanno poteri violenti che è bene non stuzzicare. Esse sono in grado di invasare gli esseri umani, provocando uno stato di vacua immobilità oppure di pazzia delirante. La maggior parte delle Lymphae è sconosciuta e nessuno sa dove dimori. Di pochissime si conosce il nome e sono venerate presso sorgenti note. Esse sono: A Arethusa. Risiede a Syracusae, in una fonte presso l’isola di Ortigia. Fece parte delle seguaci di Diana finché un giovane cacciatore, Alfeo, si innamorò di lei e cominciò a tormentarla seguendola dappertutto. La dea Diana allora concesse ad Arethusa di mutare la sua essenza corporea in acqua, rendendosi praticamente invisibile se immersa in questo liquido. Ella quindi, appare e scompare a suo piacere all’interno della sua sorgente. Sulle sponde della fonte Arethusa crescono delle piante di papiri che si dicono dotati di qualità speciali. Sono sotto il controllo della locale Cohors Arcana poiché alcuni sedicenti maghi li trafugano senza permesso: secondo la loro opinione gli incanti scritti su questo papiro avrebbero maggiore potenza. A Egeria. Fa parte delle dee chiamate Camene, che dimoravano fin dalle origini nell’antico Latium. Le Camene sono quattro: Carmenta, Antevorta, Postvorta e Egeria. Quest’ultima è la più nota poiché secondo la tradizione fu consigliera e sposa del re Numa Pompilio. Le nostre leggende attribuiscono a Egeria il merito di aver ispirato a Numa la redazione dei Commentarii Numae, una sorta di diario personale in cui il re annotò una grande quantità di rituali magici, ciascuno con istruzioni dettagliate per la loro realizzazione. A parte le sue abilità profetiche, Egeria è particolarmente legata al potere delle acque ed è signora di una fonte magica di cui si è persa l’ubicazione. A Giuturna. Secondo le antiche leggende fu amata dal re degli dèi, Giove in persona, che le concesse l’immortalità e la signoria su tutte le acque del Latium. Si dice che fosse sorella di Turno, il re dei Rutuli a cui era stata promessa in sposa Lavinia, figlia del re dei Latini. Lavinia però andò sposa a Enea, che da Troia era fuggito nel Latium. La cosa scatenò una sanguinosa guerra tra i Rutuli e i Latini, fiancheggiati dai Troiani. Turno morì combattendo anche se Giuturna tentò in tutti i modi di salvarlo. La più nota delle fonti di Giuturna si trova a Roma nel Foro ed è chiamata Lacus Iuturnae. Esisteva un tempo una Fons Iuturnae a Lavinium, probabilmente quella originaria e con poteri più forti, ma oggi è scomparsa. A Lara. È la madre dei Lares, gli dèi protettori della casa. Lara fu involontaria protagonista di un dramma coniugale tra gli dèi. Ella infatti sapeva dell’amore segreto tra Giove e Giuturna, e fece l’errore di andarlo a riferire a Giunone, la regina degli dèi tradita. Giove si adirò terribilmente e tolse a Lara il dono della parola. L’affidò poi a Mercurio perché la portasse negli Inferi da Proserpina. Mercurio però si innamorò di lei e con lei concepì i Lares. La fonte originaria di Lara non è più conosciuta. Si sospetta che si trovi accanto a qualche ingresso per l’Oltretomba ma non vi è certezza. A Le Anguane. Sono misteriose creature che dimorano solo nei corsi d’acqua delle montagne venete. Qualcuno sostiene che ve ne siano anche nelle lagune, soprattutto a Aquae Gradatae, il porto di Aquileia, e a Praedium Mariani, alla foce del Tilaventum. Le Anguane possono essere aggressive con chi non sia rispettoso con la natura e con le loro acque e per allontanare i rei lanciano grida assordanti che possono indurre allo svenimento o alla


107 ARCANA SATURNIAE TELLURIS pazzia. Di solito sono però benevole, e le popolazioni locali sostengono di aver imparato dalle Anguane molte attività tipiche, come la filatura della lana e la trasformazione del latte in formaggio. Le leggende dicono che amino i colori e che si possano intravedere nei corsi d’acqua grazie ai vestiti molti colorati che indossano e che spiccano attraverso le onde. Per le statistiche delle Lymphae vedere pag. 232. IL SEGRETO DELLA NINFA EGERIA Le vicende di Egeria e di Numa Pompilio hanno offerto l’ispirazione per l’avventura La Ninfa e il Senatore (vedere I Misteri dell’Impero Vol. 1). L’avventura è ambientata lungo la via Appia, poco fuori di Roma, e narra una vicenda controversa che si incentra sui rapporti tra un anziano senatore romano e un’entità misteriosa che lui identifica come questa ninfa d’acqua. In seguito alla risoluzione del mistero il Demiurgo potrebbe voler inviare i Custodes a indagare anche in altri luoghi tradizionalmente abitati da Lymphae, creando una campagna di ampio respiro o singole spedizioni più mirate. Poiché la ninfa Egeria è stata l’ispiratrice dei Commentarii Numae, testi profetici grandemente considerati nell’Impero, l’esito dell’avventura La Ninfa e il Senatore potrebbe indurre il Demiurgo ad indagare criticamente anche questo pilastro della tradizione romana.


108 ARCANA SATURNIAE TELLURIS TABELLA DELLE FONTI MAGICHE La maggior parte delle fonti magiche italiche sono sconosciute. È sempre possibile, quindi, che trovandosi di fronte a quella che sembra una normale fonte si sia incappati in una sorgente che provoca effetti magici di vario tipo. Chiunque assaggi l’acqua di una fonte incantata tira 1d20 e consulta la tabella sottostante. L’effetto non è necessariamente palese: è il Demiurgo che ne determina in segreto eventuali dettagli come per esempio la durata, se variabile. I personaggi scopriranno che cosa è loro successo solo al momento opportuno. Se la durata dell’effetto è limitata, esso cessa all’improvviso. L’acqua deve essere bevuta presso la fonte; se portata via, perde ogni effetto. Chi ha bevuto a una fonte non subisce effetti dall’acqua di quella stessa fonte per quattro settimane. Tiro 1d20 Evento 1 Chi beve è immune ai veleni per 2d6 giorni. 2 Chi beve guarisce istantaneamente da ogni ferita e malattia. 3 Chi beve è in grado di vedere al buio come i gatti; l’effetto dura 2d6 giorni. 4 Il Vigor e il De Corpore di chi beve aumentano di 2 punti ciascuno per 2d6 giorni. 5 La fonte ha effetti fortemente diuretici, che durano per una settimana. 6 La Sensibilitas e il De Magia di chi beve aumentano di 2 punti ciascuno per 2d6 giorni. 7 L’acqua ha il potere di far ricrescere i capelli ai calvi. 8 La pelle di chi beve diventa violacea per 2d6 giorni. 9 Chi beve diventa invisibile per 2d6 ore. 10 Apparentemente non vi è alcun effetto, ma nel giro di pochi giorni il personaggio perde tutti i capelli e i peli del corpo. Riprenderanno a crescere solo dopo 2d6 mesi. 11 Chi beve emana un odore pressoché impercettibile che ha però il potere di attrarre cani e altri animali dall’olfatto fine da lunga distanza. 12 L’acqua ha un forte effetto afrodisiaco. 13 Il personaggio che beve è baciato dalla fortuna: i suoi prossimi tre tiri di dado potranno essere ripetuti una volta, tenendo il nuovo risultato. 14 Per 2d6 ore, chi beve è in grado di capire qualunque lingua scritta o parlata, ma non di scriverla o parlarla a sua volta. 15 Chi beve è immune a fiamme, folgori e calore per 2d6 giorni. 16 Chi beve è in grado di respirare sott’acqua per 2d6 ore.


109 ARCANA SATURNIAE TELLURIS 17 Chi beve è soggetto a una fame smisurata, che lo costringe a mangiare cinque volte più del normale. L’effetto dura 2d6 giorni e porta a ingrassare di quindici libre al giorno. 18 Per 2d6 giorni, chi beve è in grado di vedere un’aura bluastra aleggiare attorno agli oggetti magici e alle creature fantastiche. 19 Chi beve è soggetto a visioni allucinate ma talvolta profetiche, a discrezione del Demiurgo, che lo colgono di quando in quando per i successivi 2d6 giorni. 20 Chi beve acquista per 2d6 giorni un fiuto finissimo simile a quello dei cani, e può seguire una pista riuscendo in appositi tiri di De Natura o Sensibilitas (la cui frequenza e difficoltà sono lasciate al Demiurgo a seconda delle circostanze). Ã L’IDROMANZIA Vista l'abbondanza di fonti e di specchi d'acqua, in molte zone d'Italia è diffuso un sistema di divinazione mediante l'acqua, cioè l'idromanzia (dal greco ydor, acqua, e manteia, divinazione). Non ha nulla a che fare con le fonti magiche descritte più sopra. Non è cioè la fonte a offrire predizioni a chi le chiede, né l'acqua ha effetti che provocano visioni o predizioni. L'acqua è il mezzo con il quale si esercita questa particolare lettura dei presagi. E infatti l'idromanzia si può praticare con qualunque tipo di acqua, purché pura. Non è neppure necessario recarsi dove si trova un corso d'acqua: si può eseguire anche in casa utilizzando un catino o un contenitore adatto. In realtà, idromanzia è un termine molto ampio. Questo tipo di divinazione si esercita in maniere molto varie, ciascuna con il suo nome specifico. Le più diffuse sono: A Ceromanzia. Consiste nel gettare una certa quantità di cera fusa nell’acqua. Da come si agglomera la cera raffreddandosi d’improvviso (velocità, movimento) e dal tipo di forma ottenuta si ottiene la predizione. Lo stesso si può fare con il piombo fuso. A Lecanomanzia. Disciplina praticata già dagli antichi Assiri, consiste nel riempire di acqua un recipiente consacrato (in greco lekane). Si aggiunge poi dell’olio, anch’esso consacrato, e si osserva come l’olio si distribuisce nell’acqua: se le goccioline si agglomerano o al contrario si dividono, oppure se formano delle striature, o se addirittura affondano. Da tutto ciò il bravo veggente trae risposte. A Pegomanzia. Consiste essenzialmente nel gettare oggetti in una fonte o fontana (in greco peghè) e osservare che tipo di movimento si crea nell’acqua. Era il tipo di lettura del futuro preferito dall’Imperatore Tiberio. È rimasta famosa la volta che egli eseguì questo rito nella fonte termale di Aponus, piccolo centro non lontano da Padua, nella Regio X. Egli, non ancora imperatore, lanciò nella fonte due dadi d’oro: osservando sia come rotolarono cadendo sul fondo, sia il punteggio che segnarono, si convinse di essere destinato al trono imperiale. Cosa che puntualmente si avverò. Secondo lo storico Svetonio i dadi di Tiberio sono ancora depositati nel fondo della fontana, il che spiegherebbe il fatto che ogni tanto da essa si alzino bagliori improvvisi. Si dice che sia questo il vero significato della frase di Cesare “il dado è tratto”: il condottiero avrebbe infatti gettato un dado nel Rubicone per avere un responso alla domanda se fosse opportuno o meno attraversarlo in armi. Per la nuova disciplina dell’Idromanzia e i relativi rituali, vedere pag. 166.


110 ARCANA SATURNIAE TELLURIS IL BALUARDO MAGICO DEL RUBICONE Questo fiume è passato alla storia quando Giulio Cesare osò attraversarlo in armi, infrangendo una legge dello Stato. Il temerario gesto fu però compiuto nella consapevolezza che avrebbe segnato l'inizio di un percorso che avrebbe portato Roma a estendere sempre di più il suo dominio sul mondo. Fu qui gettato il seme di un Impero senza fine. Ã UN FIUME APPARENTEMENTE MODESTO Chi si avvicina oggi a questo antico confine d'Italia ne rimane molto deluso. Nulla a che fare con la magnificenza del Padus o con la nobiltà del Tiberis. Il Rubicone è un fiumiciattolo, per giunta sottoposto alle capricciose variazioni delle stagioni che lo gonfiano d'acqua d'inverno e lo disseccano d'estate. Nasce sugli Apennini Montes e sfocia nel Mare Adriaticum a nord di Ariminum, dopo aver percorso soltanto 54 miglia dalla sua sorgente. La sua importanza è legata al fatto che in questo punto si poneva il confine tra la regione completamente sotto l'influenza romana, a sud, e quella in cui ancora si agitavano le forze galliche, a nord. Al tempo di Giulio Cesare il confine era ancora valido, anche se già dal VI secolo aUc l'area era stata abbondantemente conquistata dalle nostre truppe. Mediolanum, solo per citare una delle più belle città dell'Impero nell'antica Gallia Cisalpina, fu da noi acquisita già nel 531 aUc. Fu solo nel 711 aUc, comunque, qualche anno dopo le campagne galliche di Cesare, che il confine d'Italia fu portato alle Alpes, dove risiede tutt'ora. Il Rubicone fungeva da confine solo per il versante est della penisola italica. In mezzo, infatti, c'erano gli Apennini Montes a far da barriera, e a ovest l'antica regione degli Etruschi. Ci si potrebbe chiedere come mai un simile fiumiciattolo abbia rivestito per tanto tempo un ruolo così importante. La risposta è nota solo a coloro che sono in possesso di sapienza sconosciuta ai più e che sanno come fronteggiare occulte potenze. CESARE E IL RUBICONE Alle prime luci dell’alba del 10 gennaio 704 aUc, cinquemila fanti e trecento cavalieri della Legio XIII Gemina passarono le acque del Rubicone al comando di Giulio Cesare. Il fiume a quei tempi segnava il confine tra l’Italia propriamente detta, a sud del fiume, e la Gallia Cisalpina a nord. Il condottiero era di ritorno dalla vittoriosa campagna gallica ed era atteso dal popolo con grande affetto, e per vari motivi. Per prima cosa aveva reso i confini d’Italia più sicuri. Inoltre, con le ricchezze guadagnate mediante le conquiste aveva fatto molti donativi alla plebe di Roma, migliorandone le condizioni. Eppure a Roma non tutti gioivano per i successi di Cesare. Molti, anzi, ne temevano il ritorno. Immaginavano che Cesare, circondato dalla gloria della conquista gallica, avrebbe ottenuto poteri straordinari e questo li turbava. Perché tanto timore? Dopo tanti secoli è difficile capire quali reali motivi vi fossero sotto questa vigorosa opposizione. C’è chi dice che fosse una semplice questione politica: le antiche famiglie patrizie non vedevano di buon occhio un abile uomo politico tanto amato dal popolo, temendo di perdere potere. Altri insinuano che Cesare avesse dalla sua parte il favore degli dèi, che avesse già letto il futuro e agisse per creare le basi dell’Impero senza fine; tra i suoi oppositori, quindi, si nascondevano occulti nemici di Roma che volevano impedire la realizzazione delle profezie. Sta di fatto che i nemici di Cesare ebbero buon gioco nell’appellarsi a una legge dello Stato già in vigore: nessuno poteva passare in armi il confine d’Italia, appunto il fiume Rubicone. La norma era stata varata molto tempo prima per impedire che qualcuno con cattive intenzioni potesse avvicinarsi troppo all’Urbe in assetto di guerra. Forti di questa norma i senatori ostili fecero votare in Senato un ultimatum che ordinava a Cesare di fermarsi sul confine, disarmare l’esercito e riprendere il viaggio verso Roma come un privato cittadino. Cesare però sapeva che i suoi nemici lo aspettavano armati e che procedere senza la protezione delle truppe lo avrebbe probabilmente condannato a morte. Cesare dunque consultò gli Auguri che erano con lui, prese egli stesso gli auspici e infine chiese il parere delle truppe: non voleva trascinare i suoi fedeli soldati in una guerra personale. La risposta delle truppe alla domanda “Siete con me?” fu una specie di ruggito che riempì il cielo come il tuono di Giove. Tutti affidarono la propria vita al loro comandante. Fu in quel momento che Cesare pronunciò la fatidica frase “Alea jacta est”, il dado è tratto. Attraversò il Rubicone e, di fatto, dichiarò guerra al Senato. Questo si appoggiò alle truppe di Pompeo per combattere Cesare e scoppiò una guerra civile. Dopo alterne vicende, Pompeo fu sconfitto da Cesare a Farsàlo, in Achaia. L’ordine fu ripristinato e Cesare potè governare Roma per lunghi proficui anni.


111 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Ã IL CONFINE MAGICO Il Rubicone non nacque magico, ma lo diventò grazie all'impegno dei nostri sacerdoti. Durante il primo secolo di vita l'Urbe era fragile e doveva combattere con tanti pericoli circostanti. Giunse voce a quei tempi che una popolazione celtica si era stabilita nella piana del Padus, ma la questione non sollevò timori: il Padus era molto lontano da Roma, nessuno si sentì coinvolto in quell'evento. Gli Etruschi, però, che avevano già un confine comune con le nuove genti, si resero conto che esse portavano con sé non solo il potere delle armi ma anche quello dei loro sconosciuti dèi. Forti delle conoscenze soprannaturali, gli Etruschi stabilirono un magico confine invisibile lungo gli Apennini e furono a lungo protetti. A Roma si succedettero ben tre re di origine etrusca. Uno di questi, Servio Tullio, costruì le prime mura difensive attorno alla città, intessendo parallelamente a queste un circuito invisibile di protezione magica, il pomerium, simile a quello che proteggeva le terre etrusche sugli Apennini Montes (per maggiori informazioni sul pomerium, vedere anche il modulo Encyclopaedia Arcana). Purtroppo non fu abbastanza. Nel 363 aUc, i Galli scesero a sud e misero a sacco l'Urbe. Le Vestali dovettero abbandonare la città portando in salvo il fuoco sacro. A quel punto fu chiaro che il pomerium non poteva bastare. Non si poteva permettere ai nemici di giungere così vicini all'Urbe. Bisognava fermarli prima con un confine più distanziato. Le Vestali, ospiti nella città etrusca di Caere, si consultarono con gli Aruspici e individuarono un punto adatto a costruire questo confine magico: il fiume Rubicone. Aruspici e Vestali, inoltre, compresero che per questo sforzo immane non bastavano le sole forze umane ma era necessario un aiuto divino. Fu quindi inviato un manipolo di eroi rimasti senza nome, dei Custodi Arcani che per lunghi mesi vissero nascostamente in territorio nemico percorrendo il corso del fiume dalla sorgente fino alla foce, intessendo speciali incantesimi di protezione. Questi Custodi di Roma ebbero l'aiuto di antiche divinità dell'acqua, le Lymphae, creature divine che dimoravano in Italia dall'origine dei tempi (vedere pag. 106). Riconoscendo la pietas e la volontà di mantenere la pax deorum che animava il popolo romano le Lymphae aiutarono a tessere questa barriera magica. AEAEA, L’ISOLA DI CIRCE La divina Circe è forse la più celebre maga della storia. La sua figura è stata tratteggiata da poeti e narratori dal greco Omero fino al nostro Virgilio, sempre in bilico tra leggenda e realtà. D’altra parte, come è possibile definire con certezza una dea, figlia di dèi, signora della magia? È tuttavia necessario sforzarsi di esporre almeno gli elementi finora conosciuti che possano aiutare a comprendere quale forza magica si annida ancora a così poca distanza dalla Capitale. O almeno così si racconta. Ã L’ISOLA INVISIBILE Che Circe dimori nella provincia di Italia è piuttosto certo. Addirittura, il suo legame più stretto è proprio con la regione dove sorge Roma, il Latium. Alcune leggende la dicono madre del dio laziale Fauno, anche se si tratta di tradizioni locali. Tutti gli autori antichi, comunque, concordano sul fatto che ella regni sull’isola di Aeaea e che questa sia situata da qualche parte nel Mare Tyrrhenum. Le opinioni però concordano solo su questo elemento. Tutti hanno idee diverse su dove si trovi quest’isola. Chi la colloca al largo di Tarracina, chi la identifica con una delle isole Pontia o Pandataria. Il geografo Strabone la identifica con il Capo Circaeum, secondo lui anticamente un’isola. In realtà, nessuna di queste identificazioni è corretta. Basta recarsi una volta sul promontorio del Circaeum o nell’isola Pandataria per comprendere che un posto simile non può essere stato la casa di una dea. Le descrizioni dei poeti ci parlano di una terra fertilissima, dove crescono liberamente mille e mille erbe magiche e non magiche, utilizzate dalla maga per le sue pozioni. In un’area al centro dell’isola si troverebbero anche orti medicinali pieni di erbe coltivate dalle mani della maga, tra le più rare esistenti in natura. Si dice che sia Mercurio stesso, il messaggero degli dèi, a portarle le erbe più speciali da paesi lontani. L’isola sarebbe abitata da animali normalmente selvaggi che, però, qui si dimostrano mansueti e domestici. Al centro di quest’isola si trova la casa di Circe, un palazzo degno di una regina. Le antiche storie sembrano indicare che un tempo l’isola non fosse impossibile da trovare: diversi navigatori vi approdarono casualmente e furono ospiti della maga. Passati quei tempi mitici, tuttavia, nessuno seppe ritrovare l’isola di Circe. Si pensa oggi che la maga abbia intessuto una rete di incantesimi che la nasconde alla vista umana. L’isola, però, anche se invisibile potrebbe non essere immateriale. Se qualcuno vi capitasse casualmente, sospinto dalle correnti o dai venti, probabilmente toccherebbe terra e potrebbe sbarcarvi. Non si sa tuttavia quali effetti avrebbe sui sensi umani attraversare il velo dell’incantesimo di Circe. Il visitatore potrebbe vedere liberamente, come attraversando una tenda, oppure le sue percezioni resterebbero offuscate come fosse immerso in una fitta nebbia? Esistono alcune testimonianze, piuttosto dubbie ma ugualmente annotate dal Collegio dei Pontefici. Alcuni naufraghi, stravolti dalla sete e dai tanti giorni esposti al sole, hanno sostenuto di essersi arenati sulla spiaggia di un’isola sconosciuta al centro del Mare Nostrum. Qualcuno ha raccontato di aver ricevuto acqua e conforto da una persona che però non sono stati in grado di ricordare o descrivere. Ovviamente molte ricerche sono state portate avanti dall’Impero. L’idea che una creatura così potente risieda nel mare che sentiamo così intimamente nostro è stata una preoccupazione constante per tutti i saggi consoli e imperatori che si sono succeduti alla guida di Roma. E non sembra un caso che la principale base della flotta imperiale sia collocata a Capo Miseno, in Campania (vedere pag. 25), proprio a poca distanza dalle aree marine in cui si sospetta la presenza dell’isola di Circe. Ã LA MAGIA DI CIRCE Si dice comunemente che Circe pratichi la magia, ma non è facile definire di che tipo. Le maggiori informazioni sull’incantatrice provengono per lo più da opere poetiche che non offrono dettagli di grande precisione. In generale, è chiaro che Circe pratica una magia naturale, che si veicola attraverso erbe, magiche e comuni, e pozio-


112 ARCANA SATURNIAE TELLURIS ni confezionate con questi ingredienti. Impossibile sapere quali erbe Circe usasse nelle sue pozioni e le indicazioni per combinarle nelle varie preparazioni. Curiosamente, l’unica erba di cui si è tramandato il nome è una varietà che ufficialmente non esiste. Si tratta dell’erba moly (vedere pag. 182), tanto potente da essere utilizzata solo dagli dèi. Oltre a Circe sappiamo che la conosceva anche Mercurio che, infatti, la diede a Ulisse per resistere agli incantesimi della stessa Circe. Si tratterebbe quindi di potente antidoto? Oppure questa moly sarebbe in grado di produrre altri effetti? Impossibile saperlo. Va notato, comunque, che le pozioni di Circe da sole non sembrano essere sufficienti a provocare un effetto magico. Circe deve pronunciare delle parole magiche per attivare il potere delle pozioni, oppure utilizzare un oggetto magico sconosciuto che la tradizione identifica con una bacchetta. Ã LA BACCHETTA MAGICA Le bacchette magiche sono strumenti rari, che solo le divinità sembrano possedere. È importante infatti sottolineare che questi oggetti magici non devono essere confusi con scettri o altri oggetti che rappresentano simbolicamente il potere. Le bacchette sono strumenti per canalizzare l’energia magica e possono forse essere paragonati al lituo degli Auguri (vedere anche il modulo Encyclopaedia Arcana). Poiché questi oggetti sono rarissimi nessuno ha potuto studiarli direttamente e tutte le informazioni che abbiamo sono dedotte dai pochi testi che le nominano o da antiche raffigurazioni. Non si sa quindi con esattezza quale potere abbiano. Sembra comunque di poter affermare che la qualità magica principale delle bacchette sia quella della trasmutazione: potrebbero trasformare persone o cose, dando ad esse un aspetto diverso. Oltre a Circe, gli antichi testi riportano l’uso delle bacchette anche da parte di: A Diana. Secondo il poeta Ovidio, la dea Diana avrebbe usato una bacchetta per trasformare in uccelli le sorelle di Meleagro, l’uccisore del Cinghiale Calidonio, disperate per la morte del giovane. A Esculapio. Il dio della medicina viene sempre raffigurato con un bastone sul quale si arrotola un serpente: è una magica bacchetta con la quale può curare qualunque malattia. Il bastone di Esculapio non va confuso con il caduceo di Mercurio. A Mercurio. Il dio è sempre raffigurato con in mano il caduceo, un bastone coronato da un paio di ali su cui sono avvolti due serpenti (e non uno solo come nel bastone di Esculapio). L’oggetto è ben conosciuto poiché presente in tutte le raffigurazioni del dio. Questo però non vuol dire che sia facile comprenderne la vera natura. L’unica informazione in questo senso è quella data dal grande Omero, che nell’Iliade scrive che la bacchetta di Mercurio servirebbe ad addormentare e risvegliare le persone, quindi a farle entrare e uscire dal mondo del sogno. Altre interpretazioni sostituiscono la morte al sonno: con la bacchetta quindi Mercurio guiderebbe le anime nel mondo dell’aldilà. A Minerva. Anche in questo caso le informazioni ci vengono da Omero. La dea avrebbe usato una bacchetta d’oro per dare ad Ulisse le sembianze di un vecchio quando giunse a Itaca di nascosto, in modo che i pretendenti di Penelope non lo riconoscessero subito. Con lo stesso strumento lo fece poi tornare al suo vero aspetto. Il nostro Ovidio, d’altra parte, scrive che con una bacchetta di legno Minerva avrebbe trasformato Aracne in un ragno per punirla di averla sfidata a chi sapeva tessere meglio. Va inoltre aggiunto che la dea egizia Iside è spesso rappresentata con in mano quello che si definisce di solito “scettro” poiché Iside è regina del cielo. Considerando però che è la dea della magia sembra difficile che questo oggetto non abbia in realtà una natura magica. Per la descrizione della bacchetta di Circe, vedere pag. 182.


ARCANI SATURNIAE TELLURIS CIRCE, SIGNORA DELLA MAGIA Per descrivere Circe bisogna innanzi tutto sottolineare che ella è una dea, non una maga. Questo dettaglio sfugge ora alla maggior parte delle persone che, confuse da secoli di leggende e storie che si sovrappongono le une alle altre, la definiscono “maga”. Un mago, lo ricordiamo, è un essere umano che è in grado di manipolare (fino a un certo punto) le forze soprannaturali che si agitano nel mondo. Circe invece non appartiene alla sfera umana. È una dea, e non una dea minore. Ella è figlia di uno dei Titani, gli dèi che dominarono l’universo prima che Giove prendesse il potere e insediasse nel cielo la sua famiglia divina. Il padre di Circe è nientemeno che Helios, il titano che conduce il carro del sole, che noi veneriamo come Sol Invictus. La madre è Perseide, una ninfa figlia del titano Oceano. Per questa illustre parentela Circe nacque in possesso di potenti capacità magiche, e così i suoi fratelli: la sorella maggiore Pasifae andò sposa al re di Creta Minosse e fu madre del mostruoso Minotauro; il fratello minore Eeta, re della Colchide, fu il custode del Vello d’Oro, padre della maga Medea e secondo alcuni anche di Angitia, dea incantatrice dei Marsi (vedere pag. 118); infine il fratello maggiore Perse fu re della Colchide usurpando il trono al fratello Eeta, e per questo fu infine ucciso da Medea per vendicare il padre. Le capacità magiche di Circe sono certamente una preziosa dote, ma la sua storia ci insegna come queste arti possano essere anche una sciagura. Non è un caso infatti che la potente Circe non lasci da secoli l’isola di Aeaea. È prigioniera. Vi fu rinchiusa da Giove ancora fanciulla come punizione per aver trasformato in un mostro la sua rivale in amore. Il dio del mare Glauco chiese, infatti, a Circe una pozione per fare innamorare di sé la ninfa Scylla. Circe, che a sua volta era innamorata di Glauco, gli consegnò un veleno e gli disse di versarlo nel punto in cui Scylla usava fare il bagno. La pozione non uccise la ninfa ma forse le diede un destino peggiore. La trasformò nel mostro terribile che ancora dimora nello stretto tra Sicilia e Italia (vedere pag. 32). Rinchiusa nella sua isola Circe meditò sui suoi errori e imparò a dominare e raffinare la sua arte. Apprese a usare le erbe, a creare pozioni che rendeva magiche con i suoi canti, creò una bacchetta attraverso la quale veicolare la sua forza magica. Divenne una persona diversa, con un terribile senso di giustizia. Per secoli ospitò nella sua isola i naufraghi o i naviganti perduti, curandoli con le sue arti e rimandandoli a casa sani e salvi. Ma molti, una volta accolti notavano solo la sua bellezza e la sua solitudine. Pensando di poter approfittare di una giovane donna senza protezione si comportavano con indole animalesca. Ebbero da Circe ciò che essi stessi le offrivano: la dea li trasformò in animali. Un giorno dal mare giunse Ulisse, re di Itaca, reduce dalla guerra di Troia. Tentava di tornare a casa ma gli dèi avversi lo facevano vagare attraverso il Mare Nostrum mandandolo incontro a mille pericoli. Giunto alle rive di Eea, Ulisse fece sbarcare alcuni compagni e li mandò a esplorare l’isola. Essi giunsero presto al palazzo di Circe e fecero il solito errore. Circe li trasformò in maiali. Non vedendoli tornare Ulisse si recò a cercarli. Circe cercò di trasformare anche lui ma Ulisse, avvertito dal dio Mercurio, aveva masticato alcune foglie di un’erba magica, la moly, che lo protesse. Grazie a questo artificio, Ulisse potè parlare con Circe e chiederle asilo, e lei generosamente glielo concesse. Giunse persino a restituire ai suoi compagni la forma umana. Ulisse restò a lungo presso Circe, che lo protesse dagli dèi ostili. Infine però Ulisse dovette andarsene per riprendere il suo viaggio verso casa. Circe restò sulla sua isola e allevò il loro bambino, Telegono. Circe Grado di Pericolosità: 4 Valore: DV12 1 dado: De Bello, De Corpore, De Societate, Punti Vita 2 dadi: De Natura, De Societate (Ingannare, Seduzione), Ratio 3 dadi: De Magia, De Natura (Erboristeria), Sensibilitas Punti Vita: 12 Armi: nessuna Protezioni: nessuna B Capacità Speciali: Sensi Acuti, Veleno* (2DV) B Poteri Magici: Guarigione* (2DV), Illusione* (2DV), Immortalità, Incantamento* (2DV), Metamorfosi su Altri* (2DV), Paralisi* (2DV), Terrore* (2DV) *Nota. La maggior parte dei poteri magici e delle capacità speciali di Circe descrivono in realtà gli effetti delle sue pozioni. Per poter utilizzare i poteri e le capacità sopra indicati con un asterisco (*), Circe deve prima somministrare alla vittima la pozione corrispondente, in buona fede o attraverso l’inganno (a seconda di quale sia il suo scopo nei confronti della vittima). Il potere o la capacità avranno effetto non appena la vittima avrà bevuto la pozione, oppure al momento che Circe riterrà più opportuno.


114 ARCANA SATURNIAE TELLURIS BENEVENTUM, CITTÀ DI MAGICI MISTERI Beneventum è una città fortemente legata alla magia. La fondazione è attribuita a un eroe in possesso di un oggetto legato a una storia mitica. Si dice, infatti, che la città venne fondata dall’eroe greco Diomede, re di Argo, di ritorno dalla guerra di Troia. Egli portava con sé le zanne del Cinghiale Calidonio, bestia di straordinaria potenza, che aveva devastato la regione attorno alla città greca di Calidone. Il mostro fu ucciso dallo zio di Diomede, Meleagro. Queste antiche reliquie furono utilizzate come insegne della città: le due mezzelune che si vedono sulla porta principale nelle mura, ciascuna lunga due piedi, sarebbero in realtà le due enormi zanne del cinghiale. Ã I SEGNI DI ISIDE Altri tuttavia sussurrano, senza farsi troppo sentire, che le due mezzelune sono proprio mezzelune e sarebbero lì per testimoniare il legame della città con la dea Iside, la dea lunare. È una strana situazione quella che si verifica a Beneventum. La città è, infatti, tutta pervasa di segni e simboli legati al culto della dea egiziana nonostante non vi sia un diretto legame con l’Aegyptus o con i suoi culti. Molti negano che vi sia un mistero alla base di questi fatti: la dea, dicono, è estremamente popolare in tutto l’Impero. Il culto fu incoraggiato dall’Imperatore Domiziano, che era molto devoto di Iside e fece costruire molti templi anche a Roma. Si potrebbe quindi liquidare tutta la particolare situazione di Benevento come una tradizione importata da questo imperatore. Questa è infatti la spiegazione ufficiale. Tuttavia, come tenterò di spiegare, la questione isiaca di Beneventum è molto più complessa. Va innanzi tutto considerato il grande numero di oggetti sacri connessi in vario modo con il culto di Iside custoditi in case private, templi, edifici pubblici. Essi formano una collezione inferiore solo a quelle di Roma e Alexandria, città popolate da migliaia e migliaia di persone. Si noti, inoltre, che tutti questi oggetti e monumenti vengono direttamente dall’Aegypus, non sono copie italiche o romane. E dunque ogni casa ha il nyet, il nodo isiaco (vedere anche il modulo Encyclopaedia Arcana), dipinto sulla porta come protezione, ogni edificio pubblico ha una statua di Iside più o meno grande all’interno, accanto alle statue del culto ufficiale. Sistri e strumenti musicali legati al culto risuonano dappertutto, le donne vanno ad attingere acqua alle fontane pubbliche con brocche identiche a quelle che la dea impugna nelle statue, molte dame oltre al ventaglio tengono in mano bastoncini che ricordano lo scettro di Iside, et cetera. La città vanta naturalmente un Iseum, cioè un tempio di Iside, di forme grandiose e estremamente ricco, fatto costruire come si diceva da Domiziano. L’edificio non sfigurerebbe a Roma: colonne importate direttamente dall’Aegyptus ne ornano la fronte, le travature interne scintillano di bronzi dorati. Di particolare pregio i due obelischi di granito rosso che svettano davanti alla scalinata di accesso: alti più di nove piedi, sono collocati su alte basi marmoree che li fanno sembrare ancora più monumentali. Anche questi furono eseguiti in Aegyptus e sono coperti di iscrizioni geroglifiche che inneggiano a Iside e la definiscono “signora di Beneventum”. Questo non è un fatto ordinario. Ã LE DIANARAE DI BENEVENTUM Avendo nominato le donne di Beneventum devo a questo punto dedicare a questo argomento qualche riga specifica. Alle anomalie di Beneventum va aggiunta questa, che come tenterò di spiegare è connessa a quanto detto in precedenza. In questa città le donne sono tenute in grande considerazione, ma in un modo che in realtà tradisce un certo timore. Nulla viene detto apertamente, è piuttosto una sensazione tradita da certi giochi di sguardi. I viaggiatori riportano, per esempio, che nelle tabernae di ogni genere sono impiegate molte donne, di solito le mogli del proprietario, spesso anche le figlie. Esse parlano molto poco con gli stranieri e sembrano il modello dell’onesta matrona: sorridono, tacciono e lasciano la parola ai mariti o ai padri. Tuttavia la relazione tra uomini e donne sembra indicare una certa tensione e rivela una distribuzione del potere diversa da quella che appare: molti uomini prima di rispondere a una domanda di un forestiero guardano le loro donne, come a chiedere approvazione; le donne d’altra parte, spesso comandano con gli occhi e nessuno sembra esitare a eseguire il comando, quale che sia. Una spiegazione si ottiene solo da coloro che, pur originari di Beneventum, non abitano più nella città. Queste persone sostengono che la città sia un centro di magia, che le donne siano tutte maghe o fattucchiere, che il culto di Iside qui abbia una valenza più oscura che nel resto dell’Impero. Queste maghe locali avrebbero anche un nome speciale, dianarae, perché seguaci della triade lunare Iside-Ecate-Diana. L’appellativo viene a volte distorto dalla parlata locale in ianarae. Si tratta di dicerie, probabilmente inattendibili perché riportate da soldati che ormai sono lontani da casa da molti anni, o da mariti che hanno divorziato in malo modo dalle loro mogli, privati dei beni di famiglia. I nostri soldati di stanza nella zona riportano comunque che la notte lo scenario urbano cambia. La tranquilla cittadina si anima di canti incomprensibili, giochi di luce si intravedono dalle tende chiuse delle case, e per strada si incontrano spesso donne da sole. Le pattuglie in principio le fermavano, pensando avessero qualche necessità grave o, al contrario, fossero coinvolte in attività illecite. Ma poi una superstizione si è diffusa tra i soldati: le donne sono maghe e di notte eseguono le loro attività magiche. Guai a fermarle! Lancerebbero il malocchio, scatenando vari effetti non mortali, ma certamente sgradevoli. E dunque, ancora oggi, tra i soldati che hanno servito nella regione di Beneventum qualcuno sostiene di aver avuto un’improvvisa malattia del ventre, qualcuno rimpiange di aver perso i capelli, qualcuno infine lamenta di essere stato privato di certe forze virili indispensabili nei rapporti amorosi. Nessuna prova che ciò sia vero: i nostri medici hanno visitato i soldati che denunciavano questi malanni e non hanno trovato nulla di anormale. Ma si sa, la superstizione è dura a sradicarsi: le uniche reazioni positive si sono avute quando un Augure ha eseguito un rito di purificazione. I “malati” sono immediatamente guariti, rafforzando così la diceria del malocchio.


115 ARCANA SATURNIAE TELLURIS PROTEGGERSI DAL MALOCCHIO DELLE DIANARAE La tradizione della regione di Beneventum sostiene che esista un gesto specifico per proteggersi dal malocchio lanciato dalle locali fattucchiere. Si tratta semplicemente di formare un cerchio con il pollice e l’indice della mano sinistra, simile nella forma a un occhio, e di dirigerlo verso la fonte della presunta maledizione. È un gesto semplice, ma proprio per questo passa facilmente inosservato. I locali, inoltre, non condividono volentieri l’informazione con i forestieri. Per conoscerla è necessario aver approfondite conoscenze di leggende e superstizioni locali italiche oppure buone doti di osservazione. Si possono quindi applicare due diverse procedure: A L’informazione deriva dallo studio e dalle conoscenze acquisite in precedenza. È necessario un tiro di De Magia (SD 9) e si hanno diversi gradi di riuscita: I grado di successo II grado di successo III grado di successo Si sa che esiste un semplice sistema locale per contrastare il malocchio ma non si sa esattamente quale sia Si sa che si tratta di un gesto speciale ma si ignora esattamente quale sia quello contro il malocchio Si conosce esattamente il gesto e lo si può eseguire con successo A Si deduce il comportamento giusto dall’osservazione delle usanze locali. È necessario un tiro di De Societate (SD 9), e si hanno diversi gradi di riuscita: I grado di successo II grado di successo III grado di successo Si intuisce che i locali hanno un sistema per contrastare il malocchio ma non si capisce esattamente quale sia Si osserva che spesso i locali fanno dei gesti con le dita, ma si ignora quale sia quello contro il malocchio Si individua esattamente il gesto e lo si può eseguire con successo In questo secondo caso, con il II grado di successo si acquisisce maggiore consapevolezza di ciò che fanno i locali e si può più facilmente individuare in seguito il gesto giusto. Quindi un successivo tentativo sarà facilitato e avrà SD 6. Ã IL NOCE MAGICO Aggiungo infine quest’ultima notizia, per quanto assurda possa sembrare. Si dice che nei dintorni di Beneventum si trovi un albero sacro alle seguaci di questo particolare culto isiaco. Le voci del luogo dicono sia un noce secolare, di enormi dimensioni. Il fatto è strano, poiché non risulta che questa pianta sia connessa con il culto di Iside, di solito raffigurata con corone di spighe o con in mano foglie di palma o circondata da fiori di loto. Deve trattarsi di una tradizione locale di questa specifica variante del culto della dea di Beneventum. Le seguaci del culto si riunirebbero due volte l’anno sotto questo albero per celebrare speciali riti. Benché non si sappia alcunché di cosa succeda, i pochi che hanno voluto parlarne con i nostri inviati hanno messo in guardia dalla violenza che si scatenerebbe contro chi volesse spiare le celebrazioni. Le donne sono invasate dalla dea, dicono impauriti, hanno una forza sovrannaturale e possono uccidere un uomo adulto con la sola forza delle mani. Dicono anche che alcune iniziate di alto livello siano capaci di volare e che uccidano gli infiltrati trasportandoli in volo verso la sommità dell’albero e lasciandoli poi cadere. Riporto tutte queste informazioni per amore di completezza, ma con una certa prudenza.


116 ARCANA SATURNIAE TELLURIS LA CITTÀ DELLE MAGHE – TABELLA DEGLI INCONTRI Tirare 1d10 ogni volta che lo si ritiene rilevante. Tiro 1d10 Evento 1 Belle donne. I Custodes incrociano alcune ragazze particolarmente attraenti e dallo sguardo malizioso. Se si accompagnano a loro, gli uomini del paese li guarderanno in modo torvo e sospettoso. Le ragazze sono sospettate dai compaesani di essere delle maghe; in realtà, stanno solo divertendosi. 2 Un po’ di fortuna. Una ragazza con un piccolo banchetto su ruote vende mazzolini composti da spighe, foglie sottili di palma, ramoscelli di noce e fiori bianchi e rossi. Non sono cari e lei è simpatica. Li offre ai Custodes sottolineando che portano fortuna. In realtà non è vero, sono normali mazzi di fiori che la popolazione locale utilizza come omaggio a Iside. Di conseguenza, averne uno creerà attorno ai Custodes un’atmosfera di maggiore simpatia e accettazione, dando così l’impressione di avere più fortuna nei rapporti con i locali. 3 Un magico spuntino. Una venditrice ambulante offre noci un po’ sporche di terra e non molto invitanti. Assicura che vengono da un albero eccezionale, dalle proprietà magiche e sono sporche perché raccolte da terra e non staccate dall’albero, per rispetto. Chiede una cifra un po’ esagerata, un sesterzio a noce, giustificando la richiesta con il fatto che hanno effetti magici. Sorprendentemente, ha ragione! Mangiare una noce aumenta la comprensione della situazione locale (abbassando la difficoltà dei tiri rilevanti di 1 livello) e può aiutare a risolvere una situazione complicata in cui i Custodes si dovessero trovare (a discrezione del Demiurgo). 4 Meglio non fidarsi. I personaggi vengono avvicinati da una donna in età avanzata, che affermerà essere in grado di donare loro grandi poteri in cambio di un misero compenso (in realtà non proprio misero, si aggira su alcune decine di sesterzi). Se accettano la proposta, la donna li condurrà di notte in una necropoli e inizierà a preparare strane pozioni, utilizzando aromi d’ogni sorta, piastre di metallo incise con segni incomprensibili, pezzi di navi naufragate, parti di cadaveri, chiodi con attaccata della carne, sangue rappreso. Una volta ingerita, la pozione non avrà alcun effetto, eccetto quello di far perdere 1d6 Punti Pietas e procurare per giunta fastidiosi attacchi di diarrea che causano la condizione Debilitato. 5 Una bambina da evitare. I Custodes passano accanto a una bambina di tre anni al massimo, che li fissa intensamente e, alla fine, li indica con il braccio teso e il dito puntato. Se i personaggi non conoscono il modo per proteggersi dal malocchio, per 2d6 di giorni perdono il Tiro del Fato e saranno perseguitati dalla malasorte. 6 Contro il malocchio. Un uomo di mezza età chiama i Custodes all’ingresso della sua umile dimora e, una volta assicuratosi di non essere visto, li avverte di stare attenti a tutte le donne. In quel momento, una vecchia si affaccia alla finestra e fissa l’uomo intensamente, che immediatamente, alza verso di lei la mano sinistra, unendo il pollice e il medio a formare un cerchio. Dopo che la vecchia si è allontanata, l’uomo scaccerà in malo modo i personaggi dalla sua casa, senza spiegare che il suo gesto rappresenta un’ottima protezione contro il malocchio. Un osservatore attento, tuttavia, potrà interpretare gran parte della situazione (vedere riquadro Proteggersi dal malocchio delle dianarae). 7 La sacerdotessa. Una donna vestita di bianco con la veste annodata in uno strano modo sul petto avanza silenziosa sulla strada. È una sacerdotessa di Iside. I cittadini o i contadini presenti (adattare alla situazione) si dividono davanti a lei per farla passare, alcuni accennano un inchino. Se i Custodes adottano lo stesso comportamento, lei si ferma davanti a loro, sorride e riprende il cammino. Dietro di lei, a terra, i Custodes noteranno un piccolo ciondolo di pietra rossa che ricorda il nodo di Iside dipinto sulla porta delle case di Beneventum. È un amuleto portafortuna (una volta al giorno, permette di ripetere un tiro tenendo il secondo risultato).


117 ARCANA SATURNIAE TELLURIS 8 Avvertimento. I Custodes incrociano un uomo e una donna, chiaramente marito e moglie. Lui si rivolge ai Custodes con cortesia ma con una certa urgenza e li avverte che nella zona si sta diffondendo un’epidemia di febbre. Li incoraggia a lasciare la zona prima che anche a loro capiti qualcosa di brutto. Se i Custodes fanno domande, la donna tocca il braccio del marito e i due si dileguano. Durante la notte il Custos con il Vigor più basso cadrà malato di febbre. Guarirà subito se il gruppo abbandona la zona, altrimenti resterà Ammalato fino a che non supererà il tiro di Vigor (SD 9). 9 Punizione. I Custodes assistono a una strana scena: un ragazzo, che fino a un minuto prima aveva pesantemente dileggiato una vecchia, viene raggiunto da una dozzina di donne che impugnano delle bacchette simili a scettri. Le donne iniziano a picchiare con energia il ragazzo, fino a lasciarlo sanguinante a terra; gli uomini presenti non muovono un dito, e anzi si allontanano in tutta fretta. Se i Custodes intervengono in favore del malcapitato, la notte successiva, ovunque si trovino, saranno aggrediti da (1,5:1) Lupi. 10 Riunione segreta. I Custodes notano alcune donne che, di nascosto, si allontanano in direzione del bosco. Se seguite, dopo un tortuoso percorso raggiungeranno una radura dominata da un gigantesco e antico albero. Ad attenderle, numerose altre donne provenienti da una decina di villaggi diversi. In breve, le donne inizieranno a danzare e ballare in maniera frenetica, quasi fossero invasate. Essere visti non rappresenta certo un evento fortunato: le donne si lanceranno addosso agli intrusi per farli a pezzi. I MONTI DI ANGITIA Tra le montagne nel cuore d’Italia, nella Regio IV, vive una popolazione di stirpe sannita che è tradizionalmente legata alla magia. Si tratta dei Marsi, la cui “capitale” è oggi la piccola città di Alba Fucens. In epoca molto antica il centro spirituale dei Marsi era il lago Fucinus e in particolare il bosco sacro alla dea Angitia, la loro divinità principale. I Marsi sono anche conosciuti come Marruvii, dal nome della loro prima capitale Marruvium, sulle sponde del lago Fucinus. Ã I MARSI, ESPERTI DI VELENI E MAGIA I Marsi devono il loro nome e la loro nascita a una migrazione rituale. In tempi immemorabili, infatti, si distaccarono dalla grande famiglia dei Sanniti con il rito della “primavera sacra” (vedere pag. 103) e si posero sotto la protezione del dio Marte, da cui presero il nome. Per questa discendenza, essi sono sempre stati grandi guerrieri, difficili da contrastare e sottomettere anche per i fieri soldati di Roma. Non sono le doti di guerrieri, però, che hanno reso i Marsi quasi leggendari, bensì la loro abilità di manipolare i serpenti velenosi e trattare i veleni. Nella lingua dell’Impero, ormai, la parola marsus è diventata un sinonimo per “incantatore di serpenti”. Le leggende popolari si spingono ancora più in là e insinuano che i Marsi abbiano il potere di trasformarsi in serpenti. Leggende a parte, i Marsi sono davvero molto esperti nella preparazione di pozioni e medicamenti che contengono modeste quantità di veleno. La maggior parte di essi svolge la professione di commercianti ambulanti di pozioni o ingredienti curativi. Svolgono questa attività sotto il controllo imperiale e molti di loro collaborano con i medici più esperti della capitale e di altri importanti centri di cura. Alcuni Marsi, infine, sono essi stessi guaritori. I Marsi sono un popolo piuttosto chiuso e, benché siano dei commercianti itineranti, essi amano sopra ogni cosa tornare alle loro montagne. Qui possono praticare apertamente le loro antiche tradizioni, che essi osservano nonostante i tanti secoli di inclusione nell’influenza di Roma. Benché sottomessi alla legge romana e ai suoi magistrati, essi tuttavia riconoscono l’autorità di un capo eletto dalla comunità detto meddix nell’antica lingua. Quanto alla religione, i Marsi sono tenacemente legati alle antiche divinità e non prestano molto interesse agli dèi del culto ufficiale. Essi venerano dunque Feronia, antica madre dei Latini e dei Sanniti (vedere pag. 71), i divini gemelli Castore e Polluce detti anche Dioscuri, e soprattutto Angitia, dea della magia e della guarigione. Ã IL LUCUS ANGITIAE Angitia è signora del Lucus Angitiae, un sacro bosco sperduto tra le montagne intorno al lago Fucinus. Il bosco-santuario è difficile da raggiungere per chi non è del luogo e anche piuttosto rischioso perché è situato in una piccola valle scavata tra gole infestate da serpenti. Questi sono compagni e custodi della dea, e i Marsi li credono discendenti del serpente Pitone che Apollo inseguì dalla Grecia fino a queste montagne, dove si nascose e prosperò. Il Lucus Angitiae è un santuario selvaggio, dove prestano il loro servizio sacro alla dea i più abili guaritori o guaritrici, esperti in tutti i veleni e, secondo alcuni, capaci di trasformarsi in serpenti. Al centro del bosco si trova una fontana magica le cui acque, si crede, costituiscono un antidoto a qualunque veleno. Essa sgorga da una roccia piuttosto alta, una sorta di piccola acropoli, sulla sommità della quale sorge un tempio dedicato alla dea. Si tratta di un edificio diverso da quelli diffusi nell’Impero, ornati sulla fronte da molte colonne. Il tempio di Angizia ha davanti all’entrata un portico sorretto al centro da un’unica colonna, mentre i lati si


118 ARCANA SATURNIAE TELLURIS appoggiano sui due muri perimetrali del tempio. All’interno del porticato si trovano due porte d’ingresso ben spaziate da cui diparte una duplice scalinata che consente l’accesso al tempio. Ai piedi di questa sgorga, la sorgente sacra, che poi scende ulteriormente a raccogliersi in un’ampia vasca. Attorno alla piccola acropoli sorgono alcuni edifici dedicati ad alloggiare i sacerdoti, all’accoglimento di pellegrini e malati, alla preparazione di pozioni medicamentose, all’allevamento di serpenti velenosi e non. Questi, in realtà, non sono confinati all’interno dell’edificio ma possono vagare liberamente per il santuario e l’intero bosco. ANGITIA, LA DEA DELLA MAGIA Angitia viene spesso considerata una dea capace di molta violenza perché dotata di caratteristiche stregonesche. Il nome stesso, Angitia, si lega al termine anguis, “serpente”, ed evoca aggressività, veneficio e morte. Silio Italico, avvocato e poeta che visse ai tempi del Divo Claudio, così la descrisse nella sua opera “La guerra punica” (libro VII, vv. 495-501): Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo; con le grida i fiumi tratteneva e, chiamandole, spogliava i monti delle selve. I versi riassumono quelle che da sempre sono considerate le caratteristiche più inquietanti di questa dea: innanzi tutto è esperta conoscitrice delle erbe velenose e sa manipolare un po’ tutti i veleni; la sua potenza magica è tale che può modificare il corso delle sfere celesti, mutare il corso dei fiumi con il suono della sua voce, privare le montagne della copertura magica delle foreste. Ciò che non si dice in questi versi è che ella è anche una guaritrice. È infatti una dea ambivalente, signora della natura, e come la natura, capace di dare la vita e la morte, curare o uccidere. Le erbe che ella sa maneggiare possono essere veleni ma anche farmaci a seconda del dosaggio. La fonte che scorre all’interno del suo bosco sacro è comunemente creduta un’acqua curativa, capace tra le altre cose di contrastare l’azione di qualunque veleno. È tuttavia vero che Angitia, diversamente da altre dee italiche la cui sfera di potere riguarda esclusivamente la natura, è anche signora di magia. Le leggende la dicono imparentata con le famose maghe Medea e Circe. Come indicato dai versi di Silio Italico, ella è definita “figlia di Eeta”. Costui era il fratello minore della maga Circe (vedere pag. 113) e come la sorella era versato nelle arti magiche. La figlia di Eeta, Medea, fu un’altra famosa maga. Le leggende sono incerte nello stabilire il rapporto tra Angitia, Medea e Eeta. Qualcuno ritiene che Eeta ebbe due figlie, entrambe versate nella magia: Medea e Angitia. Altri, invece, pensano che Medea e Angitia siano la stessa persona. Come narra il mito, Medea aiutò l’eroe greco Giasone a impadronirsi del Vello d’Oro, la pelliccia di un mitico ariete magico che re Eeta custodiva. In cambio del suo aiuto Giasone sposò Medea e la portò via con sé. Il matrimonio non ebbe esito felice. Giasone volle liberarsi di Medea per sposare un’altra donna, provocando l’ira della maga che uccise i suoi stessi figli, avuti con Giasone. Prima di poter essere punita per questo delitto, la maga fuggì su un carro volante trainato da draghi, mandatole da suo padre. Medea si sarebbe quindi rifugiata in Italia, nel territorio dei Marsi, che la considerarono una dea e le diedero il nome di Angitia. La magia di Angitia non è chiaramente conosciuta. Se dobbiamo fidarci del poeta, il potere magico di questa dea ricadrebbe comunque nella sfera della natura, coerentemente con le sue doti di guaritrice o avvelenatrice. Sarebbe, perciò, in grado di influire sull’assetto del mondo naturale: la terra, i fiumi, le foreste. Quanto alla luna, va sottolineato che questo astro è da sempre collegato all’attività magica e alle dee-maghe, quindi forse il senso del verso “traeva giù la luna dal cielo” va inteso come indicatore di una capacità magica molto potente, in grado di influenzare la lettura degli astri durante le divinazioni.


119 ARCANA SATURNIAE TELLURIS I SACERDOTI DI ANGITIA Chiunque tra i Marsi può essere un sacerdote di Angitia, non esiste un gruppo sociale destinato a ricoprire cariche sacre. Anzi, tutti gli appartenenti alla comunità dei Marsi sono tenuti a svolgere almeno una volta nella vita l’incarico sacro presso il Lucus Angitiae, il principale luogo di culto della dea. Sono ammessi sia uomini che donne purché siano di pura discendenza marsica. L’abilità di incantare i serpenti e di utilizzare i veleni, infatti, è in gran parte innata e non può essere appresa con la pratica. Tutti coloro che svolgono servizio presso il santuario della dea Angitia sono considerati soldati al servizio della dea e quindi tutti sono in grado di combattere per difendere il santuario o rispondere ad attacchi personali. A parte le caratteristiche di guaritori e manipolatori di serpenti, infatti, i sacerdoti di Angitia sono spesso eccellenti combattenti. Lo testimonia un passo dell’Eneide di Virgilio (libro VII, vv. 750-755) in cui così viene descritto Umbrone, sacerdote dei Marsi (qui indicati con il nome antico di Marruvii), che partecipa alla battaglia dei Latini contro i Rutuli: Poi ecco viene il fortissimo Umbrone, sacerdote della gente Marruvia, mandato dal re Anchippo, cinto sopra l’elmo di fronde d’olivo fecondo. Egli alla stirpe delle vipere e alle hydre dal respiro velenoso sapeva infondere il sonno con un gesto della mano e con il canto, e ne addolciva l’ira e ne guariva il morso con la sua arte. I sacerdoti di Angitia non hanno un abbigliamento specifico, ma possono essere individuati da una collana che sembra un serpente avvolta attorno al collo. Essa può essere di bronzo, d’argento ma anche semplicemente di cuoio lavorato. Alcune collane sono così ben eseguite che sembrano veri serpentelli attorcigliati al collo, e hanno dato vita alla leggenda secondo la quale ogni sacerdote ha una specie di famiglio che tiene sempre con sé, occultato sotto forma di monile. Sacerdoti di Angitia Valore medio: DV6 1 dado: Ratio 2 dadi: De Bello, De Corpore, Punti Vita, Sensibilitas 3 dadi: De Magia, De Natura (Serpenti, Veleni) Punti Vita: 12 Armi: Lancia (Danno 6) Protezioni: nessuna B Capacità Speciali: Veleno (2DV) B Poteri Magici: Tiro del Fato B La punta di qualunque arma dei sacerdoti è sempre intrisa di veleno di serpente, che provoca la condizione di Avvelenato a chiunque subisca almeno un danno


120 ARCANA SATURNIAE TELLURIS MONTI DI ANGITIA – TABELLA DEGLI INCONTRI Tirare 1d10 ogni volta che lo si ritiene rilevante. Tiro 1d10 Evento 1 La casa dei serpenti. I Custodes attraversano un villaggio fatto di poche capanne di legno, abitato da gente magra e piuttosto povera. In tanto squallore, attira subito l’attenzione una capanna ben tenuta, recintata con paletti ornati di fiori. A un certo punto entrano due bambini che tengono per la coda un topo vivo. Se i Custodes chiedono cosa sia, gli verrà detto che è la casa della dea, un edificio sacro. In realtà, è un piccolo allevamento di serpenti, che per la comunità sono animali sacri. Chi eventualmente disturbasse gli animali o, peggio, ne uccidesse qualcuno sarebbe subito attaccato con armi di fortuna (forconi, roncole ecc). 2 Il calderone. I Custodes incontrano una simpatica bambina seduta davanti a un piccolo fuoco acceso (non importa se in un villaggio o in area selvaggia). Sul fuoco c’è una grossa pentola di terracotta in cui sobbolle qualcosa che la bimba mescola con attenzione. Ogni tanto annusa il contenuto e poi aggiunge un pizzico di erbe che estrae da un sacchettino di stoffa. Se interpellata dice orgogliosa che è tutta opera sua ed è la prima volta che esegue quella ricetta senza la mamma. Solo dopo qualche scambio di frasi si capirà che si tratta del suo primo minestrone! 3 Il serparo. Dalla foresta spunta un uomo con una cesta di ramoscelli intrecciati sulle spalle. Accenna un veloce saluto ma non sembra volersi fermare a chiacchierare. Se i Custodes lo fermano per qualche domanda, lo farà di malavoglia e mostrerà di avere una certa fretta. Se si ascolta con attenzione (tiro di Sensibilitas con SD 6) ci si accorge che dalla cesta provengono fruscii e leggerissimi sibili. L’uomo è un cercatore di serpenti, un “serparo”. È molto esperto nel riconoscere veleni in ogni forma (polvere, liquidi ecc) e la pericolosità dei serpenti. Se interpellato con cortesia saprà dare utili informazioni ai Custodes (De Societate SD 6). Se infastidito, rovescerà la cesta e farà uscire (1:1) Serpenti velenosi, cui ordinerà di attaccare i suoi molestatori. 4 Una tagliaboschi? Una donna robusta e dall’aria tosta porta una fascina di legna sulle spalle. Alla cintura ha un’ascia dall’aria rozza ma con il filo lucido e ben levigato, segno di uso costante. È vestita con abiti semplici ma di buona fattura. Se interpellata, sostiene di essere una tagliaboschi. Un’osservazione accurata (Ingenium o Sensibilitas SD 6) rivelerà che sotto alla veste si intravede un serpente attorno al collo. La donna è quindi anche una sacerdotessa di Angitia e, oltre che per la legna, usa l’ascia come arma. Non è aggressiva ma l’interazione con lei richiede prudenza. 5 Il guaritore. Un uomo dall’aria affabile sta tagliando delle fasce di stoffa per farne delle bende. Accanto a sé ha una cassetta di legno ben ordinata piena di boccettine di liquidi colorati. È un guaritore e sente come suo dovere aiutare chi si trova nel bisogno o nella malattia. Non darà informazioni sul santuario di Angitia né su altri argomenti “riservati” circa i Marsi, ma sarà di aiuto in altre circostanze. 6 Il ruscello sacro. I Custodes giungono a un ruscello che si fa largo tra le rocce. È possibile attraversarlo saltando di pietra in pietra, ma poiché le rocce sono scivolose è necessario un tiro Coordinatio o De Corpore (SD 6). Chi cade, tuttavia, non è sfortunato. L’acqua è magica e ha grandi proprietà curative. Cancellerà a chi vi si immerge tutti i danni e aumenterà il Vigor di 2 punti per 2d6 ore. 7 Il passo dei serpenti. I Custodes giungono a una stretta gola che è l’unico passaggio tra due piccole valli. Si può passare solo in fila, uno per volta. Una volta impegnato il passaggio ci si rende conto che il fondo e le pareti della stretta gola sono ricoperti da serpenti di varia misura. Questo rende difficile camminare perché muovendosi i serpenti rendono instabile il terreno e fanno perdere presa alle mani (Coordinatio o De Corpore SD 6 per non cadere e subire 1d6 danni; chi cade, inoltre, viene immediatamente attaccato da un Serpente velenoso). Se uno dei Custodes finisse Avvelenato, nell’ora successiva incontrerà uno dei Marsi che saprà diagnosticare e curare la ferita.


121 ARCANA SATURNIAE TELLURIS 8 Il romito. I Custodes sentono parlare di un vecchio che vive solitario e in povertà in una caverna nei pressi, ed è in grado di avere visioni profetiche. Se i Custodes vi si recano e lo trattano con il dovuto rispetto, portando doni, possono ottenerne i favori. Indagando possono anche scoprire che è particolarmente ghiotto di focaccine al mosto. Se lo interrogano su una questione, il vecchio ingerisce un fungo, e dopo essere caduto in una sorta di trance, dà loro una risposta enigmatica ma utile (il preciso contenuto è lasciato al Demiurgo). Nella sua caverna ha diversi di questi funghi, che sono rari ma comunque si possono trovare nei boschi vicini con un tiro di De Natura o Sensibilitas (SD 9) per ogni ora di ricerca. Se però qualcun altro li ingerisce, ne ottiene solo violenti dolori intestinali per 1d3 giorni che causano la condizione Ammalato. 9 La creatrice di pozioni. In una capanna nel bosco vive una donna fuori di senno ma con fama di fattucchiera, che si dice sia in grado di creare pozioni dagli effetti imprevedibili. Se i Custodes si recano da lei, la trovano in uno stato di perenne confusione mentale, benché la sua casa sia ordinata e pulitissima. Possiede boccette, ampolle e pentolini con cui prepara infusi e bevande mescolando ingredienti apparentemente a caso e borbottando formule in una lingua incomprensibile. Tre ampolline trasparenti di vetro con tappo di sughero contengono altrettante pozioni dai vivaci colori. Chi le beve subisce un effetto casuale preso dalla Tabella delle fonti magiche (vedere pag. 108). Berne una seconda entro 24 ore aggiunge ai normali effetti anche quelli di un’intossicazione (condizione Ammalato). Portate via, dopo una settimana le pozioni iniziano a scolorire depositando sul fondo polverine brune. Dopo due settimane perdono ogni effetto. 10 Il leggendario uomo-orso. In un villaggio, i Custodes vengono a sapere che uno degli abitanti si trasforma di notte in orso e saccheggia le case. Ognuno sospetta dell’altro, ma nessuno ha certezze di chi si tratti davvero. La gente si barrica in casa, perché più volte l’uomo-orso ha sfondato le porte saccheggiando le cucine e anche, in un caso, uccidendo un uomo. Se i Custodes si fermano a indagare, di notte possono imbattersi nella creatura: ma è solo un Orso particolarmente grosso, curioso e coraggioso (DV12) che con le tenebre cala dai monti e viene in cerca di cibo fra le case, talvolta anche all’interno di esse.


122 ARCANA SATURNIAE TELLURIS MAGIA ETRUSCA Nell’ambito della magia tipica dell’Italia è necessario ora affrontare un argomento assai importante, meritevole di un capitolo a sé stante. Tra tutti i popoli che abitarono l’Italia prima di Roma, gli Etruschi furono quelli con maggiori conoscenze di divinazione e abilità nel praticarla. Roma riconosce senza mezze misure il debito che ha con questo popolo, da cui imparò molte nozioni che contribuirono a gettare le basi di un Impero senza fine. Gli Etruschi seppero maneggiare diverse forme di magia, non soltanto quelle relative alla divinazione. È utile quindi dilungarsi un po’ sulle conoscenze di questo popolo. LE TERRE ETRUSCHE Il popolo etrusco ha origini ignote. Secondo molti storici greci, tra i quali Erodoto, proveniva dalla Lydia e si insediò probabilmente nella Pianura Padana. Tre secoli prima della fondazione di Roma, gli Etruschi passarono l’Appennino e si diffusero nell’Italia Centrale, ove fondarono le città di Arretium, Caere, Clusium, Cortona, Perusia, Rusellae, Tarquinia, Veii, Vetulonia, Volsinii, Volaterrae e Vulci. Furono queste stesse città, da sole o federate tra loro, a inviare coloni per tutta Italia. Vennero così edificati o conquistati nuovi centri urbani un po’ ovunque: da Felsina a Pompeii, da Ariminum a Capua. Spedizioni per mare portarono a insediamenti sull’Isola d’Ilva (per sfruttarne le miniere di ferro) e in Corsica. La stessa Roma cadde in mani etrusche, e c’è addirittura chi sostiene che furono gli Etruschi a farne una vera e propria città, laddove prima sorgevano solo dei villaggi; certo è che furono Etruschi i re di Roma Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Dopo due secoli dalla fondazione di Roma, gli Etruschi erano ormai la popolazione più diffusa, potente e ricca sul territorio italico; i suoi marinai e i suoi pirati erano i padroni del Tirreno settentrionale. Ã LA SACRA TELLUS ETRUSCA Con il passare dei secoli la presenza etrusca si consolidò in un ambito geografico ben preciso, e cioè in quella parte dell’Italia centrale compresa tra i fiumi Arnus e Tiberis e la costa tirrenica. Questa era per loro una “terra sacra”, e non per modo di dire. Tale terra fu identificata secondo il sacro schema del “templum”, utilizzando cioè il metodo con cui si suddivide il cielo in regioni consacrate per poter trarre vaticini dal volo degli uccelli. Questo sistema di suddivisione e consacrazione dello spazio, inventato dagli Etruschi, è anche alla base della dottrina divinatoria romana (vedere pag. 126). Ebbene, gli Aruspici etruschi con la loro arte identificarono i limiti dello spazio sacro della loro propria terra. Dopo tanti secoli è difficile identificare con certezza questi confini così intensamente amati e difesi: si tratta di un segreto che gli Etruschi hanno custodito così bene che è sepolto ormai nelle sabbie della clessidra degli dèi. Tuttavia i nostri Aruspici, avendo ereditato parte della documentazione religiosa prodotta durante il periodo dei re etruschi a Roma, hanno potuto farsi un’idea di come fossero tracciati questi allineamenti magici. Il punto di allineamento più settentrionale del “quadrato sacro” fu probabilmente fissato in corrispondenza della foce del fiume Arnus e quello più meridionale alla foce del fiume Tiberis. Questi sono i confini tradizionali dell’Etruria con i popoli a nord e a sud. Il Tiberis, soprattutto, costituì per secoli una divisione anche culturale tra noi e gli Etruschi. Persino nel cuore dell’Urbe la riva destra del Tiberis, quella verso nord e quindi verso il territorio etrusco, fu a lungo percepita come “straniera”: per molti secoli solo nella regione cittadina detta Transtiberim, “al di là del Tiberis”, fu permesso di costruire i templi di divinità non romane. A ovest non è difficile ipotizzare che il confine passasse per l’Isola Ilva, mentre a est è più difficile comprendere quale punto fosse considerato importante. Diciamo che, più o meno, possiamo ritenere che si trovasse all’altezza di Perusia, oppure di Tuder, cittadina il cui nome antico significa “confine”. Ovviamente sono ipotesi, e purtroppo, il grado di indeterminatezza di questa ricostruzione ci impedisce di identificare il punto più importante, ovvero il “mundus”, il centro di questo schema. Quando si traccia il templum per osservare il cielo, il mundus è il punto in cui si scava la fossa sacra in cui andranno versate le offerte per i sacrifici agli dèi. Nel caso della fondazione di una città, oltre alle offerte si deposita una tavoletta con il nome segreto della città e del suo nume tutelare, il “genius”. Solo conoscendo questi nomi è possibile conquistare del tutto una città o un popolo, evocando cioè il genius della città e portandolo via (per maggiori informazioni, vedere anche il modulo Encyclopaedia Arcana). Il mundus della terra etrusca non è stato mai individuato e quindi, sia pure in via teorica, Roma non ha veramente conquistato questo orgoglioso e sapiente popolo. Conoscere il punto esatto del mundus etrusco offrirebbe un altro vantaggio. Puntando un compasso sul mundus e utilizzando come limite i punti estremi a nord e a sud si potrebbe delimitare un cerchio che racchiude l’estensione della “sacra tellus”, la terra sacra degli Etruschi. Il compasso puntato sui punti estremi a oriente e occidente (assi principali nell’allineamento sacro) individuerebbe una circonferenza più piccola che racchiuderebbe l’area “sacra et sancta”, sacra e intoccabile, il cuore della potenza etrusca. Se si riuscisse a conoscere con precisione ogni elemento geografico per ricreare questi allineamenti in maniera precisa e sicura, potremmo forse impadronirci di ogni segreto ancora nascosto dal popolo etrusco. Ã LA DODECAPOLI È utile ricordare che gli Etruschi furono un popolo con una cultura e una lingua comuni, tanto da essere tutt’ora ricordati come “la nazione etrusca”, e tuttavia furono assai divisi nella politica. Anzi, tra le città etrusche sorsero dissidi che non di rado sfociarono in guerre. Il concetto di nazione va applicato solo alle usanze, poiché ogni città ebbe un proprio governo e fu sempre indipendente dalle altre. Ciascuna città era governata da un magistrato di rango superiore con prerogative anche religiose, una specie di re-sacerdote detto lu-


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124 ARCANA SATURNIAE TELLURIS cumone, e da altri magistrati a lui subalterni che duravano in carica un tempo limitato. Tra le tante città, comunque, dodici possono essere trattate come un’unità politica, se non territoriale. Si tratta di quelle che il geografo Strabone ricorda come tutte fondate dal mitico re Tyrrhenos. Esse si unirono a formare una specie di confederazione, un’alleanza basata sull’uguaglianza e sul rispetto: la Lega dalle Dodici Città o Dodecapoli. Esse furono: I rappresentanti della Dodecapoli usavano riunirsi una volta all’anno, alle Idi di agosto, nel santuario dedicato al dio etrusco Voltumna (vedere più avanti) per decidere le comuni strategie politiche, organizzare eventuali difese contro comuni nemici, stabilire le regole degli scambi commerciali, e soprattutto, celebrare potenti riti magico-religiosi. Sceglievano, inoltre, un capo comune, una specie di condottiero superiore a ogni altro lucumone locale che per un anno aveva il comando della Dodecapoli. Questo magistrato portava un nome in lingua etrusca, zilath rasnal, “il capo dei Rasnal”, essendo Rasnal o Rasenna il nome che gli Etruschi si davano nella loro lingua. Ã IL FANUM VOLTUMNAE Il santuario del dio Voltumna è oggi identificato con un antico santuario nei pressi di Volsinii. Il dio ha anche un nome romano, Vertumnus, e la sua antichità lo fa annoverare tra gli Dèi Indigetes. Tuttavia Vertumnus non è mai stato una divinità particolarmente amata dal popolo romano. Qualcuno dubita persino che sia mai esistito un dio con questo nome, Si tratterebbe infatti di un epiteto del dio Tinia, che nel pantheon etrusco equivale al nostro Giove (vedere più avanti). Anche presso i locali, il dio Voltumna sembra oggi una divinità praticamente dimenticata. Viene commemorata solo in questa festa locale e non per particolari scopi religiosi. La festa è infatti tenuta in vita un po’ artificialmente perché raccoglie molti visitatori e riempie le tasche dei commercianti del luogo. Il fascino degli antichi Etruschi è ancora vivo sia tra gli annoiati nobili di Roma che presso il popolo credulone. Durante i tre giorni della festa, dalle Idi di agosto fino al terzo giorno dopo le Idi, si vendono centinaia di amuleti “etruschi” di tutti i prezzi, di materiali vari, dall’oro fino alla semplice terracotta, ornati di iscrizioni “etrusche” che nessuno è in grado di leggere. Grande commercio hanno anche i famosi vasi di terracotta nera, i buccheri. Il fatto che il segreto per produrre buccheri autentici sia perduto e che si tratti solo di normale terracotta verniciata di nero non impressiona nessuno, e si vendono molto bene. In realtà, le ricerche eseguite dai nostri Auguri rivelano che la posizione esatta del Fanum Voltumnae è sconosciuta e il santuario di Volsinii non è quello storicamente utilizzato per le grandi riunioni della Dodecapoli. La cosa è perfettamente comprensibile se si riflette sul fatto che difficilmente l’alleanza avrebbe reso noto il luogo delle riunioni proprio ai più acerrimi nemici, cioè il popolo romano. L’ubicazione di questo santuario è quindi perduta nelle nebbie del passato e nessuno lo frequenta più. Alcuni agentes in rebus, tuttavia, sostengono che vi siano indizi di una ripresa di frequentazione in diversi antichi insediamenti etruschi. Secondo loro ciò si legherebbe alle attività di una specie di associazione politica segreta, la Fratellanza dei Dodici Popoli, e il Santuario di Voltumna, quello vero, sarebbe di nuovo il luogo di riunione di cospiratori contro il potere di Roma (vedere pag. 158). Sarebbe opportuno dare inizio a ricerche accurate. Ã IL CICLO DEI MILLE ANNI Al santuario di Voltumna si lega un’altra tradizione un tempo diffusa tra gli Etruschi. Di nuovo abbiamo qualche indizio di ciò attraverso i documenti che i nostri Aruspici sono riusciti a rintracciare in antichissimi archivi del sacro sodalizio. Gli Etruschi credevano che la storia umana in generale e quella del loro popolo in particolare si suddividesse in cicli di cento anni. Secondo una importante profezia al popolo etrusco sarebbero toccati dieci di questi cicli, in tutto mille anni. Per tenere conto esatto, nel corso della annuale riunione presso il Fanum Voltumnae, i rappresentanti delle Dodici Città usavano piantare un chiodo di bronzo dorato all’interno di uno degli edifici di culto. L’inizio dei mille anni viene tradizionalmente collocato circa tre secoli prima della nascita di Roma. La fine, pare, fu calcolata da un Aruspice durante il funerale di Cesare: egli credette di vedere solle,- Nome latino Nome etrusco Arretium Artinia Caere Kyrsa Clusium Klevsin Cortona Curtun Perusia Perusna Rusellae Russel Tarquinia Tarkhnas Veii Veii Vetulonia Vethluni Volsinii Velzna Volaterrae Velathri Vulci Velch


125 ARCANA SATURNIAE TELLURIS BREVE STORIA DEL POPOLO ETRUSCO Il geografo greco Strabone sostiene che gli Etruschi vengono dalla Lydia, cioè dal cuore di quella che oggi è la provincia di Asia. I Greci li chiamarono Tyrrheni da Tyrrhenos, il re che li guidò dalla Lydia fino in Italia. La migrazione si rese necessaria a causa di una terribile carestia che colpì anticamente la Lydia al tempo di un re chiamato Atys. Tale era la situazione che i Lidi potevano mangiare solo a giorni alterni. Nei giorni in cui dovevano astenersi dal cibo cercavano di distrarsi, e per far ciò inventarono moltissimi giochi, dagli astragali alla palla fino ai dadi. Fu proprio con un dado che il re prese una decisione che coinvolse anche noi Italici. Decise, infatti, di dividere il popolo in due metà e di mandarne una a cercare fortuna in una nuova terra. Affidò il comando della spedizione a suo figlio Tyrrhenos e sorteggiò i migranti con un dado. Si dice che questo sorteggio non fu un gesto casuale: il dado sarebbe stato in realtà magico e avrebbe consentito predizioni accurate. Qualcuno lo identifica oggi con il mitico dado con cui Cesare avrebbe preso la decisione di attraversare il Rubicone (vedere a pag. 110). Una volta arrivati in Italia, i Tyrrheni si ambientarono tanto bene da divenire, nei tempi più antichi, una delle maggiori potenze del mondo antico. Sottomisero la gran parte dei popoli dell’Italia centrale compresi, bisogna ammetterlo, noi Romani. Sbarrarono il passo all’espansione cartaginese sulle coste tirreniche, alla forza ribollente dei Celti nella pianura del Padus e alla colonizzazione greca che risaliva dal sud della penisola. L’impresa è tanto più ammirevole se si considera che gli Etruschi restarono sempre divisi in città-stato e mai vollero riunirsi a formare un’unica nazione sotto un’unica guida politica. Fu questa mancanza di unità, nel lungo periodo, a rivelarsi fatale: gli Italici sottomessi, come i Romani e gli Osci, tendevano a ribellarsi, mentre ai confini il nemico era rappresentato dai Greci e dai Celti. La minaccia greca venne in un primo tempo sventata grazie all’alleanza con i Cartaginesi, ma nel 229 aUc, gli Etruschi vennero sconfitti nella battaglia di Aricia ad opera dei Latini alleati con i Cumani, e persero buona parte del dominio sul Latium. Nel 243 aUc, un’insurrezione popolare guidata da Giunio Bruto cacciò da Roma re Tarquinio il Superbo e con lui tutti gli Etruschi: occasione della rivolta fu l’oltraggio arrecato a Lucrezia, moglie di Collatino, dal figlio del re Sesto. Roma divenne una Repubblica e si affermò padrona del Latium dopo aver battuto i Latini sul Lago Regillo (254 aUc). I Greci sconfissero gli Etruschi in una battaglia navale presso Cumae (279 aUc) e infine, nel IV secolo aUc, i Galli scesero in Italia e devastarono numerose città. Nel periodo successivo, la storia delle città etrusche è un continuo resistere, cadere, insorgere e nuovamente cedere nei confronti del domino romano. Mentre la Città Eterna si avvia a diventare padrona del mondo, le città etrusche perdono sempre più importanza e territori. La maggior parte delle città etrusche entrò a far parte del territorio di Roma già alla fine del VII secolo aUc, pur mantenendo un certo grado di indipendenza. Persero la loro autonomia con la Lex Iulia del 664 aUc, ma acquisirono la cittadinanza romana. Da quel momento gli Etruschi vennero assorbiti nella nostra cultura. Ai tempi del divino Augusto, gli Etruschi erano ormai romani come tutti gli altri, e parlavano soltanto il latino.


126 ARCANA SATURNIAE TELLURIS varsi dalla pira funebre del condottiero un’aquila e interpretò quel segno come l’alba di una nuova era. Ascendeva nel cielo la potenza di Roma, declinava contemporaneamente lo spirito del popolo etrusco. I dieci secoli degli Etruschi si erano compiuti. I documenti tuttavia, benché assai incompleti e difficili da leggere perché in gran parte in etrusco, sembrano attestare che da qualche parte nel santuario di Voltumna sarebbero stati piantati 961 chiodi. Il ciclo di mille anni, quasi completo, testimonierebbe la correttezza di questa predizione. Il fatto però che a questo computo manchino 40 anni è stato molto male accettato da alcuni seguaci dell’antica religione etrusca. Pare che essi abbiano giurato di vendicarsi per la prematura fine del ciclo promesso dagli dèi. Riporto la notizia per dovere di completezza, anche se tanto rancore per una perdita di soli 40 anni sembra un po’ irrealistica. LA ETRUSCA DISCIPLINA Possiamo affermare senza timore di essere smentiti che gli Etruschi sono stati i maestri di Roma in tutto quello che riguarda i rapporti tra il mondo umano e quello divino. Questo complesso di nozioni teoriche e pratiche è comunemente definito Etrusca Disciplina. Questo popolo, infatti, da un lato aveva un grande senso del sacro, dall’altro era dotato di forte senso pratico. Facendo incontrare queste due preziose qualità ha potuto riconoscere schemi nelle potenze soprannaturali e quindi stilare regole per studiarle e persino dominarle, almeno fino a un certo punto. Mentre, dunque, i popoli a loro coevi brancolavano nel buio del terrore divino e della superstizione, gli Etruschi ponevano le basi per una scienza religiosa che ha loro permesso di esistere e prosperare per quasi un millennio. Ã IL PANTHEON ETRUSCO Gli Etruschi, come noi, veneravano molti dèi. Alcuni di essi hanno quasi le stesse caratteristiche delle nostre principali divinità. Non si tratta di un caso: nel grande bacino del Mare Nostrum frequenti erano anche nell’antichità gli scambi culturali. Le genti greche, etrusche e poi romane giunsero a condividere la venerazione di molti dèi. Altri dèi, invece, appartenevano solo al popolo etrusco e i loro nomi sono oggi scomparsi, dimenticati persino dagli abitanti di quella che secoli orsono fu l’Etruria e sostituiti dalle divinità del culto ufficiale. Cosa che comunque non è positiva, perché un dio dimenticato è spesso crudele verso gli uomini e l’ignoranza non genera tolleranza. Gli dèi “dimenticati” sono soprattutto quelli legati ad aspetti misteriosi e oscuri della cultura etrusca, divinità legate alla profezia e al mondo infero, ambiti in cui gli Etruschi svilupparono conoscenze superiori a ogni altro popolo italico. Vediamoli dunque in dettaglio. UNA CIVILTÀ RAFFINATA La vita quotidiana degli Etruschi era raffinata e lussuosa. Questa passione per le cose belle e la dolcezza della vita fu un grave elemento di incomprensione con i nostri austeri progenitori. Per i Romani del periodo repubblicano, infatti, era deprecabile il gusto dell’aristocrazia etrusca per i gioielli, le danze e i banchetti. Altrettanto scandalosa la libertà e l’autorità di cui godevano le donne etrusche: erano praticamente loro a dominare la vita familiare e godevano assieme ai loro mariti delle feste, dei giochi e degli spettacoli. Tanto scandalo si è rivelato davvero inutile. Dopo tanti secoli la società romana considera normali molti dei comportamenti che deprecava negli Etruschi! L’arte etrusca, a sua volta assai raffinata, trovò grandi ammiratori a Roma, anche se in principio fu criticata dai conservatori. Scultura, pittura e oreficeria subivano l’influenza delle arti greche ma mostravano una vivace interpretazione locale. Statue e bassorilievi erano per lo più di pietra (ma non di marmo) o di terracotta; gli affreschi raffiguravano scene di vita quotidiana, banchetti, giochi, duelli, rituali o soggetti religiosi. Gli Etruschi furono grandemente esperti nell’arte di costruire, sia come architetti che come ingegneri. Essi, infatti, svilupparono il modello di tempio usato in Italia, più basso e massiccio di quelli greci, utilizzato anche per il massimo tempio di Roma, il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio. Realizzarono, inoltre, molte opere di pubblica utilità, tra cui sistemi di raccolta delle acque fognarie, come la grande Cloaca Maxima a Roma, e molti acquedotti di cui noi romani abbiamo ereditato l’arte. L’amore per le bellezze della vita li ispirò anche nell’oreficeria. L’oro veniva scolpito, sbalzato, lavorato a filigrana o a gocce con una tecnica che ancora oggi in Etruria è eseguita in modo superiore a ogni altro popolo. Altri notevoli lavori venivano eseguiti in bronzo, in avorio, in ambra intagliata. Da questa arte apparentemente frivola trassero poi ispirazione per un tipo di medicina curativa ed estetica nello stesso tempo. Impararono a riparare o sostituire i denti mangiati dalla malattia, fasciando quelli danneggiati con sottili lamelle d’oro o addirittura ricostruendo i denti perduti con avorio e oro. Particolarmente apprezzate sono, anche oggi le ceramiche etrusche, soprattutto i buccheri: vasi creati con uno speciale impasto nero di cui si è persa la composizione.


127 ARCANA SATURNIAE TELLURIS IL NOME SEGRETO DI UN POPOLO Gli Etruschi sono un popolo celebre ma per certi versi ancora misterioso. Ne è prova il fatto che non si è ancora certi di quale fosse il vero nome di questa stirpe di genti. Diversi autori ne trattano la storia, ma ciascuno li chiama con nomi diversi. Si dice che essi fossero parte degli antichi Pelasgi che da est migrarono verso le aree occidentali del Mare Nostrum. Secondo Erodoto si chiamavano in origine Lidi, poiché secondo lui venivano dalla Lydia, oggi il cuore della provincia di Asia. Presero il nome di Tyrrheni quando si stabilirono in Italia, in omaggio al re Tyrrheno che li aveva guidati in questa lunga migrazione. I Greci li chiamarono dunque Tyrrheni ma anche con la variante Tyrsenoi. I Latini li chiamarono invece Tusci, tanto che ancora oggi l’area un tempo chiamata Etruria è per noi la Tuscia. Il nome sarebbe una semplificazione del termine Etrusci, oggi molto utilizzato. Dionigi di Alicarnasso, storico ed erudito che visse nell’età del divino Augusto, fu il primo a affrontare in modo critico la questione e attinse direttamente a documenti etruschi. Fu lui a suggerire per la prima volta che il nome di questo popolo fosse Rasenna, una parola nella lingua etrusca e non derivata da lingue di altri popoli. Forse il termine più preciso è Rasna, come sembra indicare qualche testo storico che tratta di questo popolo. Per esempio, il grande capo della Confederazione delle Dodici Città sembra venisse definito zilath Rasna, “capo dei Rasna”. La questione si è fermata qui. Dopo Dionigi di Alicarnasso nessuno ha ripreso questo studio, tranne forse l’Imperatore Claudio, che per i suoi approfonditi studi su questo popolo fu chiamato “l’imperatore etruscologo”. Purtroppo la collezione degli scritti di Claudio che riguardavano la cultura etrusca è scomparsa subito dopo la sua morte. Divinità Etrusca Corrispettivo Romano Corrispettivo Greco Aita Plutone Ades Aplu Apollo Apollo Artume Diana Artemide Fufluns Bacco Dionysos Herkle Ercole Herakles Horta Cerere Demetra Mae Maia Maia Mania Furia Erinni Menrva Minerva Athena Maris Marte Ares Nethuns Nettuno Poseidon Satres Saturno Cronos Selvans Silvanus / Semia Tellus Gea Sethlans Vulcano Efesto Thesan Aurora Eos Tinia Giove Zeus Turan Venere Afrodite Turms Mercurio Hermes Uni Giunone Hera Usil Sol Invictus Helios Vetisi Veiovis /


128 ARCANA SATURNIAE TELLURIS CHARUN È il custode del regno infernale etrusco. Appare solitamente nelle vesti di un demone alato con la pelle bluastra, il viso ghignante, un lungo naso adunco e una corta barba, vestito di una piccola tunica e con un mantello fermato sulla spalla. Suo attributo caratteristico è il maglio, un enorme martello fissato a un lungo bastone che porta appoggiato su una spalla e che gli serve per piantare con forza un chiodo sulla porta delle tombe a simboleggiare la definitiva dipartita del defunto. Charun presenzia sempre alle morti violente e spesso appare a coloro che devono morire per annunciarne la fine imminente. Suo compito è consentire il passaggio dell'anima, conducendola alla eterna dannazione o, se lo merita, ai felici Campi Elisi. Controlla anche le tombe e le sepolture, dove è spesso effigiato sulle porte a protezione del riposo del defunto: la profanazione di una tomba scatena la sua terribile ira e un'immediata violenta vendetta. LASA Le Lasa sono misteriose semidivinità intimamente legate alla magica terra d’Etruria, una sorta di ninfe locali con caratteristiche spiccatamente legate alla pratica della divinazione caratterizzate ciascuna da una propria peculiarità e attributi specifici: oltre alle capacità divinatorie, infatti, esse hanno speciali poteri che le rendono in grado di aiutare i mortali che si trovino a incontrarle, o viceversa nuocere loro. Hanno l’aspetto di giovinette alate prodigiosamente belle. Esse sono: A Achununa. È una fanciulla severa, con lunghi capelli neri e occhi fermi, che si mostra disinvoltamente nuda come gli eroi e porta in mano una corona di quercia. La si può trovare ad accompagnare, come uno spirito amico, i condottieri che compiono atti coraggiosi e disperati in battaglia. Accorda, infatti, la sua protezione ai valorosi di cuore, a chi si comporta coraggiosamente in ogni circostanza della vita e ai soldati. Punisce con immediata violenza i tradimenti, la rottura delle promesse e dei giuramenti. Non compare mai in forma completamente visibile, ma la sua figura è sfocata come se il suo corpo non avesse sostanza materiale. A Racuneta. Racuneta appare come la più matura e saggia delle Lasa. Il suo viso è dolce e comprensivo; veste una lunga tunica leggera ed elegante e porta nelle mani un piccolo vasetto di alabastro. È una guaritrice e non rifiuta mai di aiutare chi la prega per salvare un ferito o un malato. Si dice che in particolari circostanze possa donare qualche goccia di un preparato prodigioso che tiene nel vasetto. A Sitmica. Compare nella forma di una fanciulla succintamente vestita con leggeri veli trasparenti, che stringe nella destra una lancia. Il suo ambiente preferito è la foresta, dove viene spesso sorpresa mentre caccia: è molto timida e schiva e non gradisce intrattenersi con gli uomini, che anzi sfugge in ogni modo. A Thimrae. È la più giovane delle Lasa e ama accompagnare e proteggere i bambini e i novizi di qualsiasi disciplina. Appare come una fanciulla sorridente in abiti colorati che giocherella con uno specchio. Conversa volentieri con i mortali, dei quali apprezza la compagnia: ma è molto burlona e spesso si diverte a giocare qualche scherzo a coloro che la trattano con troppa familiarità. A Vecuvia. Chiamata anche Vegoia, tra le Lasa ha una posizione di preminenza poiché, secondo antiche e controverse leggende tramandate dagli aruspici etruschi, sarebbe l’autrice di una raccolta di rituali profetici: i misteriosi Libri Haruspicini. È una fanciulla bionda vestita da una leggera tunica corta e porta nelle mani un volumen, il rotolo che racchiude i rituali profetici da lei compilati. Non ama la luce del giorno e preferisce manifestarsi nelle ombre della notte o al crepuscolo. Normalmente non esaudisce volentieri le suppliche dei mortali che le chiedono una profezia, tuttavia è più sensibile alle invocazioni degli aruspici e dei veggenti. NORTHIA È una dea mutevole e indefinita, signora degli eventi fatali, pertanto noi abbiamo tentato di identificarla con la capricciosa Fortuna. È la compagna di Voltumna e aveva un suo tempio all’interno del Fanum Voltumnae. Si dice che proprio nel tempio di Northia venisse conficcato ogni anno il chiodo che testimoniava il conteggio dei “cicli” della storia etrusca. Per questo motivo la dea è spesso simbolicamente raffigurata come un grande chiodo decorato. TARCHET (TAGES) Dio fanciullo, inventore dell’aruspicina. Il suo nome originale in etrusco era Tarchet ma è ormai maggiormente conosciuto con la variante latinizzata Tages. Le notizie su questo dio veggente sono considerate piuttosto affidabili poiché riportate nientemeno che dal sapiente Cicerone nella sua opera De Divinatione. Riguardo a questo particolare argomento egli sostiene di aver tratto informazioni dirette da antichi libri etruschi. Ricordiamo che al tempo di Cicerone, circa 5 secoli fa, esistevano ancora intellettuali in grado di parlare e scrivere la lingua etrusca, che era persino comune tra i popolani dell’Etruria. Possiamo quindi fidarci delle informazioni di Cicerone. Egli dunque riporta questa leggenda: un contadino etrusco, arando più profondamente del solito, vide uscire dal solco dell’aratro un fanciullo sano e vispo. A parte questo prodigio, restò anche stupito da ciò che il fanciullo diceva: egli infatti parlava come un vecchio saggio e mostrava di avere grandi conoscenze nelle cose divine. Si decise quindi di mettere subito per iscritto tutto quello che diceva, e nacque così il nucleo centrale dei Libri Haruspicini, una collezione inestimabile di riti, istruzioni e nozioni utili a interpretare i segni profetici. Va sottolineato che il contadino, di nome Tarchonte, fu il primo flamine del popolo etrusco e divenne un’autorità in materie religiose. La sapienza di Tages fu talmente vasta che lasciò molte raccolte di scritti, purtroppo non tutte giunte a noi. Esse sono:


129 ARCANA SATURNIAE TELLURIS A Libri Acheruntici. Descrizione dell’Oltretomba, dei suoi dèi e dei rituali adatti a impedire o estinguere la collera degli dèi inferi: esorcismi, evocazioni e contro-evocazioni. L’opera conteneva anche rituali mirati a richiedere l’assistenza di queste divinità nella divinazione. Se ne conservano pochissimi brani perché, in tempi molto antichi, furono copiati e tradotti in latino da sacerdoti romani per i loro studi. A Libri Exercituales. Rituali e istruzioni sul dominio degli eserciti. Completamente sconosciuto perché perduto da secoli. Non si è neppure sicuri sia mai esistito. A Libri Fatales. Preziosissimo compendio di regole e leggi misteriose che il Fato applica per indirizzare il destino di singoli esseri umani e del popolo etrusco in generale. Conoscerle significherebbe essere in grado di influenzare il flusso degli eventi di persone e nazioni. Purtroppo l’opera è perduta. A Libri Fulgurales. Trattazione completa della potente arte etrusca di controllo delle folgori. L’opera sarebbe in realtà una collaborazione tra Tages e la Lasa Vegoia. L’opera è perduta. A Libri Haruspicini. L’opera principale di Tages. I Libri contengono istruzioni relative all’esecuzione dei sacrifici divinatori e alla relativa lettura delle viscere degli animali sacrificali. Costituiscono la base su cui si sviluppò tutta la scienza divinatoria etrusca. Durante il periodo dei re etruschi a Roma questa conoscenza passò anche ai sacerdoti dell’Urbe ed è quindi sulla stessa base che si sviluppò la divinazione romana. L’opera è arrivata praticamente integra ai giorni nostri ed è ora in possesso del Collegio degli Aruspici (vedere più avanti). A Libri Rituales. Manuali dettagliatissimi per ogni tipo di riti di uso pubblico e privato. Opera perduta ma diversi estratti sono stati inglobati nelle antologie di rituali in uso presso il Collegio degli Auguri. A Ostentaria. Calendari e cataloghi di prodigi (ostenta) che si manifestarono nel periodo della potenza etrusca. Purtroppo l’opera risulta scomparsa. TUCHULCHA Demone dell’Oltretomba, emissario di Charun. È una semidivinità della vendetta e della punizione che, similmente alle Erinni greche, perseguita chi si è macchiato di un delitto contro le leggi naturali e morali. Tuchulcha ha un aspetto mostruoso: un viso contorto in mezzo al quale spicca un lungo becco da uccello rapace, niente labbra ma una linea sottile al posto della bocca, lunghe orecchie animalesche, due grossi serpenti drizzati sulla testa, zampe armate con artigli simili a quelli dei rapaci. VANTH È la compagna di Charun, anch’essa messaggera di un destino ineluttabile. A differenza di Charun, però, ha un’indole meno aggressiva ed è piuttosto preposta al controllo della durata della vita dei mortali. Come le Parche greche, infatti, presiede al momento supremo della morte e spesso compare ai moribondi con una spada che le servirà per reciderne il filo della vita. Ha l’aspetto di una giovane donna bella e triste; è dotata di ali e veste una lunga tunica graziosamente stretta in vita da una cintura e con dei nastri incrociati sul petto, nonché calzari ricamati. Suo attributo caratteristico è la fiaccola, che mostra rovesciata e spenta a colui del quale annuncia la morte, a significare che la luce dell’esistenza si è estinta. VOLTUMNA È il supremo dio della nazione etrusca: lo storico Varrone lo definì “deus Etruriae princeps”, il dio principe dell’Etruria. Curiosamente però, Voltumna non è indicato in alcun catalogo delle divinità etrusche giunto fino a noi. È spesso citato da storici e studiosi, ma non abbiamo un trattato che parli esplicitamente di lui. Come abbiamo visto, la divinità etrusca corrispondente al nostro Giove risulta essere Tinia. Come mai, dunque, attraverso tutti i secoli è giunta fino a noi la notizia che Voltumna sia il principale dio etrusco, pur non sostenuta da prove? Voltumna è un dio sfuggente, e viene identificato con molti nomi: Voltumna, Veltune, Veltha, Vel. Ha persino un nome latino, Vertumnus, e fa parte dei più antichi Dèi Indigetes. La sua personalità è spesso contraddittoria. È un dio guerresco e ama l’azione, i duelli, il sangue versato con coraggio, ma aiuta dolcemente la terra a prosperare e fiorire. Mostra una certa indeterminatezza riguardo al sesso, comparendo in veste femminile o maschile a suo piacere. A volte agisce in modo crudele e assume sembianze mostruose, come un demone dell’Oltretomba. È difficile dire se queste caratteristiche siano tutte veramente appartenenti al dio oppure se attraverso i secoli sia stata operata dagli Etruschi una ragionata opera di dissimulazione per impedire che il loro dio più importante venisse conosciuto dai popoli esterni, magari nemici. Va ricordato che conoscere il vero nome di un dio, come di una città, lo espone ai colpi dei nemici e a una eventuale azione di rapimento o conquista. In quest’ottica, dovremmo ipotizzare che la documentazione storica su questo dio sia stata fatta sparire apposta. La stessa operazione di occultamento sarebbe stata applicata anche al suo santuario, il luogo tradizionale di raccolta delle genti etrusche. Ã LA HARUSPICINA Tra le tante discipline inventate dagli Etruschi per conoscere la volontà degli dèi la più nota è senz’altro la Haruspicina (o Aruspicina). È la scienza, perché di ciò si tratta, inventata dagli Etruschi per ottenere divinazioni attraverso l’esame delle viscere degli animali. Il nome indica chiaramente la natura di questa pratica: har significa “fegato” e spicio indica l’atto di “guardare”. La definisco scienza non a caso. La lettura delle viscere degli animali si deve svolgere secondo regole chiaramente espresse e seguendo una procedura fissa descritta con grande precisione nei testi degli Haruspices (o Aruspici). Non si tratta di “ispirazione”, quanto piuttosto di studio lungo e faticoso, continuo esercizio e conoscenza delle regole che disciplinano tutto l’Universo. Chiunque la può imparare purché sia insegnata da persone esperte. Tuttavia, come in ogni disciplina del sapere, c’è chi è più portato e chi meno. Dunque non tutti sono in grado di diventare Aruspici eccellenti pur ricevendo la giusta istruzione.


130 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Questa scienza serve per comprendere se una certa attività è guardata con favore dagli dèi e, di conseguenza, avrà esito felice. Il mezzo attraverso il quale si ottengono queste indicazioni è l’esame del fegato delle vittime che vengono immolate agli dèi. Le più utili per questo scopo sono le pecore. Quest’organo, infatti, è da noi considerato la sede del coraggio e degli affetti, dell’intelligenza e dell’ira, insomma è una specie di “tempio terrestre”, che racchiude tutto ciò che compete alla vita degli umani. Corrisponde al “tempio celeste” dove si muovono gli dèi. Ogni dio ha competenza su una certa parte del cielo, che si può immaginare suddiviso in tanti settori. La stessa suddivisione si può rintracciare in un fegato, perciò osservando i segni che eventualmente appaiono su questo o quel settore di questo organo (cicatrici, differenze di colore o tessuto, presenza o meno di vasi sanguigni et cetera) si può dedurre la disposizione dei vari dèi nei confronti degli uomini. Poiché questa è una scienza che può e deve essere insegnata, esistono diversi modelli solidi di fegati, di terracotta di solito, destinati allo studio e alla ricerca. Su questi modellini vengono riportate le linee che identificano i settori controllati dai vari dèi e alcune sintetiche iscrizioni esplicative. IL SOMMO ARUSPICE DEL COLLEGIO DEI LX HARUSPICES Domizia Claudilla Valore: DV8 1 dado: De Bello, De Corpore, De Natura, Punti Vita 2 dadi: De Societate, Ratio 3 dadi: De Magia, Sensibilitas Punti Vita: 8 B Poteri Magici: Tiro del Fato Di nobilissima famiglia, Domizia Claudilla è la prima donna nella storia di Roma a rivestire la carica di Sommo Aruspice, ruolo di grande responsabilità; il Collegio dei LX Aruspici raccoglie i più illustri esperti nell’arte dell’Aruspicina. Nel secolo scorso, la sede del Collegio venne trasferita a Tarquinia da Roma; ufficialmente per meglio riallacciarsi alle tradizioni augurali dell’antica Etruria, in realtà perché l’allora Imperatore Graziano intendeva tenerlo lontano dagli intrighi di corte. Il Sommo Aruspice è l’unico a risiedere permanentemente a Tarquinia: gli altri membri vi si recano solo ogni sei mesi, alle Calende di giugno e di dicembre, per le periodiche riunioni. Fin da bambina, Domizia Claudilla ha dimostrato una propensione per i fenomeni magici: spesso aveva sogni premonitori che si rivelavano sorprendentemente precisi nella descrizione di eventi futuri. Per questo la famiglia non dubitò un solo momento nell’avviarla alla carriera divinatoria, benché fosse destinata per nascita a un brillante matrimonio. Giovane sacerdotessa, evitò una volta una grave sciagura avendo sognato il crollo del palco del pretore urbano durante un’affollata sessione di combattimenti gladiatori all’Anfiteatro Flavio, con la morte dell’augusto personaggio e della folla sottostante: Claudilla ne fece menzione alla sua Gran sacerdotessa, il palco venne controllato e si verificò che effettivamente uno dei piloni di sostegno era marcio e sul punto di spezzarsi. Ciò fruttò al tempio una lauta donazione proveniente da molto in alto, e a Claudilla l’ammirazione di tutti. Una volta, grazie all’attenta lettura delle viscere di una pecora, divinò che una terribile tempesta stava per abbattersi sulle coste tirreniche. L’Imperatore, che doveva imbarcarsi per Capreae, desistette dall’intento: la nave salpò ugualmente per portare nell’isola un carico di pavoni ornamentali destinati ai giardini dell’Imperatore ma fu distrutta da marosi di inusitata violenza. La fama di Claudilla si propagò per tutta la città e furono molti i nobili che vennero, negli anni successivi, a implorarle responsi, solitamente con ottimi risultati. Ora Domizia Claudilla ha più di cinquant’anni ed è da poco succeduta in questa ambita carica a Marco Spurinna, che la tenne per più di trent’anni e che è recentissimamente morto in circostanze misteriose, due anni dopo aver lasciato il posto. Claudilla è dotata di un grande spirito di osservazione, di un acutissimo talento nel valutare la psicologia degli interlocutori e di un eccezionale senso pratico. Vive a Tarquinia, in una grande villa: è sposata, ha tre figli e cinque piccoli nipoti. Nessuno di loro sembra aver ereditato i suoi straordinari poteri. È stata lei stessa, quando la Cohors Auxiliaria Arcana è stata fondata, ad addestrarne in segreto i massimi vertici.


131 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Ã IL COLLEGIO DEI LX HARUSPICES Gli Aruspici sono sacerdoti esperti nel leggere le viscere delle vittime sacrificali. Il collegio che li riunisce è composto tradizionalmente da sessanta veggenti. Non si sa come sia stato stabilito questo numero, è così da secoli. La sede ufficiale degli Aruspici è Tarquinia. Qui vengono raccolti i giovani con le migliori capacità sensitive e con la più brillante intelligenza di tutto l’Impero e vengono sottoposti a una formazione molto rigida. Non è da chiunque riuscire a diventare Aruspice. L’ordine, come si è detto, può essere composto sempre e soltanto da sessanta individui, maschi e femmine. Non tutti coloro che studiano e si sottopongono alla dura vita dell’apprendista entreranno nel Collegio. Ciò è causa di dolore e spesso molta rabbia nei candidati esclusi. Ma chi ha studiato presso gli Aruspici ha appreso comunque nozioni validissime e di livello assai elevato, perciò molti respinti trovano soddisfazione (e ricchezza) nella carriera burocratica imperiale o come consiglieri personali di nobili famiglie. Tra i sessanta Aruspici in carica ci sono alcune differenze dovute all’età e all’esperienza: circa una ventina sono molto giovani, ancora in via di addestramento o comunque con poca esperienza di attività pratica. Gli altri variano e solitamente a maggiore età corrisponde maggiore esperienza. Ovviamente ci sono delle eccezioni, una delle quali è proprio Domizia Claudilla, l’attuale Sommo Aruspice, che ha avuto una carriera eccezionalmente veloce per le sue qualità fuori dal comune. Gli Aruspici hanno un abbigliamento caratteristico che comprende uno scialle con le frange e un cappello conico, detto tùtulus, di cuoio o di feltro di lana. Come gli Auguri, anch’essi possiedono un lituus, il bastone divinatorio. Ma mentre quello degli Auguri è di legno ed è lungo circa un piede e mezzo, quello degli Aruspici è di bronzo, sottile e lungo un palmo, con un’estremità affilata protetta da un cappuccio di cuoio. Somiglia, se vogliamo, al coltello del chirurgo da un lato, mentre dall’altro ha il caratteristico ricciolo del lituo augurale. Viene infatti usato per esaminare le viscere delle vittime e scompartirle i settori con la necessaria precisione. Ã L’ARS FULGURATORIA Dopo l’Aruspicina, la scienza divinatoria più famosa tra quelle inventate dagli Etruschi è senz’altro l’Ars Fulguratoria. Come intuibile dal nome si tratta dell’interpretazione delle folgori. Non è soltanto Giove a utilizzare le folgori. A lui, è vero, è riservato l’uso del lampo come arma, ma questo prodigio è a disposizione di tutte le divinità celesti come mezzo di comunicazione con il genere umano. Giove tuttavia ha un privilegio anche in questo campo. Mentre le altre divinità possono utilizzarne soltanto uno al giorno, Giove ne ha a disposizione tre, con diverso valore comunicativo: A Fulmine ammonitore. È il primo ad essere lanciato e non produce danno anche se può cadere molto vicino agli esseri umani per rendere subito chiara un’intenzione. A Fulmine che atterrisce. È il secondo avvertimento e spesso è lanciato come segno di grave ira del dio, perciò a volte causa qualche danno. A Fulmine devastatore. Viene lanciato come grave punizione e causa annientamento e trasformazione. I fulmini, non importa quale sia la divinità che li lancia, hanno diversi significati, alcuni dei quali anche positivi. Il filosofo Seneca, nel suo tentativo di istruire il giovane Imperatore Nerone, ne aveva tratteggiato le caratteristiche principali. Innanzi tutto, distingueva quelli che indicano un avvertimento temporaneo e quelli il cui significato riguarda la durata di un’intera vita. Poi elencava: A Fulmine che minaccia. A Fulmine che avverte. A Fulmine che promette. A Fulmine che trafigge. A Fulmine che schianta. A Fulmine che brucia. A Fulmine che esorta a compiere un sacrificio. A Fulmine che provoca un aiuto a qualcuno in pericolo. Per capire da quale divinità provenisse un fulmine, gli Etruschi ritenevano necessario individuare con sicurezza la porzione di cielo da cui questo era partito. Per determinare con precisione questi settori applicavano la procedura del “templum”. Questa cerimonia sacra è applicata sempre anche dai nostri sacerdoti Auguri prima di eseguire divinazioni, anche se con leggere differenze rispetto ai sacerdoti etruschi. Ã IL COLLEGIO DEI FULGATORES I fulmini appaiono ai nostri occhi per un brevissimo istante. È difficilissimo in quel poco tempo a disposizione interpretare di che tipo siano, da dove vengano. Ci vuole un sacerdote esperto per afferrare tutti i dettagli nascosti in quell’apparizione. L’Ars Fulguratoria, dunque, è affidata a un collegio di esperti detti Fulgatores. Essi rilevano non solo la direzione ma anche la forma, il colore, gli effetti che provocano una volta caduti. I Fulgatores ormai sono pochissimi, e tutti originari della zona etrusca. È un’abilità che non sembra più necessaria, poiché gran parte di queste divinazioni sono eseguite anche da altri sacerdoti. Gli Aruspici, per esempio, sono in grado di osservare e interpretare le folgori grazie alla conoscenza dei settori del cielo che sono presenti anche nel fegato delle vittime. Tuttavia si dice che i Fulgatores antichi sapessero fare qualcosa di più: avrebbero potuto richiamare il fulmine dalle sfere celesti, richiederlo direttamente agli dèi e utilizzarlo in autonomia. E non solo: avrebbero anche saputo come evitare le conseguenze della caduta di un fulmine, impedirne la caduta o dirigerlo su un altro bersaglio per proteggere se stessi o gli altri.


132 ARCANA SATURNIAE TELLURIS Ã LA PERDUTA ARTE DELL’EVOCAZIONE DELLE FOLGORI Oltre a saper interpretare il significato dell’apparizione di una folgore, gli Etruschi conoscevano il segreto per evocarle e farle apparire a proprio comando per utilizzarle come un’arma. Lo scoprì, si dice, il re Porsenna e vi ricorse per eliminare un terribile mostro che si avvicinava alla città di Bolsena dopo averne devastato le campagne. Nella sua Naturalis Historia, Plinio il Vecchio sostiene che esistono tre tipi di folgori: A Secche. Non scottano ma dissolvono. A Umide. Non bruciano ma anneriscono. A Chiare. Colpiscono solo i contenuti delle cose ma lasciano intatti i contenitori. Tutte potevano essere evocate dai Fulgatores istruiti nel modo antico. Purtroppo non esistono più, a quanto pare, i testi su cui questo collegio sacerdotale apprendeva la disciplina e i nuovi Fulgatores non sono in grado di chiamare le folgori. Si dice che esistesse anche qualche oggetto rituale con il quale si poteva ottenere lo stesso effetto pur non conoscendo i riti di evocazione. Con la scomparsa della civiltà etrusca, purtroppo, furono persi anch’essi. IL PROBLEMA DELLA LINGUA ETRUSCA L’ultima volta che si è sentito parlare etrusco è stato quasi trecento anni or sono, come riporta Aulo Gellio nelle sue Notti Attiche. Si dice che tutt’oggi in Etruria vi siano vecchi contadini che parlano una sorta di dialetto derivato dall’etrusco classico, ma di ciò non vi è certezza. Inoltre, di sicuro essi non saprebbero scrivere con l’antico alfabeto. Purtroppo, quando il nostro popolo conquistò definitivamente l’Etruria, quasi seicento anni fa, fece l’errore di assimilare troppo velocemente la cultura etrusca e disciogliere nella società romana le caratteristiche specifiche di quelle genti. Lo scopo era nobile: fare di due comunità separate un unico grande popolo. Tuttavia la fretta fece perdere di vista molti importanti dettagli della cultura etrusca che ora sono difficili, se non impossibili, da recuperare. Uno di questi è l’alfabeto, senza il quale è impossibile leggere i documenti o i manufatti etruschi che ogni tanto si riesce a recuperare dall’oblio. Un modo per risolvere questo problema di base sarebbe ritrovare la grammatica etrusca scritta dall’Imperatore Claudio in persona più di quattro secoli or sono, nel corso delle sue appassionate ricerche sulla civiltà etrusca. Dove essa sia finita non è dato di sapere. Ovviamente sono state fatte accurate ricerche in tutti i luoghi che apparivano ovvi: nelle biblioteche di Roma esistenti ai tempi di Claudio così come nel Tabularium, ovvero l’Archivio di Stato sul colle Capitolinum. Sembra meno logico che essa possa trovarsi nella grande Biblioteca Ulpia che sorge a Roma ai due lati della IL TEMPLUM ETRUSCO Poiché gli Etruschi praticarono per primi la divinazione attraverso i fulmini, dovettero codificare un sistema per stabilire quali parti del cielo originavano auspici negativi e quali positivi. Determinarono quindi un procedimento per dividere il cielo in settori, consacrando lo spazio in cui intendevano osservare i fenomeni. Lo spazio identificato con questo sistema è detto “templum”. Il sistema è applicato estensivamente nella pratica religiosa romana e si applica soprattutto di giorno per gli auspici con gli uccelli, ma anche per osservare fenomeni celesti nel cielo notturno. Si tratta di un modo per tracciare nel cielo uno spazio quadrato orientato secondo i punti celesti, diviso in quattro riquadri. Questi a loro volta sono divisi da altre linee a formare in tutto otto triangoli. Questi settori possono essere propizi o sfavorevoli a seconda della posizione. Di conseguenza, un uccello o un prodigio che appaia in uno o l’altro settore fornirà un’indicazione della disposizione degli dèi verso l’impresa che si intende iniziare (notizie dettagliate sul templum romano si trovano anche nel modulo Encyclopaedia Arcana). Il templum etrusco, benché si basi sullo stesso principio di tracciare assi orientati secondo i punti cardinali, funziona in un modo leggermente diverso rispetto a quello romano. È basato non sul quadrato ma sul cerchio. Ha un rapporto molto più stretto con la sfera cosmica in cui tutti siamo immersi: in pratica è la rappresentazione su un piano delle sfere celesti abitate dagli dèi. Alla base di questa differenza c’è l’osservazione delle folgori, base dell’Ars Fulguratoria. Le folgori sono un segno mandato direttamente dagli dèi. È assai importane quindi determinare con esattezza i settori del cielo e metterli in giusta corrispondenza con i rispettivi dèi. Alcuni altri settori, infatti, sono sotto la tutela di divinità benevole e altre di divinità ostili. Queste partizioni corrispondevano a quelle che si potevano rintracciare nel fegato delle vittime sacrificali. L’Ars Fulguratoria e l’Aruspicina, dunque, condividevano le impostazioni di base perché secondo gli Etruschi il macrocosmo e il microcosmo si rispecchiano l’uno nell’altro. Per gli Etruschi, quindi, lo scopo di tracciare il templum era quello di identificare con precisione gli spazi di competenza dei vari dèi e capire quindi se un’indicazione (una folgore nel cielo o una macchia in un fegato) proveniva da un dio amico o nemico.


133 ARCANA SATURNIAE TELLURIS DE LINGUA ET LITTERIS TUSCORUM: L’OPERA SCOMPARSA DELL’IMPERATORE CLAUDIO Lungo tutta la sua vita, l’Imperatore Claudio studiò con passione ogni aspetto del perduto mondo etrusco. Tra gli argomenti a cui si dedicò di più ci fu senz’altro il linguaggio e il relativo alfabeto. L’erudito imperatore si rendeva infatti conto che se non si comprende la lingua di un popolo non si può penetrarne appieno i segreti. Grazie alla sua posizione influente, si procurò molti testi etruschi rarissimi, li analizzò e li mise a confronto con le testimonianze orali raccolte tra i pochi che ancora parlavano quella lingua. Ne trasse una grammatica etrusca, strumento indispensabile per sapienti e sacerdoti che intendeva pubblicare con il titolo di De Lingua et Litteris Tuscorum, “La lingua e l’alfabeto degli Etruschi”. L’opera era ancora in lavorazione al momento della morte dell’imperatore e durante i convulsi giorni che seguirono alla sua dipartita il manoscritto, insieme a molte altre carte di Claudio, venne smarrito. Gli Auguri mandarono sollecitamente degli inviati di fiducia presso il palazzo imperiale per tentare di recuperarlo e metterlo al sicuro. Le divinazioni prese sul successore del defunto, suo nipote Nerone, non erano incoraggianti e i maggiori sacerdoti di Roma cercarono in quei primi giorni di predisporre delle misure di sicurezza, mettendo al sicuro tutti i documenti che potevano riguardare segreti e antiche sapienze. Giunti a palazzo, però, scoprirono che la stanza dove l’imperatore usava studiare era stata svuotata. Il maggiordomo di palazzo, interrogato, sostenne che i libri e i manoscritti erano stati donati alla Biblioteca Palatina, situata presso il tempio di Apollo per l’appunto sul colle Palatino. In seguito all’ispezione degli Auguri, il Magister della biblioteca mostrò alcuni libri, sostenendo che facessero parte del nucleo privato di Claudio, ma si trattava di opere talmente comuni che fu chiaro si trattasse solo di una messa in scena. A conferma della sparizione di vari testi mancava anche un trattato di strategia per il gioco del duodecim scripta, che diverse persone sapevano fosse stato compilato da Claudio in persona. Nessuno fu quindi in grado di recuperare il testo dell’opera di Claudio sull’etrusco, né di altri saggi che egli avesse eventualmente in lavorazione. colonna onoraria dedicata all’Imperatore Traiano, istituita secoli dopo la morte di Claudio. Poco verosimile è anche immaginare che si trovi nella gigantesca Biblioteca di Alexandria d’Aegyptus, geograficamente e culturalmente troppo lontana rispetto a questo tipo di studi. Appare comunque improbabile che di quest’opera siano state mai fatte copie “ufficiali” perché Claudio, studioso assai lento e dopo la sua elezione a imperatore troppo preso dalle faccende di stato, non ha mai potuto terminare la revisione del testo. Il manoscritto originale di Claudio potrebbe trovarsi nascosto in qualche archivio imperiale a Roma, ma qualche copia “di lavoro” potrebbe anche trovarsi nella Regione VII Etruria, magari dimenticata nella biblioteca di qualche studioso, di un magistrato locale, di un sacerdote o presso un libraio antiquario che magari neanche sospetta la sua importanza. Oppure il documento potrebbe essere stato riciclato per altri scopi da chi non ne riconosceva l’importanza: tagliato a pezzi per restaurare un altro manoscritto, oppure per incartare una statuetta, un gruzzoletto di monete, un vecchio cimelio di guerra o altri imprevedibili utilizzi. Questo è ciò che posso onestamente dirti circa gli arcani d’Italia. Ma non pretendo di aver dissipato tutti i misteri che ancora aleggiano in una terra così intimamente legata agli dèi. Ti raccomando quindi di non fermarti a quanto esposto nel mio scritto ma di sincerarti di persona se queste informazioni siano complete e veritiere. Non posso che spronarti a inviare coraggiosi esploratori dell’ignoto a verificare quanto già sappiamo e a raccogliere nuovi elementi che possano aumentare il tesoro di conoscenza custodito negli scrigni dell’Impero. SI TU VALEAS BENE EST, EGO VALEO.


134 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM


PARTE III COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM


136 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Affido questo rotolo a un mercante di cui mi fido per averlo utilizzato come corriere altre volte. Non posso permettermi di trasferire queste informazioni riservate per i normali canali della posta ufficiale. Potrei tradire, infatti, l’identità di copertura che ho assunto ormai mesi orsono quando partii per la mia missione di osservazione. L’incarico mi è stato affidato dal Praefectus Praetorio in persona e nessuno a parte lui conosce la mia identità. In questi mesi ho percorso la provincia d’Italia dalle Alpes allo stretto di Scylla e Charybdis, e poi ancora da un’isola all’altra. Ho raccolto le informazioni che mi parevano più necessarie per mettere l’Impero al corrente dei segreti che tutt’ora si annidano in questa terra. Ho raccolto personalmente le informazioni e per quanto possibile le ho verificate recandomi di persona ovunque, ma non posso garantire che le mie fonti siano state tutte attendibili o completamente oneste. Sottolineo però che a ogni diceria corrisponde quasi sempre una parte di verità. Se anche le notizie che qui espongono fossero vere solo per metà, ci sarebbe già da preoccuparsi per la saldezza dell’Impero.


137 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM ASSOCIAZIONI CRIMINALI Aprirò questo mio resoconto descrivendo associazioni che si sarebbe portati a definire criminali poiché hanno in passato basato la loro esistenza su attività illecite. È inevitabile che, anche nel meglio organizzato e controllato degli stati, si nascondano nelle pieghe della società gruppi di persone che non vogliono rispettare le regole. Tuttavia, almeno per le associazioni che vado a illustrare, la questione è più sfumata. Pur avendo certamente un passato illegale, si sono integrate nel tessuto dell’Impero mantenendo sotto la superficie alcune caratteristiche che possono rivelarsi utili. Le segnalo dunque non tanto allo scopo di reprimerle, quanto piuttosto per tenerle sotto controllo perché non si espandano troppo. Eliminarle sarebbe un danno anche per noi, poiché queste organizzazioni possono occuparsi di questioni che è necessario trattare con una certa discrezione. I LIGURI, PIRATI E CONTRABBANDIERI La regione oggi chiamata Liguria si estende dal mare, detto appunto Ligure, fino al grande fiume Padus. Non è dunque una piccola regione, eppure è davvero esigua se paragonata a quella che nei tempi antichissimi fu l’estensione delle terre abitate dal popolo dei Liguri. Essi sono stati a lungo nemici di Roma, ma in certe circostanze si sono rivelati molto utili a svolgere incarichi che il nostro governo non voleva fossero trattati alla luce del sole. È necessario dunque conoscere bene le caratteristiche di questo popolo per poter continuare ad avere con esso rapporti proficui e non cadere in eventuali tranelli. Ã STIRPE DI GUERRIERI L’estensione delle terre anticamente occupate dai Liguri fu molto grande, dalle Colonne d’Ercole fino alle terre degli Etruschi, ma essi non si unirono mai in una nazione. La popolazione viveva separata in tribù, le quali a loro volta erano composte da clan. Si trattava di genti con un temperamento orgoglioso, abituate a uno stile di vita rude. La loro società non era suddivisa in classi come la nostra, né esisteva un ceto di guerrieri o combattenti specificamente dedicati a questo ruolo. Tutti i Liguri si consideravano guerrieri, anche le donne, e si comportavano di conseguenza. Persino nell’aspetto si somigliavano tutti: donne e uomini di ogni età portavano i capelli lunghi, mantelli di lana e tuniche fermate alla vita con cinture di cuoio ormate da un’elaborata fibbia. D’inverno tutti portavano vesti foderate di pellicce. I rapporti all’interno della società ligure furono sempre molto paritari e fu sempre incoraggiata una grande indipendenza. Erano le donne, per esempio, a scegliersi il marito e non la loro famiglia. La guida di ogni tribù era affidata a un capo eletto dalla comunità e non ci fu mai una tradizione di monarchia ereditaria. Esisteva invece una specie di “classe aristocratica” ma era basata esclusivamente sul merito guerresco: lo status privilegiato non si ereditava e poteva essere perso per comportamenti non consoni al valore bellico. I LIGURI. UN POPOLO PRIMORDIALE All’origine dei tempi, secondo gli storici antichi, l’intero mondo era abitato solo da tre comunità umane che si spartivano equamente le terre. Il poeta greco Esiodo, che scriveva più o meno all’epoca della nascita di Roma, afferma infatti che all’alba del mondo gli Sciti dominavano l’Oriente, gli Etiopi l’Africa, e infine, i Liguri tenevano tutto l’Occidente. Il geografo Ecateo di Mileto precisò meglio l’ambito in cui questo popolo si estendeva. Secondo lui, la massima espansione di questo popolo comprese non soltanto l’odierna Liguria ma anche, verso oriente, l’attuale Etruria settentrionale; verso occidente i Liguri avrebbero occupato tutte le terre tra Albintimilium (oggi confine della provincia) fino quasi alle colonne d’Ercole nella penisola Iberica. In questa estensione era compresa anche una bella porzione di terre più interne, poiché anche le Alpes occidentali e buona parte delle terre oggi nella provincia di Gallia erano dominate dai Liguri. A sud, il dominio comprendeva anche l’isola di Corsica. Qualcuno ritiene che anticamente i Liguri occupassero tutta la pianura del Padus fino alla foce. E in, effetti, il nome odierno del fiume sembra derivare da quello ligure, Bodencus o Bodincus. I Liguri ebbero frequenti scambi commerciali con Etruschi, Cartaginesi e poi Greci, cioè tutte quelle genti che giunsero a contatto con loro dal lato del mare. Con questi popoli non si mescolarono. Restarono anzi sospettosi e ostili, mentre si legarono di più con i Celti della pianura del Padus e ne presero alcune usanze. Il geografo Strabone, tuttavia, mise bene in chiaro come i Liguri fossero l’unico popolo della pianura del Padus a non appartenere alla grande famiglia dei Celti.


138 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Questi atteggiamenti determinarono la struttura del tipico villaggio dei Liguri, simile a quello che noi chiameremmo “castellum”, cioè un insediamento fortificato. Ogni comunità cercò di sfruttare un luogo naturalmente facile da difendere collocando i villaggi sulla sommità di colline rocciose, aggiungendo poi mura di pietrame alla roccia naturale. Questi costumi crearono certamente un popolo di forte carattere e sprezzante della paura, ma determinarono un’estrema frammentazione della società. Le tribù furono in contrasto tra loro e si combatterono spesso. Tuttavia, davanti a un pericolo esterno furono anche capaci di coalizzarsi: i popoli che cercarono di contrastarli si trovarono a combattere molto aspramente. Gli Etruschi, che a lungo cercarono di occupare le coste liguri, furono respinti con forza. Tutti gli insediamenti da loro collocati a nord del fiume Macra furono attaccati e saccheggiati dai Liguri con tecniche di guerra veloce, fino a che gli Etruschi accettarono tacitamente di considerare quel fiume il limite della loro espansione. Intorno al IV secolo aUc, i Liguri misero un punto fermo sulla costa fondando Genua. Ã COMMERCIANTI PER POSIZIONE Genua divenne rapidamente un ricco emporio commerciale e fu la base della ricchezza dei Liguri. La posizione della città, infatti ,permetteva di gestire gli scambi tra l’interno e la grande rete dei commerci del Mare Nostrum. I Liguri cominciarono vendendo attraverso il mare i propri prodotti: pellicce, miele, e soprattutto un tipo di tessuto tanto resistente da poter essere usato per abiti da lavoro, sacchi per granaglie, persino per le vele, solitamente tinto di un bel blu. Quest’ultimo divenne presto molto popolare e ancora oggi il “blu di Genua” è una stoffa molto apprezzata da chi commercia. Dal mare, poi, i Liguri ricevevano vasellame greco e etrusco, vino, profumi e li smistavano verso i popoli padani. Le due attività li resero piuttosto ricchi. Questa ricchezza si riversò anche sui Liguri dell’interno perché cominciò un lungo e proficuo movimento di merci gestito esclusivamente dai commercianti Liguri. Le tribù della costa portavano dal resto del Mare Nostrum le merci più varie, soprattutto quelle che non si potevano trasportare legalmente. Le tribù dell’interno facevano passare queste merci attraverso le montagne per percorsi nascosti e le consegnavano fino alle popolazioni galliche del nord. E spesso facevano il viaggio all’inverso con altre merci “delicate”: di queste la più popolare era l’ambra del Padus (vedere pag. 180). Presto si formò tra le tribù una suddivisione determinata dalla loro posizione geografica. Possiamo quindi in linea di massima catalogare i Liguri così: A Litoranei. Si stabilirono sulla costa ed ebbero i principali insediamenti a Genua e a Massalia (nella Gallia Narbonense). A Apenninici. Si arroccarono tra i monti fino alla zona attualmente compresa nell’Etruria e nell’Aemilia. A Pedemontani. Si spinsero fino all’odierna zona di Augusta Taurinorum e si sparsero sull’arco occidentale delle Alpes. A Iberici dell’interno. I più chiusi e isolati, si ritirarono nelle montagne che separano la Gallia dall’Iberia. A Corsi. Guidati da una condottiera di nome Corsa, traversarono il mare e si insediarono nell’isola di Corsica. Ã PIRATI E CONTRABBANDIERI PER NECESSITÀ Forse fu per difendere questi commerci che i Liguri cominciarono a sorvegliare il mare con piccole navi veloci e a formare delle bande di pattugliatori sugli Apennini Montes che dividono la Liguria marittima dalla pianura del Padus. Simili bande si formarono anche attorno alle Alpes, sia per tutelare i commerci legittimi dall’Italia alla Gallia che, a maggior ragione, per scortare e proteggere quelli illegittimi. Le virtù guerresche che avevano sempre contraddistinto i Liguri tornarono molto utili anche per le più recenti attività di pirateria e contrabbando. Pur non essendo molto grandi fisicamente, i Liguri sono guerrieri formidabili. La corporatura snella e l’altezza contenuta favorì uno stile di combattimento veloce, basato su attacchi ripetuti e velocissime ritirate. Come piccoli tenaci insetti, i Liguri si abbattevano sui nemici, colpivano, si ritiravano tra le rocce montane e poi ricominciavano in ondate susseguenti. Mai veramente stanchi, si potevano permettere di perseverare e fiaccare la resistenza fisica e soprattutto la tenuta del morale degli avversari. Non utilizzavano la cavalleria, inadatta ai terreni scoscesi, ma erano eccellenti esploratori e fanti, molto abili a usare la lancia perché consentiva di colpire senza mai giungere troppo vicini agli avversari. Dai Celti impararono a usare anche ogni tipo di arco. Lo stesso sistema fu applicato alle navi. Anche in questo caso furono spesso sottovalutati come pirati a causa delle loro imbarcazioni modeste, ciascuna di proprietà di una singola famiglia e quindi equipaggiata con pochi uomini. Le navicelle però agivano sempre in piccole flotte di anche trenta-quaranta unità, in pratica una flotta di clan. Accerchiavano i nemici danneggiandone gli scafi, spezzando qualche remo, incastrando i timoni. Poi i pirati svanivano, spingendo con vigore sui remi, avvantaggiati dalla leggerezza delle proprie navi. Dietro di sé non lasciavano relitti ma navi malconce per innumerevoli piccoli danni, lunghissimi da rappezzare. Ã I LIGURI E ROMA Divisi com’erano sempre stati, i Liguri reagirono in modo assai vario alla comparsa di Roma. Durante i conflitti con i Cartaginesi, per esempio, parecchie tribù si schierarono a favore di costoro, ma altrettante a favore di Roma. Dopo la sconfitta definitiva di Cartagine alcune tribù Liguri restarono ostili e continuarono una propria guerra contro l’espansione romana, condotta al modo tipico ligure con attacchi veloci e imboscate. Ciò ci costrinse a lungo a tenere gran parte dell’esercito in Liguria, sguarnendo altre sezioni della pianura del Padus infestate dai Galli. Nel 568 aUc, i Liguri ci inflissero un’umiliante sconfitta in una battaglia presso il fiume Macra: morirono ben 4000 legionari e furono portate via le insegne di tre legioni. Strappare ben tre aquile alle legioni è un’impresa che in seguito riuscì solo al germano Arminio nella selva di Teutoburgo.


139 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Fu necessario intraprendere un’azione decisiva. Furono inviati i consoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Pamfilo a occuparsi della questione con un’armata di quasi quarantamila legionari. Finalmente, nel 573 aUc, essi sconfissero i Liguri e per impedire rappresaglie o strascichi ne spostarono quasi cinquantamila nelle regioni del Sannio. Resi quasi innocui, i Liguri si sottomisero comunque a malincuore, restando sempre piuttosto ostili. Nel 747 aUc, Augusto rese Genua capitale della Regio IX d’Italia e i Liguri si rassegnarono, più o meno infelicemente, alla romanizzazione. Questo però non ha fatto scomparire pirati e contrabbandieri liguri, la cui presenza ci risulta sempre ben radicata nella popolazione, coperta da un’omertà che non si riesce a spezzare. Alcuni imperatori hanno avuto un approccio pragmatico al problema: hanno utilizzato pirati e contrabbandieri liguri come “facilitatori” in certe faccende da trattare con discrezione. Benché non esistano resoconti scritti di certe imprese, si sa per certo che i Liguri siano stati impiegati per trasporti delicati di merci e soprattutto di persone. Questo ovviamente non li rende degni di fiducia, anzi. Spesso accettano un incarico con un secondo o terzo fine. Quando si tratta con un Ligure non si capisce mai chi dei due sia quello che fornisce il servizio all’altro, e a chi vada il vero tornaconto. I MAMERTINI, MERCENARI IMPLACABILI I Mamertini erano una stirpe di guerrieri che abitava l’Italia centrale prima dell’espansione di Roma. Sostenevano di discendere dal dio Mamerte, il Marte degli Osci, da cui presero il nome. La loro terra originaria fu quella parte del territorio degli Osci che corrisponde, più o meno, all’entroterra dell’odierna città di Neapolis, in Campania. Benché siamo ancora in grado di individuare la terra d’origine è meno facile rintracciare il momento in cui nacque tale classe di guerrieri. Balzarono sul palcoscenico della Storia nel V secolo aUc già pienamente attivi, organizzati come esercito in vendita al miglior offerente. In quell’epoca, infatti, si trasferirono in Sicilia al servizio dei tiranni greci di Syracusae. Lì rimasero fino a quando, così come erano apparsi, repentinamente sparirono dalle cronache. Questo è ciò che si legge sui libri di storia. Tuttavia, come vedremo, la loro presenza si è mantenuta in Sicilia come una sottile trama che si può vedere solo se si osserva un quadro più ampio in dettaglio. Benché assai ridotti di numero, oggi, essi ancora operano nella zona di Messana e prestano la loro opera al miglior offerente. Benché la loro disposizione nei confronti di Roma sia stata ambigua, spesso di aperto tradimento, la loro attività di mercenari a volte è stata di grande utilità per lo svolgimento di certi “lavori sporchi”. Conoscono, quindi, alcuni sgradevoli segreti dell’Impero. Per peggiorare il quadro, i Mamertini risultano ancora oggi seguaci del dio Soranus, l’oscuro cacciatore, il cui culto Roma ha proibito da molti secoli. Per questo ritengo necessario includerli nel mio rapporto e raccomandare di farne oggetto di indagine e controllo. IL PRINCIPATO DEI COTTII Nella storia di Roma, i Liguri costituiscono un’eccezione per vari motivi. Il più strano è senz’altro legato alla loro lunga indipendenza dalla conquista romana, almeno in una piccola regione. Tra i vari gruppi di Liguri che si dimostrarono amici di Roma ci fu una grossa tribù, i Taurini, che viveva nelle valli tra le Alpes alle spalle di Augusta Taurinorum, città che proprio da loro prende il nome. Questo popolo si era mescolato con i Galli del luogo, formando una stirpe ligure-gallica che crebbe fino a diventare un piccolo principato composto da parecchie tribù. Noi lo chiamiamo “Principato dei Cottii” poiché essi si insediarono in quella parte delle Alpes detta Alpes Cotiae. Questo “principato” entrò in contatto con l’espansione romana subito dopo le guerre puniche e intrecciò subito rapporti amichevoli. I Cottii si offrirono, anzi, di fornire aiuto nell’espansione verso la Gallia, fungendo da guide e esploratori. Cesare si accordò con il re Donno per il passaggio delle truppe durante la campagna di Gallia. Come ringraziamento, in seguito vennero stipulati accordi che davano ai Cottii il privilegio del commercio sulla via delle Gallie e sui passi alpini. Morti Donno e Cesare, l’alleanza venne rinsaldata tra l’erede di Cesare, Augusto, e il figlio del re, Cotius. Per meglio ufficializzare la posizione di questo regno all’interno dei possedimenti romani il re venne nominato ufficialmente Praefectus dell’Impero romano e il suo regno divenne un protettorato indipendente. All’epoca di Nerone la linea di discendenza del re si estinse e il regno venne inglobato nei possedimenti romani, pur mantenendo una sua identità. Il governo della piccola regione venne sempre attribuito a un funzionario imperiale nato in loco. Ancora oggi, l’Impero rispetta questa peculiarità, arruolando i giovani Cottii nel nostro esercito come esploratori, addestratori per tecniche di guerra veloce e guide alpine.


140 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Ã UNA STORIA BREVE E VIOLENTA La storia dei Mamertini si conosce solo dal momento in cui furono ingaggiati dal tiranno di Siracusa, Agatokles, nel V secolo aUc. Che tipo di ruolo avessero nella popolazione degli Osci prima di tale evento è tutt’ora sconosciuto. Dobbiamo però ipotizzare che nel momento in cui Agatokles li arruolò, essi fossero già una forza militare organizzata e soprattutto tanto abile da avere una fama che poteva arrivare fino all’isola di Sicilia. Ad Agatokles si legarono con vincoli molto forti, un affetto e una cieca obbedienza non diversi dai legami che si crearono nella storia di Roma tra certe legioni e il loro comandante. Riconobbero nel tiranno greco un padrone, una guida e gli donarono la più cieca fedeltà. Il tiranno, infatti, aveva dato ai Mamertini più del denaro: una casa, uno scopo, un onore di guerrieri che forse prima non avevano. Alla morte del tiranno, dunque, vagarono allo sbando e si diedero alla razzia e al saccheggio. Presero la città di Messana, uccisero tutti gli uomini e si impadronirono di donne e beni. La città, situata in una posizione assai strategica, divenne il loro centro principale, da cui partivano per razziare gran parte della Sicilia orientale, sia per terra che per mare. I Mamertini furono, infatti, anche pirati. Il loro dominio durò oltre 20 anni e sarebbe andato ancora avanti se non avessero commesso un errore fatale: rivolsero la propria cupidigia alla città che un tempo avevano difeso, Syracusae. Questa aveva ora un nuovo signore, il tiranno Ierone, notevole combattente: sconfisse i Mamertini nel 473 aUc, nella piana di Milae, non lontano da Messana. Si preparò, quindi, ad assediare Messana stessa. I Mamertini commisero il secondo fatale errore: chiesero l’aiuto di Carthago, allora una vera potenza nel Mare Nostrum. I Cartaginesi installarono un presidio militare nella città e nel porto di Messana, che funse da deterrente per i Siracusani. Benché momentaneamente salvi, fu presto chiaro ai Mamertini che i Cartaginesi non si sarebbero limitati a lasciare una guarnigione, ma si sarebbero presto impadroniti della città e di tutti i possedimenti limitrofi. I Mamertini chiesero quindi l’aiuto di Roma, potenza emergente in espansione verso il sud d’Italia, facendo leva sulle comuni origini italiche e sulla discendenza dal dio Marte. Se vogliamo anche questo fu un errore, poiché lo sbarco delle truppe romane sulle spiagge siciliane mise in moto l’inarrestabile ruota del destino dando inizio alle guerre puniche. Da esse Roma uscì vincitrice, Carthago sconfitta e i Mamertini cancellati dalla storia. Ã LA “LEGIONE MAMERTINA” Essendo parte del popolo degli Osci, i Mamertini facevano parte della grande famiglia dei Sanniti, tutti guerrieri per tradizione. Dai Sanniti, di conseguenza, presero la tipica struttura del loro esercito, che tutt’ora impiegano. I Mamertini operano in piccoli gruppi di uomini legati da un giuramento personale al proprio condottiero, in maniera simile all’usanza esistente anche presso i Germani. In pratica, ogni condottiero dispone di un piccolo esercito personale. Le unità sono più o meno costituite da 400 individui, ciascuna suddivisa in circa 5 gruppi simili ai nostri manipoli. Qualcuno potrebbe chiamarle “bande” di mercenari ma sarebbe inesatto perché, effettivamente, per disciplina e organizzazione si avvicinano davvero al concetto di legione romana. Queste “legioni mamertine” sono in massima parte composte da fanti ma i Mamertini sono anche abili cavalieri, e a seconda dell’incarico, modificano la configurazione dell’unità, includendo se necessario la cavalleria. Questa flessibilità è applicata anche allo schieramento di battaglia, che viene modificato per adattarsi a ogni tipo di terreno. Le armi preferite sono la lancia, simile al nostro pilum, e la spada corta ma sono in grado di maneggiare abilmente anche l’arco. Uno scudo rotondo completa l’equipaggiamento. Nel corpo a corpo utilizzano anche una piccola ascia che, sembra, abbiano ideato e sviluppato in proprio (vedere pag. 176). Ogni “legione” agisce indipendentemente, a seconda dell’incarico che il condottiero stipula con un committente. Per questo bande di Mamertini possono trovarsi coinvolte in molte e diverse operazioni guerresche allo stesso tempo, senza uno scopo comune. L’unica volta che agirono uniti fu sotto il comando del tiranno di Syracusae. IL VINO MAMERTINO Il nome dei Mamertini è oggi sparito dall’elenco delle popolazioni italiche ma non è andato perduto. Resta ancora a indicare un vino proveniente dalla regione nordorientale della Sicilia. Il vino aveva in origine una provenienza campana. I vitigni, infatti, furono trasportati dalla Campania in Sicilia proprio dai mercenari Mamertini quando si misero al servizio del tiranno di Syracusae. Quando i Mamertini si impadronirono di Messana, piantarono questo vitigno in tutta la regione e soppiantarono completamente la produzione indigena. Sarebbe forse rimasto un vino locale se Giulio Cesare non lo avesse fatto servire in abbondanza durante la festa per celebrare la sua terza elezione al consolato. Il divino Cesare, infatti, gradiva il Mamertino più di ogni altro vino e se lo faceva spedire anche a Roma. Apprezzatissimo dalla nobiltà, venne giudicato dal geografo Strabone uno dei migliori vini dell’Impero.


141 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Ã SEGUACI DELL’OSCURO SORANOS Durante il periodo passato nella terra di Sicilia, i Mamertini si legarono al culto del dio Soranus, l’oscuro cacciatore. Oggi è una divinità esclusa sia dal culto ufficiale che da quelli tollerati, ma anticamente ebbe molti seguaci in Sicilia. Soranus è un dio guerriero e severo, anche se non del tutto ostile al genere umano (vedere pag. 76). Ha una grande passione per la guerra e pretende una dedizione esclusiva dai suoi seguaci. Queste caratteristiche si sposarono perfettamente con le abitudini e le inclinazioni dei Mamertini. Essi cercavano una guida, qualcuno a cui appartenere, a cui giurare eterna fedeltà. Così, come se Soranus fosse il loro comandante divino, i Mamertini giurarono di servirlo fino alla morte. È su questo dio, dunque che questi mercenari giuravano, e oggi giurano, fedeltà estrema al loro comandante. Ed è in ossequio a questa fedeltà che essi non risparmiano le loro vite, andando volentieri verso la morte e spesso immolandosi nel rito della devotio. La devotio è un rito di sangue: consiste nel consacrare agli dèi dell’Oltretomba la propria vita per avere in cambio ciò che si chiede (la devotio è descritta più in dettaglio nel modulo Encyclopaedia Arcana). Questo è forse il motivo, magari non l’unico ma di certo importante, per cui i Mamertini risultano quasi imbattibili in uno scontro diretto. In caso un conflitto volga a loro sfavore, il loro condottiero non esita a immolarsi, lanciandosi in un attacco solitario e sicuramente fatale. I suoi uomini lasciano che egli affronti i nemici da solo e lo guardano morire, battendo le spade sugli scudi. Così, il suo stesso sangue funge da offerta a Soranus. Il dio, in cambio, non solo risparmia l’unità dalla rovina ma a volte capovolge l’esito del combattimento, donando la vittoria ai Mamertini. Soranus viene onorato con il sangue anche nel caso la battaglia sia fin da subito propizia ai Mamertini: dopo lo scontro essi hanno cura di ringraziare il dio sacrificandogli tutti i prigionieri. Questo abbinamento tra valore militare e pratica religiosa ha sempre reso i Mamertini imbattibili. CIRCOLI MAGICO-MISTERICI Descriverò ora delle associazioni le cui basi si rintracciano in ambito magico o filosofico ma perseguono in qualche modo uno scopo politico. Benché la sfera del soprannaturale sia meglio vigilata da sacerdoti e Auguri, il mio impegno è comunque rivolto ai pericoli che possono coinvolgere la stabilità del governo e la sicurezza del sistema imperiale, anche nel caso che abbiano a che fare con il mondo ultraterreno. IL CIRCOLO DEI PITAGORICI Il Circolo dei Pitagorici è, ufficialmente, un cenacolo di studiosi noto e legale. Si tratta, infatti, di un misto tra un collegio di studiosi e un’associazione politica. Vanta origini illustri: fu fondato dal matematico e filosofo Pitagora nel IV secolo aUc. Il circolo compie le sue attività alla luce del sole: eroga insegnamenti di livello superiore a studenti e discepoli provenienti da tutto l’Impero e oltre; porta avanti studi su vari aspetti del pensiero scientifico e filosofico; infine, amministra la città di Kroton alla quale l’Impero ha concesso uno statuto speciale. Tutte le cose riportate in questa breve introduzione sono note a tutti. È come la superficie di uno specchio che i Pitagorici mostrano agli occhi di chi li scruta, riflettendo solo parte di ciò che sono. È stato mio incarico specifico attraversare questo specchio. Ho appreso molte informazioni riservate che vengono portate al di fuori della setta per la prima volta. Tutto indica che i Pitagorici siano ,in realtà, una setta mistico-religiosa i cui obiettivi non sono chiari, un circolo iniziatico a cui non tutti vengono ammessi. La selezione, ufficialmente, si compie sulla base delle capacità intellettuali. Solo le menti migliori vengono ammesse a studiare le discipline sofisticate su cui si concentrano i Pitagorici. In realtà, questa selezione è eseguita a porte chiuse e gli esaminandi respinti hanno riferito di strane prove che nulla hanno a che fare con la scienza ma piuttosto con il soprannaturale. Ã LA CITTÀ DI KROTON Kroton è una piacevole cittadina di non grandi dimensioni ma ordinatamente disposta in una griglia di strade a intreccio ortogonale. Sorge ai piedi di un promontorio che si allunga sul mare, posizione ideale per il controllo sia dell’acqua che della terra. Intorno al promontorio giacciono cinque piccole isole, Meloessa, Tyris, Eranusa, Ogigia e Dioscoro, che rendono molto riconoscibile la costa di Kroton anche dall’alto mare. Ogigia è così bella che le leggende la indicano come l’isola su cui regnava la ninfa Calipso che Ulisse tanto amò da trascorrere presso di lei otto anni. Il clima è quanto mai salubre e ciò produce una cittadinanza forte e bella: uomini e donne sono di aspetto eccezionalmente gradevole, robusti e adatti alla fatica fisica. Nacque a Kroton il famoso medico Democede, che per primo applicò la scienza medica agli allenamenti degli atleti. E non è un caso, forse, che proprio a Kroton sia nato il più famoso degli atleti olimpici, il pugile Milon, vincitore nella lotta e nel pugilato per sette volte consecutive. Vicinissimo alla scuola pitagorica, pare che avesse sposato una delle figlie di Pitagora.


142 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Prima di Roma, Kroton fu dominatrice del mare Ionicum e signora delle terre interne. Nel 243 aUc, sconfitta la vicina Sibari, influente e ricca, il potere di Kroton si allargò su tutta la costa ionica. Ma cominciò anche il declino, causato da una serie di lotte intestine per la presa del potere. Nel 473 aUc, Roma conquistò Kroton ma non si sviluppò mai una relazione di piena fiducia, soprattutto perché durante le guerre puniche Kroton sostenne Carthago. Nel 559 si dovette installare nella città un presidio militare fisso. Oggi la cittadina gode di ottima salute sotto l’illuminata amministrazione dei Pitagorici: il suo porto è attivo e importante, e nel Mare Ionico è secondo solo a quello di Tarentus, nella Regio Apulia et Calabria. Roma collocò le truppe sull’acropoli antica della città e oggi l’area costituisce il quartiere più nuovo della città. Fu infatti rimaneggiato e modificato per renderlo adatto alla nostra permanenza. I quartieri greci sono quelli più antichi. Il più vecchio si trova proprio ai piedi della collina dell’Acropoli. Sono costituiti da case piccole ma molto ben distribuite in isolati regolari, formati dall’intreccio di strade più large dette platèiai e strade più piccole, gli stenopòi. Il Circolo dei Pitagorici è discretamente inserito nel tessuto urbano proprio ai piedi della collina dell’acropoli. Si tratta di un complesso di abitazioni collocate su più terrazze aggrappate al fianco roccioso dell’altura, scavate in parte in essa e abbellite da piacevoli giardini. L’intero complesso è stato più volte modificato nel corso di molti secoli e quindi le strutture sono un po’ irregolari e a volte sovrapposte, e tuttavia l’intera composizione risulta gradevole alla vista. La parte più in basso ha diretto accesso al mare con un molo privato e alcuni ricoveri per barche. Qualcuno dice che i Pitagorici abbiano scavato dei passaggi segreti nel fianco della collina e quindi siano in grado di uscire dal complesso per riapparire non visti in altre località. La notizia non è stata mai verificata. Ã LA STRANA NATURA DEL CIRCOLO Il Circolo è sotto l’attento controllo dell’Impero da sempre. Ma poiché nulla di illegale è mai stato trovato nei loro comportamenti o nei loro insegnamenti, non ci sono motivi per impedire le loro attività. Anzi, spesso si sono dimostrati molto utili, sia risolvendo problemi legati alla


143 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM medicina e alla salute, sia alla meccanica applicata. Alcuni validi consulenti dell’Impero sono proprio degli affiliati dei Pitagorici che prestano la loro opera all’esercito, alla corte imperiale, agli ingegneri civili e militari. Restano quindi ufficialmente amici e alleati dell’Impero. A parte la segretezza che circonda l’ammissione al Circolo, un altro elemento li rende non dico sospetti, ma certamente insoliti: la loro mancanza di credo religioso. Essi concedono poco interesse alle divinità tradizionali greche o a quelle del culto ufficiale romano. La fede più appassionata è completamente rivolta alla matematica. Altre stranezze caratterizzano i Pitagorici. Essi seguono una serie di prescrizioni alimentari e di comportamento che rendono molto difficile seguire il loro stile di vita e che spesso sembrano assurde. Essi, però, hanno una spiegazione razionale per tutto. Ecco le regole principali, note a tutti. Altre ce ne saranno certamente, custodite come segreti. A Non mangiare carne. Tutti i Pitagorici sono vegetariani poiché credono nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime. Secondo loro, quando una persona muore la sua anima migra in un’altra creatura, che può essere anche un animale. Pertanto non vogliono compiere il sacrilegio di cibarsi di un altro essere umano. A Non toccare le fave. Questa è forse la più assurda ma anche la regola più stringente del Circolo. Non è solo vietato mangiare le fave, ma anche toccarle. Si dice che il fondatore del Circolo, Pitagora, morì perché rifiutò di attraversare un campo di fave mentre sfuggiva ai suoi nemici. La spiegazione che viene data di solito è che questi legumi sono legati al culto dei morti e influiscono negativamente con l’essenza vitale dei vivi. A Non spezzare il pane né morderlo direttamente. Il pane secondo loro va sempre e soltanto tagliato con un coltello. È possibile che questa regola nasconda un desiderio di equità: tagliare il pane con il coltello produce fette uguali e garantisce che tutti ne abbiano la stessa quantità. A Non strappare le ghirlande. La regola sembra ispirata a grande rispetto per i vegetali e i fiori di cui solitamente sono costituite le ghirlande votive. A Non camminare su strade maestre. Il precetto potrebbe essere nato durante le persecuzioni di cui Pitagora fu vittima a Samo, sua città natale, e nasconderebbe in realtà una precauzione di tutela personale. Ã L’ARITMOGEOMETRIA Secondo i Pitagorici l’essenza divina dell’universo è nascosta nei numeri. Anzi, non è nascosta in quanto essa si mostra proprio attraverso i numeri. Gli esseri umani possono accedere all’essenza divina attraverso lo studio dei numeri, l’aritmetica, e della rappresentazione spaziale dei numeri, la geometria. Per questo, la disciplina su cui si basa l’insegnamento sia scientifico che filosofico dei Pitagorici si chiama “aritmogeometria”. Per poter comprendere il concetto di aritmogeometria bisogna tenere a mente che i Pitagorici vedono i numeri come fossero disegnati. Non li immaginano rappresentati da segni, come facciamo noi, ma li rappresentano sempre in relazione a una disposizione spaziale. Nelle lezioni di Pitagora venivano usati dei sassolini, gli psèphoi, che venivano collocati su una superficie per formare i numeri e il sistema è in uso ancora oggi. Ecco perché, per esempio, il Nove viene definito un “numero quadrato”: se si dispongono nove sassolini in tre file di tre si ottiene appunto un quadrato che ha tre sassolini per lato e un numero totale di nove sassolini all’interno. Alcuni numeri rivestono una particolare importanza per le dottrine dei Pitagorici. I primi quattro sono i più sacri: A Uno o Monade. L’Archè, ovvero l’inizio di tutte le cose. Rappresenta l’unità del Cosmo. Non è né maschile né femminile, né attivo né passivo. È geometricamente rappresentato da un punto. A Due o Diade. Poiché l’unità iniziale è moltiplicata, questo numero rappresenta la molteplicità cosmica. È il primo numero pari. Rappresenta il principio femminile, ma anche gli opposti e pertanto la dialettica. La sua rappresentazione geometrica è la linea, delimitata da due punti. A Tre. Dall’unione di Uno e Due nasce il Tre. È il primo numero dispari. Essendo dispari, anch’esso ha un’essenza maschile. Geometricamente rappresenta il piano, poiché con tre punti si delimita una superficie. A Quattro. Rappresenta l’equilibrio, la solida fondazione, poiché su quattro pilastri si sorregge il tetto di un edificio. È dunque simbolo della Giustizia. Dal punto di vista geometrico rappresenta i solidi perché con quattro punti si costruisce la più semplice delle figure solide, il tetraedro. Dalla combinazione di questi quattro numeri nascono tutti gli altri. Alcuni, di nuovo, hanno maggiore significato di altri: A Cinque. Essendo formato dalla somma del primo numero pari con il primo numero dispari rappresenta il matrimonio. È il numero della vita e del potere, e viene rappresentato da una stella costruita sui lati di un pentagono. A Nove. Il “numero quadrato”, poiché formato dalla moltiplicazione per sé stesso del Tre che compone un quadrato perfetto avente il numero tre in ogni lato. A Dieci. Sommando i primi quattro numeri si ottiene il dieci, numero che riassume la perfezione e la compiutezza cosmica. Viene rappresentato dal simbolo sacro dei Pitagorici, la Tetraktys. Ã IL “CERCHIO DELLE NECESSITÀ” I Pitagorici, dunque, non credono negli dèi come tutti i popoli dell’Impero. Pertanto, non credono neppure nell’Aldilà, un luogo in cui i morti si raccolgono sotto il governo di un dio infernale. Credono invece che, quando qualcuno muore, la sua anima si libera dal corpo e passa in un altro essere vivente, che può essere anche un animale. Secondo loro, l’uomo è stato scaraventato sulla terra a causa di un peccato antico. Le anime umane, dunque, sono costrette a compiere un ciclo di purificazione per liberarsi del peso di questo peccato e ritornare nell’ordine cosmico. Il ciclo di purificazione prevede che le anime passino attraverso varie vite, migrando da un corpo a un altro per cercare di purificarsi. Questa trasmigrazione delle anime è da loro chiamata “metempsicosi” e il ciclo


144 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM LA SACRA TETRAKTYS La Tetraktys è un simbolo così sacro che i Pitagorici usano giurare su di essa. Volendone ridurre all’osso la struttura, altro non è che un triangolo equilatero i cui lati sono delimitati da quattro sassolini. Se si osserva la figura, però, si nota che nella sua semplicità riassume le basi del pensiero aritmogeometrico. Complessivamente nel simbolo ci sono dieci sassolini, cioè dieci unità, che sono il risultato della somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4). Il Dieci per i Pitagorici è il numero dell’Universo. Inoltre, nella forma sono presenti in egual misura i numeri pari, femminili (2+4+6+8), e quelli dispari, maschili (1+3+7+9). Vi è perfetto equilibrio e nessun principio prevale sull’altro. Ogni livello della figura rappresenta un elemento geometrico, un principio filosofico e un elemento naturale: A Primo livello. Il punto, cioè il Principio, l’unità fondamentale, il Fuoco. A Secondo livello. Due punti. Gli opposti complementari, la dualità, la linea, l’Aria. A Terzo livello. Tre punti. La misura di spazio e tempo, la somma di Monade e Diade, la superficie del piano, l’Acqua. A Quarto Livello. Quattro punti. La materia, le fondamenta del mondo, i solidi, la Terra. PITAGORA DI SAMO: SCIENZIATO, FILOSOFO, MISTICO Pitagora nacque a Samo, in Achaia, circa due secoli prima della fondazione di Roma. Lasciò presto la sua città natale perché in disaccordo con l’atteggiamento dispotico di Policrate, tiranno di Samo. Viaggiò dunque a lungo, visitò l’Aegyptus e secondo quanto si racconta giunse fino a Babylonia. Infine si stabilì a Kroton intorno al 223 aUc. Qui fondò la sua scuola di filosofia alla quale ammetteva anche le donne. Sposò poi Theanò, una sua allieva. La sua accademia presto diventò non solo un cenacolo di intellettuali ma anche un potente gruppo politico. In breve, i seguaci o i simpatizzanti del maestro si impadronirono di tutti i settori chiave del governo e dell’amministrazione, e la città prosperò. Dopo alcuni anni però l’ambiente politico mutò e emerse un forte partito “popolare” capeggiato da un certo Cilone, che osteggiava il governo aristocratico e intellettuale simpatizzante di Pitagora. Scoppiarono forti tumulti popolari e infine la casa di Pitagora stesso fu data alle fiamme. L’edificio crollò ma il maestro fu salvato dai suoi allievi e fuggì a Locri, poi si spostò a Taranto, e infine, si fermò a Metaponto. Qui morì, inseguito dai sicari di Cilone. Preferì sacrificare la sua vita che tradire uno dei suoi più saldi precetti, quello di non toccare le fave. Stava infatti scappando dai sicari quando giunse in prossimità di un campo di fave. Avrebbe dovuto attraversarlo, non c’era modo di aggirarlo. Pitagora allora si fermò sul confine del campo e fu raggiunto dagli inseguitori, che lo uccisero. Durante la sua vita, Pitagora preferì un insegnamento esclusivamente orale, ma le sue lezioni furono raccolte e messe per iscritto dai suoi allievi. Fu un intellettuale poliedrico. Viene ricordato principalmente come filosofo, e anzi alcuni storici sostengono che la parola “filosofia” per indicare lo studio del pensiero umano sia stata inventata da lui. Fu, però, anche un mistico. Teorizzò un sistema cosmologico del tutto originale, privo del dispotico governo degli dèi e affidato tutto alla naturale armonia dei numeri. Per queste sue convinzioni studiò a lungo i fenomeni naturali che, a suo parere, rivelavano l’essenza divina del cosmo. Come scienziato il suo nome resterà legato per sempre al teorema che meravigliosamente rivela le connessioni tra i numeri e le figure geometriche, specchio della perfezione dell’universo.


145 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM è detto “il cerchio delle necessità”. Se la vita precedente è stata buona e virtuosa rinascono in un essere superiore. Altrimenti, vengono retrocessi a un essere inferiore. Via via che ci si purifica, ci si avvicina sempre di più alla fine di questo ciclo. Lo stadio umano più vicino alla purificazione è quello del filosofo matematico. Ecco perché essi sono rigidamente vegetariani. Non vogliono rischiare di mangiare qualcuno che possono aver conosciuto. Si narra questo aneddoto a proposito del filosofo Pitagora. Egli un giorno avrebbe visto per strada un uomo che percuoteva un cane. Lo fermò immediatamente dicendo: “Smettila di colpirlo. Sento che la sua anima è quella di un mio caro amico. L’ho riconosciuto dal timbro della voce”. Ã ORGANIZZAZIONE DELLA SETTA La setta è divisa in quattro aree, ciascuna con una propria specializzazione in un campo di studio. I discepoli dei Pitagorici studiano comunque ogni forma del pensiero scientifico, ma via via che procedono negli studi si specializzano in un’area e entrano in una cerchia specifica. A Matematici. La cerchia più ristretta, gli adepti di rango superiore. In origine erano quelli ammessi alle lezioni di Pitagora, con il quale potevano interloquire e ragionare per rendere l’insegnamento più efficace. Oggi sono veri e propri studiosi e eruditi, sapienti in tutte le discipline scientifiche, non solo la matematica come il nome sembrerebbe indicare. Vivono in maniera ascetica, non possiedono nulla di personale, sono vegetariani. Raramente lasciano la sede della setta e se lo fanno è solo per gravi necessità. Sono la parte direttiva della setta. A Acusmatici. Alla lettera il nome indica “coloro che ascoltano”. In origine erano discepoli di rango inferiore, ammessi alle lezioni senza poter vedere il maestro. Potevano solo ascoltare separati da una tenda e con l’obbligo di restare sempre in silenzio. Oggi costituiscono, per così dire, il “braccio operativo” della setta. A Iatromanti. Alla lettera “veggente guaritore”. Si tratta di particolari tipi di veggenti che anziché farsi invasare da un dio per profetare, come ad esempio fanno le Sibille, sono capaci di andare essi stessi là dove è possibile raccogliere la conoscenza. Sono infatti in grado di separare l’anima dal corpo, lasciando il corpo in uno stato di profondo sonno mentre l’anima vaga nelle zone a metà tra il mondo degli umani e quelli degli dèi. In altre culture sarebbero definiti sciamani. Come dice il nome, sono anche in grado di curare molte varietà di malattie, da quelle del corpo a quelle dell’anima. Spesso sono guaritori itineranti, molto amati dalle popolazioni poiché portano aiuto a tutti. A Mechanici. Si tratta di studiosi specializzati nelle applicazioni pratiche delle teorie scientifiche elaborate nella setta. Il più noto di costoro fu il tarantino Archita che, nel III secolo aUc, inventò un sistema per far volare un piccolo automa, una colomba, con un sistema a aria compressa (vedi più avanti). Oggi, i Mechanici di Kroton sviluppano ogni tipo di progetto e ricevono volentieri richieste o proposte specifiche dall’Impero. Le quattro aree di competenza sono dirette da un Maestro o Maestra che sono pari tra loro. Essi formano una specie di collegio direttivo, detto i Tèsseres Sophòi o Quattuor Savii, i Quattro Saggi, che organizza e indirizza la vita della comunità. Ufficialmente, i Quattro hanno giurisdizione esclusivamente sulla comunità degli studiosi e non si occupano di politica o di altre discipline dirette all’esterno. Non fanno neppure parte del governo della città di Kroton. In realtà, da fonti sicure abbiamo avuto testimonianza del fatto che i Quattro sono discretamente coinvolti in moltissimi progetti in ogni angolo dell’Impero e hanno emissari dappertutto. I Pitagorici mantengono un cortese riserbo su queste loro attività e, se vengono esposti alla pubblica conoscenza, si limitano ad ammettere che stanno conducendo studi e ricerche di natura puramente scientifica. Ã I TÈSSERES SOPHÒI, I QUATTRO SAGGI DEI PITAGORICI A capo della setta non c’è una persona sola ma un collegio di quattro, essendo questo il numero sacro che per i Pitagorici rappresenta la Giustizia. Essi sono detti in greco Tèsseres Sophòi e in latino Savii Quattuor, i Quattro Saggi. Ciascuno è il capo di una delle sezioni in cui la setta è divisa. Benché siano nominalmente tutti uguali, i Quattro riconoscono una certa superiorità al Matematico poiché il pensiero matematico è considerato la più pura forma di intelletto umano. Se, dunque, nel prendere una decisione i Quattro si trovano in parità, l’ultima parola spetta al capo dei Matematici. Ã ARDITE SPERIMENTAZIONI I Pitagorici sono studiosi che non si applicano soltanto a discipline teoriche. Sono anche molto appassionati di tecnica e sfruttano i loro studi di matematica e fisica per costruire macchine inimmaginabili per l’uomo comune. Si tratta di macchine molto sperimentali, che per la loro natura sono sempre in bilico tra l’utile e il dannoso. Per ora, quindi, sono tenute nascoste e sviluppate in un luogo segreto, strettamente controllato dagli emissari dell’Impero. Ã I PITAGORICI E LA COHORS ARCANA Da quando è stata fondata la Cohors Arcana ci sono stati dei contatti preliminari tra i Magistri Arcani della provincia d’Italia e i Quattro Savi pitagorici. I Pretoriani, infatti, che già si fornivano dai Pitagorici, hanno mostrato ai Magistri qualche elemento di equipaggiamento sviluppato o modificato da questi studiosi. I Magistri sono rimasti molti impressionati dall’originalità di certi apparati. Si sta pensando di escogitare qualche tipo di collaborazione ufficiale tra la Cohors Arcana e Pitagorici, per dotare i Custodes di strumenti sempre più sofisticati per svolgere le loro speciali missioni. Di questa collaborazione non ho prove sicure e la notizia mi è stata riportata in maniera informale da esponenti della Guardia Pretoriana di stanza a Kroton. Ne andrebbe dunque verificata la correttezza tra le alte gerarchie a Roma.


146 COMPENDIUM SECRETORUM ITALICORUM Ã MYIA, ASTRONOMA, ARCHIMATEMATIKÈ (PRIMA MATEMATICA) Valore: DV10 1 dado: De Bello, De Corpore, De Magia, Punti Vita, Sensibilitas 2 dadi: De Scientia, De Societate, Ratio 3 dadi: De Scientia (Astronomia, Filosofia, Matematica) Punti Vita: 10 Discendente di un’antichissima linea di filosofi pitagorici, è nata all’interno della setta da genitori a loro volta Matematici. Anche se i Pitagorici professano la completa uguaglianza tra gli uomini, la famiglia di Myia è considerata una specie di nobiltà locale e fa risalire le proprie origini nientemeno che a Pitagora stesso. Si chiamava Myia, pare, una delle figlie di Pitagora. Myia è sottile, pallida e con penetranti occhi scuri. I suoi capelli nerissimi hanno riflessi bluastri che dai suoi discepoli sono lodati con i versi scritti da Alceo per la divina Saffo: la chiamano infatti “coronata di viole”. Dal suo aspetto è difficile stabilirne l’età, ma si suppone abbia circa quarant’anni. Ha un carattere poco espansivo: parla poco e osserva molto. Il suo campo di studi preferito è il cosmo e qualcuno la definisce simile alle stelle che studia: luminosa, fredda e lontana. La sua intelligenza analitica le permette non soltanto di primeggiare negli studi filosofici e scientifici, ma anche di applicare l’arte della deduzione alla vita comune. Risulta che abbia spesso collaborato con il governo cittadino di Kroton per risolvere qualche misterioso affare. Si dice sia a capo di una rete di agenti pitagorici sparsi in tutto il mondo e che, attraverso essi, non solo sia informata di tutto ciò che accade, ma che qualche volta lo abbia fatto accadere attraverso le sue macchinazioni. Qualcuno dice che questi siano pettegolezzi di gente poco informata e soprattutto invidiosa dell’intelligenza di questa donna. Esistono comunque documenti riservati ritrovati in regioni lontanissime che molti attribuiscono a lei perché siglati con la Tetraktys e l’iniziale “M”.


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