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Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

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Published by , 2019-12-15 08:05:41

Ricordi del dopoguerra (me ricordi apéna finì la guèra)

Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

Keywords: MILANO,Porta Cicca,Dopoguerra,Storie Meneghine

ANTONIA
C’erano anche altre figure caratteristiche
come “la Togna” (Antonietta) che era di
dimensioni XXL (era così per disfunzioni
ormonali, in tempo di guerra non ci si
poteva permettere di essere grassi per
altri motivi) tanto che per passare dalla
porta doveva mettersi di traverso. Un
giorno questa signora si sente male e,
vivendo sola, i vicini premurosi chiamano
la Croce Rossa.

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Al momento di caricarla in ambulanza
sorsero delle difficoltà. Malgrado
all’operazione partecipassero i due
portantini, più tre volontari del cortile,
più il sostegno morale di tutte le vicine ,
la signora non stava nella barella e,
durante il trasporto, rischiava di cadere.
Il problema fu risolto con l’intervento
della premiata ditta “Migliu - sbornia
fisa” che caricatala sul furgoncino e,
pedalando a turno, la trasportarono fino
al pronto soccorso seguiti dall’ambulanza
con tanto di lampeggianti accesi.







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EL LAVAVEDER

Al terzo piano della scala che confinava
con quella padronale, dove abitavo io, in
fondo alla ringhiera abitava una coppia,
marito e moglie. Erano di origine
contadina e, purtroppo a quei tempi, per
chi aveva passato la fanciullezza in
campagna, la scuola era un optional. La
moglie, la signora Pina, era riuscita a
finire la quinta elementare, mentre il
marito, el sciur Carlin, non era andato più
in là della terza. Il menage familiare era
gestito interamente dalla moglie, che
sapeva far di conto, mentre al marito
toccava il compito de purtà a cà i danee.
Il lavoro del Carlin era “el lavaveder”, che
consisteva nel pulire i cristalli delle
vetrine, fuori e dentro, e ingrassare le

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guide di scorrimento de la claire (che se
leg clèr), la saracinesca. L’attrezzatura del
Carlin consisteva in una scala a pioli in
legno, larga alla base circa 60 centimetri,
alta 2,5 metri e larga alla sommità circa
20 centimetri; aveva una curiosa forma
piramidale. Alla sommità era fasciata con
stracci per evitare che potesse rovinare le
superfici con le quali entrava in contatto.
Altro elemento importante era una
bacchetta in legno, di circa 2 metri, alla
cui sommità era legato,
perpendicolarmente, un bastoncino con
un tampone intriso di grasso nero che
serviva a ungere le guide. Completavano
il tutto due latte, regalate da un
imbianchino, piene di stracci e detersivi
vari, necessari per le pulizie. Per gli
spostamenti usava una vecchia bicicletta,

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di colore indefinito e, mi ricordo, che
aveva i freni azionati da bacchette
(tornate di moda ultimamente). Un
giorno io, curioso come lo sono tutti i
bambini, chiesi al Carlin perché la sua
scala era fatta così e lui, gentilmente,
tentò di spiegarmelo. Devo specificare
che il signore in questione era affetto da
una balbuzie di grado extra large per cui,
quando doveva salutare con un semplice
“buon giorno” impiegava dai venti ai
cinquanta minuti, secondo se era una
giornata serena o piovosa. Per questa
ragione, ancora oggi, non so il perché la
scala avesse quella forma. La coppia non
aveva figli e le donne, più informate, del
cortile dicevano, con una certa malizia,
che “lù l’era bun no de andà cun la sua
dona” (non era in grado di avere rapporti con sua moglie).

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Da quanto ho capito io, lui soffriva di
“fimosi” e un semplice intervento di
circoncisione avrebbe risolto il problema.
Ma l’ignoranza e la pudicizia dei tempi
sono riuscite a rovinare la vita di questa
persona. Ogni tanto la sciura Pina aveva
bisogno della consulenza di un ragioniere
per sistemare i conti dell’azienda del
marito. Quando il professionista arrivava,
sempre di giorno quando il marito l’era a
lavà i veder, il circolo delle comari
commentava “Ghe rivà el ragiunatt a tirà
a pari i cùnt che la lasà indrè el so omm”

(è arrivato il ragioniere a pareggiare i conti che ha trascurato

suo marito), e ghignavano maliziose. Ah le
malelingue! Da sempre, alla sera, quando
il nostro artigiano tornava dal lavoro,
doveva portare tutta la sua attrezzatura
in casa, al terzo piano, perché, lasciarla in

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cortile sarebbe sparita. Allora si caricava
sulla spalla destra la scala, con la mano
sinistra teneva le “tolle” e saliva le scale
fino al terzo piano. Depositato il tutto
ritornava giù a riprendere la bicicletta e la
bacchetta, quella sporca di unto. Una
sera d’inverno, forse perché faceva
freddo, forse perché era troppo stanco
per fare due viaggi o forse perché voleva
dare una ventata di innovazione alla sua
attività, pensò di portare al terzo piano
tutta l’attrezzatura con un solo viaggio. Si
caricò la scala sulla spalla sinistra, si legò
le tue latte alla cintura dei pantaloni, con
la mano sinistra prese la bacchetta,
quella unta, sulla spalla destra caricò la
bicicletta, che pesava quasi come una
500, e iniziò la salita.

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Era un miracolo di equilibrio e di potenza
e, scommetto che se l’avesse visto il
produttore del Cirque du Soleil l’avrebbe
sicuramente portato in tournée. Ma il
miracolo durò solo due rampe di scale
perché la stanchezza cominciò a farsi
sentire, la mano sinistra allentò la presa,
e la bacchetta, unta, tracciò una riga nera
sul muro color grigio. Quando si accorse
del danno, el Carlin alzò di scatto il
braccio sinistro per allontanare la

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bacchetta dal muro ma, nel contempo, la
scala, che era tenuta inclinata per non
toccare il soffitto, si alzò di scatto e
centrò, con precisione millimetrica,
l’unica lampadina che illuminava tutte le
scale. Rimasto al buio e gravato dal peso
di tutto il suo laboratorio mobile il
pover’uomo cercò di chiamare, in aiuto,
la moglie ma dalla bocca gli usciva
“ppppppp” pausa “ppppppiiiiiiii” pausa,
naturalmente la Pina, anche se aveva
finito di fare i conti col ragioniere, non lo
sentì. Lo sentì invece la portinaia che,
attenta come una sentinella e vedendo la
scala al buio, era già entrata in stato di
allerta intervenendo con pila e lampadina
di scorta. Quando si accorse cosa era
successo pensò bene di esprimere il
proprio pensiero all’autore del fatto “ma

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bisogna avegh minga de cervell per purtà
su tùta chela roba lì in una volta, cià che
ghe ùti mi e un’altra volta el faga do scal”

(ma bisogna essere senza cervello per portare tutta quella
roba in una sola volta, dia a me che l’aiuto e un’altra volta

faccia due viaggi).
Umiliato nel suo amor proprio, anca dalla
purtinara, il nostro Carlin maledì la sua
voglia di modernizzazione e giurò a se
stesso che non avrebbe mai più
sperimentato altre innovazioni.


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LE LITI IN CORTILE

In una casa di ringhiera popolata da tanta
gente in poco spazio, era inevitabile che
sorgessero dei contrasti tra i vari
inquilini. Le ragioni maggiori del
contendere erano l’occupazione degli
spazi pubblici o l’invasione degli spazi
privati o i rumori molesti o la poca igiene
nei gabinetti comuni. Mi è rimasta in
mente questa. Un giorno la signora
Letizia, che mia nonna chiamava “la
paulota” perché era un’assidua
frequentatrice di chiese e abitava al
secondo piano della scala del lavaveder,
si mette a urlare “Sciura Maria, mi sunt
stùfa de tegnì piss el ciar tutt’el dì perché
le la me mett i lenzoeu fin su la mia
ringhera, sem minga a Napuli chì” (signora

Maria io sono stufa di tenere accesa la luce tutto il giorno

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perché lei stende le lenzuola fino alla mia ringhiera, non siamo

a Napoli qui). La destinataria del reclamo era
la signora Maria, che abitava al piano di
sopra ed era originaria di Cerignola, ma
per la signora Letizia tutti quelli che
erano nati dopo il Po venivano da Napoli
(probabilmente non sapeva neanche
dove fosse). Questa signora, che mia
nonna chiamava “Maria la barbisa” per
un evidente eccesso di peluria sul viso,
rispose in un linguaggio che era un
cocktail di pugliese lombardo,
sostenendo che lei aveva tutto il diritto di
stendere ad asciugare i panni perché
l’affitto lo pagava, lei. La Letizia rispose
per le rime dichiarando che nessuno le
aveva mai bussato alla porta per
chiederle dei soldi e che sarebbe stato
meglio, anziché guardare in casa degli

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altri, che guardasse dove andava sua
figlia di sera. Oramai la disputa era
degenerata sul piano personale e le
comari avevano cominciato a popolare la
ringhiera pregustando notizie morbose e
intime. Naturalmente la barbisa volle
sapere a cosa alludesse con quelle
parole, e la paulota dichiarò “l’ù vista mi,
la sua tusa, che alla sera quand la turna
de laurà la se posta al scùr in un cantun
de la scala brasciada su cun vùn” (l’ho vista io,

sua figlia, alla sera quando torna dal lavoro che si mette al

buio in un angolo della scala abbracciata con uno). La
Maria, in un esperanto menego-pugliese,
molto risentita, ribattè che la sua Lucia
era una ragazza per bene e che se si
fermava a parlare con qualcuno aveva
tutto il diritto e l’età per farlo. Inoltre,
aggiunse, anche il figlio della Letizia,

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Giancarlo, lei lo aveva visto limonare con
una ragazza ma, siccome non era una
pettegola, non aveva mai detto niente a
nessuno. La sciura Letizia, presa in
contropiede, dichiarò che sicuramente
non era vero perché il suo era un ragazzo
serio, ma che avrebbe indagato
ulteriormente. Lo scontro finì lì ma per le
comari del cortile queste notizie avevano
scatenato una insaziabile curiosità. Da
quel momento quando calavano le prime
luci della sera e le persone rincasavano
dal lavoro, decine di occhi indiscreti
scrutavano negli angoli bui della scala con
la morbosa speranza di identificare quei
due ragazzi che si baciavano abbracciati.
Non passò molto tempo che la squadra
investigativa svelò il mistero: i due
innamorati erano Lucia e Giancarlo, eh

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già, i figli della barbisa e della paulota. La
notizia, con tutta la riservatezza del caso,
dopo pochi minuti fu riportata alle
rispettive madri, anzi, ci fu una vera e
propria gara a chi riusciva a portare la
notizia per primo. A dispetto delle comari
che si aspettavano una guerra razzista
con l’intervento dei rispettivi mariti la
cosa non ebbe risonanza ma, al contrario,
i due ragazzi cominciarono a frequentarsi
ufficialmente. Dopo due anni si
sposarono nella chiesa di San Lorenzo e
io e il mio gruppo facemmo i chierichetti
alla cerimonia, guadagnando una
manciata di confetti. Ora le signore
“Maria la barbisa” e “Letizia la paulota”
non litigano più per le lenzuola ma
guardano, orgogliose, dalla ringhiera del

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cielo i loro nipoti e pronipoti che sono
diventate persone oneste e perbene.

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EL GIAZZATT

Quando ero bambino, in casa, la
conservazione dei cibi era affidata al
“giazzireau”, in italiano “la ghiacciaia”.
La ghiacciaia era un mobiletto, poco più
grande di un comodino, il cui interno era
rivestito di lamiera zincata isolata dalle
pareti esterne con materiale coibente e
suddiviso in due parti: in una il cibo da
conservare e nell’altra un pezzo di
ghiaccio. Il ghiaccio veniva fornito da un
personaggio dell’epoca, che si chiamava
“Giazzatt”. In corso Ticinese il fornitore
del ghiaccio si chiamava “Celestino” e
abitava in una casa, sempre sul corso,
con un portone d’ingresso non più largo
di un metro e mezzo. “Celestin” aveva
un“furgunin” a pedali carico di stecche di

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ghiaccio e lo si poteva facilmente
rintracciare perché lasciava sul percorso
una scia di goccioline d’acqua. Girava
tutta la zona annunciando la sua
presenza con uno stentoreo “giacciooo”
e, a quel grido, i bambini si precipitavano
intorno al furgoncino per riuscire a
prenderne una scheggia da succhiare. Le
schegge si formavano durante la rottura
del pezzo che poi avvolgevano, in una
tela di sacco e lo portavano a dimora. Il
nostro “giazzatt” aveva una figlia,
piuttosto carina, che si chiamava Carla. La
“Carlina”, come veniva chiamata, aveva
ambizioni sociali e faceva la snob
imitando il gergo della “Gagarella del Biffi
Scala”, personaggio così bene descritto
nella famosa canzone del maestro D’Anzi.
Quando parlava trasformava le “s” in “z”

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e prolungava le vocali finali. Così se uno
le chiedeva “Carlina vieni a mangiare un
gelato con me stasera?” lei rispondeva
“Cicciooo quezta zera non pozzooo, te và
ben giuediii?” Inoltre, la vita non l’aveva
dotata di grande cultura ma, in
compenso frequentandola, non si correva
“il rischio del platonico” (come diceva
Jannacci nella sua canzone “Veronica”).
Un giorno Celestino dovette sostituire il
mezzo di trasporto, ormai distrutto
dall’umidità, ma quando giunse a casa
con quello nuovo si accorse che il
furgoncino era dieci centimetri più largo
del portone. La Carlina esclamò” Mah
papiii sei un pisquanoo! Adess bisogna
tra giò el mùr” (adesso bisogna demolire il muro).
Naturalmente il meccanico delle
biciclette di via Arena risolse il caso

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stringendo il
cassone senza
bisogno di
opere murarie.
Con l’avvento
del frigorifero,
che non aveva bisogno di ghiaccio anzi lo
faceva, il nostro “giazzatt” si trovò senza
lavoro ma, pieno di iniziativa, posizionò
nel cassone del furgoncino una caldaia
per le caldarroste e iniziò la nuova
attività sull’angolo di via Vetere. La
Carlina trovò lavoro, entrando in società
con altri, in un bar di corso San Gottardo
che, in poco tempo, incrementò
notevolmente il suo giro di affari per
l’affluenza di nuovi clienti, la maggior
parte maschi. E’ evidente che la ragazza
aveva capacità imprenditoriali nascoste.

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Le capacità di reclamizzare la merce,
invece, erano ben evidenziate e messe in
risalto.

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EL MARIO MATT

Quando ero bambino le persone adulte
erano solite tenere un atteggiamento
serio e responsabile, ridevano,
scherzavano ma non si abbandonavano
mai ad atteggiamenti che oltrepassavano
il limite della discrezione. Quelli che si
comportavano fuori dalle righe e
prendevano la vita non conforme i crismi
della normalità venivano definiti “senza
coo” oppure, genericamente matti “i
matt”. In questa categoria era stato
relegato el Mario.
Mario era un signore che aveva circa
quarantacinque anni, abitava in corso
Ticinese, non ricordo a che numero, era
alto, magro, aveva un’andatura
dinoccolata e, camminando, sembrava

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che si muovesse con passi di danza. Per
strada guardava in viso la gente che
incrociava, sempre sorridente, e salutava
tutti, anche se erano pochi quelli che
contraccambiavano. Per questo suo
comportamento estroverso, diciamo,
diverso dagli altri, veniva chiamato “el
Mario matt”. Il nostro personaggio si
guadagnava da vivere cantando,
accompagnandosi con la fida chitarra che
portava sempre a tracolla. Il suo
palcoscenico erano le varie osterie della
zona nelle quali veniva invitato al sabato
e alla domenica, per fare allegria e far
ballare i clienti. Durante la settimana
girava per i cortili delle case suonando e
cantando le canzoni più in voga e, dopo
le sue esibizioni, la gente gli buttava le
monetine dalla ringhiera, lui le

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raccoglieva, ringraziava con un inchino, e
si spostava in un’altra corte. Alcune volte
il nostro cantante veniva incaricato da
qualche corteggiatore, non
particolarmente intonato, per fare una
serenata all’innamorata. In queste
occasioni, il fantasioso artista aumentava
il numero degli strumenti: si metteva una
grancassa sulle spalle, come uno zaino,
sopra il tamburo metteva due piatti e,
tramite due funicelle collegate ai talloni,
azionava la sezione ritmica dell’orchestra,
devo dire, con risultati decisamente
apprezzabili. Un giorno, il nostro
menestrello venne incaricato dal signor
Ippolito, mia nonna lo chiamava
“Impolito el sguerciun” perché affetto da
strabismo, un innamorato giovanotto
piuttosto benestante, di fare una

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serenata a una timida ragazza di nome
Amelia che abitava al numero 48 di corso
Ticinese. Così, in una calda serata di
giugno, il nostro Mario si presentò in
cortile con tutta la sua orchestra, ma,
non si sa per quale ragione, anziché al
numero 48 entrò al numero 50, il mio
cortile. Cominciò la sua esibizione
cantando un pezzo di sua creazione che
faceva, più o meno così: “Amelia mia
amata, ti vorrei tanto abbracciare, e la
bocca tua adorata, io vorrei tanto
baciare”. Era un pezzo che eseguiva per
tutte le serenate, la musica e il testo
erano sempre gli stessi, variava solo il
nome della persona alla quale era
dedicato. Caso volle che al terzo piano
della scala, vicino alla mia, abitava una
signora, nativa di Gaeta, che si chiamava

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Amelia. Aveva circa cinquant’anni, due
figli, di poco minori di me, e un marito di
origini calabresi che faceva il muratore.
Quando il cantautore cominciò la
serenata la ringhiera si popolò di curiosi e
le comari, ammiccando fra loro, si
sussurravano “Chissà me l’è cuntent el so
marì terun” (chissà come è contento il suo marito
meridionale). Infatti non passarono due
minuti che la serenata si interruppe
perché il calabrese era piombato in
cortile a chiedere spiegazioni in
atteggiamento non proprio signorile al
malcapitato messaggero d’amore, il
quale tentava di spiegare fino a quando,
finalmente, si accorse che aveva
sbagliato indirizzo. Non so se la Amelia
del 48 abbia poi sentito la serenata del
suo amato Ippolito, sta di fatto che la

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cosa venne chiarita e tutto ritornò alla
normalità. ”El Mario matt”, dopo un
anno, aprì un negozio all’angolo fra corso
Ticinese e via De Amicis, con l’insegna “El
Mario matt” nel quale si potevano
trovare strumenti musicali, dischi,
spartiti, apparecchi radio e giradischi. I
miei zii comprarono un

bellissimo apparecchio radio in radica,
che ora mia figlia tiene in salone come
soprammobile, e per me, il primo

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acquisto fu un invece
un disco a 78 giri con
una canzone di
Carosone intitolata “La
pansé”.
Il testo di questa canzone dice: "oh, che
bella pansè che tieni, che bella pansè che
hai, me la dai? me la dai? me la dai la tua
pansè." Mia nonna quando l’ha sentita
per la prima volta, interpretando il
doppio senso, mi chiese “In due te
cumprà chela roba lì?” (dove hai comprato quella
roba?) e io risposi “in del Mario matt”. Con
una smorfia di insofferenza commentò
“dumà in de lù te pudevet truà una
vacada cumpagna” (solo da lui potevi trovare una
porcheria simile). In seguito comprai altri dischi
e spartiti fino a che, un giorno, il negozio
chiuse e del “Mario matt” si persero le

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tracce. Fine di un’altra figura
caratteristica della Milano del
dopoguerra.

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Questa era la mia famiglia quando ancora io non
c’ero: mio nonno Mario, mia nonna Gina, mio papà

Franco, davanti a lui mia mamma Iride e mia zia
Amalia

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EL NATAL

Prima della seconda guerra mondiale, in
casa mia e per me, il Natale era
considerato una festa importante. Primo
perché “Gesù bambino” portava i regali,
(Babbo Natale non aveva ancora varcato
l’Atlantico), secondo perché si faceva il
presepe e si addobbava l’albero e poi
perché ci si radunava in famiglia e si
mangiavano cose che durante l’anno non
rientravano nella quotidianità. Il Natale
del 1940 mi è rimasto particolarmente
impresso nella memoria. Benché la
guerra fosse già cominciata da giugno,
eravamo abbastanza contenti perché gli
uomini di casa non erano stati richiamati
alle armi, mio nonno troppo veterano,
mio padre perché lavorava in un'azienda

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che produceva materiale bellico (Pirelli) e
mio zio, il fidanzato della zia Amalia,
perché soffriva di cuore. Circa dieci giorni
prima di Natale eravamo indaffarati nei
preparativi degli addobbi.

Vivevamo in una casa piccola, solo due
locali, e per fare il presepe mio padre
installava per l’occasione una mensola di
circa mezzo metro quadro, a un’altezza di
oltre un metro e mezzo dal pavimento.

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Per vedere il presepe dovevo salire in
piedi su una sedia o essere preso in
braccio da qualcuno. Il presepe era molto
semplice: “la capana, la Madona, san
Giusepp, el Bambin, el boeu, l’asin, i
pastur, i pegur e la teppa, un pezzo di
specchio rotto serviva da laghetto per fa
bev i pegur". Le statuine erano di gesso
non più alte di dieci centimetri. Ai miei

occhi era bellissimo! Poi
era la volta dell’albero.
“Vu a toeu el pin” diceva
mia zia, scendeva
dall’ortolano sotto casa e
tornava con un abete di
circa un metro perché più
alto non ci stava. Veniva sistemato sulla
ghiacciaia. Circa un metro sopra la
ghiacciaia, era appeso al muro “el

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reguladur”: era così chiamato un orologio
a pendolo, piuttosto antico, che era stato
della mamma di mia nonna, in legno di
noce con il pendolo protetto da un
cristallo molato.
Il “reguladur” suonava allo scoccare di
tutte le ore e a ogni mezz'ora ma,
durante l’esecuzione, calava di volume: la
diagnosi di mia nonna fu “Ghe và giò la
vus perché l’è vecc e ghe manca el fià” (gli
cala la voce perché è vecchio e gli manca il fiato). Sui rami
del pino venivano appese le palle
colorate di vetro, qualche mandarino, i
portacandele con relative candeline, dei
batuffoli di bambagia a rappresentare i
fiocchi di neve e sulla cima un bel
puntale. Se si volevano le lucine
bisognava accendere le candele. Due
giorni prima di Natale partiva

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l’operazione ravioli, ognuno aveva il suo
ruolo: mia nonna faceva la pasta e la
tirava col mattarello, mio nonno aveva
fatto il ripieno dopo aver tritato la carne
con la mezzaluna e l’Angelina tranciava i
dischi di sfoglia, col bicchiere, per essere
imbottiti e, dopo che erano stati distesi
sui canovacci adagiati sul comò,
l’operazione ravioli era conclusa. La vigilia
era il giorno più indaffarato e, tra
profumi di sughi e di cappone lesso, ogni
volta che mi muovevo sbagliato partiva la
minaccia “ste fe no el brau ven no Gesù
Bambino” (se non fai il bravo non viene Gesù Bambino).
Alla sera si accesero finalmente le
candeline sull’albero con mia grande
gioia, ma dopo dieci minuti, un urlo di
mia nonna echeggiò nella stanza: “brùsa
el reguladur”!!!

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Infatti una candelina, sistemata troppo in
alto, aveva intaccato il legno lasciando
una striscia nera. A mezzanotte si sentiva

“el campanun del
dom” che invitava i
fedeli “alla messa
de mezzanott”. La
mattina di Natale,
in preda
all’eccitazione, mi svegliai presto ma
siccome gli altri dormivano ancora,
resistetti il massimo possibile, poi
piombai in cucina e sotto l’albero c’erano
i doni portati da Gesù Bambino. Alcuni li
avevo chiesti, altri erano una sorpresa,
altri erano giochi di società che non avrei
mai usato perché ero solo. Avevo chiesto
un pianoforte ma mi trovai “el

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sciazzband” (traduzione in meneghino di
Jazz band) ovvero una piccola batteria

composta da un
tamburo, un
tamburello, un piatto
e un triangolo.
Cominciai a suonare
con foga e, tanto fu
l’apprezzamento dei miei, che dopo venti
secondi di esibizione il “sciazzband” era
ritornato nel suo scatolone e riposto
sopra l’armadio con la promessa di mia
nonna “Quand te avarè imparà a sunall
t’el darù indree” (quando avrai imparato a suonarlo
te lo renderò). Mi avevano regalato, anche,
un esercito di soldatini con tende da
campeggio, un carro armato, un aereo
trimotore mimetizzato e
un’autoambulanza. Mi ricordo che, fra i

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tanti soldatini, c’erano due cavalli, uno
bianco e uno marrone, e in sella a quello
bianco c’era Mussolini e in sella a quello
marrone Re Vittorio Emanuele III. Un
particolare curioso era che per fare stare
in equilibrio i due cavalieri si doveva
infilarli su un filo di ferro lungo circa un
centimetro che usciva verticalmente dalla
sella. Non capii il perché, i miei, quando li
videro, si misero a ridere. Natale mattina,
io e mio nonno Mario, andammo a
comprare gli antipasti da Peck in via
Orefici, ora è in via Spadari, storica
salumeria dai prodotti eccezionali con i
prezzi altrettanto eccezionali, per questo
ci andavamo solo nelle feste comandate.
Comprammo prosciutto cotto e crudo, la
filzetta, la mustarda, el paté, la biseta
(anguilla marinata), la gelatina, el zola

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(perché la buca l’è minga straca se la sa
no de vaca) e un tocc de grana de gratà
sui raviau in broeud. Il panettone
l’avevamo già ritirato dal panettiere, con
il cesto perciò avevamo tutto quello che
serviva. In casa mia, a Natale e solo a
Natale, si faceva una cosa che si
discostava dai dettami ferrei che
regolavano la vita familiare: si pranzava
alla una anziché a mezzogiorno. Quello,
fu un pranzo con tante cose buone ma
soprattutto con tanta allegria; mangiavo
e mi divertivo, ascoltavo quello che
dicevano i grandi e, anche se non capivo
tutto, loro ridevano e ridevo anch’io.
Fu l’ultimo Natale passato in allegria con
tutta la mia famiglia poi, la guerra e la
malattia di mio nonno che se lo portò via
dopo un anno, ruppero l’incantesimo.

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Chiesi a mia nonna “ Ma Gesù Bambino el
ven pù a purtà i regai?” (ma Gesù Bambino non
viene più a portare i regali?) e lei rispose “No,
perché l’è andà a suldà anca lù” (no perché è
andato a militare anche lui).

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