The words you are searching are inside this book. To get more targeted content, please make full-text search by clicking here.

Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

Discover the best professional documents and content resources in AnyFlip Document Base.
Search
Published by , 2019-12-15 08:05:41

Ricordi del dopoguerra (me ricordi apéna finì la guèra)

Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

Keywords: MILANO,Porta Cicca,Dopoguerra,Storie Meneghine

IL BALIO

Duranti gli ultimi mesi di guerra i
bombardamenti si erano fatti più intensi
e più frequenti, specialmente di notte.
Questo perché ci bombardavano i nostri
nemici “americani e inglesi” e in più si
erano aggiunti i nostri ex alleati
“tedeschi” ai quali, con un colpo di mano,
avevamo voltato le spalle dopo la caduta
del fascismo. Quando l’anno scolastico
finì i miei decisero di allontanare dalla
città me e mia nonna perché la situazione
era diventata insostenibile. La meta dello
sfollamento fu Quintano (Quintà in
dialetto cremasco) un paese in provincia
di Cremona che, nel 1945 non faceva
neanche comune, e che oggi conta circa
900 abitanti, figuratevi a quei tempi.

99

Eravamo ospiti “a cà del balio”. Chi era il
balio? Il balio “l’era el marì della balia”.
Eh si, io mi sono permesso il lusso di una
balia, come i nobili, ma mentre loro la
chiamavano “nutrice” da noi “l’era la
balia”. Spiego come ho avuto la balia,
riportando i fatti che mi sono stati
raccontati dai miei. Mia madre ebbe un
parto difficile e travagliato, di
conseguenza non ebbe la possibilità di
allattarmi. Per questa ragione, tramite un
collega di lavoro di mio padre, si trovò
questa contadina disponibile, e così fui
portato a Quintano.
Ogni fine settimana qualcuno dei miei di
età. Una domenica, i miei genitori mi
trovarono seduto per terra, con una
scodella di risotto freddo, condito col
grasso d’oca, che mangiavo in compagnia

100

di un gruppo di
galline che, a loro
volta, beccavano
nella mia tazza.
Decisero che era
arrivato il momento
di tornare a casa e
mi riportarono a
Milano, affidandomi
ai nonni paterni, in quanto loro
lavoravano. Rimanemmo sempre in
buoni rapporti con la famiglia della mia
balia ed è per questo che ci accolsero
nella loro cascina, come sfollati. Il viaggio
fu piuttosto avventuroso fatto col treno,
su carri bestiame. A metà strada ci fecero
scendere di fretta e dovemmo
nasconderci ai lati della massicciata
perché un aereo stava mitragliando il

101

treno. Eravamo giunti alla follia totale!
Quando, dopo ore, giungemmo alla
stazione di Crema, ad attenderci c’era il
marito della mia balia con il barroccio o
biroccio trainato da un cavallo, una
visione da “Via col vento”. Caricammo la
nostra valigia, ci coprimmo le gambe con
una coperta, anche se faceva caldo, e
trottammo verso la cascina percorrendo
strade polverose in mezzo a campi
immensi. Abituato com’ero a vivere in
città, tutto quello spazio e quel cielo,
intorno, mi davano una sensazione di
oppressione, non avevo punti di
riferimento e mi sentivo spaesato, al
contrario del cavallo che sapeva
benissimo dove andare. Giunti, in una
bella cascina corredata di aia, stalla e
fienile, fui travolto da una formosa

102

signora, che abbracciandomi gridava “t’el
che el me Giuseppe” e siccome io la
guardavo stranito mi domandò “Te se
ricordet mia de me?”. Domanda strana se
si pensa che l’ultima volta che l’avevo
vista avevo un anno ed era successo otto
anni prima, ma io per farla contenta, e
anche per sdebitarmi del favore che ci
faceva ospitandoci, risposi che mi
ricordavo di lei e la abbracciai. Ci
trattenemmo circa due settimane
durante le quali feci alcune esperienze
non proprio felici. Mio “fratello di latte” e
la sua compagnia, tutti ragazzi figli di
contadini, correvano e saltavano a piedi
nudi, io, per non sembrare diverso,
cercavo di adeguarmi alle usanze del
posto, con risultati disastrosi. Loro, sotto
i piedi, sembrava avessero una suola di

103

cuoio, sia come spessore che come
colore, e tutto quello che calpestavano
cedeva sotto il loro peso. Io sotto i piedi
avevo la pelle bianca e sottile e tutto
quello che calpestavo mi entrava dentro,
con dolori insopportabili. Mettere le
scarpe non rientrava nella filosofia di mia
nonna “cun chela tera che ghe in gir, ti
cunscet de sbat via, i to gent, i daneè i
caten minga dai piant” (con la polvere che c’è in

giro li conci da buttare via, i tuoi genitori, i soldi non li colgono

dalle piante). Così mi rassegnai a seguire le
usanze del posto. Un giorno, camminavo
da solo su un sentiero che costeggiava
una roggia, poco fuori dalla cascina; il
suolo era di polvere fine che non mi
rovinava i piedi, anzi, era piacevole
sentire il tepore della sabbia. Nell’acqua
nuotavano dei vaironi lunghi una spanna

104

ed io, affascinato dal guizzare dei pesci,
costeggiai il canale per non so quanto
tempo finché scomparve dentro a un
grosso tubo sotterraneo. Quando alzai lo
sguardo, dalla roggia, mi accorsi che ero
in mezzo al nulla, circondato dai campi
con frumento, alberi ed erba, la cascina
era sparita. Dopo un primo momento di
smarrimento mi imposi di ragionare con
calma e mi dissi “se ritorno indietro
seguendo la roggia ritorno al punto di
partenza”. Così ripercorsi in senso
contrario il cammino già fatto o almeno
così credevo, finché non vedo una
cappelletta della Madonna, posta a un
incrocio fra due campi. Questa non c’era
prima, mi sono detto, stavolta mi sono
perso. Quando, io e mia nonna, eravamo
sotto i bombardamenti, abbracciati nel

105

letto, pregavamo la Madonna per non
farci centrare dalle bombe, e finora ci
aveva ascoltato. “Visto che, finora, aveva
esaudito le nostre richieste”, pensai, “ora
chiedo di farmi ritrovare la strada di
casa”. Congiunsi le mani, mi inginocchiai
e feci la mia richiesta. Osservando la
statua, che teneva in braccio il bambino,
vidi che volgeva lo sguardo,
misericordioso, verso una direzione, mi
dissi “è quella la strada da prendere”,
raccolsi un bel mazzetto di papaveri da
un campo di grano e lo infilai nel
cancelletto della cappella in segno di
ringraziamento poi mi avviai in quella
direzione. Dopo mezz’ora di cammino i
piedi non mi reggevano più perché la
sede stradale era cambiata, il sentiero si
era allargato e il fondo era diventato

106

ghiaia, probabilmente mio fratello non se
ne sarebbe neanche accorto, ma per me
era come camminare sui carboni ardenti.
Eppure la roggia con i pesci era sempre
alla mia sinistra, cominciai a dubitare che
la Madonna non conoscesse bene la zona
o, probabilmente, era distolta da
problemi più importanti. Dopo altri
quindici minuti di tortura la roggia si

107

riversò in un fosso largo più di tre metri, il
sentiero finiva lì e al di là del fosso c’era
una strada carrabile, rigorosamente
sterrata.
Ormai completamente confuso e
impaurito, guadai il fosso, bagnandomi i
pantaloni, e quando fui sulla strada
fermai un carro carico di concime
trainato da un cavallo, che

108

fortunatamente passava di lì, e chiesi
indicazioni per la casa della mia balia. Il
carrettiere si offrì gentilmente di darmi
un passaggio perché, disse “l’è mia chi
arenta” (non è qui vicina). Giungemmo dopo
mezz’ora, quasi imbruniva, i ragazzi si
erano già lavati pronti per la cena, io
avevo i piedi gonfi e sanguinanti, puzzavo
di stallatico e avevo il viso stravolto dalla
stanchezza; mia nonna mi accolse con
espressione severa e disse “Se pò savè in
due te set stà? Và cume te set cunscià,
lavess e va a cambiass che l’è ura de
mangià” (si può sapere dove sei stato? Guarda come sei
conciato, lavati e vai a cambiarti che è ora di mangiare).
Cercando di non far vedere che
scoppiavo dalla voglia di piangere, salii
nella camera a cambiarmi. Avrei tanto
voluto essere abbracciato, tenuto stretto

109

e rincuorato mentre mi rassicuravano
che avrei sempre avuto qualcuno che mi
indicasse la strada giusta, ma la guerra ci
aveva reso tutti un po’ aridi e le
smancerie, per il momento, erano state
rinviate a data da destinarsi.

110

111

LA GITA

Era uso e consuetudine, nella mia
famiglia, fare una gita una volta all'anno.
Era il massimo che ci potevamo
permettere appena finita la guerra. La
gita era riservata alle donne, non ho mai
capito perché gli uomini non
partecipassero, e io, essendo l’unico
bambino della famiglia, partecipavo di
diritto. La meta era sempre Como e, poi,
da lì ci si spostava nei paesi vicini. Vi
racconto quella che, a mia memoria, è
stata l’ultima. I preparativi iniziavano
parecchio tempo prima. Primo, c’era da
stabilire il giorno, sempre di domenica;
secondo, i partecipanti, quasi sempre gli
stessi: mia nonna, mia zia, mia madre e
l’immancabile Angelina e, raramente,

112

un’amica di famiglia; terzo, il menù da
preparare, anche quello quasi sempre lo
stesso. Il giorno prima era un fervore di
preparativi, dagli abiti da mettere alla
preparazione dei viveri: cotolette alla
milanese, uova sode, terrina con
pomodori e peperoni già tagliati, bottiglia
con olio e aceto già mischiati,
pacchettino col sale fine, formaggio,
frutta e biscotti (come dessert), tovaglia
da distendere sul prato e tovaglioli di
cotone, quelli di carta non erano, ancora,
stati inventati. Il pane no, quello lo si
comprava a Como, perché l’è pussè bun
de quel de Milan, cosa che
personalmente non ho mai condiviso.
Domenica mattina sveglia alle cinque,
raccolta delle vettovaglie e alle sei
raduno davanti al portone. Partenza, a

113

piedi perché i tram, a quell’ora, non
avevano ancora preso servizio, verso la
stazione Nord in piazzale Cadorna. Il
gruppo procedeva di buon passo, in
silenzio per non disturbare quei che
dormen ancamò. Il cielo era nuvolo ed io
lo feci notare alle donne le quali mi
risposero “dopu el cambia”. Giunti alla
stazione comprammo il biglietto, di terza
classe, allora c’era, per Como. Piccola
discussione col bigliettaio per decidere se
io dovessi pagare, mia nonna diceva di
no, perché ero piccolo e l’anno prima non
mi avevano fatto pagare, il bigliettaio
diceva di si, alla fine si giunse al
compromesso di farmi pagare mezzo
biglietto. Saliti sul treno mia nonna
ricevette i complimenti della compagnia
per l’operazione risparmio “sem minga

114

chì a regalag i danè a la feruvia. L’an pasà
la pagà no” (non siamo mica qui a regalare i soldi alla
ferrovia. L’anno scorso non ha pagato). Quando il
treno si mise in movimento e uscì dalla
stazione il tempo cominciò a cambiare,
come previsto, ma in peggio. La pioggia
bagnava il finestrino ed io, con l’aspetto
sempre più cupo, cominciavo a inveire,
dentro di me, contro il responsabile del
tempo. Le donne guardavano fuori,
scherzavano e ridevano, forse per
esorcizzare il maltempo, e dichiaravano
mei inscì viagium cul fresc, comunque a
Com piuarà pù (meglio così viaggiamo col fresco,
comunque a Como non pioverà). Contro ogni
previsione, a Como, la pioggia era
aumentata d’intensità e le organizzatrici
si accorsero che, in tutta l’attrezzatura
che si erano portate, non era stato

115

inserito uno straccio di ombrello. Ci
coprimmo alla bell’e meglio con
indumenti occasionali, berretto di tela
per il sole, foulard, qualche tovagliolo e
così agghindati, saltando tra una
pozzanghera e l’altra, andammo a
comprare il pane, che l’è pussè bun che a
Milan. Anziché andare a piedi sulle
colline di Como, come era stato
programmato, pensammo di prendere la
corriera in modo da evitare di inzupparci
ulteriormente. Al momento di prendere
il biglietto, altra discussione col
bigliettaio sull’opportunità di esentarmi
dal pagamento, e mia nonna,
mettendomi una mano sulla testa e
spingendomi verso il basso, tentava di
dimostrare che non ero alto abbastanza
per pagare. Il bigliettaio, visto che la

116

discussione l’avrebbe impegnato per
tutta la mattinata, accettò la
dimostrazione. Giunti a destinazione, la
pioggia era quasi cessata, ci inoltrammo
per una strada sterrata che attraversava
un boschetto, penso che conoscessero il
percorso, probabilmente era lo stesso
che facevamo tutti gli anni. La strada,
causa la pioggia, era fangosa e mia zia
cominciò a lamentarsi del fatto che le si
rovinavano le scarpe, mia nonna
commentò “a chela lì ghe va mai ben
gnent” (a quella lì non va mai bene niente).
L’Angelina si tolse le scarpe dichiarando
che lei camminava meglio a piedi nudi, in
realtà voleva salvaguardare l’unico paio
di scarpe che aveva. Anche io, preso
dall’entusiasmo, tentai di togliermi le
scarpe ma, una sberla di mia nonna mi

117

rimise in posizione di marcia con le
scarpe allacciate. Visto che il gruppo
aveva ripreso il buonumore e procedeva
cantando, Giove pluvio pensò bene di
calmare l’entusiasmo facendo
ricominciare a piovere. A quel punto mia
nonna propose di andare a cà de la
Sandra. La Sandra era una vicina di casa
di mia nonna che, potendo
economicamente permetterselo, durante
la guerra era sfollata e, trovandosi bene,
aveva deciso di prolungare il soggiorno.
La proposta venne condivisa con
entusiasmo da tutti. La cà de la Sandra
era una cascina con tanto di stalla, galline
e maiale, che distava circa un chilometro
e quando arrivammo il nostro stato era, a
dir poco, pietoso. Mia nonna, mia zia e
mia mamma erano inzuppate fino alle

118

ossa, i capelli, che ormai avevano perso
ogni traccia della messa in piega del
giorno prima, gocciolavano lisci sulle
spalle; l’Angelina, che aveva i capelli
ondulati di natura e con la pioggia erano
diventati ricci e crespi, sembrava una
marocchina con la pelle schiarita. La
Sandra, quando ci vide, ci accolse con lo
stesso entusiasmo col quale avrebbe
accolto l’agente delle tasse, ma, facendo
finta di essere dispiaciuta del nostro
stato, ci permise di accamparci sotto la
tettoia del fienile, dove ghera la trumba
de l’acqua. Sistemata sulle balle di paglia
la tovaglia e le vettovaglie, le uniche cose
rimaste asciutte, mangiammo, con
ritrovato buonumore anche perché stava
facendo capolino un pallido sole. “L’ù dì
mì che’l cambiava” dichiarò mia nonna,

119

ma, guardando il cielo, non sembrava
così sicura. Quando giunse l’ora di
tornare salutammo la Sandra
ringraziandola per l’ospitalità e
promettendo di tornare a trovarla l’anno
dopo. La Sandra, assistita da un odioso
cagnetto che continuava ad abbaiare,
finse di essere contenta ma, in cuor suo,
sperava che ci dimenticassimo la strada.
A quel punto io espressi il desiderio di
non tornare a Como con la corriera ma
col battello, sul lago, idea sostenuta
vivamente anche dall’Angelina e da mia
zia. Nonostante la riluttanza di mia nonna
si decise per il battello e partimmo, in
discesa, verso il lago, manco a farlo
apposta, ricominciò a piovere.
Giungemmo all’imbarcadero in condizioni
deplorevoli, silenziosamente commiserati

120

dal gruppo di persone che già aspettava il
traghetto. Comprammo i biglietti e io
venni esentato dal pagamento,
probabilmente i bigliettai si erano già
passati la voce. Quando giunse il battello
era già abbondantemente affollato e,
siccome nessuno stava sul ponte sotto la
pioggia, nella zona coperta c’era posto in
piedi stipati come sardine. Inoltre, dato il
carico elevato, la linea di galleggiamento
era a filo del ponte e le onde spinte dal
vento bagnavano i finestrini. Io e
l’Angelina ci divertivamo molto, mia
nonna aveva lo stesso umore di un
passeggero del Titanic un’ora dopo l’urto
con l’iceberg. Raggiunto Como e preso il
treno ritornammo a Milano dove ci
accolse uno splendido sole. Giunti a casa
gli uomini chiesero come era andata, mia

121

nonna rispose “èm ciapà un pù d’acqua
ma l’è stà bel” (abbiamo preso un po’ d’acqua ma è
stato bello) ma, dato il nostro aspetto, ho
l’impressione che non ci abbiano creduto.
Da quel momento ho cominciato a capire
perché gli uomini si erano sempre
rifiutati di partecipare alla gita annuale.

122

123

LA SVOLTA

Dopo due anni io cominciai a frequentare
l’oratorio della chiesa di S. Lorenzo con il
relativo sagrato (che noi chiamavamo la
piazzetta) e le famose colonne. Per me fu
come scoprire un mondo nuovo, uscivo
da una solitudine patologica e scoprivo
altri ragazzi che, come me, avevano
voglia di correre e di giocare. L’oratorio
era composto, per la maggior parte, da
un campo di calcetto in terra battuta e,
correndo e calciando il pallone, eravamo
costantemente circondati da una nuvola
di polvere. Per ovviare a questo don
Giordano, il prete di San Lorenzo,
d’estate, faceva innaffiare il campo con
un getto d’acqua. Così non eravamo più
coperti di polvere, ma di fango.

124

In questo campetto ho avuto l’onore di
giocare al pallone con Sandro e Ferruccio
Mazzola, con i quali - dato che ai tempi
non erano ancora famosi ma erano già
bravi - non mi facevo scrupoli di
intervenire un pò rudemente. Più di una
volta Sandro mi disse “ fa no el scarpun”
ma alla fine chi si è rimediato una
scarpata è il sottoscritto, e ne porto i
segni ancora adesso (con orgoglio).

125

I fratelli Mazzola con Ghezzi (portiere dell’Inter)

126

127

I SCARP DEL FOLBALL

Come ho detto all’oratorio io giocavo,
prevalentemente, al pallone e questo
comportava un consumo di scarpe oltre il
lecito. Non avendo alternative, per
giocare usavo le stesse scarpe che
calzavo per l’uso normale, cosa che
nascondevo a mia nonna altrimenti mi
sarebbe capitata la solita paternale “l’è
mei che te ste in cà a stùdià invece che
andà a scepà i scarp” (è meglio che stai in casa a
studiare anziché rompere le scarpe). Per questo,
prima di rientrare in casa, mi fermavo
sulle scale e con l’ausilio di saliva e
fazzoletto cercavo di mimetizzare i danni
provocati alle scarpe dal pallone. Quando
i danni erano permanenti e non riparabili,
tipo spellature, rigature e scoloriture, mi

128

giustificavo dicendo che a scuola avevo
inciampato nel banco, nella fretta di
uscire, perché interrogato alla lavagna
dalla professoressa. I danni provocati a
scuola, in famiglia, erano considerati
come eventi ineluttabili da sacrificare
sull’altare della cultura. Come quella
volta che scheggiai la riga da disegno da
60 centimetri, facendo la scherma coi
miei compagni di classe, e dissi che,
mentre ero impegnato a disegnare, la
riga sporgeva all’esterno del banco ed il
professore passando la urtò facendola
cadere. Mia nonna disse “el pudaria stà
pùse atent”(potrebbe stare più attento). Non
aggiunsero altro e mi comprarono una
riga nuova. Per la scienza erano disposti a
fare dei sacrifici. Ma torniamo alle
scarpe. Tre mesi prima del mio

129

compleanno annunciai che, per regalo,
volevo un paio di scarpe da calcio, come
le avevano i miei amici. Richiesta respinta
perché ritenuto oggetto superfluo. Avevo
cominciato tre mesi prima perché sapevo
che ci voleva del tempo per far digerire la
cosa. Così a ogni occasione ritornavo alla
carica con le “scarpe da pallone”.Batti e
ribatti alla fine si convinsero e comprai
l’oggetto dei miei desideri. La misura
delle scarpe che portavo allora era il 34 e
di quella misura le comprai. Finalmente
potevo giocare senza scivolare e senza
preoccuparmi di non spellarle. In realtà le
curavo meglio dei libri di scuola: le pulivo,
le ingrassavo e inchiodavo i tacchetti che
si muovevano così che le scarpe
sembravano sempre seminuove. Ma,
passando il tempo, io crescevo, poco ma

130

crescevo, e anche i piedi crescevano ma
le scarpe no. Fu così che partita dopo
partita facevo sempre più fatica ad
entrare nelle scarpe e, una volta dentro,
iniziava una tortura medievale che mi
impediva non solo di esprimermi al
meglio, ma anche solo di muovermi.
Comunicai in famiglia che le scarpe si
erano accorciate, mi facevano male e
bisognava comprarne un altro paio,
d'altronde era già un anno che le usavo.
Mia nonna guardò le scarpe e disse “hin
quasi noeuf se fan slungà” (sono quasi nuove si
fanno allungare), le portò da un ciabattino e gli
disse di metterle nella macchina per
allungarle di un paio di numeri. Quando
tornarono le scarpe si erano allungate
neanche di mezzo centimetro, in
compenso la suola aveva preso una

131

forma strana, a barchetta, e i tacchetti
non stavano più in sede, inoltre si
distingueva a fatica la destra dalla
sinistra. Dopo ogni partita, mi facevano
sempre male e più della metà dei
tacchetti, dopo che mi avevano bucato i
piedi con i chiodini, l’avevo persa sul
campo. Lo dissi a mia nonna che rispose
“e alura? Te giùghet sensa” (e allora? Giochi
senza). Visto che il problema non era di
facile soluzione e stufo di farmi torturare,
vendetti le scarpe, ad un ragazzo con i
piedi più corti dei miei, per 25 lire coi
quali comprai un delizioso bombolone
ripieno di crema al baracchino che c’era
all’uscita della scuola. A mia nonna
raccontai che me le avevano rubate nello
spogliatoio del campo ”Forza e
Coraggio”. Mi rispose “bruta zona chela

132

lì, comunque te duevet stà pùsse atent,
nùm i danee per cumpran un alter para
ghi em minga” (brutta zona quella lì, comunque dovevi

stare più attento, noi i soldi per comprarne un altro paio non li

abbiamo).
E questa fu la frase che decretò la fine
della mia carriera calcistica.

133

134

135

I PACCHIONI

Fra i frequentatori della piazzetta c’erano
due gemelli, di qualche anno più giovani
di me, erano talmente identici che
faceva fatica a distinguerli la loro
mamma. Questi due ragazzi, insieme a
una sorellina, erano figli del proprietario
dell’unica gioielleria che c’era in corso
Ticinese la “Pacchioni e figlio”. Questi
due ragazzini erano noti in piazzetta
perché erano il concentrato di tutto
quello che di balordo possano combinare
i ragazzi. Molte sono le monellerie
combinate dai due. Ve ne racconto
alcune.

Era Natale mattina, noi ragazzi della
piazzetta eravamo radunati sul sagrato,
col vestito della festa, dopo aver assistito

136

alla messa. C’erano anche i due Pacchioni
che mostravano orgogliosi il loro regalo
avuto da Gesù Bambino, che consisteva
in una carabina ad aria compressa:
oggetto che i loro genitori avrebbero
potuto evitare, conoscendo l’indole dei
due eredi. In quel momento passa sulla

piazza un venditore di palloncini, con
tutta la sua nuvola multicolore,
trattenuta, con decine di fili, al braccio,
che, a gran voce, invogliava la gente a

137

comprare la sua merce. La vista di quel
bersaglio mobile e colorato scatenò nei
gemelli un improvviso desiderio di
competizione cosi che, sparando a turno,
gareggiavano a chi ne centrava di più.

Quando il grappolo di palloncini fu
ridotto quasi la
metà, il
proprietario,
realizzando
quello che stava

accadendo, rincorse i due tiratori scelti e,
bloccatone uno, obbligò l’altro ad andare
a casa a chiamare un loro genitore e
pretendendo, da questo, il rimborso dei
danni subiti. Arrivò il padre pagò il danno,
ruppe a metà la carabina e accompagnò a

138

casa i due cecchini a suon di sberle.
Buon Natale.



139

Altra bravata dei due eroi fu la conquista
del Cervino. I fatti si svolsero così.
Alla domenica pomeriggio, al cinema
dell’oratorio, i due assistettero alla
proiezione del film “La grande

140

conquista”, film del 1938. La trama narra
di due cordate, una condotta da Carrel e
una da Whymper, in competizione fra
loro per la conquista del Cervino. Giunse
primo Whymper per pochi metri.
Durante la discesa di rientro un
componente la cordata scivolò
trascinandosi dietro altri due alpinisti, la
corda, a quel punto, si ruppe e questi
precipitarono. Whymper fu accusato di
aver tagliato la fune per potersi salvare.
Durante il processo, Carrel, che credeva il
rivale innocente, partì in solitaria, scalò la
montagna, ricuperò il pezzo di fune e,
pochi secondi prima del verdetto piombò
nell’aula del tribunale dimostrando che la
fune si era rotta e non tagliata e
Whymper venne scagionato. In seguito i
due divennero amici. Fine del film. I due

141

Pacchioni, il giorno dopo, in assenza dei
genitori perché in negozio, pensarono
bene di imitare le gesta dei due alpinisti.
Si procurarono un martello, una scatola
di chiodi da cinque centimetri e un rotolo
di corda, che serviva alla madre per
stendere i panni. Armati di tutto punto
cominciarono a scalare l’armadio della
camera da letto. Ogni venti centimetri
piantavano un chiodo, vi legavano la
corda e si issavano. Chiodo dopo chiodo
giunsero fino al tetto dell’armadio,
esultanti. Finché uno dei due si ricordò
che nel film le cose non erano andate
così lisce. Senza pensarci due volte
spintonò il fratello giù nel baratro.
Durante la caduta, lo sfortunato alpinista,
cercò di aggrapparsi a tutto ciò che
poteva, così che un’anta dell’armadio si

142

aprì e sotto il suo peso si staccò dai
cardini e precipitò al suolo con lo
specchio, i chiodi, la corda e il gemello. I
genitori, dal negozio sottostante,
sentendo le urla dei figli salirono al piano
superiore allarmati, poi, visto cosa era
successo, passarono immediatamente
alla distribuzione di sberle, conforme la
prassi. Insomma i gemelli Pacchioni sono
cresciuti a pane e sberle.
Un’altra avventura dei due gemelli fu

143

l’incontro di boxe.
Come al solito, l’ispirazione delle loro
azioni, nasceva dalla visione di film,
questa volta fu “Il grande campione” del
1949. La trama racconta di un giovane,
con una pessima condotta di vita, di
nome Midge Kelly, interpretato da Kirk
Douglas, che, controvoglia, sposa la
donna con cui convive ma, attratto dalla
box, l’abbandona. Guidato dal proprio
coach riesce ad emergere sul ring
diventando un vero campione, ricco e
famoso. Ma, uno dei suoi errori, fu quello
di cambiare allenatore dopo avergli
insidiato la moglie perdendo, così, il
contratto che lo legava al manager.
Pentito, dopo aver vinto un importante
match, troverà nello spogliatoio la morte.
L’episodio che maggiormente

144

impressionò i due gemelli fu l’ultimo
incontro, abbastanza cruento. Il giorno
dopo, tornati da scuola, dove avevano già
pensato come organizzare il pomeriggio,
si accinsero a creare l’atmosfera del
palazzetto dello sport. Primo lavoro fu di
creare il ring, siccome in casa c’era poco
posto, decisero di occupare il ballatoio
delle scale. Con la solita corda, per
stendere i panni, attaccandosi a tutti gli
appigli possibili, cercarono di ottenere un
quadrato simile ad un ring. Il risultato
non fu proprio perfetto ma venne
accettato, con soddisfazione, dai due
pugili. Fornirono alla sorella, più piccola
di loro, un coperchio e un mestolo che
avevano la funzione del gong. Poi, in
camera da letto dei genitori, rovistando
nel cassetto del comò, presero un paio di

145

calze del papà, a testa, le riempirono con
altre calze e se le infilarono sulle mani, e
con questo erano forniti, anche, di
guantoni. Istruirono la sorella che ogni
tre minuti doveva dare un colpo al
coperchio e iniziò l’incontro. I due
cominciarono a saltellare, studiarsi e
riempirsi di pugni, il tutto come avevano
visto nel film. La sorella, presa
dall’entusiasmo, cominciò a battere sul
coperchio, col mestolo a ritmo frenetico.
I due atleti cercarono di convincerla a
seguire le istruzioni che le avevano dato
ma, visto che erano inascoltati, si videro
costretti a passare alle maniere forti e
cominciarono a colpirla con i guantoni. La
bambina, ormai abituata a queste
aggressioni, aveva imparato a difendersi
e lo fece con quello che aveva in mano

146

ma, mentre i colpi dei fratelli erano
attutiti dalle calze imbottite, quelli dati
col mestolo e il coperchio no. Questo
baccano non poteva passare inascoltato
e fu così che accorsero i vicini. Si
trovarono di fronte due pugili in KO
tecnico, uno che perdeva sangue dal
naso, l’altro ancora in fase di ricezione di
mestolate in testa. Accorsi i genitori
smontarono il palazzetto dello sport,
requisirono le armi improprie alla
innocente frugoletta e, presi per mano i
figli entrarono, scusandosi con i vicini, in
casa. Dopo pochi secondi, dietro alla
porta chiusa, si scatenò il finimondo e i
gemelli Pacchioni, e questa volta anche la
sorella, vennero “convinti” a non
ripetere più un’esperienza del genere.
Una vicina commentò “ Ma a chi fioeu lì

147

se ghe dan de mangià l’argent viv?” (ma a

quei ragazzi cosa danno da mangiare l’argento vivo?)

148


Click to View FlipBook Version