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Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

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Published by , 2019-12-15 08:05:41

Ricordi del dopoguerra (me ricordi apéna finì la guèra)

Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

Keywords: MILANO,Porta Cicca,Dopoguerra,Storie Meneghine

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Io sono quello alla sinistra della fata (seconda fila col
cappello a cono), la fata è Giovanni Gionchetta, alla
sua destra è suo fratello Rino, dietro la fata, quello

magrolino con la corona, è Roberto Marelli, alla
destra di Roberto c’è Tony Renis. I due signori in piedi
in fondo sono il regista A. e quello coi baffi il maestro

M. Foto tratta da un libro di Marelli

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IL TEATRO

Una domenica pomeriggio ero nel teatro
dell’oratorio a vedere il film, durante
l’intervallo, un mio amico mi dice di
fermarmi dopo la fine perché il regista mi
deve parlare. “Il regista di cosa?” “del
teatro” risponde lui. Momento di panico!
Ma chi l’è quel lì? S’el voeur de mi.

Finito il film i ragazzi sgombrano la sala
con la stessa compostezza di una
mandria di gnu che attraversa un fiume
infestato di coccodrilli. Ritornata la calma
mi avvicinano due signori, uno con
cappotto e cappello, l’altro magro con
baffi. Vogliono sapere il mio nome e si
presentano: “Io sono A.” mi dice quello
col cappello, “e lui è il maestro M.”. Il sig.
A. chiede se mi piacerebbe recitare e fare

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del teatro. Io, che quasi non capivo cosa
mi stesse chiedendo, ma intuendo fosse
una cosa nuova e interessante, risposi si
mi sarebbe piaciuto farlo ma non sapevo
come si faceva. Mi disse di non
preoccuparmi che me l’avrebbe
insegnato lui. A quel punto il maestro M.
mi chiede se so cantare. Rispondo che
certo che so cantare, cantano tutti! Bene,
mi fa, vieni che sentiamo. Si siede al
pianoforte, che stava appoggiato al
palcoscenico, improvvisa qualche
arpeggio e mi dice di cantare una
canzone che conosco. Vuoto mentale
totale, mi venivano in mente solo le
canzoni del regime che mi avevano
insegnato alle elementari, ma mi
sembravano fuori luogo. Alla fine il
maestro mi tolse dall’imbarazzo

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chiedendomi se conoscevo “fratelli
d’Italia”. Certo che la sapevo! E per la
prima volta nella mia vita cantai
accompagnato al pianoforte da un
maestro di musica. Bene, mi dissero il
regista e il maestro, da domani
pomeriggio, alle cinque ci vediamo qui
che prepariamo “Biancaneve e i sette
nani”. Felice ed eccitato, tornato a casa,
raccontai la mia nuova avventura.
Sinceramente mi aspettavo una reazione,
se non proprio eclatante, conoscendo i
miei, almeno meno demoralizzante. Mia
nonna disse “stùpidat” (stupidate). Mio
padre disse “cerca de minga perd temp
che te ghè de stùdià” (vedi di non perdere tempo
che devi studiare). Mia madre, come suo solito,
non disse niente. Forte di questo
incoraggiamento mi buttai con

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entusiasmo nella nuova avventura. Il
teatro fu un’esperienza meravigliosa
durata più di dieci anni.







Foto del cast di Pinocchio
Io sono Brighella alla destra della fata

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Il regista A. e il maestro M. furono
veramente bravi a insegnarmi sia a
recitare che a cantare, e io,
modestamente, a imparare. In questo
periodo ho partecipato a decine di
rappresentazioni.
Elenco quelle che mi ricordo: Biancaneve
e i sette nani, Pinocchio, Puccettino, I
ragazzi della via Pal, Un milanes in mar,
Loeugh pii trivuls (luogo del pio Trivulzio,
cioè casa di riposo), Il cardellino nella
gabbia d’oro, La class di asen e altri che
ora non ricordo. Fra tutti i ragazzi che
componevano la compagnia alcuni hanno
poi proseguito su quella strada
ottenendo gloria e successi.

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Posso citare: Roberto Marelli (con me
nella foto in occasione della
presentazione di un suo libro) attore,
scrittore, autore e conduttore televisivo.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti dal
comune, dalla provincia ed è stato
nominato cavaliere al Merito della
Repubblica Italiana.
Giovanni e Rino Gionchetta, che
diventarono musicisti.

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Elio Cesari, poi
diventato Tony
Renis, che tutti
conoscono per il
successo
mondiale delle
sue canzoni.
Nella foto siamo
io, Elio e mia
moglie Mariuccia
a Cesenatico nell'agosto del 1962.
Con Elio ho fatto uno sketch teatrale che
raccontava di due sprovveduti contadini
capitati a Milano. Insomma è stata
un’esperienza ad alto livello e con
persone di grande capacità. Mi sarebbe
piaciuto continuare perché la cosa mi
appassionava ed ero diventato bravino,
erano, anche, venuti a cercarmi i

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responsabili della compagnia del teatro
Litta, ma mio padre troncò la mia carriera
artistica con un “no perché el gà de
studià” (no perché deve studiare).



Addio palcoscenico,
addio luci della ribalta,

addio sogni di gloria,
addio.

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159

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LA CACCIA NOTTURNA

Finita la guerra don Giordano aveva dato
alloggio, in alcuni locali siti sopra il teatro,
a una famiglia la cui casa era stata
bombardata. Un componente di questa
famiglia era un ragazzo di qualche anno
più vecchio di me e che era un assiduo
frequentatore dell’oratorio (bela forza, el
stava lì de cà). Un giorno el Giuanin,
questo era il suo nome, dice a me e ad
altri amici che ha un problema: lui e la
famiglia non riescono a dormire per colpa
di una civetta che ha fatto casa sul
campanile della chiesa, distante pochi
metri dal loro appartamento, e che urla
tutta la notte. Esasperato da questa
situazione aveva deciso di risolvere il
problema eliminando l’intruso (per sua

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fortuna gli animalisti dovevano ancora
essere inventati) e per questo chiese se
gli davamo una mano. Io e un altro
partecipammo alla battuta e ci trovammo
la sera, quando era buio, ai piedi del
campanile. Il Giuanin si presentò con una
carabina calibro 22, non chiesi come se
l’era procurata, una decina di proiettili,
anche di quelli non chiesi niente, una
torcia con la batteria ai minimi termini e
le chiavi per aprire tutte le porte del
campanile. Entrammo nel campanile in
formazione indiana, primo Giuanin, con
pila semi-scarica, secondo il mio amico,
terzo ed ultimo io a chiudere la pattuglia.
Eravamo circondati da polvere, ragnatele
e odore di muffa. Cominciammo a salire
le scale in legno che, scricchiolando con
rumore sinistro, creavano un’atmosfera

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da film horror. Essendo io l’ultimo della
fila non usufruivo della scarsa luce della
torcia e l’unico aiuto che mi era dato era
il chiarore della luna che filtrava
attraverso i finestroni, in sostanza salivo
a tentoni fra polvere e ragnatele. A un
certo punto la mia mano destra sfiorò un
tessuto liscio, mi giro di scatto e, nelle
semioscurità, vedo il viso di un uomo,
con barba, che mi guarda fisso negli
occhi. Il mio cuore si arrestò per un
attimo, poi prese a battere il doppio del
dovuto e dalla mia gola uscì un urlo così
alto che tutti gli abitanti del campanile,
piccioni, civette e uccelli vari, credendo
fossero le trombe dell’apocalisse se la
diedero a gambe (ad ali) pensando bene
di cambiare casa. Quando i miei amici
accorsero, Giuanin con carabina spianata,

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alla luce fioca della torcia, scoprimmo
che il signore che mi guardava era la
statua di San Giuseppe che, con tutta la
famiglia, asino e bue compresi, era in
paziente attesa della settimana di Natale
per partecipare al presepe. Malgrado
questo piccolo inconveniente, quella
sera, senza spargere sangue, ottenemmo
l’effetto voluto, perché la civetta radunò
armi e bagagli e pensò bene di andare a
soggiornare in un posto meno rumoroso.
E così la famiglia del Giuanin ritrovò la
pace notturna.
Operazione perfettamente riuscita!



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LA SCUOLA MEDIA

La prima media la frequentai all’istituto
“Manzoni” in via Orazio e fui promosso
agli esami di riparazione a settembre, con
notevoli difficoltà. Il problema era che,
oltre ad uno scarso impegno da parte mia
e ad una preparazione scadente causa la
guerra, delle scuole elementari, a casa,
nessuno era in grado di darmi una mano
sulle materie che mi risultavano più
ostiche. Mia nonna, nata nel 1888, aveva
la licenza di terza elementare (a quei
tempi in terza facevi gli esami e potevi
abbandonare la scuola) di cose ne sapeva
tante, imparate dalla vita, ma con quelle
che mi insegnavano a scuola aveva poca
dimestichezza, mio padre e mia madre
lavoravano entrambi e alla sera non

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avevano, certo, né il tempo né la voglia di
assistermi (sulla capacità di farlo ho dei
dubbi, anche su quella). Così pensarono
di iscrivermi ad una scuola privata che,
oltre alle ore normali del mattino, si
frequentava anche al pomeriggio per fare
i compiti e studiare le lezioni. La scuola si
chiamava “Istituto Giacomo Leopardi” ed
era in via Cesare Da Sesto, distante oltre
un chilometro da casa mia e, di buon
passo, ci si metteva, più di un quarto
d’ora. Bisognava fare un pezzo di corso
Ticinese, via Vetere, via Arena,
attraversare i giardini Attilio Rossi (che
allora si chiamavano Ranzoni, lo stesso
nome della clinica che su essi si
affacciava), via Gaudenzio Ferrari e, dopo
aver attraversato corso Genova,
finalmente, arrivavi in via Cesare Da

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Sesto. Quando dissi a mia nonna che era
lontano e che dovevo farla quattro volte
al giorno, mi rispose “In qatter pass, te
duarisset vess cuntent che te ve in una
scola de sciur” (sono quattro passi, dovresti essere
contento che vai in una scuola di ricchi). In realtà la
scuola non era de sciur, era di ragazzi
che, come me, avevano i genitori assenti
perché lavoravano, unica consolazione
era che le classi erano miste, cioè
c’erano, anche, le ragazze. Un giorno, i
giardini Ranzoni erano affollati da un set
cinematografico, con luci e macchine da
presa, stavano girando una scena del film
“Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica.
Naturalmente quel giorno arrivai tardi a
scuola e, quando spiegai il perché,
descrivendo le scene e gli attori,
inventando anche qualcosa, divenni il

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centro dell’attenzione, anche da parte
delle ragazze, e mi sentii l’eroe del
giorno. Quando c’erano lezioni diverse e
dovevo portare tanti libri, mia nonna mi
permetteva di andare a scuola in
bicicletta. Riteneva, la bicicletta, un
mezzo di locomozione altamente
pericoloso perché “se po’ burlà giò e i
alter te vegnen adoss” (si può cadere e gli altri ti
vengono addosso), per questa ragione l’uso era
limitato ai casi eccezionali. A quei tempi
avevo una bicicletta leggermente più
piccola di quella regolare da “uomo”, era
la misura giusta per la mia statura. A
scuola mi ero vantato di avere una
bicicletta da corsa, mentendo
spudoratamente, e quando mi videro con
quella “mini” spiegai, che ne avevo due,
quella da corsa, che usavo la domenica, e

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questa per l’uso quotidiano. Al primo
piano della scuole uno spazio era adibito
a deposito delle biciclette dei ragazzi. Il
mio compagno di classe, Natale Natali
(era anche nato il 25 dicembre, pensa te
che fantasia i genitori), veniva a scuola
sempre in bicicletta da corsa e un
pomeriggio gli dissi “oggi sono venuto in
bicicletta” senza specificare quale.
Durante l’intervallo, per curiosare che
tipo di mezzo avevo, Natale scese al
deposito cicli e, vista una bicicletta da
corsa, pensando fosse la mia, la prese e
andò a fare un giro. Sfortuna volle che il
proprietario, un ragazzo della terza,
piuttosto indisponente, finite le lezioni si
accingeva ad andare a casa con la sua bici
ma, al deposito, la sua bici non c’era più.
Situazione d’agitazione generale, con

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preside in posizione di comando per
cercare l’autore del furto, quando, di
soppiatto, rientra Natale, rosso in viso e
leggermente sudato, mi si avvicina e mi
fa “Bela la tua bici, ma l’è minga tropa
alta per tì? L’è alta anca per mì” (bella la tua
bici, ma non è troppo alta per te? E’ alta anche per me).
Messo al corrente del casino che aveva
combinato, farfugliò “Credevi che l’era la
tua, però lù misa ancamò al sò post”
(pensavo fosse la tua, però l'ho messa ancora al suo posto).
L’avventura si concluse che, il
proprietario, ritrovò il suo mezzo ancora
al suo posto, e per un po’ venne
denominato come “Quel pirla che el se
ricorda no dòve el mett la bici” (quel pirla che
non si ricorda dove mette la bici).

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Scena di “Miracolo a Milano” girata ai giardini Ranzoni


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L'istituto Manzoni

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UNO SCHERZO DI CACCA

Come ho detto, la prima media la
frequentai all’istituto “Manzoni”, adesso
mi pare che sia solo liceo. A quei tempi
esisteva una tacita e velata
discriminazione sociale, retaggio della
mentalità monarchica, benché fosse
appena nata la prima repubblica: i figli
dei benestanti dovevano frequentare le
scuole medie, i figli degli operai, invece,
dovevano frequentare le scuole
commerciali o le professionali. Mio padre
decise che, nella nostra famiglia, era
venuto il momento di un titolo di studio.
Così mi ritrovai in una classe dove i figli
degli operai erano un quarto e i padri
degli altri trequarti erano impiegati,
commercianti e laureati. Fra i due gruppi

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non si riusciva a creare affinità perché la
maggioranza tendeva a fare clan
tenendoci, discretamente, emarginati.
Una mattina uno studente, figlio di un
bancario, urtò con un piede, più o meno
inconsapevolmente, la mia cartella
facendola cadere. Invitato a rimetterla al
suo posto, la sua risposta fu arrogante e
strafottente e questo generò un lieve
diverbio culminato col fatto che, il
bancario junior, urtò con la testa il mio
vocabolario di latino. Fui invitato, con
nota di demerito sul diario, a comparire
davanti al preside accompagnato da un
genitore. Volle accompagnarmi mio
padre che, in un eccesso di diplomazia,
indossò la tuta data in dotazione dalla
“Pirelli” e all’occhiello il distintivo del
partito comunista. Chiariti i fatti del

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contendere, il preside mi chiese se ero
dispiaciuto di quello che avevo fatto,
risposi che l’unica cosa che mi dispiaceva
era la rilegatura del vocabolario rovinata.
Mi riammisero in classe, senza
sospensione, solo perché il genitore
“aveva dimostrato capacità
educativa”(?). Secondo me era una
formula, in codice, per dire “Con i tempi
che stanno cambiando, non andiamo a
prenderci delle rogne”. Da quel giorno,
però, fui seguito più da vicino da tutti i
professori: “Oggi interroghiamo uno a
caso, tu vieni alla lavagna”, “Oh che
caldo, tu apri la finestra”, “Abbiamo finito
il gesso, tu vai dal bidello a prenderlo”,
“Oggi controllo, a caso, i compiti fatti a
casa; tu portami il quaderno”, ...e via di
questo passo.

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Oggi le insegnanti, femmine, sono tutte
belle donne, l’ho constatato andando a
prendere a scuola le mie nipoti, ai miei
tempi no, sembrava che per poter
esercitare la professione di insegnante si
dovessero avere delle strane anomalie,
ma forse ne erano affette soltanto quelle
della mia scuola. La mia professoressa
d’italiano, latino, storia e geografia aveva
una gamba più corta dell’altra, rimediata
con l’utilizzo di orribili scarpe
ortopediche con tacchi diversi; portava
occhiali con lenti che mia nonna avrebbe
tecnicamente definito cù de bicer e aveva
i capelli color minio antiruggine. La
professoressa di francese era alta circa
un metro e trenta centimetri e, secondo
me, non pesava più di trenta chili col
cappotto. Aveva la pelle del viso che

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definirla buccia d’arancia era un’offesa
agli agrumeti. Portava una parrucca color
castano sbiadito, un pò troppo larga,
tanto che, quando girava di scatto la
testa, i capelli coprivano un orecchio e ne
scoprivano l’altro. In compenso aveva
una voce così alta che tutti si chiedevano
dove diavolo andasse a prenderla, visto la
sua cassa di risonanza estremamente
ridotta. Queste due signore, oltre a non
essere esteticamente attraenti, erano
pervase da sadismo scolastico, cioè
gioivano a sorprendere gli alunni
impreparati e scrivere 3 sul registro e non
facevano distinzioni tra ricchi e poveri.
Va da sé che non erano molto amate
dagli studenti che, in cuor loro,
sognavano di rendere pane per focaccia.
L’idea dello scherzo nacque

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nell’intervallo delle lezioni da entrambe
le fazioni e senza distinzione di casta, e
siccome il commento del bancario junior
- quello del vocabolario - fu “Quelle sono
due merde”, con la erre moscia, il
progetto assunse esito definitivo. In una
vetrina del negozio del “sciur Luisin” era
in esposizione nel settore scherzi di
carnevale una cacca di gomma
estremamente veritiera. Era lì da quando
sono stato in grado di guardare nelle
vetrine, cioè da più di dieci anni, ed era
un’istituzione. Una volta che non l’ho
vista al suo posto, perché in visione a un
cliente, ho avuto la sensazione di aver
perso un punto di riferimento e, il giorno
dopo, quando è riapparsa è stato come
ritrovare antichi valori. Ero contento di
comprare, con i soldi della colletta fatta

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in classe, un oggetto che oramai
mentalmente mi apparteneva. Comprato
l’articolo, visionato, toccato e annusato
da tutti, decidemmo di metterlo sulla
pedana della cattedra nell’ora di
francese. Quando la petit madame lo
scorse ebbe un motto di repulsione e
girandosi verso il muro tuonò “chiamate
il bidello!”. L’alunno del primo banco, con
mossa fulminea, fece sparire la cacca
dentro la tasca e il capoclasse, il più
ruffiano di tutti, con voce angelica chiese
“perché?”. La professoressa si girò di
scatto, la parrucca scoperse l’orecchio
destro, e col dito puntato alla pedana
gridò “per quel…” non essendoci nulla
chiese “ cosa c’era lì?”. Tutti caddero giù
dal pero dicendo che non avevano visto
niente, anche adesso non c’era niente.

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Fece la lezione con il volume della voce
un’ottava più basso del solito e chiese chi
voleva farsi interrogare, naturalmente
nessuno si propose, allora commentò
“Jusqu’à la prochaine fois, alors”. Il fatto
deve essere stato discusso in sala
professori perché, ogni volta che entrava
in classe un insegnante, quella di latino
inclusa, prima di salire in cattedra, faceva
il giro della pedana guardando
attentamente dove metteva i piedi.


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FINE ANNO SCOLASTICO

Quando finiva l’anno scolastico,
all’Istituto Giacomo Leopardi era usanza
fare una festa per salutare studenti e
professori prima delle vacanze. A fine
anno della terza, per animare la festa, il
preside chiamò un ex alunno che aveva
frequentato l’istituto tempo prima.
Questo signore si chiamava Benito
Annicchiarico ed era il fratello minore di
Walter Chiari (chi non lo conosce?) e
come il fratello era brillante, spiritoso,
sapeva interpretare molti personaggi e
aveva una straordinaria capacità mimica
(sicuramente un dono di famiglia).
L’ultimo anno preparò uno sketch (allora
si chiamava “scenetta”) che richiedeva la
partecipazione di alcuni studenti ed io,

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forte del fatto che già calcavo le tavole
del palcoscenico al teatro “San Lorenzo”,
venni ingaggiato e mi fu affidata la parte
principale, dopo la sua, naturalmente. I
tre giorni prima dello spettacolo, alla
sera, ci fermavamo per fare le prove e
tornavo a casa più tardi; quando spiegai a
mia nonna il perché, il suo commento fu
“Cun tùtt quel che spendum al post de
stùdià te fan fà el teater? Oh poora mì!”

(con tutti i soldi che spendiamo invece di studiare ti fanno fare

il teatro? Oh povera me!). Il giorno dello
spettacolo, l’aula più grande era stata
arredata con una serie di sedie e una
specie di palcoscenico, con tanto di
sipario. Lo sketch preparato narrava di
una straordinaria invenzione in campo
medico che consisteva in due cabine
collegate fra loro da un complesso

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macchinario, con tanto di lampadine e
campanelli, che trasferiva i malanni di un
soggetto che stava nella cabina 1 a un
altro soggetto situato nella cabina 2. Ma
il grande colpo di genio del dottor Krunz
(che ero io, con tanto di camice bianco
prestato a mia zia da una sua amica che
lavorava in una salumeria) era che nella
cabina 2 metteva un pupazzo fatto con
materiale organico. La scenetta comincia
col dottore che, al telefono, si lamenta
col fornitore del pupazzo, perché in
ritardo con la consegna e in sala
d’aspetto ha già i pazienti. In quel mentre
entra un suo amico (Benito) e lo convince
ad aiutarlo entrando nella cabina 2, senza
preoccupazione, perché quando arriverà
il pupazzo tutte le cose si sistemeranno.
Questi entra nella cabina e a ogni

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paziente che entrava nella cabina 1
usciva con le malformazioni più strane,
tic improbabili, zoppie strane, occhi
strabici, balbuzie, ecc. Alla fine la
macchina si rompe e il poveretto si tiene
tutte le malformazioni. Annicchiarico, alla
fine, rivolto verso il pubblico
commentava in dialetto “Se fasì un piesé
a un amis sti atent che’l sia minga ne un
dutur e nanca un prufessur” (se fate un piacere

ad un amico state attenti che non sia ne un medico ne un

professore) e indicava il preside seduto in
prima fila. Valanga di applausi! E con
questa frase finii la mia scuola media.



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LA BICI DA CORSA



Quando ho preso la licenza della scuola
media in famiglia, tutti contenti, decisero
di farmi un bel regalo. Mi chiesero cosa
mi sarebbe piaciuto e io risposi che

volevo la bicicletta da corsa
Legnano come quella di
Bartali. Momento di panico
generale perché la bici in
questione era, ai tempi, un
gioiello di meccanica ma
aveva il difetto di costare
42.000 lire che tradotto ai nostri tempi è
circa 21 euro. Sembra una cifra ridicola
ma si pensi che in quel periodo lo
stipendio medio di un operaio era di circa
30.000 lire mensili pari a 15 euro. Mia zia,
che lavorava alla Legnano (storica ditta di
biciclette), si offrì di pagarla a rate
decurtando il suo già magro stipendio.

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Grazie zia!.
Quando andai a ritirarla, al magazzino in
via Cicco Simonetta, uno dei meccanici
che mi regolarono la sella, i pedali e il
manubrio, fu Umberto Mascheroni detto
“Lupo” lo stesso che seguiva Bartali nelle
varie corse. Ma la bicicletta non andava
forte come quella di Bartali, pensai: mi
hanno fregato,ma mi accorsi che la
fregatura stava nel fatto che le gambe
che la spingevano non erano le stesse.
In piazzetta eravamo una decina di
ragazzi con la bicicletta da corsa e la
domenica si organizzavano pedalate che
non erano giretti da poco, facevamo
anche 150 km. Una consuetudine delle
nostre escursioni, che si orientavano
principalmente verso il nord e le
montagne, era che partivamo con un sole
cocente dopo un pò ci aspettava un
temporale tropicale, dopo ritornava il

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sole, poi il temporale insomma, era un
continuo bagnarsi ed asciugarsi. I ragazzi
più benestanti del gruppo erano
attrezzati con pantaloncini da ciclista
rinforzati nel cavallo, maglietta da ciclista
con marchio Legnano, irrestringibile,
scarpette da ciclista con suola rinforzata,
mantellina da ciclista con cappuccio. A
me, che era già tanto avere la bicicletta,
era stato dato in dotazione un paio di
pantaloncini di tela che si erano strappati
e ricuciti da mia nonna "tant in bicicleta
se ved no" (tanto in bicicletta non si vede), una
maglietta bianca "perché te sudet e gu
de fà la candegina" (perché sudi e devo fare la
candeggina), e come mantellina un golfino
blu che mi era diventato stretto "l’è
anmò bel podi minga tral via e poeù anca
se el se bagna fa gnent" (è ancora bello, non
posso certo buttarlo via e poi non importa anche se si bagna).
Il mio look ciclistico aveva il difetto che

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quando si asciugava si restringeva così,
che dopo la pioggia, quando tornava il
sole, i pantaloncini e la maglietta mi
aderivano al corpo come il costume di
superman.
Trascurando queste piccolezze il periodo
“de la bicicleta de cursa” è stato un
momento di libertà e di evasione.


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IL GHISALLO

Le nostre escursioni domenicali erano
sempre costellate da episodi che, in un
modo o nell’altro, creavano piccoli
problemi. Ve ne racconto alcuni.
Al sabato pomeriggio c’era il raduno, in
piazzetta, del gruppo ciclisti. Si stabiliva la
meta e il percorso del giorno dopo.
Quella domenica di giugno ci trovammo
alle sette del mattino, perché la meta
stabilita il giorno prima era il Ghisallo. Il
Ghisallo è un colle di circa 755 metri che
collega la Valassina con la parte alta del
Triangolo Lariano e fa parte del comune
di Magreglio. La salita del Ghisallo è
stata, ed è tuttora, inclusa nel percorso
del “Giro di Lombardia” e, più volte
inserita nel tracciato del “Giro d’Italia”. In

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vetta al colle vi è una piccola chiesa: il
santuario della Madonna del Ghisallo,
particolarmente venerata dai ciclisti. Ci
sono due strade per salire al santuario:
una è il versante sud, meno difficoltoso,
l’altra, il versante nord, da Bellagio, con
pendenze decisamente più impegnative.
Naturalmente noi scegliemmo la parte
nord, "se van su el Coppi e el Bartali vem
su anca nun" (se vanno su Coppi e Bartali andiamo su
anche noi), sentenziò Marchino che era un
pò il capo navigatore. Chiarito il percorso
partimmo ad andatura spedita. Dopo due
ore di marcia, prima di Lecco, ci
aspettava il solito temporale. Le strade,
prima erano asciutte, il che stava a
significare che ci stava proprio
aspettando. Quando giungemmo a
Bellagio, dopo circa tre ore, c’era un bel

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