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Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

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Published by , 2019-12-15 08:05:41

Ricordi del dopoguerra (me ricordi apéna finì la guèra)

Persone, fatti e situazioni vere che sembrano fantasie

Keywords: MILANO,Porta Cicca,Dopoguerra,Storie Meneghine

Giuseppe Reiss


Ricordi del dopoguerra

(me ricordi apéna finì la guèra)
Persone, fatti e situazioni vere

che sembrano fantasie

1



Quando il giardino della memoria inizia a
inaridire, si accudiscono le ultime piante e

le ultime rose rimaste con un affetto
ancora maggiore. Per non farle avvizzire,
le bagno e le accarezzo dalla mattina alla

sera: ricordo, ricordo, in modo da non
dimenticare.

(Orhan Pamuk)

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PROLOGO

Le persone, i personaggi, i luoghi e le
situazioni che hanno accompagnato i
primi anni della tua vita sono quelli che,
nel bene e nel male, hanno dato
un’impronta al tuo carattere e al tuo
modo di essere. Ho voluto ricordare e
mettere per iscritto, anche su
sollecitazione di mia cognata Anna e delle
mie nipoti Alice e Margherita, alcune
situazioni che ho vissuto quando ero
bambino che, probabilmente, hanno
influenzato a farmi diventare quello che
sono. In quel contesto sembravano cose
rilevanti e serie (e magari lo erano) ma,
viste oltre mezzo secolo dopo, hanno uno
sfondo buffo se non addirittura comico.
Dopo la stesura di ogni capitolo ho

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chiesto la supervisione di mia moglie la
quale, togliendo una virgola da una parte
e mettendola da un’altra, mi ha aiutato a
rendere più comprensibile ciò che ho
scritto e per questo la ringrazio
vivamente. Un grazie caloroso a mia figlia
Laura per il suo aiuto nell’impaginazione
del volume e nella scelta delle foto.
Ringrazio, anche, chi vorrà perdere un po’
del suo tempo per leggere questi
squinternati ricordi.

Reiss Giuseppe

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4

IL DOPOGUERRA

Correva l’anno 1946, la seconda guerra
mondiale era appena finita e per noi
ragazzi, che vivevamo in città, l’unica
differenza, rispetto a prima, era che
inglesi, americani, tedeschi e qualche
altro figlio di buona donna, avevano
smesso di usare le nostre case come
tirassegno. La nostra città era
semidistrutta, ampi spazi di macerie
occupavano il posto che era stato di
tante case.
Malgrado questo si sentiva nell’aria un
desiderio di rinascita, gli italiani avevano
smesso di spararsi gli uni contro gli altri,
accusandosi di essere traditori o salvatori
della patria e tutto sembrava essere
tornato nella normalità. Ho detto che

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correva l’anno, in realtà, per me, non
correva proprio niente. Le giornate erano
interminabili, duravano almeno il doppio
di adesso, il sole non tramontava mai,
anzi sembrava, contravvenendo alle leggi
della natura, che stesse immobile nel
cielo, e io passavo ore interminabili a
fare niente. Facevo niente, non perché
ero uno sfaticato ma, perché in cortile
era vietato giocare, ed essendo solo, era
difficile inventare qualcosa. Per
festeggiare la fine della guerra, alcune
sere in cortile, organizzavano feste
danzanti. I ragazzi più grandi
addobbavano con festoni e lampadine un
cortiletto, l’unico pavimentato con
lastroni in pietra, e muniti di un vecchio
giradischi a 78 giri, con i dischi
sopravvissuti alla guerra, suonavano e

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ballavano fino alle 11 di sera, più tardi no
perché il giorno dopo si andava a
lavorare.


Solo in quel caso mi era permesso di
andare in cortile con gli altri bambini. Mia
nonna con tono accondiscendente mi
diceva “ mett sù i sucuritt e va giò a giugà
anca ti ma sensa vusà” (mettiti gli zoccoletti e vai
giù a giocare anche tu, ma senza fare baccano).
I “sucuritt” erano delle calzature,
generalmente usate dai meno abbienti,

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costituite da una suola di legno, con la
forma del piede, di circa un centimetro di
spessore ai cui fianchi erano inchiodate
delle strisce di pelle che, sopra il collo del
piede, si incrociavano fra di loro tenute
assieme da un ribattino in metallo.
Dietro, il tutto, veniva allacciato al piede
con un’altra striscetta di pelle, con dei
forellini longitudinali, che si affrancava ad
una fibbia, sempre in metallo. Per ridurre
il consumo della suola, e farle durare di
più, mio padre aveva inchiodato, sulla
punta e sul tacco, delle lunette in ferro (i
ferett). Questo accorgimento faceva si
che quando correvo in cortile, con
pavimento acciottolato, la stabilità era
piuttosto precaria, per i continui
scivoloni, inoltre era un continuo
scintillare, causato dall’impatto dei sassi

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col ferro, e si sentiva un suono che
sembrava di essere ad una scuola di tip
tap. Per queste ragioni quando rientravo
a casa avevo le estremità inferiori
massacrate dallo sfregamento dei
cinturini, di pelle rigida, con i piedi, di
pelle più morbida, e qualche ginocchio
sbucciato per via degli scivoloni. Venivo
guardato dai miei con commiserazione
che commentavano “l’è mei che te curet
no se te set bun no de sta in pè” (è meglio che

non corri se non sei capace di stare in piedi).

Io abitavo in corso Ticinese al 50, era una
casa di ringhiera e, come ogni casa di
ringhiera che si rispettava, ospitava una
colorita fauna di personaggi.

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Sulla scala padronale, dove abitavo io al
quarto piano, gli appartamenti erano dati
in affitto a coloro che la proprietaria ( la
sciura padrona de cà) riteneva
socialmente più elevati.
A conferma di questo, un giorno, una
dozzina di poliziotti, mitra alla mano,
hanno fatto irruzione nell’appartamento
sotto il mio ed hanno arrestato i coniugi
(socialmente elevati) che ci abitavano, rei

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di avere sottratto indumenti e coperte
all’esercito italiano (insoma eren di
lader). Assistette di persona a questo
fatto l’Angelina, amica di famiglia, brava
donna dalla vista corta, che ci informò
d’aver visto un allegro gruppo di
cacciatori in partenza per una battuta
(era sicura d’aver visto, oltre i fucili,
anche i cani).

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L’ANGELINA

L’Angelina abitava al secondo piano della
scala attigua alla mia. Era una signora che
veniva dalla campagna, dove adesso è
periferia ma, ai tempi, era campagna. Era
cresciuta in una famiglia povera,
numerosa, senza la madre, e fin da
piccola ha dovuto accudire i numerosi
fratelli e sorelle. Per fare questo il padre
decise di non farle perdere tempo ad
andare a scuola, così, L’Angelina, era
analfabeta. Tutte le volte che io chiedevo
perché non era andata a scuola lei mi
rispondeva “perchè la vaca la mà mangià
i liber” (perché la mucca mi ha mangiato i libri).
Inoltre era affetta da una miopia a livello
siderale per la quale, si ostinava a dire,
che non esistevano occhiali per

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correggerla, in verità aveva vergogna
portarli perché si sentiva sminuita (beata
ignuransa). L’Angelina frequentava
assiduamente la nostra casa e passava
quasi tutti i pomeriggi sferruzzando con
mia nonna. Durante i miei pomeriggi di
solitudine, per passare il tempo,
ascoltavo le storie, di derivazione
contadina, che all’Angelina avevano
raccontato i vecchi, nelle notti d’inverno,
nel tepore della stalla. Una delle più
terrificanti è questa: nel suo paese viveva
una famiglia numerosa di contadini,
povera, ma così povera che perfino le
mosche cercavano di evitarla. Un anno,
che il raccolto era andato
particolarmente male, il cibo mancava e
la fame trionfava, al padre comparve il
diavolo (el demoni in persona cun tant de

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cua e corna (il demonio in persona, con tanto di coda e
corna). Questo “signore” propose un
baratto: lui avrebbe dato una sua gamba
da mangiare e in cambio si sarebbe preso
la figlia più piccola. Il povero padre messo
alle strette dalle necessità, accettò, però
concordò che la figlia l’avrebbe
consegnata a gamba finita, cioè
mangiata. Concluso l’accordo, e
consegnata la gamba, la famiglia poté
sfamarsi per parecchio tempo. La gamba
del diaul l’era bela grossa (la gamba del diavolo
era bella grossa). Finita la gamba il diavolo
passò a ritirare la ragazza ma il contadino
disse che ci aveva ripensato e lo buttò
fuori dalla porta. Chiaramente, il
demonio, la prese male e chiese di
riavere indietro la sua gamba, cosa
impossibile perché mangiata. Da allora,

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dal tramonto al sorgere del sole, in
cascina si sentiva gridare, con voce
cavernosa, “damm la mia gambaaa, dam
la mia gambaaa” (dammi la mia gamba). Stufo di
questa situazione, e forse anche per le
lamentele dei vicini, al padre venne in
mente un escamotage (alura la se
ciamava fùrbada). Vestì la figlia con un
abito di carta velina con centinaia di aghi
appuntati e, tenendola al buio, la
consegnò al diavolo. Questo, finalmente
soddisfatto, la avvinghiò con cupidigia ma
il vestito si ruppe e tutti gli aghi
penetrarono nelle mani e nelle braccia
del cornuto e sbeffeggiato capo degli
inferi. Battuto moralmente e fisicamente
il diavolo batté in ritirata e non si fece più
vedere (saggezza contadina). Quando,
ingenuamente, chiedevo all’Angelina

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perché nelle raffigurazioni il diavolo
avesse, ancora, tutte e due le gambe lei
mi rispondeva “perché dopu ghe l’han
fada de legn” (perché poi gliel’hanno fatta di legno).



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I SCATULETT

Come ho detto, l’Angelina passava quasi
tutti i pomeriggi in casa nostra, con mia
nonna, a rammendare e fare la maglia e,
ogni giorno, riportava qualche
pettegolezzo del cortile. Un giorno entra
in casa e, con fare circospetto, racconta a
mia nonna che “la sciura Nora la mà dà
una scatula de cartun cun denter dudes
scatulett de tola” (la signora N. mi ha dato una
scatola di cartone con dentro dodici scatolette di latta) e
l’ha pregata di tenergliele perché, da lei,
non erano al sicuro. Non ha specificato
cosa contenessero le scatolette e chiese,
che la cosa, doveva essere strettamente
riservata. Siccome la cosa doveva essere
strettamente riservata l’Angelina la
raccontò subito a mia nonna. La signora

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Nora, con sua figlia Frida, abitavano al
secondo piano della scala padronale,
quella dei socialmente più elevati, dove
abitavo io, ed avendo un appartamento
piuttosto grande, subaffittavano le
camere ad alcune ragazze che erano a
Milano per lavoro. La sciura Nora era una
donna risoluta e di polso, sua figlia Frida
era piccola, magra, smorta e con la faccia
sempre triste, forse dovuta al fatto che
non riusciva trovare uno straccio di
uomo. Per consolarsi da questa sua
mancanza di compagnia maschile aveva
adottato una mezza dozzina di gatti, che
teneva costantemente sottocchio,
perché, in tempo di guerra, le
allucinazioni causate dalla fame, ad
alcuni, facevano, facilmente, scambiare
un gatto per un coniglio. Con questo

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andirivieni di gente in casa
l’affittacamere pensò che, il pacco
segreto, sarebbe stato più al sicuro
dall’Angelina. Da quel giorno il motivo del
discutere finiva sempre sull’argomento
scatolette.
Angelina: “Chissa se ghè denter in chi
scatulett là” (chissà cosa c’è dentro a quelle scatolette)
Nonna: “Ghe sarà denter roba de
mangià” (ci sarà dentro roba da mangiare)
Angelina: “Ma perché mi ha dà a mi,
invece de mangiai” (ma perché le ha date a me

invece di mangiarle)

Nonna: “Forse la voeur tegnii de scorta
per quand se truarà pù gnent in gir” (orse
vuole tenerle di scorta per quando non si troverà più niente)
E avanti di questo passo di supposizione
in supposizione fino a pensare che
c’erano “i bigliett de mila rutulà” oppure

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“i anei d’or fasù in di strasc per minga fai
ciucà” (anelli d’oro avvolti negli stracci per non farli
tintinnare) o, addirittura “diamant e giuiei
che gavarà dà de tegnì la Jolles Fonti”
(diamanti e gioielli che le avrà dato da tenere la Jolles Fonti).
La dottoressa Jolles Fonti abitava al
primo piano, sempre della stessa scala,
cioè sotto la Nora, ed aveva uno studio
dentistico molto apprezzato. Il mio primo
dente da latte, quando cominciò a
dondolare, me lo estrasse lei. Poi per
ricompensarmi del mio coraggio perché
non avevo pianto, mi regalò una fetta di
torta, che aveva fatto lei. La torta aveva
un ripieno di colore rosso ed io,
pensando fosse il sangue del mio dente,
non la volli mangiare. La divorò mia zia in
due bocconi e disse “Bona, la sa de
magiòstra, te fa mal a mangiala no”

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(buona, sa di fragola, hai fatto male a non mangiarla).
La dottoressa Fonti era ebrea e,
purtroppo, dovette abbandonare tutto e
scappare, con grande dispiacere di tutto
il caseggiato, per non finire in qualche
campo di concentramento. Ecco il perché
dell’ultima supposizione. E si andò avanti
così per più di un anno, i bombardamenti
aumentavano di frequenza, i discorsi
variavano su argomenti diversi, ma, il
tarlo della curiosità, albergava sempre
nella mente delle due donne. Un giorno
l’Angelina sbottò “secunda mi la Nora la
se ricorda pù, ghe pasà un ann e la ma dì
pù nagott, se te diset se ne dervùm
vuna?” (secondo me la N. non se le ricorda più, è passato

un anno e non mi ha detto più niente, cosa dici se ne apriamo

una?). Mia nonna si oppose, con
discrezione, e aggiunse “spetem anca mo

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un pù” (aspettiamo ancora un pò). Passò un altro
mese, tra allusioni alle scatole e alla
memoria della sciura Nora, finché
l’Angelina dichiarò “duman ne porti su
vuna” (domani ne porto su una). Il giorno dopo,
nascosta in un golfone tenuto
sottobraccio, la scatoletta del mistero
giunse in casa nostra. Era una normale
scatoletta cilindrica, in latta lucida, senza
etichetta, tipo quelle che oggi
contengono la polpa di pomodoro.
L’oggetto fu esaminato da tutti i lati,
pesato sulla bilancia, era quasi mezzo
chilo, e annusato per riuscire a capirne il
contenuto. Alla fine decisero di aprirlo, in
quel momento suonò l’allarme che
preannunciava un’incursione di aerei
nemici. Le due donne vennero prese da
ansia, come se qualcuno le avesse

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scoperte a trafugare la refurtiva, mia
nonna propose di nasconderlo nella
credenza, l’Angelina voleva portarlo in
cantina avvolto nel golf per non perderlo
di vista, alla fine fu messo sotto la
copertura della macchina per cucire.
L’allarme durò poco, come si diceva
allora, fu un falso allarme, forse un segno
premonitore per ritardare il compimento
di un’azione che di saggio aveva
veramente poco. Cominciò l’operazione
apertura con un vecchio apriscatole e
quando la circonferenza della latta fu
tagliata per più di tre quarti sollevarono il
coperchio e finalmente si scoprì il
mistero. L’Angelina, a causa della sua
miopia, quasi entrò col naso nella scatola,
col pericolo di tagliarsi col bordo del
coperchio, mia nonna osservò con

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disgusto e delusione quello che, con la
fantasia, era diventato il tesoro nascosto.
La scatola conteneva un impasto
biancastro, mia nonna disse “l’è buttèr” (è
burro), “a mi el me par no buttèr, el ga no
l’udur del buttèr” (a me non sembra burro, non ha
l’odore del burro) replicò l’Angelina col naso a
due centimetri dal composto misterioso.
Dopo diverse analisi, congetture e
supposizioni alla fine concordarono di
attendere il ritorno dal lavoro di mia zia
per chiedere il suo parere. Come lo vide,
mia zia, enunciò che era margarina “una
specie de bùtter ma fà senza el latt” (una
specie di burro ma fatto senza il latte). La delusione fu
cocente, quasi due anni di attesa
spasmodica, di castelli in aria, di morbosa
curiosità cancellati da una stupida
scatoletta con dentro della volgare

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margarina. La reazione di mia nonna fu
“Mi la mangi no chela roba lì” (io non la mangio
quella roba). L’Angelina aggiunse “Anca mì la
mangi no” (anche io non la mangio) ma si capiva
che lo diceva forzatamente perché, data
la costante fame che l‘accompagnava,
l’avrebbe assaggiata volentieri, l’unica
cosa che la frenava era che non ne
conosceva il sapore perché non l’aveva
mai vista prima. La scatoletta, aperta, si
decise di metterla assieme alle altre in
attesa di eventuali ripensamenti. Ma il
diavolo ci volle mettere la coda, come si
suole dire, e dopo due giorni l’Angelina
piombò in casa e, con la faccia paonazza,
dichiarò “La Nora la ma dì che la
settimana che ven la gà bisogn dei so
scaulett” (la Nora mi ha detto che settimana ventura ha
bisogno delle sue scatolette). Il pensiero che una

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delle scatole fosse ancora aperta e, loro,
avrebbero fatto la figura delle impiccione
curiose e indiscrete, fece prendere una
drastica decisione a mia nonna “La và
saràda, ghe disum al Franco de saldala” (
bisogna chiuderla, diciamo a Franco di saldarla). Quando
Franco, il mio papà, tornato dopo una
giornata di lavoro, fatto in bicicletta
corso Ticinese-Bicocca e ritorno, fra
strade diroccate dai bombardamenti,
portato, in spalla la bicicletta fino al
quarto piano, si sentì fare una richiesta
del genere, manifestò la sua contrarietà
con colorite espressioni che si conclusero
con “donn e madonn van ben dumà
pitùrà sul mur” ( donne e madonne vanno bene solo
dipinte sul muro).
Per farla breve, dovette cercare nella
cucina della mensa alla Pirelli una

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scatoletta con le stesse dimensioni di
quella da saldare (in tempo di guerra le
scatolette non si trovavano più in
commercio), tagliare il fondo con le
cesoie da lattoniere, portarla a casa e lì,
cominciò l’operazione stagnatura, ossia
saldatura con stagno. Il saldatore non si
riscaldava elettricamente come quelli
moderni, ma con la fiamma del gas della
cucina che, data la bassa pressione con
cui veniva erogato ed essendo noi al
quarto piano, ogni tanto si spegneva
lasciando il saldatore semifreddo, con
mio padre sempre più in difficoltà e
sempre più inviperito con le due autrici
del misfatto. Le due donne, in piedi,
assistevano all’operazione, immobili
come due statue di marmo e sul viso
un’espressione contrita perché sapevano

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che, se avessero commentato, mio padre
le avrebbe fulminate con lo sguardo.
Quando finalmente la stagnatura fu
conclusa, con discreto successo malgrado
le difficoltà ambientali - mio padre era
bravo a saldare - le due donne
ritrovarono il sorriso e la tranquillità e,
rimesso la scatoletta nel contenitore di
cartone, il tutto fu riconsegnato alla
legittima proprietaria. Il giorno dopo,
l’Angelina disse a mia nonna “la Nora la
vureva regalam do scatulett, ma mi gu dì
che la margarina la me piaseva no” (la Nora

voleva regalarmi due scatolette, ma io le ho detto che la

margarina non mi piaceva), “brava fùrba inscì l’ha
capì che te guardà denter” (brava furba così ha
capito che hai guardato dentro) commentò mia
nonna. “Oh madona, l’ù fada grosa” (oh
madonna l’ho fatta grossa). Non si ebbero altre

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notizie sulla fine delle scatolette: le due
signore volsero i loro interessi verso altri
orizzonti e l’avventura venne catalogata
nella sezione mesté senza coo (lavori senza
testa).


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IL CORTILE DEL 50

Il 50, inteso come numero civico, aveva
un cortile principale acciottolato sul
quale si affacciavano parecchi locali nei
quali operavano degli artigiani. C’erano:
una tipografia linotipia, un orafo, una
torneria, un idraulico e il retrobottega dei
negozi che si affacciavano sul corso
Ticinese. Uno di questi era quello di un
negozio di giocattoli. I proprietari erano
el sciur Luisin e la sciura Giuana, fratello e
sorella, lui vedovo e lei non sposata che
abitavano nello stesso appartamento, al
primo piano, sopra al negozio. La sciura
Giuana era affetta da una malattia
degenerativa della colonna vertebrale ed
era piegata in avanti di 90 gradi,
sembrava che le fosse caduto qualcosa e

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lo stesse cercando. El sciur Luisin, alto,
magro, con i baffi e un comportamento
sempre gentile e cortese, aveva fatto le
due vetrine che davano sul corso
Ticinese, quando iniziò l’attività (poco
dopo la prima guerra mondiale) e da
allora rimasero sempre quelle. La merce
che vendeva era altrettanto datata,

bambole, asessuate, con
vestiti alla moda degli
anni 20, leggermente
scoloriti dal sole, pipe di
gesso, tutte
sbocconcellate, soldatini della prima
guerra mondiale e un curioso
aeroplanino, di legno e ali di cartone, che
volava al contrario, cioè le ali piccole
davanti e le grosse dietro (un capolavoro
dell’ingegneria aeronautica.

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IMPRESA TRASPORTI

Nel cortiletto a destra del portone
d’ingresso, quello col pavimento in
lastroni di pietra, c’era una seconda
scala. Al secondo piano di tale scala
aveva sede un’impresa di trasporti i cui
soci si chiamavano “el Migliu “ e “el
sbornia fisa”. Il loro parco mezzi
consisteva in un triciclo con un cassone
anteriore di circa 2 metri x 1,5 metri. I
due erano cognati e vivevano nello stesso
appartamento con la sorella di uno che
era poi la moglie dell’altro (la sciura
Pineta era fisicamente un donnino ma si
faceva rispettare dai due elementi,
intervenendo più volte, anche con il
battipanni). La fortuna dei due era che in
quel periodo non era ancora entrato in

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uso l’etilometro perché, quando
rientravano la sera, a portarli a casa era il
triciclo che, ormai, aveva imparato la
strada come la cavallina storna.

Caratteristica dei due era che, quando la
quantità di vino aveva raggiunto un certo
livello, venivano pervasi da amor patrio e
si presentavano alternativamente sulla
ringhiera, a torso nudo, sia in inverno che
d’estate, a declamare i discorsi di
Mussolini, riveduti e corretti a seconda
del tasso alcolico. Queste
rappresentazioni proseguirono anche
dopo la caduta del fascismo,
avvenimento del quale non erano stati
informati e che procurò loro qualche
problema con i partigiani che abitavano
nella stessa scala.

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EL TRUMBUN

In fondo al cortile principale, sulla destra,
attraverso una specie di cunicolo si
accedeva a un cortiletto di dimensioni
ridotte, così ridotte che la luce penetrava
con fatica e gli inquilini degli
appartamenti, distribuiti sui tre piani,
erano costretti a vivere in una umidità da
foresta pluviale, in una perenne eclissi di
sole tenendo sempre la luce accesa.
In un appartamento di questi, al primo
piano, viveva una famiglia composta da
padre, madre e due figli maschi. Gli
uomini erano appassionati di musica. I
figli suonavano la chitarra e il mandolino
mentre il padre Carlo, detto “Carlun” per
la sua mole, suonava la tuba, o flicorno
basso, nella banda di Corsico.

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Quando si esercitavano in casa, e lo
facevano di sera dopo il lavoro, i vicini
gradivano l’esibizione dei figli perché
interpretavano le canzonette allora in
voga; ma quando toccava al padre, che
doveva accompagnare la banda senza la
banda, era un continuo pot pot
popopopot, pot pot popopopot fino
all’esasperazione dell’intero cortiletto
che, con un coro di “basta cun chel
trumbun lì”, lo faceva desistere. Cosi 'sto
pover’uomo si presentava ai concerti
sempre impreparato. Un altro artista
stroncato dall’incomprensione della
gente.



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LA RUSETA

Sempre in fondo al cortile principale, a
sinistra, dopo un porticato, c’era un altro
cortiletto che divideva due stabili di due
piani. Al secondo piano di uno di questi
abitava la “Ruseta”. La Rosetta era una
donna sui quarant’anni che svolgeva la
professione più antica di questo mondo.
In cortile dicevano che la “bateva el
marciapé” (batteva il marciapiede), in realtà il suo
posto di lavoro era il capolinea del tram
15, che oggi è nel quartiere di
Gratosoglio. Alcune volte prendeva il
tram per recarsi al lavoro, altre volte
l’accompagnava col motofurgone il suo
compagno che viveva in casa con lei. Le
malelingue del cortile dicevano che “lù el
faseva el rucheta” (faceva il protettore) in realtà

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trasportava casse di verdura per un
ortolano. Se poi nel tempo libero facesse
anche el rucheta non lo so. Una sera,
mentre svolgeva, col solito impegno, il
suo lavoro sentì un vagito provenire da
una siepe poco lontana. Incuriosita,
pensando fosse un gatto, andò a vedere
e si trovò davanti a una neonata di pochi
mesi avvolta in stracci. Senza pensarci
due volte la raccolse e la portò a casa e
se ne prese cura. Dopo qualche tempo
iniziò le pratiche d’adozione (a quei
tempi le adozioni erano molto facilitate
per il fatto che la guerra aveva creato un
esercito di orfani) e dopo che divenne
sua figlia a tutti gli effetti la fece
battezzare e la crebbe con tanto amore.
Chissà se questa ragazza, diventata
grande, venne a sapere il mestiere di sua

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madre. Di concreto resta che questa
donna, che molte pettegole del cortile
guardavano dall’alto al basso, è stata
protagonista di un’azione di coraggio, di
bontà e d’amore tanto da dare una
lezione di vita alle cosiddette
benpensanti.








“Le prostitute sono più vicine a Dio delle
donne oneste: han perduto la superbia e

non hanno più l’orgoglio."
(Anatole France)



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