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Published by Litotipo Anaune, 2023-01-19 09:00:13

Volume L'oro bianco 2022

Volume L'oro bianco 2022

di Alessandro de Bertolini, Renzo Dori e Francesco Framba LA STORIA DELL’INDUSTRIA IDROELETTRICA IN VAL DI PEJO


di Alessandro de Bertolini, Renzo Dori e Francesco Framba LA STORIA DELL’INDUSTRIA IDROELETTRICA IN VAL DI PEJO


COMUNE DI PEIO Stampa: Litotipo Anaune, Borgo d’Anaunia, Fraz. Fondo - TN Impostazione grafica e composizione e stampa: Paola Giuliani (Litotipo Anaune, Borgo d’Anaunia, Fraz. Fondo - TN) Revisione testi e correzioni: Chiara Turrini Prima edizione Giugno 2022 È vietata la riproduzione dei contenuti anche parziale senza autorizzazione. NOTA DEGLI AUTORI: Molte persone hanno contribuito ad aiutare e a sostenere gli autori, durante il loro lavoro, a tutto vantaggio del lettore e di coloro che vorranno dedicare attenzione a questo libro. A tali persone è riservata una sincera gratitudine. In modo particolare, gli autori desiderano ringraziare Loreta Veneri e Oscar Groaz (per lungo tempo alla direzione dell’Ecomuseo della Val di Peio “Piccolo Mondo Alpino”), per le informazioni preziose che hanno fornito alla loro comunità, promuovendo attività dedicate alla valorizzazione della storia e della memoria. Si desidera ringraziare Chiara Turrini per la grande cura e professionalità nel lavoro di correzione dei testi: per i numerosi consigli, per i suggerimenti, per i continui confronti nelle molte ore trascorse insieme. Per il layout grafico, e dunque per la traduzione dei contenuti in un progetto visivo di stampa, si ringrazia Paola Giuliani. Per la messa a disposizione di due saggi, pubblicati nel 2015 sulle origini dell’industria idroelettrica in Val di Peio, si ringrazia Marco Puccini, autore, in passato, di diverse ricerche sull’argomento. Gli autori, inoltre, esprimono la loro più profonda gratitudine alle famiglie Moreschini (Laura Moreschini) e Marcello (Carlo Marcello), per aver concesso, a fini editoriali e culturali, l’utilizzo delle fotografie d’epoca aventi per oggetto la costruzione della diga del Careser e della diga di Pian Palù. La presenza delle immagini, collocata nella seconda metà del libro, nei due “Album fotografici”, arricchisce il volume con centinaia di scatti straordinari: vere e proprie fonti della storia di grandissimo valore per tutti gli appassionati e gli studiosi di storia dell’industria idroelettrica del Trentino e delle Alpi. Si ringrazia, da ultimo, il Comune di Peio, per aver proposto e fortemente voluto la realizzazione di questa importante opera culturale e storica e per aver reso materialmente possibile la sua concreta stampa e la sua diffusione. In copertina: Veduta panoramica della diga del Careser, anni trenta del Novecento (Fondo Famiglia Moreschini - Torino) In collaborazione con:


06 08 13 27 39 53 77 87 103 177 253 267 271 Il Comune di Peio. Introduzione. La nascita dell’industria idroelettrica in Trentino. Lo sfruttamento del Noce e il caso della Val di Peio. La diga del Càreser e l’impianto di Malga Mare. L’impianto di Cogolo e le sue derivazioni. La memoria. L’oro bianco della Val di Peio. Album fotografico “Famiglia Moreschini - Torino”. Album fotografico “Studio Ing. Claudio Marcello - Milano”. Appendice. Bibliografia. Gli autori.


06 Il Comune di Peio Quella del rapporto tra la Val di Peio e l’energia idroelettrica è una storia antica, feconda. Una storia bella che meritava di essere raccontata. Il mio ringraziamento più caloroso, dunque, va ad Alessandro de Bertolini, Renzo Dori e Francesco Framba, autori del libro che avete tra le mani. Da subito, l’amministrazione comunale di Peio ha accolto con grande orgoglio e piacere il progetto di raccontare una vicenda lunga un secolo, che vede la luce con questo volume sulla storia dell’industria idroelettrica nella Val di Peio. Da sempre, l’acqua è l’elemento distintivo di questo territorio. Da sempre, chi ha abitato in questi luoghi ha utilizzato l’acqua non soltanto per le proprie attività, per gli armenti, per bere, per lavarsi, ma ha nutrito nei confronti dell’acqua anche amore e rispetto. Fin dalla notte dei tempi è stato chiaro che una così grande abbondanza dell’elemento fondamentale per la vita fosse un tesoro da preservare per i nostri figli, nipoti, per le generazioni future. Non è un caso, infatti, che ogni anno, proprio a Peio, già da un decennio, dedichiamo all’acqua una settimana di festeggiamenti. Non è un caso che Peio sia nota, fra l’altro, per uno stabilimento termale in cui vengono utilizzate a fini terapeutici, oltre che per il benessere, le acque del territorio, le cui proprietà sono conosciute da cinquecento anni. Risale a quasi un secolo fa un importante cambio di passo nell’utilizzo dell’acqua nella nostra valle: nel 1929 veniva inaugurata la centrale idroelettrica di Cogolo, la più bella d’Italia. La nostra centrale era, ed è ancora, un capolavoro di ingegneria. Ed è anche un importante esempio di architettura industriale, visitato da migliaia di turisti ogni anno. Realizzata negli anni Venti, ai piedi della catena Ortles-Cevedale, utilizza da quasi un secolo le acque del torrente Noce: dalle vette del Càreser, a più di 2.600 metri, dove si trova l’omonima diga, passando per la centrale di Malga Mare, le acque impetuose del torrente vengono imbrigliate per poi giungere alla centrale di Cogolo. All’interno, le ampie sale sono abbellite con la tecnica del graffito e l’edificio è da un secolo un inno all’energia pulita. Quando il mondo “andava a carbone”, iniziavamo a utilizzare l’irruenza del torrente, che irrora il nostro territorio, per muovere le turbine della centrale: senza fumi, senza sfruttamento indiscriminato il sindaco Alberto Pretti


07 del suolo e delle sue risorse, al passo con i tempi di allora, come con quelli attuali, passando dalla mera attività manuale a quella industriale, nel pieno rispetto del territorio. Un approccio, questo, capace di produrre valore economico aggiunto, senza danneggiare la qualità ambientale, indispensabile a qualunque essere vivente sulla Terra. Grazie a questo approccio, la Val di Peio produce non solo energia elettrica pulita e rinnovabile per tutti i suoi abitanti, ma riesce anche a immettere nella rete nazionale un buon surplus. Un volàno per la nostra economia. Per avere un’idea delle quantità di kw prodotti, si pensi che le sole tre centrali della nostra valle producono energia sufficiente per una città come Trento. Historia magistra vitae: la storia è maestra di vita, recita il più famoso adagio di Cicerone. La Val di Peio, nel corso dei secoli, ha imparato sempre più dalla propria esperienza, dal proprio passato, ad amare questo territorio, a rispettarlo e a trarne giovamento. Un equilibrio delicatissimo, tutt’altro che semplice. Ma che regala l’emozione e la meraviglia di quello che ci circonda e che ci permette, un secolo dopo, di dire che la strada intrapresa dai nostri nonni, proseguita dai nostri padri e oggi da noi, è quella giusta. Questo libro lo ricorda. L’invaso di Pian Palù, da valle. Veduta aerea, 2004. Archivio del Servizio prevenzione rischi, Ufficio dighe della Provincia autonoma di Trento.


08 Introduzione di Alessandro de Bertolini, Renzo Dori e Francesco Framba Lo sfruttamento del torrente Noce per ottenere energia idroelettrica ha prodotto una delle principali trasformazioni paesaggistiche della storia della Val di Peio e delle valli del Noce: un cambiamento ricco di significati economici, politici e sociali, che ha rappresentato un punto di cambiamento nella storia del territorio e uno spartiacque nella memoria individuale e collettiva delle comunità locali. Per tali motivi, un volume che si ponga, come questo, lo scopo di raccontare la storia dell’industria idroelettrica in Val di Peio non può prescindere da una considerazione iniziale: l’uomo non vive con “intorno” la natura, ma vive “dentro” la natura. Tale premessa vale come presupposto per inquadrare la questione nella giusta prospettiva. Ambiente naturale e paesaggio culturale non sono mondi separati, ma dimensioni che convivono, compenetrandosi, dando origine a forme di ibridazione in continuo mutamento. Per la comprensione dei “paesaggi idroelettrici” della Val di Peio, quindi, occorre abbandonare ogni dualismo oppositivo che contrappone il mondo naturale al mondo culturale. Questa separazione, di origine seicentesca, trova fondamento nel pensiero filosofico cartesiano e ha viziato per lungo tempo il ragionamento sulla costruzione dei paesaggi alpini e sulla percezione delle principali trasformazioni che li hanno interessati. Per superare definitivamente le tare ereditarie di un simile orientamento, può essere utile collocarsi nel punto di vista dello storico Lucien Febvre (1878-1956): “Per agire sull’ambiente, l’uomo non si pone al di fuori dell’ambiente stesso. Egli non sfugge alla sua presa nel momento preciso in cui cerca di esercitare la propria su di lui. È d’altra parte la natura ad agire sull’uomo, a intervenire e condizionare l’esistenza delle società umane; non è una natura vergine, indipendente da ogni contatto umano, ma una natura su cui l’uomo ha già profondamente agito, modificandola e trasformandola. Continuo gioco di azioni e reazioni. La formula: ‘relazioni tra le società e l’ambiente’ è ugualmente valida per ambedue i casi che si pretendono distinti. In queste relazioni, infatti, l’uomo prende e restituisce al tempo stesso; l’ambiente dà, ma riceve anche”. Lucien Febvre, fondatore nel 1929 assieme allo storico Marc Bloch degli Annales d’histoire économique et sociale, fu tra i primi e più convinti assertori


09 della necessità di un reciproco arricchimento tra gli studi storici e gli studi geografici. Perché la scelta cade proprio sulla sua citazione, e non su altre? Perché Febvre, che si esprimeva in quel modo nel 1922 nell’opera La Terre et l’évolution humaine. Introduction géographique à l’histoire (in italiano La Terra e l’evoluzione umana: introduzione geografica alla storia, Einaudi, 1980), ha affrontato il “tema delle relazioni fra le società e la natura – scrivono Robert Delort e François Walter nella loro Storia dell’ambiente europeo – con un certo distacco e con la necessaria serenità”. Una prerogativa, questa, che non sempre si ritrova nelle ricerche posteriori, di altri osservatori, “spesso caratterizzate dalla disillusione di fronte al modello economico occidentale e il senso di colpa nei confronti della natura sfruttata all’eccesso”. La citazione di Febvre, dunque, ha il grande merito di porre, come pilastri, le giuste coordinate attraverso le quali riflettere sul rapporto uomo-natura: un rapporto biunivoco, all’interno del quale la storia dell’industria idroelettrica (e dell’energia rinnovabile) si colloca come una tra le esemplificazioni più eclatanti e notevoli degli ultimi centoventi anni. Fissati questi presupposti, è ora possibile capire il ruolo che l’uomo ha avuto nel determinare le grandi modificazioni dei paesaggi delle valli del Noce. In tale prospettiva, il presente volume intende raccontare lo sfruttamento delle acque in Val di Peio per fini idroelettrici, dalle origini fino agli sviluppi più recenti, alla luce della costruzione delle nuove centraline di Contra, Castra e Cusiano, avviata dall’amministrazione del Comune di Peio a partire dal 2004. Nella descrizione del percorso storico, gli abitanti della valle sono al centro del racconto: al tempo stesso, essi si pongono come soggetto e oggetto delle vicende del passato, attori e spettatori, interpreti e destinatari della medesima narrazione storica. Il primo impianto idroelettrico della Val di Peio, una piccola centralina per la produzione di energia, fu realizzato nel 1903 nel territorio catastale di Cogolo. Poco a monte dell’abitato, l’opera venne costruita per volontà degli amministratori locali, con lo scopo di fornire elettricità alla popolazione del paese. Alcuni anni dopo, nel 1909, venne realizzato un secondo impianto, in località Acidule di Peio. Grazie a un gruppo di proprietari, questa volta per iniziativa privata, la centralina fu avviata per fornire energia ad alcuni alberghi della zona. Il finanziamento dei due impianti, succedutisi a pochi anni di distanza, fu sostenuto da attori diversi, che rappresentavano interessi differenti. Da un lato, l’amministrazione comunale, che operava per un fine pubblico. Dall’altro, una piccola società di privati, che agiva per le esigenze di un gruppo di strutture di accoglienza. In entrambi i casi, però, il capitale impegnato traeva linfa vitale dal territorio, l’iniziativa era locale e l’utilizzo dell’energia prodotta era finalizzato al fabbisogno degli abitanti e delle piccole economie di scala. Nate in un contesto circoscritto e periferico, come quello della Val di Peio, le due centraline si inserivano in un modello sociale preindustriale, collocandosi agli albori della storia idroelettrica della valle e rappresentandone, di fatto, la prima stagione. Successivamente, al termine della Grande Guerra, giunsero dall’esterno le società private. Interpreti di interessi nuovi, muovevano enormi capitali. Dietro all’acronimo con cui si presentavano, che lasciava intendere la presenza di un unico soggetto industriale, si celavano spesso vere e proprie cordate di società diverse, coordinate e pilotate da un’unica holding. Fu il caso, per esempio, di Edison, alla quale era collegato un arcipelago di società satelliti, che facevano l’interesse della capofila. Il protagonismo di questi nuovi attori, attirati dalla ricchezza e dall’abbondanza delle acque presenti nelle valli del Noce e dal loro potenziale sfruttamento ai fini della produzione idroelettrica, cambiò radicalmente le regole del gioco. Da una fase pionieristica, quella delle prime centraline idroelettriche, si passò così alla fase industriale. Le esigenze del mercato e le priorità delle politiche energetiche nazionali prevalsero su quelle del civismo locale, soppiantando le piccole centraline esistenti e spianando la strada ad alcuni progetti per lo sfruttamento integrale del torrente Noce, dalla sorgente fino alla foce. Per quanto riguarda la parte alta del Noce, nel 1922 la SIAN (Società Idroelettrica Alto Noce) ottenne un decreto di concessione per la costruzione di ben sei impianti di grande derivazione idroelettrica. Si trattava degli impianti di Malgamare, Cogolo, Cusiano-Noce, Cusiano-Vermigliana, Pellizzano (Malghetto) e Malè. A questi, se ne aggiunse subito un settimo, l’impianto del Càreser, confermato durante la fase istruttoria per l’approvazione del decreto di concessione del 1922. Per quanto riguarda invece il corso medio del Noce, la SIET (Società Industrie Elettriche Trentine), poi divenuta SGET (Società Generale Elettrica Tridentina), veniva autorizzata nel 1923 alla costruzione di due ulteriori impianti. Il primo era l’impianto di Bozzana, di dimensioni ridotte, collocato nei pressi della confluenza tra il torrente Rabbiés e il torrente Noce. Il secondo, da costruire più a valle, aveva dimensioni decisamente maggiori e prevedeva la costruzione di una diga in località Santa Giustina e una centrale a Taio. Dei primi sette impianti, quelli relativi alla parte alta del Noce, ne furono realizzati soltanto due: gli impianti di Malga Mare e di Cogolo. Costruiti da Edison e dalle sue società controllate, entrarono in esercizio rispettivamente nel 1931 e nel 1929/1949. Degli altri due, quelli relativi alla


10 parte media del torrente, venne costruito soltanto l’impianto di Taio, con la diga di Santa Giustina. I lavori per la costruzione della diga ebbero inizio nel 1946 e terminarono nel 1951. Per quanto riguarda, infine, il basso Noce, nel 1928 la SGET otteneva la concessione per lo sfruttamento delle acque del torrente attraverso la realizzazione di uno sbarra - mento in località Mollaro e la costruzione di una centrale a Mezzolombardo. I lavori di quest’opera cominciarono nel 1926 e l’impianto entrò in eser - cizio nel 1930. Ripercorrendo queste tappe, i capitoli del libro in - quadrano la nascita e lo sviluppo dell’energia idro - elettrica in Val di Peio, collocando i fatti nel contesto storico in cui si svolsero e riflettendo sulle modalità con cui sono stati ricordati nella memoria collettiva. Il primo capitolo affronta il tema della nascita dell’industria idroelettrica in Trentino e delle circo - stanze che, sia in ambito locale sia in ambito nazio - nale e internazionale, ne garantirono lo sviluppo da un punto vista tecnico ed elettrotecnico. L’at - tenzione è posta sul contesto culturale, politico ed economico tirolese di quegli anni, che pose le con - dizioni per la realizzazione della centrale di Ponte Cornicchio, a Trento, nel 1889, una delle prime di tutto l’Impero Austro-Ungarico. Il secondo capitolo si concentra sulla costruzione delle prime centraline idroelettriche in Val di Peio e sulla volontà di sfruttare su ampia scala le acque di tutto il bacino imbrifero del torrente Noce. Qui, l’accento viene messo sulla differenza qualitativa e quantitativa di queste iniziative. Le prime centrali - ne, all’inizio del Novecento, nascono per iniziativa comunale, con finalità pubbliche e con ricaduta sul ristretto ambito territoriale. Le grandi opere idrauli - che, a partire dagli anni venti, vengono invece impo - ste dalle società di capitali, che operano con finalità private al fine di esportare gran parte dell’energia Panoramica della diga di Càreser. Impianto di Malga Mare, visto da valle, orografica sinistra, 1995. Fondo fotografico Pedrotti, Trento.


11 prodotta verso le aree industriali del Nord Italia. I capitoli terzo e quarto descrivono rispettivamente la diga del Càreser con l’impianto di Malga Mare, e l’impianto di Cogolo con le sue derivazioni (Malga Mare e Pian Palù). Questi due capitoli si spingono nel dettaglio delle due opere approfondendo, da un lato, gli aspetti costruttivi di natura idraulica e ingegneristica, dall’altro, le questioni legate alle origini degli impianti sotto il profilo procedurale e amministrativo: i primi decreti di concessione, i disciplinari, le date dei collaudi, l’entrata in esercizio. Gli impianti sono raccontati nel loro percorso storico e cronologico, fino a giungere, come punto di arrivo, alla fotografia dello stato attuale. La descrizione è corredata da alcune tabelle riassuntive (tipo di turbine utilizzate e di alternatori per quanto riguarda i macchinari, indici di produzione medi e massimi per quanto riguarda la produttività) e dalle corografie degli impianti (riportate in scala con l’indicazione delle centrali e delle condotte). Il linguaggio è divulgativo, ma allo stesso tempo tecnico e specialistico. Il tentativo è quello di fornire non soltanto una presentazione generica delle grandi opere, ma anche uno strumento di consultazione per gli esperti del settore. Il capitolo quinto affronta il tema della memoria e del significato che ha avuto la trasformazione del paesaggio della Val di Peio nella percezione della popolazione. Vengono qui ripercorsi il lavoro di valorizzazione del patrimonio storico, svolto dalla comunità locale negli ultimi decenni, e l’investimento in politiche culturali sul territorio, operato dell’ente pubblico e dall’associazionismo della valle. In questo capitolo, trova spazio un ragionamento sull’opportunità di recuperare la giusta distanza tra presente e passato e sulla necessità di guardare con consapevolezza alla storia, nella sua complessità. Il sesto e ultimo capitolo, infine, presenta la realizzazione delle nuove centraline in Val di Peio, un percorso avviato nel 2004. A quasi cento anni di distanza dalla nascita dei primi impianti per la produzione di energia idroelettrica, le amministrazioni del territorio hanno dato corso alla costruzione di tre nuovi impianti “a cascata”: gli impianti di Contra, Castra e Cusiano. La finalità pubblica dell’operazione, che ha caratterizzato da subito il progetto, e l’iniziativa comunale, che ha visto come protagonisti il Comune di Peio e i suoi determinati ammnistratori, richiamano alla memoria quel senso civico della prima stagione pionieristica, lo spirito con cui vennero realizzate le centraline nei primi anni del Novecento. Al termine dei capitoli vengono proposti due album fotografici con una selezione di immagini del fondo «Dott. Ing. Francesco Augusto Michela Zucco», di Agliè (in provincia di Torino), e del fondo «Studio Ing. Claudio Marcello», di Milano. Il primo album, realizzato negli anni trenta, racconta visivamente la costruzione della diga del Càreser. Il secondo, prodotto negli anni quaranta e cinquanta, presenta una “fotocronaca di cantiere” della costruzione della diga di Pian Palù. L’ampio spazio dedicato a queste fotografie vuole sottolineare l’eccezionale valore delle due collezioni come testimonianza storica. Il formato stesso del volume, orizzontale, è stato scelto con queste finalità, per poter riprodurre le immagini nella modalità più efficace e adeguata. La documentazione fotografica ha il pregio di fare emergere sia gli aspetti tecnici e ingegneristici dei grandi impianti, presentando le strutture idrauliche con le varie componenti poste in opera, sia la dimensione del lavoro sul cantiere, con la presenza dell’uomo e delle maestranze coinvolte. Inoltre, gli scatti possiedono un notevole valore storico-paesaggistico, poiché ritraggono le montagne e i ghiacciai della vallata così come si presentavano quasi un secolo fa. Nel libro, entrambi i fondi sono stati introdotti da una descrizione che presenta la famiglia proprietaria e i due ingegneri che li realizzarono: Francesco Augusto Michela Zucco e Claudio Marcello. A queste famiglie, in particolare agli eredi Laura Moreschini e Carlo Marcello, è riservata la più sincera gratitudine, per la sensibilità storica e culturale, che hanno dimostrato, nell’aver concesso l’utilizzo delle immagini. In conclusione, ai curatori preme sottolineare, d’intesa con l’amministrazione del Comune di Peio, la volontà di dedicare questo volume alla popolazione della valle. L’interesse che la comunità ha saputo esprimere per il proprio passato, concretizzatosi nel corso degli ultimi decenni, ha potuto svilupparsi in un contesto locale dal quale è emerso un forte bisogno di memoria. La domanda di conoscere la propria storia ha incontrato l’offerta di divulgarla e di valorizzarla, sostenuta dall’associazionismo privato e dalle istituzioni locali. Il punto di incontro tra queste istanze ha rappresentato il vero valore aggiunto della riflessione sull’epopea idroelettrica della Val di Peio: un capitale umano e sociale cresciuto ai piedi delle grandi dighe, maturato nella consapevolezza e nel ricordo.


13 1 La nascita dell, industria idroelettrica in Trentino UNA STORIA CHE HA ORIGINI LONTANE. Nel 1890 entrava in funzione a Trento la centrale idroelettrica di Ponte Cornicchio. Insieme all’impianto di Scheibbs, una piccola cittadina nell’Austria Inferiore, e a quelli delle città di Salisburgo, Vienna e Innsbruck, che si erano dotate di piccole centrali tra il 1886 e il 1889, l’opera idraulica di Ponte Cornicchio rappresentava una delle prime centrali idroelettriche di tutto l’Impero Austro-Ungarico. L’impianto, il cui progetto fu presentato nel 1883 dall’ingegnere Annibale Apollonio, sostenuto dalle politiche lungimiranti del podestà di Trento, Paolo Oss Mazzurana, segnava un punto di svolta nella storia economica e sociale di fine Ottocento, inaugurando una stagione nuova e promettente nel campo delle politiche energetiche. Quali circostanze resero possibile il cambiamento? E come si diffuse l’industria idroelettrica in Trentino, con quali premesse, attraverso quali fasi e modalità? A più di un secolo di distanza da quei fatti, nel percorso di nascita e sviluppo dell’industria idroelettrica in Trentino è possibile distinguere chiaramente almeno tre fasi1 : l’esperienza liberale, quella fascista e quella repubblicana. Da un punto di vista storico, sia per quanto riguarda la storia economica sia per quanto riguarda la storia sociale e istituzionale, a imprimere caratteristiche differenti a questi momenti sono soprattutto tre fattori. In primo luogo, il perfezionamento di conoscenze idrauliche e ingegneristiche e lo sviluppo degli apparati tecnici e tecnologici propri di ciascun periodo storico. In secondo luogo, il ruolo giocato dall’ente pubblico nei confronti dei grandi capitali privati e viceversa. In terzo luogo, il peso dell’iniziativa politica e delle scelte che essa ha operato nel medio e lungo termine su scala sia nazionale sia locale. Nella prima fase liberale, compresa tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio degli anni venti del Novecento, si impose il modello virtuoso del «Comune imprenditore». A impegnarsi verso la produzione di energia idroelettrica, mediante la costruzione delle prime centrali, furono soprattutto le maggiori municipalità del territorio, come Trento e Rovereto, le quali costituirono società a capitale prevalentemente pubblico, con la finalità di portare nuovi servizi ai cittadini dotando di illuminazione pubblica le vie, le piazze e le abitazioni. Negli stessi anni, ciò che avveniva in Trentino si verificava anche in Alto Adige. Nasceva così nel 1898,


14 a Merano, la centrale di Tel. La costruzione di questi impianti fu resa possibile dalle grandi scoperte in campo elettrico ed elettrotecnico di fine Ottocento. In particolare, nel 1891, all’esposizione di Francoforte, veniva dimostrata la possibilità di trasportare a grandi distanze in modo economicamente conveniente, mediante l’impiego di corrente alternata trifase ad alta tensione, l’energia elettrica ottenuta dalle forze idrauliche. Questa scoperta aprì la strada allo sfruttamento delle acque dei torrenti e allo sviluppo dell’industria idroelettrica. L’energia prodotta in montagna, tramite la costruzione delle centrali, avrebbe potuto essere trasportata dai monti ai fondovalle e dalle zone periferiche alle aree metropolitane delle pianure, che necessitavano di grandi quantità di energia. Nella seconda fase, quella del Ventennio fascista, che occupa il periodo compreso tra le due guerre, la direzione dello sviluppo idroelettrico muta in modo radicale. Le municipalità vengono lentamente, ma inesorabilmente, esautorate del loro ruolo. Gli interessi delle più importanti industrie italiane e multinazionali, attirate in Trentino dalla possibilità di produrre grandi quantità di energia da vendere sui mercati dell’Italia del Nord, dove la domanda era in aumento, cambia il paradigma, favorendo logiche di mercato meno attente al bisogno civico dei cittadini dei territori, ove l’energia veniva prodotta. In questi anni, la scienza idraulica e le tecniche ingegneristiche compiono enormi passi, che si traducono nella costruzione di opere imponenti, la cui presenza stravolge il territorio. Si pensi alla diga ad arco di Santa Giustina, con i suoi 182 metri di altezza, o al bacino artificiale di Stramentizzo, il cui riempimento sommerse un intero paese, costringendo gli abitanti a un esodo definitivo e forzato. In entrambi i casi, sia per la diga di Santa Giustina che per quella di Stramentizzo, i progetti furono decisi e approvati durante l’epoca fascista, anche se i lavori vennero completati all’inizio degli anni cinquanta. Nella terza e ultima fase, dopo la nascita della Repubblica Italiana, si apre un nuovo corso segnato dall’affermazione di un modello di Stato parlamentare e democratico e dalla nazionalizzazione del settore della produzione e distribuzione dell’energia elettrica. Se, su scala nazionale, questo periodo è legato soprattutto ai cambiamenti conseguenti alla nascita dell’Enel, istituito nel 1962, su scala locale, il dopoguerra è scandito dall’entrata in vigore degli statuti speciali di autonomia, il primo approvato nel 1948 e il secondo nel 1971. In questa ultima fase, che possiamo definire repubblicana o autonomista, a seconda che la si voglia leggere come la storia d’Italia o come una storia del Trentino, gli strumenti di autogoverno vanno via via perfezionandosi, con la finalità di restituire alle comunità locali una posizione sempre più centrale nella gestione delle risorse idroelettriche e della produzione di energia. In tempi più recenti, negli anni ottanta e novanta, gli sforzi della scienza e della tecnica non sono più volti alla costruzione di opere mastodontiche, non più compatibili con gli interessi della popolazione locale, tutelata di fronte ai grandi stravolgimenti paesaggistici del territorio, ma mirano alla realizzazione di centraline di dimensioni ridotte, sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico di piccole comunità. Si giunge in questo modo agli sviluppi più recenti degli anni 2000, con la costituzione di nuove società compartecipate a capitale pubblico e privato, all’interno delle quali la Provincia autonoma di Trento copre ruoli di responsabilità diretta nella gestione dei grandi bacini idroelettrici e delle concessioni sulle grandi derivazioni. La storia che stiamo raccontando, come si vede, ha radici lontane, che nascono nella seconda metà dell’Ottocento. Occorre partire da qui, prestando attenzione soprattutto alle fasi liberale e fascista, e in modo particolare al momento di transizione fra l’una e l’altra, per comprendere a fondo circostanze e contesto entro i quali sono sorti gli impianti idroelettrici in Trentino, in Val di Peio, nei pressi di Cogolo e ai piedi del ghiacciaio del Càreser. La fase ottocentesca liberale, compresi i primi decenni del Novecento fino allo scoppio della Grande Guerra, è peraltro la più ricca di fonti bibliografiche2 .


15 Per comprendere la nascita e gli sviluppi dell’industria idroelettrica in Trentino, occorre calarsi nel contesto economico e sociale dell’Impero Austro-Ungarico di fine Ottocento. L’impero si estendeva su una superficie di oltre 650.000 km2, dove vivevano quasi 50 milioni di persone. Il Trentino, incluso nei confini austriaci fino al 1919, si trovava ai margini Sud occidentali di questo vasto territorio. Gli anni compresi fra il 1870 e lo scoppio della Grande Guerra rappresentano mezzo secolo di eccezionali progressi in campo elettrico ed elettrotecnico italiano, tirolese e asburgico. In questi decenni, si assiste a un periodo di forte innovazione e vivacità sotto il profilo scientifico, politico e culturale. Questo «spirto del tempo», se così possiamo definirlo, portò alla nascita e allo sviluppo delle prime centrali per la produzione di energia idroelettrica nel Nord Italia, in Tirolo e nell’Impero Austro-Ungarico. Riflettere su questo periodo - il contesto storico in cui si verificarono l’esordio e l’espansione delle realizzazioni in campo idroelettrico in Trentino - significa cogliere alcune questioni di carattere generale che garantirono un contesto favorevole. Alcune di queste circostanze fanno riferimento al Trentino, altre a scenari più ampi dal respiro nazionale e internazionale. Da un punto di vista morfologico, la presenza di massicci montuosi (quote elevate, precipitazioni piuttosto intense, estensione dei ghiacciai e presenza di sorgenti, laghi e corsi d’acqua) forniva le premesse necessarie per lo sfruttamento delle risorse idrauliche per la produzione idroelettrica. Questo valeva per il Trentino e più in generale per gli altri territori delle Alpi. A caratterizzare l’ambiente locale, però, vi erano certi fattori che non si trovavano altrove: componenti istituzionali, politiche e culturali3 . All’interno della Monarchia asburgica, le città tirolesi di Innsbruck, Bolzano, Trento e Rovereto godevano di una particolare autonomia, che permise loro di prendere iniziative nella gestione dei servizi di pubblica utilità. Ciò consentì a molti Comuni di dotarsi precocemente di un impianto idroelettrico. I principali centri abitati del Tirolo scelsero questa via4 . L’impegno in campo economico delle pubbliche amministrazioni era stimolato, tra l’altro, dalla legge austriaca del 9 aprile 1873, che stabiliva, come unico obbligo per consorzi cooLE CIRCOSTANZE CHE GARANTIRONO LO SVILUPPO. Centrale di Ponte Cornicchio. Anni novanta dell’Ottocento. Archivio storico del Comune di Trento, Archivio fotografico.


16 Il frontespizio della rivista monografica dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, pubblicata nel 120° anniversario dalla nascita, con l’immagine di Galileo Ferraris. Tratto da: 100 anni della Sezione AEIT del Trentino - Alto Adige / Südtirol, atti del convegno, promosso dalla Sezione AEIT del Trentino - Un’immagine di Giuseppe Colombo. Wikipedia, public domain. Alto Adige / Südtirol con la Fondazione Museo storico del Trentino, novembre 2019. La centrale di Tel in Alto Adige, nei pressi di Merano, in una foto d’epoca. Tratto da: 100 anni della Sezione AEIT del Trentino - Alto Adige / Südtirol, atti del convegno, promosso dalla Sezione AEIT del Trentino - Alto Adige / Südtirol con la Fondazione Museo storico del Trentino, novembre 2019.


17 perativi e municipalità, quello di pareggiare le uscite con gli utili derivanti dal proprio patrimonio. La legislazione asburgica lasciava una discreta libertà di iniziativa ai municipi, con il solo obbligo di rispettare le linee di indirizzo dello Stato e del Land di appartenenza, in modo da non entrare in contrasto con essi. Simili prerogative, che favorivano l’iniziativa pubblica in campo idroelettrico, mancavano nel vicino Regno d’Italia, dove le municipalità non godevano delle stesse possibilità. Perciò, nonostante il Trentino mostrasse diversi limiti di carattere strutturale – stiamo parlando di un territorio che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva un tasso di ruralità molto alto, era basato essenzialmente sulla «piccola proprietà», presentava una forte carenza dell’attività manifatturiera e industriale e soffriva di una debolezza intrinseca nel sistema viabilistico e infrastrutturale – diversi Comuni si impegnarono in investimenti coraggiosi, ponendosi come protagonisti dello sviluppo. Nel frattempo, sul piano internazionale, la comunità scientifica compiva enormi passi avanti, che trovavano applicazione in campo industriale. Tali progressi ponevano le fondamenta per la produzione di energia elettrica dallo sfruttamento delle acque e fornivano le condizioni tecniche e scientifiche per poter trasferire l’energia dai luoghi della produzione ai luoghi dell’utilizzo e del consumo. Nel 1882, Thomas Edison attivò il primo sistema di distribuzione dell’energia al mondo in corrente continua, fornendo poco più di un centinaio di volt ad alcune decine di utenti nel quartiere di Manhattan, a New York. Nello stesso anno, lo scienziato italiano Galileo Ferraris ideò il campo magnetico rotante. La scoperta aprì la strada all’invenzione della corrente alternata, che, alcuni anni dopo, rese possibile il trasporto dell’energia elettrica sulle lunghe distanze. A Parigi, nel 1881 si era svolto uno dei primi Congressi internazionali di studi sull’elettricità. E in quello stesso anno, in Italia, l’ingegnere e studioso Giuseppe Colombo dava vita al comitato promotore per lo sviluppo dell’energia elettrica in Italia. Nello stesso tempo acquisivano sempre più importanza le grandi esposizioni nazionali e internazionali5 in vari Paesi d’Europa, dove ci si confrontava sulle ultime scoperte della scienza e della tecnica. In Italia si ricordano quelle di Firenze nel 1861 e quelle di Milano nel 1871 e nel 1881. Il ruolo di Milano diventava via via più importante. La città richiamava interesse, capitali, imprenditori. Nel capoluogo lombardo, su imitazione di quanto era accaduto a New York con la costruzione della centrale avviata da Edison, entrò in esercizio nel 1883 la prima centrale elettrica italiana, nei pressi del Duomo cittadino. Sempre a Milano, l’anno successivo, nasceva la Società generale italiana di elettricità Sistema Edison. L’introduzione dell’elettricità, come fonte di illuminazione delle città, stava diventando lentamente un orizzonte possibile: un sistema molto più efficiente di quelli precedenti, destinato a trasformare la vita dei cittadini. In un Paese, il Regno d’Italia, che presentava ancora in campo industriale cronici elementi di arretratezza, l’industria elettrotecnica, il settore che fornisce le apparecchiature per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, era in fase d’esordio. I segnali che provenivano da questi ambienti erano incoraggianti e prospettavano nuovi scenari. Il Regno d’Italia, del resto, mostrava una forte carenza di risorse carbonifere, che dovevano essere importate, non senza un elevato costo dei trasporti. La questione dell’approvvigionamento energetico era all’ordine del giorno. Nel Nord della Penisola, alcune grandi imprese si erano costituite da poco e altre erano ai blocchi di partenza, delineando uno scenario sul quale si affacciavano industrie decisamente energivore, in modo particolare nel settore metalmeccanico. Nel 1853 era stata fondata a Genova la Ansaldo, nel 1862 le Officine Galileo a Firenze, mentre a Milano erano nate nel 1872 la Pirelli, nel 1884 la Società Riva-Calzoni e nel 1891 la Ditta Marelli. Si avvertiva la necessità, perciò, di sostenere politiche di sviluppo energetico che garantissero il soddisfacimento di un aumento costante della domanda. Per questi motivi si guardava con grande attenzione al Trentino, dove, data la presenza delle Alpi, esistevano enormi potenziali per lo produzione di energia idroelettrica.


18 Ad alimentare il vento del cambiamento furono alcuni ambienti molto specifici della società civile, mossi da alcune élite di persone colte e altamente formate. E ciononostante, gli effetti di questa «primavera elettrica e elettrotecnica» operarono su larga scala, ben oltre la cerchia dei salotti colti, riverberando le loro conseguenze su ampie fasce della popolazione. Da un lato, infatti, i settori della società che favorirono questo percorso ebbero un peso decisivo nella sfida di portare la corrente elettrica nelle abitazioni. Dall’altro, le élite che ne furono protagoniste operarono a tutto campo in ambito accademico, economico e politico, attribuendo alle loro azioni conseguenze pratiche di portata trasversale: si trattava di scienziati, fisici, ingegneri, giuristi, economisti, imprenditori privati e amministratori pubblici. Se il cambiamento di indirizzo di un’epoca – la capacità che dimostra un determinato periodo storico di percorrere nuove direzioni – si deve anche al merito di alcune persone con nomi e cognomi, percorsi biografici, sogni, visioni e aspettative; allora non possiamo dimenticare alcune tra le principali figure di quel tempo, coloro che contribuirono attraverso le loro storie a imprimere una nuova direzione alla Storia. Una élite, appunto, pionieristica: uomini trentini tirolesi, italiani e austro-ungarici. Tra le personalità italiane più influenti6 , vi furono senz’altro i già citati Giuseppe Colombo (1836- 1921) e Galileo Ferraris (1847-1897). Colombo – ingegnere, imprenditore e politico – diede grande impulso allo studio delle discipline elettriche. Autore del Manuale dell’Ingegnere Civile e Industriale, prima edizione del 1877, per il quale viene ricordato ancora oggi, spese tutta la sua carriera per la nascita dell’industria elettrica in Italia. Fu il primo amministratore delegato di Edison, società della quale divenne presidente nel 1896, carica che mantenne fino alla morte. Galileo Ferraris, colui che formulò il principio del campo magnetico rotante, negli anni novanta dell’Ottocento fu definito da Thomas Edison come «il più grande degli elettrotecnici viventi». Ferraris e Colombo erano in quegli anni anche il punto di riferimento del mondo accademico. Ferraris era professore al Politecnico di Torino, Colombo a quello di Milano. I due istituti universitari erano il fiore all’occhiello del mondo culturale scientifico del Regno d’Italia. Nel 1859 erano stati creati con la legge Casati sull’Istruzione pubblica. Ferraris, inoltre, ebbe un ruolo determinante alla fine degli anni novanta, poco prima della sua scomparsa; nel 1896 si era tenuto a Ginevra il II Congresso internazionale di studi sull’elettricità, al quale Ferraris aveva partecipato assieme ad altri colleghi. Di rientro da quell’esperienza, l’anno successivo lo scienziato italiano fondò l’Associazione Elettrotecnica Italiana, che costituirà nei decenni a venire il punto di incontro per gli ambienti scientifici operanti nell’ambito delle applicazioni elettriche. L’associazione svolse una funzione meritoria nel passaggio da un secolo all’altro, favorendo l’incontro di personalità di altissimo spessore, non soltanto all’interno del Regno d’Italia, ma anche nei rapporti fra quest’ultimo e il Trentino. A ventidue anni dalla fondazione dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, infatti, nacque in Tirolo il distaccamento trentino, d’intesa con gli organi nazionali. Era il 1919, subito dopo la fine della Grande Guerra e lo spostamento di confine al passo del Brennero. Con il nome di «Sezione trentina dell’Associazione Elettrotecnica Italiana», il presidio territoriale veniva ufficializzato nel verbale della riunione che si tenne a Trento il 27 apriLA CULTURA ELETTRICA ED ELETTROTECNICA.


19 le: «Oggi si è costituita ufficialmente la Sezione Trentina dell’Associazione Elettrotecnica Italiana felice di poter cooperare alla prosperità di cotesto sodalizio per l’incremento dell’elettrotecnica italiana e per la grandezza d’Italia». Nel primo direttivo, figuravano come presidente e vicepresidente gli ingegneri Renato Capraro (1880-1930) e Francesco Tommazzolli (1878 - 1933). Entrambi trentini, Capraro e Tommazzolli furono tra le maggiori personalità del contesto culturale locale. Il primo si laureò al Politecnico di Monaco nel 1905. Il secondo studiò ai politecnici di Vienna e Monaco e lavorò a Berlino. Nei primi decenni del Novecento, svolsero ruoli decisivi di impulso e dirigenza nelle principali aziende municipalizzate del Tirolo meridionale. Entrambi conobbero Edoardo Mödl (1876 - 1957), ingegnere di Riva del Garda, con il quale lavorarono alla costruzione delle prime centrali idroelettriche nel Basso Sarca e a Riva del Garda. Entrambi, soprattutto, furono allievi di Giovanni Ossanna7 , ingegnere noneso, celebrato a livello internazionale per aver pubblicato la teoria dei motori a corrente trifase, nota come «diagramma circolare di Ossanna», che permise la costruzione di un motore elettrico, il cui funzionamento si basava sull’applicazione del principio del campo magnetico rotante di Galileo Ferraris. Tra le personalità che animarono il dibattito idroelettrico trentino di quegli anni, non potendo in questa sede ricordarle tutte8 , un cenno particolare meritano le figure di Emanuele Lanzerotti e Cesare Battisti. Lanzerotti (1872 - 1955), politico e innovatore trentino di Romeno, avvertì subito il significato cruciale della nascente industria elettrica. Sostenitore della cooperazione come valore economico e sociale, fondò la Banca industriale di Trento, che ebbe, tra le sue prime finalità, il compito di favorire la fusione dei consorzi elettrici provinciali in un unico centro di assistenza tecnica e distributiva, chiamato «Unione trentina per imprese elettriche». L’UTIE, acronimo dell’Unione, operativa dal 1907, aveva lo scopo di favorire lo sviluppo elettrico e ferroviario del Trentino: una delle realizzazioni più importanti della UTIE fu la ferrovia dell’Alta Anaunia, la Dermulo - Castelfondo - Mendola, progettata ed eseguita dall’ingegnere Lanzerotti. Anche Cesare Battisti (1875-1916), geografo e politico, comprese l’enorme importanza strategica della questione idroelettrica, sia in chiave irredentista sia in chiave economica. In un articolo dal titolo «Per l’industria trentina», pubblicato il 16 aprile del 1901 sulle colonne de Il Popolo, Battisti auspicava di «saper creare a Trento un grande centro di vita industriale moderna, attirarci qui le officine che occupano non le decine ma le centinaia, le migliaia di operai, cogliere il momento propizio della ricerca della forza elettrica, data nel cuore di un paese ricco di materie prime, sapere arditamente conquistare quel posto che la nostra posizione privilegiata ci assegna e che altri popoli alpini o si sono già conquistato o stanno conquistandosi». Con questo scritto, Battisti entrava in pieno nel dibattito sulla nascente industria idroelettrica e indicava traguardi forse più ambiziosi di quelli di Oss-Mazzurana9 . Paolo Oss Mazzurana (1833 - 1895), politico trentino, più volte podestà della città di Trento negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, fu forse il principale tra tutti i protagonisti di quella stagione. Questi uomini operarono in un contesto che rese possibile lo sviluppo dell’industria idroelettrica, le cui condizioni furono poste anche dalla politica locale, al vertice della quale troviamo il periodo delle riforme di Mazzurana, noto come Risorgimento economico. In questi anni fu costruita a Trento la centrale di Ponte Cornicchio, con il progetto a firma dell’ingegnere Annibale Apollonio. Centrale di Ponte Cornicchio, sala quadri, anni novanta dell’Ottocento.


20 Tra i Comuni trentini che meglio seppero interpretare lo spazio di autonomia garantito dal quadro normativo austro-ungarico, il caso di Trento rimane tra i più eloquenti. La costruzione della centrale di Ponte Cornicchio delinea in modo esemplare il ruolo del cosiddetto “Comune imprenditore”, che queste municipalità seppero ritagliarsi. Ma non solo. Poiché l’esempio di Ponte Cornicchio fu seguito negli anni immediatamente successivi anche da altre municipalità, sia trentine sia sudtirolesi, l’esperienza è emblematica. La decisione formale di costruire la centrale di Ponte Cornicchio risale al 1886 con delibera del Consiglio comunale. Il progetto fu realizzato da Annibale Apollonio. Ingegnere, laureatosi a Monaco di Baviera, dopo un periodo di lavoro in Alsazia Apollonio si stabilì a Trento, dove, nel 1878, il Municipio lo nominò ingegnere civico. Fu ideatore del primo piano regolatore della città e responsabile della sezione idraulica del Municipio di Trento. Già nel 1883, aveva evidenziato in una dettagliata relazione la ricchezza di forze idrauliche a disposizione della città. Proprio questo documento fu alla base di un primo progetto sull’utilizzo delle acque del torrente Fersina, per la produzione di energia elettrica e per l’illuminazione pubblica e privata della città. I lavori per la costruzione della centrale iniziarono nel 1887 e l’opera entrò in funzione nel 1890. Non ci soffermiamo in questa sede sulle specifiche tecniche dell’opera10, quanto, piuttosto, sulle enormi difficoltà che l’amministrazione comunale dovette affrontare e sulla volontà che portò al superamento di ogni ostacolo. La determinazione con cui le istituzioni si lanciarono in questa sfida fu davvero notevole e costituisce la chiave di lettura con cui si deve interpretare il significato dell’espressione “Comune imprenditore”. Da un lato, i costi per la costruzione dell’opera sforarono a consuntivo di gran lunga le previsioni. Dall’altro, andava superata una forte ritrosia della popolazione, destinataria dei benefici che avrebbe portato l’utilizzo della nuova forma di energia. La cittadinanza, infatti, non vedeva di buon occhio l’impiego della corrente elettrica. Su entrambi i fronti – i costi dell’opera e le diffidenze della comunità – gli organi politici e amministrativi del Municipio di Trento lavorarono senza indugi. Alla spesa preventivata per la realizzazione dell’impianto, 400.000 fiorini, si dovevano aggiungere altri 30.000 fiorini annui per le spese di gestione; ma, al termine dei lavori, il costo complessivo dell’impianto, escludendo gli allacciamenti alle utenze private, aveva superato i 650.000 fiorini. «ll consiglio comunale calcolò tuttavia che il valore commerciale dell’impianto sarebbe ammontato a circa la metà dell’importo impiegato per la sua costruzione, per cui decise di ammortizzare solo metà della spesa complessiva, nella convinzione che, raggiunto tale traguardo, si sarebbe potuto tranquillamente alienare l’impianto per un importo aggirantesi sui 325.000 fiorini»11. Per vincere la riottosità della popolazione in merito alla sicurezza sull’utilizzo di un nuovo tipo di tecnologia, il Comune aveva calcolato un costo di 100.000 fiorini per effettuare, a proprie spese, le installazioni alle famiglie dei privati cittadini, garantendo loro la possibilità di ritirare gli allacciamenti, nel caso in cui non li avessero più voluti. Per spiegare ai propri censiti i benefici della nuova tecnologia, inoltre, il Comune decise di realizzare una «pubblica esposizione sull’elettricità»: una specie di mostra, un atto divulgativo. L’«esposizioIL «COMUNE IMPRENDITORE» E IL RISORGIMENTO ECONOMICO.


21 Progetto d’illuminazione elettrica della città di Trento e dei sobborghi, anno 1887. Biblioteca Comunale di Trento.


22 La derivazione del torrente Fersina presso la serra di Ponte Alto, a Trento, nei pressi del sito di Ponte Cornicchio. Primi anni del Novecento. Archivio storico del Comune di Trento, Archivio fotografico.


23 ne elettrica» fu promossa nel 1889, con il sostegno della ditta Siemens & Halske, presso alcuni spazi pubblici e nei locali dell’orfanotrofio maschile. Qui, «erano stati riprodotti gli ambienti di una casa operaia, di una borghese e di una signorile, altri locali fungevano da ristorante, negozio, officina e chiesa; in totale erano installate 500 lampade ad incandescenza e 16 lampade ad arco, mentre quattro elettromotori azionavano macchine da cucire, ventilatori e un laboratorio da falegname»12. Quale appeal ebbe sulla popolazione questa operazione? Su un prospetto descrittivo dell’impianto elettrico, redatto nel 1891 dalla «Sezione Elettrica» del Municipio, si legge: «Questa esposizione venne visitata da quasi tutti i cittadini e da migliaia di persone accorse dalle vicine città e borgate, e venne fatta allo scopo di dimostrare specialmente ai cittadini la varietà ed i vantaggi delle applicazioni elettrotecniche, per dare loro un’idea della spesa d’installazione che poteva convenire, e infine determinarli ad insinuarsi presto per l’introduzione dell’illuminazione e della forza motrice nelle loro case e nelle loro officine. Questo scopo venne raggiunto in modo veramente meraviglioso, perché ancor durante l’esposizione, la quale rimase aperta solo un mese, vennero insinuate circa 50.000 candele ad incandescenza, alcune lampade ad arco e 15 elettromotori»13. Il documento venne reso noto in occasione dell’esposizione elettrotecnica internazionale di Francoforte sul Meno. Dopo l’esempio del capoluogo trentino, numerosi altri municipi seguirono il passo. Ad Arco venne inaugurata una piccola centrale sul torrente Sarca nel 1892, a Pergine sul rio Negro nel 1893, a Rovereto in località «La Flora» sul torrente Leno nel 1899 (gli studi preliminari erano stati avviati già nel 1888) e a Riva del Garda sul torrente Ponale nel 1895. A questi esempi ne seguirono molti altri. La diffusione fu rapida e capillare. Nel 1902 si contavano in Trentino già 29 impianti idroelettrici di piccole o medie dimensioni14. Un numero, questo, destinato a crescere enormemente nei decenni successivi. Negli stessi anni nascevano i primi consorzi elettrici. Il dinamismo dell’iniziativa comunale, che tanto connotò la fase iniziale dell’industria idroelettrica in Trentino, si spiega alla luce del cosiddetto Risorgimento economico: il periodo collocabile negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, quando Paolo Oss Mazzurana ricoprì per più mandati il ruolo di podestà della città di Trento. Furono anni, questi, di riforme e di tentativi di riforme, volte a elevare in generale il benessere della popolazione e a livellare le differenze tra centro e periferia. Riforme in campo agricolo, industriale, viabilistico ed elettrico, che avrebbero dovuto condurre il Trentino verso un lento percorso di modernizzazione. Lo sviluppo dell’industria idroelettrica era uno dei pilastri principali di un più ampio modello di crescita, che prevedeva anche la costruzione di linee ferroviarie alimentate con la corrente elettrica, per favorire i collegamenti tra la città e le vallate15. Nelle politiche del Risorgimento economico di Mazzurana, come si può bene intendere, la fiducia riposta nella costruzione di centrali idroelettriche e nella loro implementazione aveva, dunque, finalità non soltanto economiche ma anche sociali e più velatamente politiche. Per una parte della classe dirigente e per una élite culturale della popolazione il progresso del territorio, le cui premesse poggiavano sull’idroelettrico, era visto quale momento di rivendicazione autonomista per il Trentino. Il podestà Paolo Oss Mazzurana. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio fotografico.


24 Centrale di Ponte Cornicchio, sala macchine. Le sei turbine Siemens & Halske da 140 cavalli l’una, ciascuna con una dinamo a corrente continua. Anni novanta dell’Ottocento. Archivio storico del Comune di Trento, Archivio fotografico. Vasca di San Donà presso Ponte Cornicchio. Anni novanta dell’Ottocento. Archivio storico del Comune di Trento, Archivio fotografico.


25 1 | Si vedano in particolare i contributi di Claudio Pavese: Le municipalizzate in Italia, 2000. 2 | Si ricordano in particolare gli studi e i lavori di Andrea Leonardi e di Andrea Bonoldi, per quanto riguarda la storia economica del territorio del Trentino e del Tirolo storico, e inoltre i contributi di Andrea Silvestri e Claudio Pavese, soprattutto in riferimento al contesto italiano. 3 | Così è stato ampiamente sottolineato da Andrea Leonardi. 4 | Si pensi ai più evidenti e noti esempi di Trento, con Ponte Cornicchio, e Merano con la Centrale di Tel, ma anche al caso di Rovereto, dove, nel 1888, si costituì un’apposita Commissione per lo studio di «una futura utilizzazione dei corsi d’acqua in rapporto all’energia elettrica». 5 | Le esposizioni nazionali e universali ebbero inizio negli ultimi decenni del Settecento, in Francia e in Gran Bretagna, e si diffusero in modo più consistente nella seconda metà dell’Ottocento nelle più importanti città del mondo. Si trattava di grandi fiere commerciali e scientifico-culturali che venivano organizzate come mostre-mercato. 6 | Per completezza, soffermandosi soltanto su alcuni dei nomi più importanti, si ricordano anche Francesco Brioschi (1824-1897, illustre matematico, fondatore del Politecnico di Milano), Guido Semenza (1869-1929, tra i nomi più importanti della Associazione elettrotecnica italiana e ingegnere di Edison), Giacinto Motta (1870-1943, imprenditore milanese per molti anni ai vertici di Edison), Giuseppe Volpi (1877-1847 imprenditore romano fondatore nel 1905 della SADE). 7 | Sull’importanza della figura di Ossanna, ingegnere e scienziato trentino, si vedano gli studi di Andrea Leonardi (2003). 8 | Tra gli altri, si ricordano Antonio Fogaroli (ingegnere civile di Trento e consigliere comunale laureato al Politecnico di Milano nel settembre del 1884), Domenico Fogaroli (1859-1905, ingegnere civile a capo della Sezione tecnico industriale di Trento e responsabile del servizio di illuminazione e luce elettrica per il Comune), Carlo Esterle (1853-1918, ingegnere trentino, direttore della Banca commerciale italiana e consigliere delegato della società Edison di Milano, che contribuì a sviluppare e risanare), Vittorio De Riccabona (1844-1927, eletto nel 1884 consigliere comunale a Trento, sposò le idee di sviluppo economico promosse da Paolo Oss Mazzurana, fu direttore della Cassa di risparmio di Trento, finanziatrice della centrale di Fies dal 1884 al 1912), Edoardo Gerosa (1862-1944, dal 1890 al 1905 fu direttore dell’Azienda elettrica municipale di Rovereto e dal 1911 al 1914 ingegnere municipale a Riva). 9 | Come riportato da Tommaso Baldo, ricercatore della Fondazione Museo storico del Trentino, nei suoi studi. 10 | Recentemente, il ruolo della centrale di Ponte Cornicchio è stato affrontato nei suoi aspetti storici e attuali (l’impianto, infatti, è tutt’oggi in funzione ed è stato da poco ristrutturato, gestito da Hydro Dolomiti Energia, una società appartenente al Gruppo Dolomiti Energia) nei lavori del convegno sui «100 anni della Sezione AEIT del Trentino - Alto Adige / Südtirol», promosso dalla Fondazione Museo storico del Trentino con la Sezione AEIT del Trentino - Alto Adige / Südtirol l’8 novembre 2019 presso il Muse. 11 | Andrea Leonardi: Il significato economico degli impianti idroelettrici della città di Trento e le valutazioni di Giovanni Ossanna, 2003. 12 | Così Tommaso Baldo nei suoi lavori. 13 | Prospetto descrittivo dell’impianto elettrico della città di Trento e dei risultati tecnici e finanziari del primo anno di esercizio (anno 1891), steso dalla «Sezione Elettrica» del Municipio. 14 | Il dato è riportato in un articolo di Emanuele Lanzerotti, apparso sulla «Rivista Tridentina» nel 1902. 15 | Si pensi per esempio all’inaugurazione nel 1909 della Tramvia elettrica extraurbana Trento-Malè, che collegava il capoluogo con le valli di Non e Sole.


27 2LE PRIME CENTRALINE IDROELETTRICHE IN VAL DI PEIO. L’acqua è una presenza importante nella Val di Peio. Ha modellato l’ambiente naturale e ha condizionato il paesaggio culturale. Ha influenzato i modelli di vivibilità tradizionali delle comunità locali, le economie di autoconsumo e sussistenza di un tempo, le attività recenti legate ai comparti turistici e industriali. L’abitato di Peio è incuneato fra i due rami del Noce, che ne delimitano i confini naturali: il Noce Bianco, proveniente da Malga Mare, e il Noce Val del Monte, proveniente da Pian Palù. Alimentati da vedrette e ghiacciai di alta quota, i due rami si uniscono nei pressi di Cogolo, dopo un lungo tragitto segnato da cascate tumultuose e schiumeggianti. Fin dai tempi antichi, l’abbondanza d’acqua di questi due torrenti, le particolari caratteristiche delle loro risorgive e la presenza dei nevai di alta montagna, che alimentano il reticolo idrografico del territorio, hanno consentito di sviluppare, a fianco della tradizionale economia agro-silvo-pastorale, fatta di una rete di malghe e baite a varie quote, una serie di altre attività legate a doppio nodo con lo sfruttamento della risorsa acqua. Si pensi al sistema di canalette irrigue per aumentare la produttività dei pascoli e per l’abbeveraggio del bestiame, ai mulini e alle forge poste lungo le sponde dei torrenti per l’utilizzo della forza motrice delle acque, alle attività di tipo industriale e di interesse turistico e curativo1 . L’acqua, in Val di Peio, è stata da sempre protagonista del sostentamento e del miglioramento del tenore di vita della popolazione. Una risorsa che, a far data dai primi anni del Novecento, ha acquisito rinnovata importanza in chiave energetica. Fin dai primi anni del secolo scorso, infatti, mentre in Trentino si diffondono i primi impianti idroelettrici presso le principali municipalità del territorio, anche la Val di Peio comincia a interessarsi allo sfruttamento delle acque per produrre energia. I primi dieci anni del Novecento rappresentano in questo senso un punto di svolta. Nel 1903 viene realizzato un piccolo impianto per volontà del Comune di Cogolo, poco a monte dell’abitato, con lo scopo di fornire elettricità alla popolazione del paese. Nel 1909 si provvede alla costruzione di una piccola centrale per iniziativa privata in località Acidule di Peio, con la finalità di fornire energia ai proprietari di alcuni alberghi delLo sfruttamento del Noce e il caso della Val di Peio


28 la zona. Le due iniziative, succedutesi a pochi anni di distanza, furono sostenute da attori differenti, portatori di interessi diversi: da un lato, l’amministrazione comunale, che operava per un fine pubblico, dall’altro, una società di privati, che agiva per le esigenze di un gruppo di strutture di accoglienza. Questi due impianti, recentemente descritti con dovizia di particolari e con l’indicazione di riferimenti archivistici da Marco Puccini2 , furono tra i primi in Val di Sole3 . Essi non nascevano per caso, ma in ragione di un contesto favorevole, che aveva visto maturare in Trentino le condizioni per lo sviluppo dell’industria idroelettrica. Come già anticipato nel capitolo precedente, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento anche i territori periferici, seguendo l’esempio delle principali municipalità di Trento e Rovereto, si stavano attrezzando mediante la costruzione di centraline finanziate dalle amministrazioni pubbliche, oppure da società consortili che facevano capo agli interessi di singoli cittadini o di piccoli gruppi di privati. Ottenere l’energia dai fiumi: era questa la sfida all’ordine del giorno. Lo scopo era quello di portare l’elettricità nelle case dei cittadini, migliorando così le condizioni generali di vita, e alimentare gli opifici delle attività industriali e artigianali, sviluppando in tal modo la produttività. La centralina del 1903 venne progettata due anni prima. Nell’ottobre del 1901 la rappresentanza comunale di Cogolo, riunitasi in seduta, formalizzava una richiesta di preventivo rivolta a Peter Majerhof di Provés, nei pressi di Rumo in Val di Non, un pioniere in campo elettrotecnico nella realizzazione di impianti idraulici. Anche se a consuntivo le spese superarono di gran lunga l’importo preventivato, l’impianto sarebbe dovuto costare 17.000 corone austriache. Fu steso così il progetto iniziale e, sulla base di questo, fu costruita la centralina. Le condizioni d’uso, in riferimento alla fornitura dell’elettricità per i censiti del paese, furono approvate nel 1902. L’impianto entrò in funzione nel gennaio del 1903. «L’autorizzazione – scrive Marco Puccini – alla derivazione di acqua nella misura di 50 litri al secondo dal Noce Pegaes (così veniva chiamato il Noce Val del Monte), per un periodo di 40 anni, fu sancita con decreto capitanale n. 21890 del 23 settembre 1903, sulla scorta della visita e trattativa commissionale del 18 settembre 1902 e del regolare collaudo». Così gli abitanti cominciarono a godere dei primi allacciamenti per la fornitura di energia. Dopo una fase iniziale, caratterizzata da una diffusa diffidenza presso la popolazione (non era scontato familiarizzare con un tipo di energia ancora sconosciuta4 ), i risultati positivi furono sotto gli occhi di tutti, tanto che gli amministratori del vicino Comune di Celledizzo fecero domanda per allacciarsi alla rete elettrica. Sulla spinta di questa esperienza, scaturì probabilmente l’iniziativa privata che portò pochi anni dopo alla costruzione della centralina degli «alberghi elettrici» di Peio. Il fine primario fu la volontà di «illuminare i caseggiati di questo rinomato luogo di cura» e fornire in loco una «decente illuminazione pubblica». Il funzionamento della centralina si basava sullo sfruttamento dei diritti d’uso del rio Val di Comasine. La domanda per la concessione della derivazione fu fatta dai proprietari degli alberghi nel giugno del 19095 . In agosto ci fu un sopralluogo, dal quale si apprende che l’impianto era già in funzione; in ottobre giunse l’autorizzazione formale. Gli ultimi lavori di messa a punto si conclusero nel luglio del 1910. A seguito del perfezionamento di ulteriori pratiche, l’impianto ottenne la concessione industriale di utilizzo nel 1914, con la denominazione di «Impianto elettrico industriale dell’Antica fonte di Peio». Questi due impianti, sorti a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, conobbero tuttavia percorsi diversi. Se la centralina degli alberghi di Peio sopravvisse a lungo nel tempo, più volte rinnovata e ammodernata per tutto il corso del Novecento6 , quella del Comune di Cogolo ebbe vita breve, cessando ogni esercizio nel 1924. La chiusura dell’impianto fu imposta, con consegna di tutti i macchinari, dai decreti di concessione che nel 1922 dettero il via libera alle società di capitali lombarde per la costruzione della diga del Càreser e dell’impianto di Malga Mare. Era cominciato su larga scala lo sfruttamento del bacino imbrifero dell’Alto Noce. L’epilogo dell’impianto di Cogolo sancì la fine di un’epoca: tramontava la fase del protagonismo comunale, quando le opere idroelettriche venivano finanziate con soldi pubblici per migliorare le condizioni di vita delle comunità locali, e si faceva strada il potere delle società di capitali. Tra gli impianti di piccole dimensioni, infine, vale la pena ricordare anche il caso dei fratelli Francesco e Angelo Dallatorre, i quali, proprietari di un mulino nei pressi di Celentino, avevano deciso, prima dello scoppio della Grande Guerra, di costruire una piccola centralina a corrente continua, sfruttando l’acqua del mulino. Tuttavia, il conflitto bloccò l’iniziativa. In seguito, nel 1920 e nel 1921, Francesco Dallatorre contattò le Officine Meierhofer, di Tassullo, alle quali commissionò i lavori per la fabbricazione della centralina, finalizzata alla produzione di corrente per le case di Celentino. Al termine dei lavori, le case della frazione ebbero la possibilità di avere alcune lampadine per l’illuminazione. La produzione di energia, condotta da Francesco, proseguì fino all’inizio degli anni trenta. Poi, la gestione passò al Comune: le famiglie pagavano una bolletta e il nipote di Francesco, Gianfranco Dallatorre, eseguiva la lettura dei contatori. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la gestione dell’energia confluì nelle attività all’azienda Edison.


29 Nei primi decenni del Novecento l’industria idroelettrica cresce molto rapidamente in Tirolo. Nel 1902 sono presenti in Trentino 29 impianti idroelettrici distribuiti nei principali comuni di quasi tutte le vallate7 . Alcuni anni più tardi, nel 1912 nel Regno d’Italia si contano 42 impianti elettrici gestiti da aziende municipalizzate8 . Nello stesso anno, nell’Impero Austro-Ungarico sono presenti 933 centrali elettriche, di cui 515 termoelettriche e 418 idroelettriche9 . Il numero degli impianti continuava ad aumentare, ma la titolarità dei soggetti giuridici che li finanziavano stava cambiando. I soggetti a capitale pubblico o prevalentemente pubblico furono soppiantati dalle società a capitale privato o prevalentemente privato. La classe politica e dirigente trentina era consapevole dell’enorme potenzialità che le risorse idrauliche del territorio rappresentavano per lo sviluppo futuro, in termini di approvvigionamento energetico. Il Tirolo meridionale era in questo senso un terreno di conquista. Alcuni numeri aiutano a comprendere le circostanze. Delle 933 centrali elettriche presenti nel 1912 nell’Impero Austro-Ungarico, 566 apparteneDALL’INIZIATIVA PUBBLICA AL POTERE DEI GRANDI CAPITALI PRIVATI. Una vecchia immagine dell’Officina elettrica di Malè, probabilmente scattata tra il 1899 e il 1902. Tratta dal documentario “L’epopea di Santa Giustina”, regia di Lorenzo Pevarello, una produzione della Fondazione Museo storico del Trentino, 2007.


30 Una veduta, da valle, dell’alveo del medio Noce, nei pressi di Cles, in Val di Non (sullo sfondo il Monte Ozolo), prima della costruzione della diga di Santa Giustina, fine anni quaranta del Novecento. Fondo fotografico Studio Ing. Claudio Marcello, Milano. Tratta dal volume “Anaunia. Storie e memorie di una valle”, 2018. Una veduta da monte dell’alveo del medio Noce, nei pressi di Cles, in Val di Non (sullo sfondo il Gruppo del Brenta), prima della costruzione della diga di Santa Giustina, nel 1934. Fondo Famiglia Giuseppe Ruatti, Cles. Tratta dal volume “Anaunia. Storie e memorie di una valle”, 2018. vano a imprese private, mentre 367 appartenevano a Comuni o Consorzi pubblici. La maggior parte degli impianti idroelettrici era stata realizzata sul versante Nord delle Alpi. Il versante Sud ne era più sguarnito. Per questo il Tirolo era molto appetibile. Inoltre, guardando con attenzione l’area a Sud delle Alpi, notiamo che qui aveva prevalso l’iniziativa pubblica, sia in termini numerici sia in termini di produttività: si contavano 30 impianti privati, con una potenza complessiva di 4.675 kW, e 48 impianti pubblici, con una potenza complessiva installata di ben 50.000 kW. Di questi 50.000, 20.000 spettavano al solo Consorzio Bolzano-Merano e 19.000 erano localizzati nel territorio dell’attuale Provincia di Trento. Il versante Sud delle Alpi, infine, era anche quello con le maggiori potenzialità di implementazione. Quanto rimaneva ancora da sfruttare? Le previsioni erano molto incoraggianti. Nel 1915 Emanuele Lanzerotti10 calcolava che in Trentino si potessero utilizzare per via idroelettrica 250.000 HP e che altri 100.000 HP si potessero ottenere dall’Alto Adige per un totale di 350.000 HP (pari a circa 250.000 kW). Gli impianti effettivamente realizzati fino a quel momento non superavano i 30.000 HP in Trentino e i 40.000 HP in Alto Adige. Altri studi, come quello autorevole di Giuseppe Revessi11, peraltro successivo, poiché pubblicato nel 1923, individuavano la possibilità di sfruttare nella Venezia Tridentina12 fino a 580.000 HP «in regime di magra – scriveva – e 1 milione di HP in regime di morbida». In un altro studio ancora, Edoardo Gerosa – responsabile dell’Uffico Tecnico municipale di Rovereto e primo progettista degli impianti municipali roveretani sul Ponale a inizio Novecento – era giunto alla conclusione che, nella regione, si potessero sfruttare «560 mila cavalli per le magre e 1 milione e 300 mila per le acque medie»13. Previsioni molto fiduciose, davvero ottimistiche. Ma, curiosamente, non abbastanza. Se confrontiamo tali cifre con quanto fu effettivamente realizzato negli anni successivi, osserviamo che, nel 1932, le


31 Una veduta da monte dell’alveo del medio Noce, nei pressi di Cles, in Val di Non (sullo sfondo il Gruppo del Brenta), dalla stessa prospettiva dell’immagine precedente, con il lago di Santa Giustina, 2018. Foto Marco Rauzi, Cloz. Tratta dal volume “Anaunia. Storie e memorie di una valle”, 2018. Nel 1950, durante i lavori di costruzione, un’immagine del cantiere dove stava «crescendo» la centrale di Taio (sulla destra si può vedere il tratto di strada provinciale che collega Taio con Dermulo), 3 marzo 1950. Fondo fotografico Studio Ing. Claudio Marcello, Milano. stime appena citate si rivelarono inferiori alla realtà. La classe politica trentina si sforzò di mantenere l’iniziativa economica in mano pubblica. Si voleva evitare che nuovi soggetti esterni a capitale privato espropriassero il Trentino da questo potenziale. S’intendeva scongiurare il rischio, come è stato scritto, di una «sorta di colonizzazione» esterna14. Tra gli altri, si distinsero in questo senso Emanuele Lanzerotti e Cesare Battisti, non senza rivendicazioni irredentiste15. Nonostante tali orientamenti e gli sforzi numerosi in questa direzione, già prima dello scoppio della guerra emersero i segnali di un forte cambiamento. Nel 1916 la Società Edison acquisiva quote rilevanti della Società Elettrica Bresciana (SEB), assumendone via via il controllo. Nei piani di Edison, l’operazione celava la volontà di espandersi, per contrastare altri gruppi industriali in via di formazione negli stessi anni, come la Società Adriatica di Elettricità. Le mire espansionistiche di Edison verso Nord puntavano, in modo nemmeno troppo celato, alla volontà di sfruttare le vallate del Trentino. Già all’inizio degli anni venti, ricorda Antonio Bernabè16, «il territorio italiano risultava suddiviso in almeno 5 sistemi elettrici principali, ciascuno guidato da una grande impresa con funzioni di capogruppo: Edison¸ Società adriatica di elettricità (SADE), Società idroelettrica Piemontese (SIP), Società generale elettrica tridentina (SGET), Società elettrica centrale, Società meridionale di elettricità (SME)». Si concludeva così la prima fase della storia dell’industria idroelettrica, quella liberale, a cui seguiva quella cosiddetta «fascista», dove i grandi capitali prevalsero non soltanto sulle municipalità, ma anche sugli stessi apparati di Governo, le cui politiche in tema energetico vennero etero-determinate dallo strapotere dei grandi gruppi industriali.


32 LO SFRUTTAMENTO DEL NOCE NEI PIANI DELLE POLITICHE ENERGETICHE DEL REGNO D’ITALIA. Nel primo dopoguerra l’economia del Regno d’Italia era in ginocchio, così come quella delle molte altre nazioni che avevano partecipato al conflitto mondiale. L’Impero Austro-Ungarico non esisteva più e il Trentino si trovava inserito nei confini di un nuovo Stato. Il trattato di Saint-Germain-en-Laye, siglato il 10 settembre del 1919 a margine della Conferenza di pace di Parigi, aveva decretato la dissoluzione definitiva dell’Impero Austro-Ungarico, ridisegnando i confini con il Regno d’Italia, che venivano tracciati sulla linea del Brennero: il Trentino passava all’Italia assieme all’Alto Adige. La decisione confermava quanto stabilito negli accordi segreti presi alcuni anni prima, nell’aprile del 1915, con il Patto di Londra. Su scala locale, relativamente al Tirolo meridionale, quella che per una élite di trentini – gli irredentisti – era sembrata una guerra di liberazione per l’affrancamento del Trentino dall’Austria, si concluse in realtà come una guerra di occupazione con l’annessione dell’Alto Adige al Regno di Italia. Il nuovo confine di Stato al passo del Brennero produsse nuovi scenari, in parte inattesi, che aprirono la strada alle politiche culturali di nazionalizzazione del fascismo, con effetti devastanti sulla popolazione sudtirolese di lingua tedesca. La guerra aveva interrotto in Trentino la realizzazione degli impianti idroelettrici, la cui diffusione era avvenuta nell’ambito dell’amministrazione austriaca. Con l’annessione del Trentino al Regno d’Italia, le domande di concessione per derivazioni idroelettriche cambiavano destinatario: non venivano più indirizzate a Vienna, ma a Roma, e qui presentate con relativi progetti al Ministero dei lavori pubblici, per poi ottenere il parere vincolante del Consiglio superiore delle acque. All’indomani del conflitto, dopo tanta miseria e distruzione, s’imponeva l’esigenza di rispondere a un’urgente necessità di ripresa e crescita del Paese. In una nazione, quale l’Italia, carente di materie prime e in particolare di risorse carbonifere, lo sfruttamento dell’acqua, presente in abbondanza nelle Alpi, divenne motore di sviluppo. Fu questa la via seguita dalle politiche del Governo negli anni venti e trenta: le richieste di concessione per l’utilizzo delle acque a fini idroelettrici trovavano dunque un clima favorevole. Di fronte alle numerose istanze che giungevano da più parti, il Ministero dei lavori pubblici adottò sostanzialmente tre criteri di selezione. Per sostenere la ricostruzione e il rilancio del settore industriale, si volle in primis promuovere quei progetti che proponevano lo sfruttamento più intensivo delle risorse idriche del territorio. In secondo luogo, vennero privilegiate le opere idrauliche che avrebbero garantito la maggiore produttività di energia elettrica. Per ultimo, furono preferiti i cantieri che prospettavano i tempi di realizzazione più brevi. Tali prerogative avvantaggiavano indiscutibilmente le società di grandi capitali. La capacità finanziaria dei soggetti proponenti divenne la principale discriminante ed ebbe l’effetto di annullare le proposte che giungevano dalle amministrazioni locali, le quali, tradizionalmente, soffrivano di scarse capacità d’investimento. Si aprivano le porte, insomma, ai grandi gruppi industriali, che riuscivano a ottenere cospicui finanziamenti dalle banche e coperture politiche nell’ambiente romano dei ministeri. Le grandi industrie, che agivano per interessi privati secondo le logiche del mercato, muovevano enormi quantità di denaro, così ingenti da condizionare anche il potere politico. Gli apparati amministrativi dello Stato fascista operavano in


33 condizioni di soggezione e la loro voce era debole sia ai tavoli tecnici sia ai tavoli politici. Le richieste per l’ottenimento delle concessioni di sfruttamento delle acque, finalizzate alla costruzione delle opere idrauliche, venivano rilasciate con leggerezza dagli organi fascisti e dal Genio Civile di Roma, che procedevano di fatto come «passacarte». La via dello sviluppo idroelettrico, percorsa in modo intensivo attraverso la realizzazione di grandi impianti in tutto l’Arco alpino, venne intrapresa sia in un’ottica di pragmatismo politico sia in chiave ideologica: se, da un lato, la produzione di energia idroelettrica serviva per sostenere la ricostruzione del tessuto economico-industriale, dall’altro, lo sfruttamento del «carbone bianco» era visto simbolicamente come via di riscatto per la rinascita del Paese. Un discorso, questo, che vale specialmente per il Trentino, dove si concentrarono in modo particolare gli interessi del Governo italiano e delle società di capitali. In tale prospettiva, per comprendere a fondo il ruolo che giocarono i territori montani e le vallate del Trentino, si considerino alcune cifre. Tra il 1918 e il 1932 la potenza installata in impianti ad acqua fluente17 aumentò di circa quattro volte in Piemonte e in Lombardia, di circa sei volte nella Venezia Euganea (gli odierni territori del Veneto e del Friuli) e di dieci volte in Trentino18. In questo contesto si inserisce lo sfruttamento intensivo dell’asta del torrente Noce. Da parte della Società Edison di Milano fu predisposto uno schema integrale di sfruttamento delle acque di tutto il bacino imbrifero. Situato a Nord-Ovest di Trento e delimitato dai massicci alpini del gruppo dell’Ortles Cevedale, della Presanella e del gruppo del Brenta, il bacino del Noce attraversa tre valli: la Val di Peio (nella parte più alta e tipicamente alpina), la Val di Sole (nella zona mediana e più soleggiata) e la Val di Non (nella parte inferiore, con le caratteristiche di un piccolo altipiano, che digrada dolcemente fino alle quote più basse della Piana Rotaliana, dove il Noce si getta nell’Adige). Per avere un quadro completo dei progetti di sfruttamento idroelettrico del torrente Noce, occorre guardare alle domande di utilizzo delle acque presentate alla fine del 1919 e ai decreti di concessione rilasciati a partire dall’inizio degli anni venti. Nei piani di Edison, il Noce doveva essere sfruttato interamente dalla sorgente alla foce, attraverso una serie di impianti a cascata che captavano le acque sin dalle sue origini (Noce Bianco e Noce Val del Monte) per restituirle all’alveo all’altezza di Mezzolombardo, poco prima della sua confluenza con il fiume Adige. Le opere idrauliche avrebbero così interessato il basso Noce in Val di Non, il medio Noce in Val di Non e in Val di Sole, l’alto Noce in Val di Peio fino ai piedi del ghiacciaio del Càreser. Per quanto riguarda il basso Noce, la prima istanza per l’utilizzo delle acque risale al 30 agosto 1919 e venne inoltrata all’Autorità distrettuale dalla Società industrie elettriche trentine (SIET)19, supportata da istituti bancari vicini a Edison (Comit, Credit e Bastogi). Sulla base di questa richiesta, l’istruttoria si concluse alcuni anni dopo con il rilascio della concessione di grande derivazione idroelettrica, assentita con Regio decreto dell’8 novembre 1928 a firma Vittorio Emanuele III. La concessione apriva la strada alla costruzione della diga di Mollaro, che avrebbe sbarrato il Noce nella bassa Val di Non, e del relativo impianto di Mezzocorona. I lavori per realizzare l’impianto idroelettrico erano già stati avviati nel 1926 e si conclusero alla fine del 1929. Il collaudato risale all’11 maggio 1930. La costruzione della diga iniziò invece nel 1928 e si concluse nel 1930. Il collaudo porta la data del 31 marzo 1931. Per quanto riguarda invece il medio Noce, il 30 aprile del 1923 la Regia sottoprefettura di Cles rilasciava alla SIET la concessione per costruire due impianti idroelettrici: il primo, più a monte, con derivazioni sul torrente Rabbiés (in località Pondasio) e sul torrente Noce (in località San Biagio) e con la realizzazione di una centrale nei pressi del paese di Bozzana; il secondo, più a valle, con la costruzione di uno sbarramento del Noce in località Santa Giustina, per dare origine a un serbatoio di 233 milioni di metri cubi di acqua e una centrale in sponda destra, tra gli abitati di Tassullo e Dermulo. L’impianto di Bozzana non fu mai concretizzato. Quello di Santa Giustina, i cui lavori iniziarono nel periodo tra le due guerre, fu concluso nel 1951. Per quanto riguarda, infine, lo sfruttamento delle acque dell’alto Noce, le prime domande, risalenti anch’esse al 1919, si conclusero nel 1922 con il rilascio della concessione (il decreto attuativo è del I ottobre) concernente lo sviluppo di ben sei opere idrauliche: gli impianti di Peio con la presa di Malga Mare, di Cogolo, di Cusiano-Noce, di Cusiano-Vermigliana, di Pellizzano e di Mezzana (Malè). Di questi sei impianti, soltanto quelli di Peio e Cogolo vennero effettivamente realizzati. Durante l’istruttoria, tuttavia, mentre le autorità portavano a compimento le pratiche per il rilascio della concessione, venne aggiunta «in coda» la costruzione del bacino del Càreser, che completava nella parte sommitale lo sfruttamento delle acque del Noce. La diga del Càreser diventava pertanto elemento centrale del sistema idroelettrico della Val di Peio.


34 LE GRANDI DERIVAZIONI IDROELETTRICHE IN VAL DI PEIO. Nel secondo semestre del 1920 il Commissario civile di Cles Giuseppe Alberto Ricci, competente per la valutazione delle domande di derivazione di acque pubbliche sul territorio, riceveva diverse richieste per lo sfruttamento ai fini idroelettrici del torrente Noce da parte di numerosi soggetti: enti pubblici, singoli cittadini e soprattutto società private. Le domande di concessione, corredate dai progetti di massima, presentavano ipotesi di sfruttamento più o meno intensivo del torrente Noce. Il primo progetto, la cui stesura risale agli anni antecedenti la Grande Guerra, era stato predisposto dall’Unione Trentina per le Imprese Elettriche (UTIE), cooperativa di secondo grado tramutatasi in Spa, con sede a Trento. Il secondo era stato presentato a Roma nel 1919 da parte della Società industrie elettriche trentine (SIET), con sede a Milano, per l’utilizzo del medio e basso Noce. Il terzo, depositato anch’esso nel 1919 dalla ditta Longhi&Co (degli ingegneri milanesi Longhi, Crosti e Menni), prevedeva, oltre alle derivazioni dell’alto Noce, anche quella della Vermigliana. Il quarto proveniva dalla Società Anonima Imprese Minerarie (SAIMT), con sede a Milano. Il quinto e ultimo era stato predisposto nell’autunno del 1920 dall’amministrazione provinciale per la Venezia Tridentina, a nome anche delle municipalità di Verona e Mantova. Nell’istruire le singole domande, il Commissario doveva risolvere gli aspetti di conflittualità e concorrenza che emergevano fra i progetti dei vari proponenti. Formalmente, la decisione gli spettava, quale autorità preposta, come stabilito dalla legge. E tuttavia, nella prassi, i suoi poteri risultarono assai depotenziati. Le società concorrenti, tramite manovre, contatti, pressioni e trattative incrociate, si scontrarono per l’aggiudicazione della concessione. Cedettero così le più deboli e prevalsero quelle con i capitali maggiori, che erano sostenute dai gruppi più solidi e che rispondevano, in definitiva, ai disegni di Edison. Vediamo come si svolsero i fatti. La UTIE, ancora nella fase iniziale dell’istruttoria, dichiarava di ritirare il proprio progetto. Tale scelta nasceva, con ogni probabilità, dal fatto che circa il 30% dell’azionariato della società era in mano alla bresciana SEB (Società Elettrica Bresciana), già satellite di Edison. Il progetto della ditta privata Longhi&Co venne ceduto per 50.000 lire alla società SIAN (Società Idroelettrica Alto Noce), che fu costituita nell’ambito di quella trattativa appositamente da Edison. Nel frattempo, la SIET acquistava per 250.000 lire i progetti dell’amministrazione provinciale per la Venezia Tridentina. Delle cinque domande concorrenti, quindi, rimanevano solo quella della SIET per lo sfruttamento idroelettrico del medio e basso Noce e quella della SIAN per lo sfruttamento dell’alto Noce. Ma anche la SIET, come la SIAN, era stata costituita da Edison. Appariva chiara, pertanto, la volontà di SIAN e SIET, entrambe emanazione di Edison, di far convergere in un solo progetto i piani di sfruttamento del Noce alto, medio e basso per l’ottenimento di un’unica concessione. L’iter istruttorio, riguardante la domanda di sfruttamento dell’alto Noce, si concluse con decreto di concessione emesso dal Commissario civile di Cles il I ottobre 1922. Pochi mesi dopo, veniva registrato l’atto di fusione fra le due società SIAN e SIET, sancito il 15 settembre 1923, dando corpo a un nuovo soggetto, la Società Generale Elettrica Tridentina (SGET). L’operazione di fusione, voluta da Edison, consentiva di mettere a fattor comune competen-


35 Planimetria generale del sistema di sfruttamento del basso e del medio Noce, con la rappresentazione del serbatoio e della diga di Santa Giustina, galleria di derivazione, pozzo piezometrico, centrale di Taio, galleria di scarico, serbatoio di Mollaro e diga di Mollaro. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Impianto idroelettrico di Santa Giustina sul torrente Noce. Progetto costruttivo ed esecuzione lavori dott. Ing. Claudio Marcello. Società Edison, Milano. ze tecniche e operative, staff di progettazione e direzione dei lavori, i progetti stessi nonché il cospicuo patrimonio. La concessione dell’ottobre del 1922 riconosceva il diritto «alla utilizzazione del Noce e affluenti, compresi quelli del Malghetto, delle Malghette, di Val Gelada e di Val Baselga e quelli del torrente Rabbiés allo scopo di produzione di energia elettrica in sei impianti». Di questi, come accennato prima, soltanto due furono realizzati: Peio e Cogolo (di cui ci occuperemo approfonditamente nel prossimo capitolo assieme alla diga del Càreser). I quattro impianti mai costruiti avrebbero dovuto avere le seguenti caratteristiche. L’impianto di Cusiano-Noce era previsto poco a valle della confluenza dei torrenti di Val del Monte e Val della Mare, dove si voleva realizzare una diga di sbarramento dalla quale dipartiva in sinistra orografica un canale, in parte a mezza costa e in parte in galleria, lungo 6.100 metri. Tramite questo canale, le acque giungevano in un bacino di carico; da qui dipartivano due condotte forzate, aventi un diametro di 850 mm. La centrale di Cusiano-Noce, posta a Nord-Est di Cusiano, sarebbe stata alimentata da una portata massima di 3,804 metri cubi, con un salto di 200,95 metri e una potenza di 10.900 HP. Le acque turbinate sarebbero state restituite, attraverso un canale, al torrente Noce. L’impianto Cusiano-Vermigliana doveva nascere a Sud-Ovest del paese di Pellizzano, dove si pensava di costruire le opere derivatorie dei torrenti Noce e Vermigliana, per convogliare le acque, tramite un canale in galleria, in destra orografica, in un bacino di carico collocato sul piede fronteggiante il paese di Cusiano. Da questo bacino si dipartivano due condotte forzate del diametro medio di 850 mm. La portata massima derivabile sarebbe stata di 4,450 mc, il salto utilizzabile di 225,60 metri, per una potenza di 13.360 HP. L’opera di sbarramento sul torrente Noce: il muro della diga ad arco di Santa Giustina in fase avanzata di costruzione, 19 novembre 1949. Fondo fotografico di Ing. Caudio Marcello, Milano.


36 Rappresentazione degli elementi idraulici del complesso sistema di sfruttamento delle acque del medio e del basso Noce. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Impianto idroelettrico di Santa Giustina sul torrente Noce. Progetto costruttivo ed esecuzione lavori dott. Ing. Claudio Marcello. Società Edison, Milano. L’impianto di Pellizzano avrebbe utilizzato le acque del lago del Malghetto, il cui livello sarebbe stato sopraelevato con uno sbarramento tipo Ambursen. La quota di massimo invaso doveva essere pari a 1.926 m.s.l.m. e l’altezza della diga di 44 metri, consentendo la creazione di un invaso di circa 14 milioni di metri cubi. La galleria di derivazione scavata in roccia e rivestita di calcestruzzo doveva essere lunga 3.383 metri. Durante il suo percorso avrebbe ricevuto le acque del secondo laghetto. Nel pozzo piezometrico si immettevano le acque derivate di Val Gelada e Val Baselga. Le condotte forzate sarebbero state due, del diametro di 750 mm; portata massima derivabile pari a 2,800 metri e potenza sviluppata dalle turbine pari a 28.000 HP. L’impianto di Mezzana (Malè), infine, avrebbe accolto le acque scaricate dalla centrale di Pellizzano, che sarebbero confluite in un serbatoio ottenuto con lo sbarramento del Noce tramite una diga alta 14 metri. La capacità utile del serbatoio doveva essere di 400.000 metri cubi circa. Il canale derivatore avrebbe convogliato una portata massima pari a 12 metri cubi e sarebbe confluito in un bacino di carico posto a monte dell’abitato di Malè; in detto bacino sarebbero confluite anche le acque derivate dal torrente Rabbiés, utilizzate nella centrale omonima. Sul torrente era previsto, infatti, uno sbarramento alto 1,50 metri con un bacino di decantazione, posto in destra orografica, da cui sarebbe dipartito un canale lungo 4.500 metri, confluente in un bacino di carico che avrebbe alimentato 4 condotte forzate. La centrale doveva sorgere in destra orografica del torrente Rabbiés e poco a valle della centrale di Malè. La portata massima derivabile si pensava fosse 5,5 metri cubi e la potenza sviluppata di 12.922 HP. Le acque turbinate sarebbero state restituite al torrente Rabbiés. Come accennato in precedenza, nella domanda originaria mancava l’interessamento della parte sommitale, quella a ridosso della vedretta del Càreser, ove nasce l’omonimo affluente del Noce Bianco. Tale «vuoto» veniva immediatamente colmato in modo inusuale dalla stessa SIAN, che durante la fase istruttoria, attraverso il proprio consigliere delegato, l’ingegnere Alessandro Taccani, presentava in data 24 luglio 1922 un «progetto complementare» per «la costruzione di un altro impianto idroelettrico immediatamente a monte della presa dell’impianto di Peio, chiamato impianto del Càreser» con una diga posta poco a valle del ghiacciaio del Càreser e la centrale in località Malga Mare. Il progetto venne accettato dal Commissario, inserito a pieno titolo nell’istruttoria in corso e conseguentemente aggiunto nell’atto finale del decreto di concessione. In quella sede venne così descritto come «settimo impianto».


37 1 | Per quanto riguarda le attività commerciali, si pensi alla Fonte Antica delle acque di Peio, in destra orografica della valle, ai piedi del Palon di Comasine. Con proprietà oligominerali, è utilizzata attraverso un impianto di imbottigliamento da diversi decenni. La prima bottiglia fu confezionata l'11 maggio del 1951. Commercializzato in tutta Italia e all’estero, questo prodotto ha reso celebre il binomio «Acqua Peio». Per quanto riguarda invece il comparto curativo, si ricordano il complesso delle Terme di Peio e, nel settore turistico invernale, il carosello sciistico della Ski Area Peio 3000. 2 | Gli articoli a cui si fa riferimento sono: La vecchia officina elettrica del Comune di Cogolo e Gli alberghi elettrici delle Acidule di Peio, pubblicati rispettivamente nei mesi di settembre e marzo del 2015. 3 | Prima del 1903 erano entrati in funzione soltanto l’impianto di Malè sul torrente Rabbiés (in esercizio dal 1899) e quelli che servivano gli opifici del Comune di Ossana, sul rio Foce di Valpiana, e di Mezzana, sul rio Spona. Anche in questo caso, si rimanda per approfondimenti all’opera di Marco Puccini: Ossana e le sue centrali idroelettriche, 2013. 4 | È il caso di sottolineare che alcune memorie locali, raccolte nella forma di testimonianza orale nel secondo dopoguerra, raccontano che gli anziani del paese, coloro che vissero a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, credevano che nei fili elettrici che portavano la corrente a servizio delle abitazioni passasse il petrolio. Si tratta di testimonianze, per così dire, di «seconda mano», persone che ricordano ciò che altri hanno raccontato loro, la cui attendibilità è talvolta incerta, passando necessariamente attraverso un tempo lungo e dilatato, che rende piuttosto fragili le fonti. E ciò nonostante tali ricordi sono rilevanti per valutare «empaticamente» il segno dei tempi e la portata del cambiamento. 5 | Così dai documenti del tempo, come riportato in Gli alberghi elettrici delle acque Acidule di Peio, Puccini, 2015. Si trattava in particolare dell’Hotel Zanella, dell’Hotel Brescia (poi Alpen), dell’Hotel Peio e dell’Hotel Europa. 6 | Il primo rinnovo della concessione porta la data del 1935, i primi lavori di potenziamento sono del 1959, i successivi sono del 1967 e del 1973. 7 | Emanuele Lanzerotti, La rivista Tridentina, 1902. 8 | Claudio Pavese, 2000. 9 | Claudio Pavese, 2000. 10 | Emanuele Lanzerotti, 1915. 11 | Giuseppe Revessi, 1923. 12 | All’inizio dell’epoca fascista, con il nome improprio di Venezia Tridentina erano stati chiamati i territori del Trentino Alto Adige. 13 | Edoardo Gerosa, 1921. 14 | Claudio Pavese, 2000. 15 | Si veda in proposito quanto detto nel capitolo precedente 16 | Antonio Bernabè: Avremo l’energia dai fiumi. Storia dell’industria idroelettrica in Trentino, 2015. 17 | Impianti ad acqua fluente, quelli cioè privi di opere di regolazione della portata. 18 | L’incremento maggiore di installazioni idroelettriche si verificò tra il 1929 e il 1932. 19 | Alla SIET si sarebbe poi sostituita, negli anni successivi, la Società generale elettrica tridentina (SGET), che, in data 7 gennaio 1925, presentava a sua volta una nuova domanda di sfruttamento del basso Noce, corredata di progetto a firma dell’ingegner Bruno Bonfioli (il cui nome ricorrerà spesso come primo progettista di tutte le derivazioni idroelettriche realizzate lungo l’asta del Noce).


39 3LE ORIGINI E GLI ASPETTI PROCEDURALI. La diga del Careser e l , impianto di Malga Mare Nei piani per lo sfruttamento delle acque del torrente Noce si fa strada fin da subito il progetto per la costruzione di un’opera idraulica anche in Valle di Peio. Le origini dell’impianto di Malga Mare e della diga del Càreser, infatti, risalgono all’inizio degli anni venti del Novecento. Nelle pagine precedenti abbiamo delineato l’iter burocratico a essi relativo; ora affrontiamo la questione. Da un punto di vista formale, le pratiche seguirono un corso inusuale, poiché – come si è visto, ma vale la pena ribadirlo – la domanda relativa alla costruzione della diga del Càreser fu aggiunta frettolosamente nel 1922 alla richiesta già presentata alcuni mesi prima per la costruzione degli altri impianti sull’Asta del Noce: quelli di Peio, Cogolo, Cusiano-Noce, Cusiano-Vermigliana, Pellizzano e Mezzana-Malè. Un iter istruttorio, quello intrapreso, che badava a ottenere il via libera alla costruzione della diga il più velocemente possibile, aggirando le lungaggini dei tempi di istruttoria normalmente previsti per le grandi opere di questo tipo. L’impianto del Càreser si collocò così a perfezionamento delle opere idrauliche per le quali era già stata istruita la richiesta di concessione, andando a completare il vasto disegno di sfruttamento integrale del torrente Noce. Posizionandosi a monte dei 6 impianti già preventivati, il Càreser veniva così descritto nell’istruttoria che avrebbe portato al rilascio della concessione: «Lo sbarramento del rio Càreser – si leggeva – verrà costituito da due dighe di 400 m. di raggio; la diga Sud avrà un’altezza di 48 m. con sommità a circa 2.600 m. s.l.m. e la diga Nord avrà un’altezza massima di 40 m. Lo sbarramento sarà in muratura di pietrame con malta di cemento. Il serbatoio avrà una capacità di circa 12 milioni di mc d’acqua. La condotta forzata sarà collocata in una trincea intagliata nella falda della montagna, che verrà poi ricoperta di pietrame, la sua lunghezza sarà di 1.700 m. e potrà derivare una portata massima di 2,4 mc/sec. La centrale verrà costruita in località Malga Mare e ospiterà le turbine di produzione con una potenza pari a 600 Kw». Durante la fase istruttoria della richiesta di concessione non furono presentate, né dai comuni né dai privati, vere e proprie istanze di opposizione, ma solo osservazioni e non vincolanti. Tali obiezioni furono risolte prescrivendo alla società SIAN di provvedere all’indennizzo dei terreni, di assicurare


40 l’esercizio delle derivazioni d’acqua esistenti per scopi irrigui, o di farsi carico della loro sostituzione, qualora necessario, attraverso fornitura di energia elettrica atta a garantire la funzionalità di mulini e forge. Ovviamente, tale obbligo poteva valere nei confronti di quelle derivazioni d’acqua regolarmente concesse e non anche per quelle che difettavano di un chiaro titolo di concessione. Quest’ultimo particolare creò non pochi problemi per tutti coloro che, non essendo in possesso di una concessione, derivavano acqua a vario titolo dal torrente. Fra gli obblighi, fu anche inserito l’abbattimento di piante per il recupero dei legnami, il cui utilizzo rientrava nelle disponibilità delle comunità locali. Per quanto riguarda, infine, le derivazioni di sorgenti che alimentavano acquedotti comunali, veniva prescritta la loro totale tutela o ripristino attraverso rifacimenti e ricerca di nuove risorgive, atte a soddisfare le esigenze potabili delle comunità. In sintesi, gli obblighi posti al concessionario di impianti idroelettrici rispondevano all’esigenza di rispettare tutti i diritti di derivazione d’acqua preesistenti. Eventuali sottensioni sarebbero state opportunamente indennizzate. Nella prosecuzione delle fasi istruttorie, i «tecnici edile e forestale nonché i periti in materia di agricoltura e il perito geologo e idraulico», presenti a nome della pubblica amministrazione, non sollevarono obiezioni o prescrizioni particolari. Nella determina, il Commissario accoglieva le osservazioni presentate dai Comuni e dai privati e sanciva due princìpi fondamentali. Il primo sottolineava la finalità pubblica dei lavori per la costruzione delle opere idrauliche, collocando conseguentemente in secondo piano gli interessi dei privati, dei proprietari ma anche quelli delle piccole comunità locali. In merito, la determina sanciva senza equivoci «l’efficacia di dichiarazione di pubblica utilità» dell’impianto idroelettrico e si pronunciava Mappa della diga del Càreser. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Diga del Càreser. A gravità massiccia, in calcestruzzo. Gruppo Edison, Società Edison, Impianti idroelettrici del Noce (1928-1934). Collezione Francesco Framba, Peio. Rappresentazione delle opere di presa, del serbatoio artificiale, della condotta forzata e della centrale di Malga Mare. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Diga del Càreser. A gravità massiccia, in calcestruzzo. Gruppo Edison, Società Edison, Impianti idroelettrici del Noce (1928-1934). Collezione Francesco Framba, Peio.


41 contemporaneamente sulla necessità di «espropriazione dei diritti di servitù di acquedotto e di passo, rispettivamente delle aree occorrenti per l’esecuzione delle opere di presa, dei bacini, canali, edifici, piazze di deposito e di tutte quelle aree (…) permanentemente o provvisoriamente necessarie per portare a compimento le opere progettate». La dichiarazione di pubblica utilità consentì alla SIAN di contenere notevolmente i costi degli indennizzi e di programmare con maggiori certezze la durata dei lavori, evitando procedimenti di opposizione e lunghe trattative con i proprietari sulle entità dei risarcimenti. Di fatto, la «pubblica utilità» delle opere relative alla costruzione degli impianti idroelettrici garantiva alla società concessionaria, pur essendo un soggetto privato, di operare con un grande potere contrattuale nei confronti di privati e Comuni: per la SIAN, la logica del massimo vantaggio con il minimo costo. Il secondo poneva l’accento sulla lunga durata della concessione in oggetto e sul legame tra questa e gli enormi capitali richiesti per il finanziamento dell’opera. Sul punto, la determina ribadiva che, «avendo riguardo all’ingentissimo capitale richiesto per portare a compimento l’impresa e al periodo non insignificante di tempo», occorreva garantire che la concessione venisse «impartita per anni 80, calcolati dalla data del presente decreto». Si ribadisce qui, di fatto, che i progetti presentati, poiché garantiscono un significativo sfruttamento della risorsa acqua e una notevole producibilità di energia, divengono opere di interesse generale, per la cui concreta realizzazione debbono essere garantite adeguate disponibilità finanziarie («ingentissimo capitale») alla ditta SIAN (Edison). Attraverso la lettura di questo atto di concessione, che riporta, come si è visto, la data del I ottobre 1922, comprendiamo quale sia stato l’approccio politico-amministrativo nei confronti della costruzione della grande opera e nei rapporti con le società che chiedevano la concessione: un atteggiamento che potremmo definire di favore o, comunque, di particolare attenzione verso i grandi gruppi finanziari del Nord Italia. Sono proprio questi gruppi, dove si concentravano potere e capitale, i protagonisti del cambiamento: all’inizio degli anni venti del secolo scorso le grandi società si sostituiscono in campo idroelettrico all’iniziativa delle municipalità, che, fino a quel momento, si erano distinte in Trentino nel ruolo del «Comune imprenditore». Diga principale e dighette laterali del serbatoio del Càreser, da valle. Veduta aerea, 2006. Archivio del Servizio prevenzione rischi, Ufficio dighe della Provincia autonoma di Trento.


42 Ottenuta la concessione, i lavori di costruzione dell’impianto di Malga Mare non iniziarono immediatamente, perché fu necessario depositare presso il Ministero dei lavori pubblici il progetto definitivo delle opere che, in origine, la SIAN (poi SGET) intendeva realizzare. Studi, rilievi, misurazioni, valutazioni tecnico-economiche si susseguirono con una certa intensità fino a quando, il 12 luglio del 1928, la SGET depositava il progetto esecutivo a firma degli ingegneri Bruno Bonfioli e Pietro Crosati. Poco dopo, nel febbraio del 1929, il progetto fu corredato da un ulteriore elaborato suppletivo, dove comparivano alcune varianti che dovevano essere opportunamente autorizzate. Mentre si completavano gli atti autorizzativi, la società avviò il cantiere già nell’estate del 1926. La pianificazione dei lavori ottimizzò al meglio i tempi di inizio della produzione idroelettrica, in modo da poter procedere prima possibile alla vendita dell’energia prodotta. Per questo motivo, nella fase iniziale si procedette alla costruzione del fabbricato centrale di Malga Mare, con la dotazione dei macchinari di produzione e trasformazione, e alla realizzazione della linea di trasporto dell’energia. Contestualmente, si condussero gli scavi della galleria che doveva ospitare la condotta forzata. Per il trasporto di materiali e persone da valle verso monte, e viceversa, fu costruito un carrello. Si raggiungeva, così, la zona dove era prevista la costruzione della diga, a ridosso della valle della vedretta del Càreser. Nell’estate del 1928 presero avvio anche i lavori di costruzione della diga. All’epoca, la diga del Càreser, posta a 2.600 m. s.l.m., risultava l’opera di sbarramento più alta d’Italia e una delle più alte d’Europa. Mentre si dava avvio ai lavori preparatori per la predisposizione delle fondazioni della diga, si procedeva, a ritmi serrati, nella realizzazione dell’opera di presa della derivazione dal lago del Càreser, nella posa della condotta forzata in galleria e nell’approntamento dei collegamenti con il gruppo di produzione in centrale. Con i cantieri ancora in piena attività, la Società presentava, nel febbraio del 1930, a firma dell’ingegnere Bruno Bonfioli, un’ulteriore variante al progetto, che prevedeva un innalzamento della diga di 4 metri e conseguente aumento dell’invaso utile a 15,31 milioni di metri cubi e la derivazione del lago delle Marmotte e del lago Lungo. La variante venne approvata dal Consiglio Superiore dei lavori pubblici nel maggio 1930. Nel dicembre del 1931, fatte alcune prove di funzionamento, la SGET veniva autorizzata all’inizio dell’esercizio provvisorio dell’impianto, che, in attesa della costruzione della diga e del conseguente invaso del bacino al Càreser, poteva funzionare ad acqua fluente per alcuni mesi dell’anno. Da quel momento, ebbe inizio così la produzione di energia elettrica. Infatti, nel verbale di visita per l’accertamento dello stato di avanzamento dei lavori, predisposto dal Genio Civile di Trento nel dicembre del 1931, si premetteva che il progetto esecutivo del 22 febbraio 1930, preparato dalla SGET, prevedeva «l’attuazione di un complesso di varianti rispetto all’originario progetto di massima concernenti in particolare le opere di regolazione dei deflussi e di derivazione complementare del lago delle Marmotte e del lago Lungo». Tenuto conto di tali varianti veniva però constatato che le opere derivatorie dal lago del Càreser erano state effettivamente completate (salvo la derivazione del lago delle Marmotte e del lago Lungo), come pure risultava completata la galleria di derivazione, la posa L’IMPIANTO IDROELETTRICO DI MALGA MARE.


43 della condotta forzata, l’installazione in sala macchine della centrale del gruppo di produzione e del trasformatore, da cui dipartiva la linea di trasporto dell’energia prodotta. E infine, la costruzione del canale di scarico che convogliava le acque turbinate nella vasca di carico del sottostante impianto di Cogolo. Fatte tutte queste verifiche, il Genio Civile autorizzava la SGET a iniziare l’esercizio provvisorio dell’impianto. La variante più significativa, inserita nel progetto esecutivo del 1930, consisteva nell’aumento della capacità del serbatoio del Càreser dagli originali 12 milioni ai 15,3 milioni di metri cubi. Per ottenere tale risultato, il progetto di Bonfioli prevedeva non solo l’innalzamento della diga principale, ma anche il completamento dello sbarramento con la realizzazione di altri due muri di contenimento. I lavori di costruzione della diga principale del Càreser e di quelle di dimensioni minori poste lateralmente furono affidati all’impresa SALCI (Società Anonima Lavori e Costruzioni Idrauliche) di Milano e la direzione lavori all’ingegnere Carlo de Riccabona. Dagli atti di collaudo della diga, che portano la data del 6 luglio 1936, si desumono alcuni dati interessanti, che danno sinteticamente la dimensione dell’intervento e dei lavori effettuati: «Scavi in roccia 43.660 metri cubi; getti in calcestruzzo 187.000 metri cubi, di cui per la diga principale 133.450; fori per iniezioni e drenaggi 3.286 metri e cemento iniettato 182 quintali; intonaco sul paramento di monte della diga 1.305 metri quadrati». Il primo invaso del serbatoio fu effettuato il 29 ottobre del 1931, raggiungendo con il livello del lago la quota di 2.550,16 m. s.l.m. Nella primavera del 1932 si procedette allo svaso completo, a cui seguì in settembre un nuovo invaso. I lavori furono ultimati nel 1934 e le operazioni di invaso e svaso proseguirono per il collaudo dell’opera, fino al giugno del 1935. Nel 1938 la SGEC presentava al Genio Civile di Trento un’ulteriore variante, sempre a firma dell’ingegnere Bonfioli, che riguardava l’utilizzazione dei laghi delle Marmotte e Lungo. Tale variante includeva la captazione delle acque a una quota più alta, in modo da evitare l’ipotesi iniziale, quella che aveva previsto la costruzione di due distinte derivazioni con sovralzo del lago Lungo e impianto di pompaggio. Complessivamente le derivazioni (principali e sussidiarie) sottendono un bacino imbrifero pari a 13,4 chilometri quadrati. Nel 1939 vennero realizzate le opere di presa sull’emissario del lago delle Marmotte e sull’immissario del lago Lungo; le acque così derivate venivano poi convogliate tramite un canalino a mezza costa, lungo 2.050 metri, nel lago Nero, posto poco a monte del serbatoio del Càreser. Da qui, tramite cascatella, giungevano nel serbatoio stesso. Le condizioni di lavoro della manodopera a quelle quote, in alta montagna, durante tutto il periodo di costruzione della diga e delle opere accessorie, erano durissime. Si ipotizza che il solo cantiere del Càreser nel pieno della sua attività occupasse circa 700 operai. I lavoratori provenivano sia dai paesi della Val di Peio, della Val di Sole e della Val di Non, sia da zone limitrofe o lontane. In questo caso erano composti da squadre di migranti, che giungevano prevalentemente dal Nord Italia. Tra di loro bellunesi, friulani e lombardi1 . A causa delle difficoltà, dei rischi e del pericolo costante a cui erano costretti gli operai, gli anni della costruzione della diga del Càreser rappresentano ancora oggi una ferita aperta per una parte della comunità. La successiva descrizione delle opere principali dell’impianto di Malga Mare e della diga del Càreser fornisce ulteriori elementi per comprendere quanto e quale impegno lavorativo sia stato profuso nella realizzazione del progetto. Centrale di Malga Mare, 1997. Fondo fotografico Pedrotti, Trento.


44 Planimetria della diga del Càreser. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Diga del Càreser. A gravità massiccia, in calcestruzzo. Gruppo Edison, Società Edison, Impianti idroelettrici del Noce (1928-1934). Collezione Francesco Framba, Peio.


45 Profilo longitudinale della diga del Càreser, vista da monte. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Diga del Càreser. A gravità massiccia, in calcestruzzo. Gruppo Edison, Società Edison, Impianti idroelettrici del Noce (1928-1934). Collezione Francesco Framba, Peio. LA DIGA DEL CÀRESER E LE SUE CARATTERISTICHE. Durante la fase di scavo delle fondazioni della diga si sono riscontrate due faglie. Per la loro chiusura si è dovuto «approfondire» il taglione in calcestruzzo di una decina di metri. La diga è del tipo a gravità massiccia con andamento curvilineo, che chiude due delle gole generate dal rio. Lo sbarramento si completa poi con la realizzazione di altre quattro piccole dighe, che precludono altrettanti avvallamenti: una in sinistra (alta 8 metri e lunga 21) e tre in destra orografica. Una di queste, contigua alla diga principale, è tracimabile e ha un’altezza massima di 8 metri e una lunghezza di 185 metri. Le altre sbarrano vallette laterali e hanno le seguenti caratteristiche: altezza 6 e 14 metri, sviluppo 42 e 54 metri. La diga principale, alta 62 metri rispetto al piano di fondazione, ha uno sviluppo del coronamento pari a 444 metri. Il volume della diga principale è di 190.000 metri cubi e di quelle laterali sussidiarie di 10.000 metri cubi. Gli inerti necessari per la realizzazione del calcestruzzo furono ricavati dal terreno alluvionale, che si trovava all’estremità della piana del Càreser. Le produzioni massime giornaliere di calcestruzzo furono pari a 1.250 metri cubi, quella mensile pari a 19.480 metri cubi, quella in una stagione lavorativa pari a 59.300 metri cubi. La capacità utile del serbatoio è di 15.274.000 metri cubi con quota di massima ritenuta pari a 2.598,80 m. s.l.m. solo per il periodo estivo e pari a 2.597,60 m. s.l.m. nel periodo invernale. La quota di minimo invaso è di 2.551,00 m. s.l.m. Nel 1942 è stato autorizzato il sovralzo estivo dell’invaso di 1,00 metri, portando la quota di massimo invaso a 2.599,80 m. s.l.m.; ciò ha comportato la costruzione di un parapetto alto 0,80 metri sulla dighetta in sponda sinistra e sulle due dighette in sponda destra, portando la soglia dello sfioratore fisso alla quota 2.599,80 m. s.l.m., nonché l’innalzamento di 1,00 metri della paratoia automatica a bilanciere. Tale aumento di invaso fu autorizzato per incrementare la producibilità dell’impianto durante la fase bellica e post-bellica. In sponda destra la diga è dotata di uno scarico di superficie, con una paratoia automatica a bilanciere, normalmente abbattuta per non consentire un aumento del livello dell’acqua oltre la quota di 2.598,00 m. s.l.m.; anche la prima dighetta che prosegue lo sbarramento ha una funzione di scarico di superficie con soglia tracimabile fissa a quota 2.599,80 m. s.l.m. e lunga 102,00 metri. Nel corpo principale della diga è ricavato lo scarico intermedio, costituito da due tubazioni parallele del diametro di 1,50 metri, intercettate da paratoie piane. In corrispondenza della gola di sinistra vi è poi lo scarico di fondo, costituito da una tubazione del diametro di 1,20 metri, intercettato verso monte da una paratoia piana e verso valle da una valvola a fuso. Questi tre scarichi possono convogliare verso valle una portata di 94,00 metri cubi al secondo. L’opera di presa della derivazione è posta in sinistra orografica con imbocco della galleria a quota 2.549,00 m. s.l.m., su cui è sistemata una griglia di protezione e poco più a valle è montata la paratoia di intercettazione. La galleria di derivazione in pressione, nel suo tragitto iniziale, lungo 175,00 metri, ha un diametro di 1,80 metri; dopo questo breve tratto, vi sono gli organi di intercettazione e di collegamento con la condotta forzata, che risulta posizionata in galleria con a fianco il carrello per trasporto materiali e persone. La condotta forzata è lunga 1.695,00 metri e ha un diametro variabile da 0,90 a 0,85 metri, consentendo la derivazione di una portata massima pari a 3,00 metri cubi al


46 secondo e operando un salto pari a 635,90 metri. In prossimità della spalla sinistra della diga è stata realizzata la casa dei guardiani, al cui interno vi sono i quadri comando degli organi di scarico e dell’opera di presa. La diga è dotata di una complessa strumentazione di controllo e di un sistema di monitoraggio automatico con teletrasmissione dei dati. Risulta ancora oggi raggiungibile dal piazzale antistante la centrale di Malga Mare, oppure attraverso il carrello in galleria posto a fianco della condotta forzata, oppure a piedi mediante i sentieri che salgono dai paesi di Cogolo e Celledizzo (sentieri SAT n. 109, 140 e 123). Va segnalato che il ghiacciaio del Càreser è uno di quelli che sta maggiormente soffrendo per il riscaldamento globale. Per la sua configurazione e orientamento a Sud-Ovest «arriva a perdere il doppio di molti altri ghiacciai»2 . Se ai primi del Novecento raggiungeva e lambiva il laghetto del Càreser, dove oggi esiste il bacino e la diga, attualmente la sua «lingua» si trova a una quota di oltre 350/400 metri più in alto, con un arretramento di oltre un chilometro. A conferma della criticità in cui versa, basti ricordare che la SAT (Società degli Alpinisti Tridentini), nell’estate 2010, si vide costretta a modificare sostanzialmente il percorso del sentiero di attraversamento della vedretta. La riduzione della massa complessiva del ghiacciaio comporta una conseguente riduzione della disponibilità futura di acqua che, attraverso il processo di scioglimento, rappresenta l’alimentazione principale del serbatoio del Càreser. Sezione della diga del Càreser sullo scarico di fondo. Elaborazione grafica tratta dalla brochure divulgativa Diga del Càreser. A gravità massiccia, in calcestruzzo. Gruppo Edison, Società Edison, Impianti idroelettrici del Noce (1928-1934). Collezione Francesco Framba, Peio.


47 LA CENTRALE DI MALGA MARE. La centrale è costituita da un fabbricato in stile alpino con capriate in legno e facciate rivestite in parte in pietra del luogo. La configurazione della pianta è rettangolare e si pone con orientamento ortogonale rispetto alla condotta forzata proveniente dalla diga del Càreser. Sul lato destro è ricavata la sala macchine, con il gruppo generatore dotato di tutte le apparecchiature elettriche e nella parte sinistra è installato il trasformatore con l’apparecchiatura di uscita della linea. Il gruppo generatore con turbina Pelton, ad asse orizzontale, ha una potenza di 12.500 kW, con relativo alternatore sincrono della potenza di 13.800 kVA. La stazione di trasformazione a 132 kV, con un’unica sbarra, alimenta una linea collegata con la centrale di Cogolo. L’acqua, turbinata dalla macchina di produzione, viene convogliata nel canale di scarico che sottopassa il piazzale antistante alla centrale, supera il Noce Bianco con un ponte canale munito di sfioratori, che eliminano le portate in eccesso, restituendole all’alveo del torrente e, infine, confluisce nella vasca di carico relativa al sottostante impianto idroelettrico di Cogolo. In origine, il funzionamento della centrale era del tipo automatico, in parallelo con la centrale di Cogolo. Successivamente, nel 1977, il funzionamento è stato automatizzato e telecomandato dalla centrale di Santa Massenza. La tipologia dell’impianto, viste le dimensioni dell’invaso creato con la diga del Càreser, è classificabile come grande derivazione idroelettrica a serbatoio stagionale. La producibilità media annua di energia è pari a circa 26,90 GWh/anno (26,90 milioni di kWh/anno). La concessione, definita attraverso il collaudo dell’impianto, comprende i seguenti dati: portata media concessa pari a 0,561 metri cubi al secondo, quella massima pari a 3,00 metri cubi al secondo; il salto è pari a 621,47 metri e la potenza nominale media è di 3.417,84 kW. Opere di sbarramento al Piano del Càreser durante i lavori per la costruzione della diga, fine degli anni venti del Novecento. Fondo fotografico Famiglia Moreschini, Peio.


48 L’abitazione degli ingegneri impegnati in montagna nella direzione dei lavori per la costruzione della diga del Càreser, 19 agosto 1928. Fondo fotografico Famiglia Moreschini, Peio. La diga del Càreser, 10 settembre 1933. Fondo fotografico Famiglia Moreschini, Peio.


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