Difficile fu la tesatura dei conduttori: si trattava infatti di stenderli senza far toccare loro l’acqua; operazione
complessa realizzata in tempi successivi e complicata dall’improvviso passaggio di una petroliera che non
ebbe ad osservare i segnali di divieto che da giorni bloccavano lo Stretto. Le operazioni iniziate il 15 luglio e
la cui fine era prevista per il 30, furono terminate solo alle ore 15:40 del 22 settembre 1955 con l’ormeggio
dei conduttori sulle due sponde…
Vedi Pagano Francesco, Il Pilone di Torre Faro, su ganzirri.it, 20 agosto 2007. I due grandi piloni furono
progettati dall’ingegnere Arturo Danusso nel 1948.
Vedi pure di Vito Segantini, Un precedente quasi sconosciuto del ponte di Messina, in “Galileo”, n.248,
p.126
5- L’ipotesi di una teleferica la suggerii come ipotesi di lavoro ad un mio laureando, vedi in nostro Sorvo-
lando Le acque, una funivia e un Museo Ologrammatico per lo Stretto di Messina, in Luigi Marco Sturniolo,
Recupero delle torri di ammaraggio di Riccardo Morandi, in “Città e territorio”, n-2-3-4, marzo agosto, 2011.
6-Vedi il nostro Il Gorgo e la Rocca, tra Scilla e Cariddi territori della mente, Giuditta, Roma-Catanzaro
1995, p.202. L’idea di Achille Baratta e Massimo Majowiecki nasce da un sistema molto simile collaudato in
Svizzera negli anni 70 , realizzato a Mannheim in Germania. Il progetto dei due ingegneri appare elegante
nei piloni di sostegno, e la rete dei cavi molto deve alla suggestiva immagine del ponte Musmeci. L’idea
della teleferica, che si è aggirata tra gli addetti ai lavori, per lungo tempo dopo il nostro suggerimento del
1995, meriterebbe un approfondimento, non come alternativa al ponte che assolverebbe altri compiti, ma
piuttosto per congiungere ancora di più le sponde magari a partire dalle propaggini aspromontane per finire
nei Peloritani.
7- Vedi Società Generale Elettrica della Sicilia, L’attraversamento elettrico dello Stretto, cit. pp.182-187.
Vedi inoltre Riccardo Morandi, Complesso delle torri di ammaraggio e dell’hangar macchine – Calcolo delle
strutture in calcestruzzo precompresso, sistema ‘Morandi’, 4 fascicoli, Roma, 8 novembre 1954; e L’inizio
14 dei lavori per l’attraversamento dello Stretto di Messina con elettrodotto a 220 kv, in “l’Ingegnere” n.3, 1952.
Cogliamo l’occasione per ribadire la necessità che ambedue i sistemi di ammaraggio tesatura e contrap-
pesatura presenti a Capo Peloro in Sicilia e a Caporafi in Calabria, oltre ai tralicci ancora in buono stato,
meriterebbero di essere inseriti a pieno titolo entro la cultura dell’Archeologia Industriale di cui a lungo si
occuparono Eugenio Battisti, prima, e Aldo Castellano in tempi non sospetti.
Il materiale ancora esistente richiederebbe una conservazione e manutenzione adeguata e la necessità di
un luogo o museo che ne potesse conservare memoria.
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Maurizio Sacripanti. Città - Ponte, 1965
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Un singolare precedente:
La Città-Ponte sullo Stretto
di Maurizio Sacripanti
Di soli quattro anni precedente al famoso concorso del 1969 e a
soli 3 anni dal mitico 68, in uno studio romano, forse sotto l’effetto
dionisiaco di un vino suggeritore, come si affrettano a racconta-
re alcuni esegeti,1 Maurizio Sacripanti, architetto sui generis, mette in
moto, nel 1965, attraverso modelli tridimensionali, persino sgangherati,
la sua idea di Città-Ponte per lo Stretto di Messina.
Diciamo subito che, almeno da ciò che ci è pervenuto, non vi è nessuna
indagine sulle coste, nessuna tensione progettuale a rendere evidente
il luogo del canale di Sicilia, come se questo in astratto fosse interioriz-
zato nell’esercizio di esplorazione formale, come se questo fosse ne-
gletto e destinato ad essere rievocato solo nel ricordo, come un dato
acquisito, come una certezza che non necessita di ulteriori conferme.
Eppure è proprio il luogo che surrettiziamente avanza nella proposta
sacripantiana, un luogo altro, un luogo sospeso, ed etereo, un luogo
di mezzo intravisto fugacemente, ma quanto basta ad ipostatizzare un
progetto. La città Ponte sullo stretto altro non è che una Morgana irrigi-
dita, una morgana antiprospettica nel senso rinascimentale, una mor-
gana che sostituisce ai raggi di luce le griglie filamentose e rigide dei
metalli come se questa grande nasse di tre chilometri potesse adagiarsi
o sospendersi nell’etere del canale.
E gli elementi ci sono tutti, l’aleatorietà del progetto, la sua fugacità
eppure la sua consistenza, la smaterializzazione degli elementi, la so-
vrapposizione di piani, la pluriscalarità, la melodia sonora di qualcosa
che sta sopra e sotto al contempo, una sorta di Eufonia, la sinestesia
tra le arti messe in campo.
La Città-Ponte non è solo una critica spietata alla città contemporanea
fatta di spazi che si susseguono ma un prototipo teorico di comporta-
mento urbano, un modello sperimentale, un coagulo di relazioni spa-
ziali.
Questa Città di Frontiera che affronta l’utopia, cercandone una presa
consistente, aleggia sulle acque specchiandosi come Narciso, l’alto e
il basso la destra e la sinistra, hanno ragione di coesistere fanno parte
della medesima partizione simbolica di chi non crede più nella classicità
degli allineamenti, nella giustapposizione delle parti, bensì in un organi-
smo che perdendo la centralità del suo essere esplode in lastre e piani,
magari seguendo la lezione De Stijl, piani e lastre che si sovrappongo-
no, si inseguono e in cui la strada centrale altro non è che un sintomo
debole che ci aiuta a ricucire il tutto, come un filo che si introduce nella
trama del tessuto o nella rete smagliata di corpi architettonici in libertà.
Dove avrebbe potuto ambientare la sua Città di Frontiera,2 se non nello
Stretto? Dove avrebbe potuto collocare questa architettura dell’altrove
se non nella grande nasse liquida tra il Peloro e la vastità dello Jonio?
Del progetto sacripantiano rimangono poche tracce per lo più fotogra-
fiche, ma quanto basta ad impegnare in letture circostanziate circa un
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Maurizio Sacripanti. Città - Ponte, 1965
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Maurizio Sacripanti. Città - Ponte, 1965 - Modello modo di intendere l’architettura con visioni pluriprospettiche, cinetiche,
fluttuanti e mobili, un’anticipazione della liquidità coniata da Bauman
anni dopo, un’utopia che si insinua prepotentemente nel percorso pro-
gettuale dell’autore.
Forse è vero, tra Yona Friedman e i metabolisti, tra Kenzo Tange e la
città in acqua nella baia di Tokio passano dei parallelismi, così come
tra le ardite strutture di Ron Herron degli Archigram la “Plug-in City” e
la “Walking City” e le ipotesi urbane di Superstudio, e i nascenti grup-
pi Radicals in Italia, o il Megabridge di Raimund Abraham sempre del
1965, ma la città rete è altro, denuncia dell’esistente e proposta per
il futuro. E se può venire in mente a primo acchito il nome di Richard
Buckminster Fuller per l’arditezza della concezione spaziale, il nome
vero da associare a quello di Sacripanti in tale contesto è quello di Kon-
rad Wachsmann che più di chiunque elabora strutture a rete comples-
se dove il modulo come categoria ultima si innerva nel reticolo infinito
come il globo, lo notava Argan, fino a renderlo autonomo e incontrasta-
to elemento primo.
La Città-Ponte di Sacripanti proviene, poi, da molto lontano, dalla La-
puta di Swift, o dalla Struttura sopra Parigi di Albert Robida, quando
dall’onnipresente Grandiville de l’Outre Monde. Persino i Planiti di Ka-
zimir Malevic del 1923-24 si affacciano prepotentemente le Flyin Cites,
le Città volanti come volante sembra essere la città sacripantiana.
Nella pittura trova i suoi precedenti nelle filiformi città sospese e appe-
se di Paul Klee, si pensi ad un’opera come Luogo eletto del 1927, o nei
parenti prossimi delle opere di Achille Perilli e Gastone Novelli, artisti da
lui introdotti nel mondo architettonico.
Il terreno in sostanza era pronto, la cultura Utopica aveva riattecchito
in Italia grazie agli studi di Firpo, e una nuova ondata di suggerimenti
andava prospettandosi, il nostro autore si muove tra queste opzioni
che si tenta di ricongiungere: una esaltazione dell’elemento tecnologico
ricondotto alla sua dimensione umana, ed uno slancio visionario verso
strutture che, perdendo la corporeità ed il peso, si elevano muovendosi
nello spazio, che sia il padiglione cinetico per Osaka, o il macchinoso
quanto affascinante teatro per Cagliari.
Ciò che vuole dirci l’autore è che l’architettura ha una sua autonomia
implicita, come una persona agisce nello spazio persino muovendosi,
ed in tale movimento trascina con sè i moduli che la compongono come
l’uomo i suoi organi. Una sorta di monstrum perennemente cangiante
per una città metamorfica composta da sistemi che interagiscono flut-
tuando nello spazio.
Se avrà un seguito nei successivi progetti dedicati al ponte sullo stretto
forse esso va ricercato nell’anello proposto da Perugini: anch’esso una
città-territorio sospesa sulle acque a riprova di come il tema fosse pie-
namente cosciente nella cultura architettonica del periodo.
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Sul progetto della Città-Ponte di Sacripanti
colloquio con Franco Purini
MS - Franco che ruolo hai avuto nella redazione del progetto?
FP - Nel progetto del Ponte sullo Stretto ho avuto il ruolo che ho sempre
esercitato nella mia lunga collaborazione con Maurizio Sacripanti, il mio
maestro. Egli amava discutere attentamente i progetti in elaborazione,
spesso con toni poetici e visionari. Anche il suo rapporto con gli archi-
tetti con i quali spesso sviluppava le proprie idee nei concorsi, come ad
esempio Andrea Nonis e gli ingegneri Pellegrineschi e Perucchini, era
intenso e profondo. Fabrizio Frigerio e io lo ascoltavano cercando di
tradurre le sue parole in schizzi, schemi planimetrici e sezioni. Il lavoro
di trascrizione delle sue idee poteva durare molto a lungo. Io conser-
vo il ricordo di questi momenti come una preziosa testimonianza di un
modo di creazione di un’architettura straordinariamente vitale. Per con-
cludere direi che il mio ruolo nel progetto del Ponte sullo Stretto è stato
quello che avevo avuto al mio arrivo nello studio di Sacripanti, ovvero
produrre schizzi, mettere a punto piante, sezioni, prospetti e disegnare
prospettive. Se non sbaglio il progetto per il Ponte sullo Stretto fu fatto
dopo la consegna del 1965 del concorso per il Teatro Lirico di Cagliari.
In quegli anni Sacripanti non aveva opere in costruzione. Precedente-
mente aveva portato a termine una piazza a Perugia, il Quartiere Santa
Lucia a Verona per l’IACP e un intervento residenziale per dipendenti
del Ministero degli Esteri sulla Via Cassia. Negli anni in cui sono stato
nel suo studio il suo lavoro consisteva principalmente nel fare ricerca
nei concorsi e, come nel caso di quello, vinto, per il museo di Padova
degli Eremitani, a Padova svilupparlo per costruirlo. Cosa che poi non
avvenne, come non ebbe purtroppo seguito il progetto per l’Ospedale
per Silicotici a Domodossola, che piacque anche a Le Corbusier. Il pe-
riodo in cui egli cominciò a realizzare le sue opere più avanzate, a parte
i numerosi allestimenti e la scuola di Molfetta e una casa per lo scultore
Castelli a Rimini, venne dopo, quando la mia collaborazione con lui si
era interrotta da tempo. In breve, sono stato nel suo studio dal settem-
bre del 1964 alla fine del 1968. Dopo una mia permanenza di due anni
a Milano, per lavorare con Vittorio Gregotti alla Rinascente a Milano per
la progettazione delle sedi di Palermo e Torino, tornai a collaborare con
Sacripanti per il progetto della Chiesa Matrice di Partanna, nel Belice,
e per la sistemazione del Monumento ai Caduti a Cassino, di Umberto
Mastroianni.
MS - Esistono ulteriori disegni che illustrano ad esempio le sponde ca-
labra e sicula, sembra che l’interesse per il luogo sia dato per scontato,
come acquisito, esistono riflessioni sull’area dello Stretto?
FP - Non esistono studi, ipotesi o disegni sulle sponde calabrese e si-
ciliana dello Stretto perché il progetto era in un certo senso esterno a
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quei luoghi. La sua collocazione fu una scelta ideale che prescindeva da
analisi sulla condizione paesaggistica e insediativa del contesto. In un
certo senso si trattò di un’esercitazione astratta, espressione di un inten-
zionalità utopica alla quale il sito conferiva una risonanza mitica.
MS - In quel periodo a quali influenze era attento Sacripanti, ad esempio
noto riflessioni sull’architettura Radical, Achigram, Metabolisti, Fuller ma
io credo anche Wachsmann.
FP - Il progetto fu pensato e rappresentato soprattutto da un modello,
che fu oggetto di continue modificazioni prima di arrivare alla fase di cui
esistono le fotografie. La sezione prospettica che esiste, l’unico dise-
gno prodotto, fu eseguita da Fabrizio Frigerio. Sacripanti non subiva l’in-
fluenza di altri autori contemporanei. Si era formato nell’ambito formale
dell’architettura di Adalberto Libera, aveva eseguito nello studio di Mario
De Renzi i disegni per la palazzina Furmanik a Lungotevere Flaminio.
Conosceva l’architettura a lui contemporanea ma ascoltava soprattutto
la sua voce interiore, il suo talento naturale, le sue intuizioni, sempre ori-
ginali e spesso del tutto innovative. Per quanto ricordo di quella fase del
suo lavoro – e non è poco – non s’interessava agli architetti radicali, ad
Archigram, ai metabolisti e a Buckminster Fuller. Aveva però sul tavolo
la monografia di Konrad Wachsmann con la prefazione di Giulio Carlo
Argan, che lui seguiva nel suo percorso storico-critico. A questo proposi-
to voglio ricordare che il riferimento a Wachsmann fu fondamentale per
il suo Teatro Lirico di Cagliari, che in un plastico precedente la soluzione
definitiva – Sacripanti lavorava molto con memorabili modelli, eseguiti
quasi sempre, tranne quelli di studio, dallo scultore Clementi – si presen-
tava come un parallelepipedo chiuso animato da un gioco grafico di se-
gni studiato dal pittore Achille Perilli. Riflettendo sull’opera dell’architetto
tedesco, al quale si debbono per inciso due opere romane, che non so
se Sacripanti conoscesse, egli quasi improvvisamente decise di configu-
rare l’involucro del teatro con una struttura spaziale, tratta proprio dalle
proposte wachsmanniane. Comunque l’influenza di questa grande figura
non durò a lungo. Se ne trovano tracce evidenti nel progetto dell’Ospe-
dale per silicotici a Domodossola e, più labili, in quello per il Museo degli
Eremitani a Padova. Nelle opere più tarde, realizzate, mi sembra pre-
valga infatti una interpretazione poetica del Brutalismo, soprattutto nella
Scuola di Sant’Arcangelo di Romagna. Per quanto riguarda il rapporto
con l’arte va riconosciuto che la consuetudine prima con il grande Mario
Mafai, poi soprattutto con il già citato Achille Perilli e con Gastone Novelli
fu per Sacripanti essenziale, così come il suo grande interesse per la
scienza. Sacripanti fu vicino all’arte programmatica e cinetica, dalle quali
trasse molti motivi per le sue ricerche mentre un altro spazio fondamen-
tale del suo lavoro deriva dalla psicologia junghiana Sulla sua scrivania
c’era sempre il libro L’homme et ses symboles, pieno di immagini, di Carl
Gustav Jung.
MS - Le frequentazioni con Pellegrin hanno avuto, secondo te, influenze
sul progetto?
FP - Il rapporto di reciproco scambio tra Sacripanti e Luigi Pellegrin è
successivo agli anni in cui collaborai con lui. Penso che in tale dialogo, di
cui si trovano prove provenienti nei progetti dei tardi anni Settanta e dei
primi Ottanta, il ruolo di Pellegrin sia stato più determinante e incisivo,
con esiti secondo me non positivi sull’architettura sacripantiana, che al
fondo aveva una matrice razionale e al contempo emozionale. Nell’archi-
tettura prevaleva invece una ricerca figurativa nella quale la tecnologia
assumeva un valore che superava ampiamente i contenuti formali dell’e-
dificio, Contenuti che per Sacripanti rimanevano costanti, nonostante il
suo dichiarato interesse per la tecnologia stessa, fondamentali.
MS - Potresti descrivere un po’ il clima entro il quale è stata esplorata la
Città-Ponte, e parlo soprattutto di convivialità nello studio.
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FP - Il clima che si visse durante la progettazione del Ponte sullo Stretto
era quello solito dello studio. Sacripanti riceveva molti amici, che lo an-
davano a trovare senza preavviso. Ricordo il pomeriggio in cui vennero
Joseph Rykwert e Roberto Calasso, che poi divenne il direttore della
casa editrice Adelphi. Si accese subito un indimenticabile scambio di
opinioni sull’esoterismo e la Cabala. Ogni giorno le discussioni ferve-
vano. L’atmosfera era sempre tesa verso la ricerca di nuove soluzioni.
Per un paio di mesi, con Fabrizio Frigerio, sperimentò ad esempio, sulla
base dell’invenzione degli overcraft, un armadio che si spostava me-
diante un getto d’aria alla sua base realizzando un piccolo modello. Alla
grande creatività Sacripanti univa un altrettanto notevole generosità.
Non amava le gerarchie, trattava i suoi collaboratori con grande rispetto
invitandoli a continue rimesse in discussione di ciò che si era acquisito.
Ricordo che la sera, dopo una intensa giornata, si andava con lui da
Rosati dove conosceva tutti, e con tutti – grandi personalità di quel pe-
riodo – seguitava a confrontarsi su tutti gli aspetti centrali della vita. Gli
Anni Sessanta sono stati, dal punto di vista culturale, forse la migliore
stagione romana del Novecento, e Sacripanti ne è stato senz’altro un
protagonista.
MS Esiste altro materiale oltre quello in archivio all’Accademia di San
Luca, e tu allora avevi fatto qualche schizzo?
FP - Non credo. Non ricordo di aver fatto schizzi o disegni per il Ponte
sullo Stretto. Eseguii invece una prospettiva per il progetto di ricostru-
zione del Ponte di Ariccia, parzialmente crollato nel 1967. Un proget-
to autocommissionato con l’ingegnere Martinelli che non ricostruiva
le campate distrutte, ma colmava il vuoto che si era creato con una
avveniristica struttura ad anelli in cemento armato, una soluzione tec-
nologicamente avanzata e spazialmente molto suggestiva. Non ho più
trovato nelle mostre che ci sono state su Sacripanti questo progetto ed
è un peccato perché era un’opera di grande importanza strutturale e
formale.
MS - Quando Sacripanti ha cominciato ad usare le reti metalliche per i
suoi modelli?
FP - Il primo uso delle reti metalliche che ho conosciuto direttamente
è quello relativo al piccolo modello del Teatro Lirico di Cagliari. Que-
sto piccolo oggetto fu fotografato a studio da Ugo Mulas per la rivista
Domus, che poi se lo portò a Milano per ulteriori scatti e poi lo rinviò a
Roma.
MS - Chi ha suggerito gli schemi di lettura del progetto città-Ponte che
vedo nel saggio in AAA dedicato a Sacripanti?1
FP - Quel saggio, che ho letto con interesse, mi sembra un lavoro fatto
con passione ma sostanzialmente impreciso. Se è vero infatti che la
ricerca sacripantiana ha elementi in comune con coeve esperienze ita-
liane e straniere sotto il segno dell’utopia e del radicalismo, non è vero
che si svolgesse all’interno di eventuali influenze di queste esperien-
ze su di essa. Un lavoro caratterizzato da un’originalità assoluta, frutto
di un autoisolamento monastico in un immaginario del tutto personale.
L’unica influenza rintracciabile, già da me ricordata, quella di Konrad
Wachsmann, era ad esempio completamente reinventata da lui, oltre a
essere stata limitata nel tempo.
MS - Secondo te l’anello di Perugini per la città territorio sullo stretto ha
debiti con Sacripanti?
FP - Credo che l’anello di Giuseppe Perugini non abbia alcun rapporto
con l’idea sacripantiana. Per concludere queste risposte voglio ricorda-
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re un aspetto nella mia lunga collaborazione con il mio maestro. Dopo il
mio primo lavoro nello studio, quello per il Teatro Lirico di Cagliari, trovai
il mio nome tra gli autori. Avevo ventitré anni quando eseguii la sezio-
ne prospettica del progetto. Mi sembrava un atto generoso da parte di
Sacripanti l’avermi inserito in quell’elenco, ma ero convinto che fosse
immeritato. Ringraziandolo per la sua generosità gli dissi che, se avessi
continuato a lavorare da lui – cosa che avvenne – preferivo non compa-
rire più tra gli autori dei progetti. Retrospettivamente penso che questa
mia decisione fosse dovuta al fatto di non legare troppo il mio nome a
una ricerca per me straordinariamente formativa ma, a un livello diver-
so, non corrispondente del tutto al mondo architettonico al quale tende-
vo, un mondo nel quale l’anonimato delle forme si sarebbe confrontato
con soluzioni linguisticamente inedite, dal forte carattere concettuale.
Quando Sacripanti parlò in un intervista del progetto per il Padiglione di
Osaka, del 1968, disse che io avevo trovato un modo efficace di rappre-
sentare la sua idea, ma che lui aveva dovuto stemperare il disegno per
renderlo meno assertivo. Non ho più visto quella prospettiva, che forse
fu distrutta proprio da quell’intervento. Quel momento, e quell’episodio,
sono stati per me un ideale passaggio di testimone. Devo molto della
mia formazione, se non tutto, a Sacripanti. Gli devo anche la diversità
della mia architettura dalla sua.2
Maurizio Sacripanti. Città - Ponte, 1965 - Modello di studio
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Note
1-Vedi di Eliana Capiato, Giovanna Cresciani, Francesca Romana Forlini, Matteo Flavio Mancini, Immagini
di città, riflessioni di una città-ponte nella mente di Sacripanti, in AAA Italia, Progettare il mutevole, Nuovi
studi su Maurizio Sacripanti, numero speciale, dicembre 2017, anno 16, dove leggiamo a p.5: “Purtroppo,
del progetto irrealizzato di Messina esistono solamente sei foto, relative a due diversi plastici, e uno schiz-
zo prospettico2. Due foto raffigurano il primo plastico di studio, approssimativo e caotico, le altre due foto
invece rappresentano il secondo modellino appartenente ad un diverso momento progettuale. Esso infatti
evidenzia uno stadio più avanzato della progettazione, rendendo più leggibili le componenti della città di
Sacripanti. Le due distinte fasi del progetto per la città rappresentano qui due aree di studio separate, l’una
maggiormente legata alla sfera del linguaggio utilizzato dall’architetto, l’altra riferita alla sfera della rappre-
sentazione grafica. Entrambe risultano comunque interconnesse, come se fossero due lembi di terra da
cui il percorso di definizione dell’idea di città è iniziato e si è concluso, scavalcando un’immaginaria linea
di frontiera.”
2- Maurizio Sacripanti, Città di frontiera, Bulzoni, Roma 1973. Vedi pure M. Sacripanti, Un geroglifico
spazio-temporale, in «Lineastruttura» 1, 1966; di M.L. Neri, L. Thermes (a cura di), Maurizio Sacripanti
maestro di architettura 1916-1996, in Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università
degli Studi di Roma “La Sapienza”, 58/59, Roma 1998 (con A. Giancotti e C. Serafini).
Devo a Franco Purini l’avermi suggerito il progetto di Sacripanti, progetto dove lo stesso Purini vi colla-
borò. Del progetto sono conservati in archivio, fondo Sacripanti conservato all’Accademia Nazionale di San
Luca, 7 negativi (disegni; modello). Dopo aver redatto lo scritto di cui sopra chiesi, in una breve intervista a
Franco Purini, ulteriori informazioni circa la realizzazione del progetto sacripantiano. Riporto qui di seguito
l’intervista del 28/05/2018
Vedi ancora Maurizio Sacripanti, Architettura, a cura di Maria Garimberti e Giuseppe Susani, Cluva, Ve-
nezia 1979.
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“Il titolo più appropriato per un uomo capace di conce- Il Concorso Internazionale di idee
pire e costruire una struttura è ‘architetto’”. per il collegamento stabile
“…La vera difficoltà risiede nella nostra mancanza di viario e ferroviario fra
intuizione statica ed architettonica, e nella difficoltà a
svilupparla. (…) In altri termini noi non siamo ancora la Sicilia e il Continente del 1969
abituati a pensare la statica attraverso la forma”.
Pier Luigi Nervi, Pensare la statica attraverso la forma,
in “Costruire correttamente”, Hoepli, Milano 1965.
Ideato e promosso in piena contestazione, ad un solo anno dalla data
storica del ‘68, il ponte tentava di scavalcare nell’opera contraddizio-
ni insite nel paese, come di chi scavalca con un solo gesto ostacoli
presenti, i progetti si presentano pertanto come frutto dell’intelligenza
ingegneristica e architettonica del momento. Il 28 maggio 1969 l'ANAS,
in collaborazione con l'Amministrazione delle Ferrovie dello Stato, ban-
disce il famoso -Concorso Internazionale di idee per il collegamento
stabile viario e ferroviario fra la Sicilia e il Continente. Vi partecipano
in 143, ma solo 85 proposte soddisfano le richieste del bando; in sei
2 vincono il primo premio ex equo e altri sei il secondo premio. La pluri-
premiazione non consentirà di valutare più nello specifico la soluzione
più soddisfacente, probabilmente generando una altrettanta confusione
circa la tipologia da adoperare. Il concorso ha un merito: l’immaginario
investe soprattutto la definizione dei piloni reggenti sottoposti a multiple
interpretazioni di cui non si conserva traccia intenzionale oggi.
Cinque delle proposte presentavano la soluzione per un ponte sospeso
o strallato, ad una o più campate, 19 proponevano la soluzione a tunnel
sottomarino in alveo o subalveo, i rimanenti 12 vedevano le soluzioni
più insolite: dighe di collegamento tra la costa calabra e la sicula, istmi,
ponti galleggianti.1
Tutte soluzioni legittime capaci di spostare l’immaginario oltre le con-
suete forme conosciute.
3 Tra questi sei progetti, uno prevede il passaggio sottomarino, gli altri un
attraversamento tramite ponti sospesi a una o più campate.
La commissione giudicatrice composta dall’allora presidente dell’ANAS
e da esperti e docenti universitari vide pure la presenza autorevole di
Riccardo Morandi che da esperto aveva dato prova di sé in moltissime
occasioni tra cui, solo per restare in area calabra, la splendida opera
del ponte ad arco sulla Fiumarella: il viadotto Bisantis a Catanzaro del
1962, purtroppo tristemente noto come ponte dei suicidi!2
Succesivamente al concorso lo stesso Morandi, tra il 1971 e il 1989,
non si sottrae al tentativo di risolvere il problema del ponte realizzan-
done uno con tralicci retti da cavi che a loro volta sostengono i tiranti,
4 in una suggestiva immagine dove sembra che le strutture si inseguono
sovrapponendosi e dando l’illusione spaziale di un continuo avvicina-
mento al centro del canale.3
Un ponte paesaggio che tenta di dialogare con l’intorno, o come direbbe
Franco Purini in quella “… concezione fortemente narrativa delle strut-
ture, quasi esse fossero la forma fisica di un racconto di un’architettura;
un’idea profondamente ‘urbanistica’ della relazione tra un manufatto e
il suo ambiente”.4
Come ricorda Leo Finzi, Morandi, “esplorò così una serie di alternative
per la conformazione degli orditi dei cavi e pendini, per l’aggiunta di
stralli nella zona terminale, alternative idonee a contenere la deformabi-
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lità dell’impalcato entro i limiti imposti dall’Amministrazione ferroviaria”.5
Morandi nel convegno in merito al Concorso del 1969 fa intendere e
neppure velatamente l’incompletezza degli studi in merito alla realizza-
bilità dell’opera Ponte escludendo che “oggi si possa parlare di scelta
di questo o quel progetto o di questa o quella soluzione”. Per ragioni di
correnti marine esclude qualsiasi soluzione che possa ridurre sensibil-
mente la luce di efflusso e con questo, dice: “ritengo di ave fatto giu-
stizia di ogni progetto che abbia previsto la costruzione di moli, dighe,
6 anche di sviluppo parziale, oppure di qualsiasi manufatto che obblighi a
sollevare con opere stabili il fondo marino”. Stessa critica, con altre os-
servazioni, è rivolta alla soluzione della galleria sotterranea: “larghezza
della galleria non inferiore a 32-33 metri; opposizione dei turisti i quali si
rifiuteranno di andarsi a cacciare in un lunghissimo buco per almeno tre
quarti d’ora e perdere così la visione di uno dei più bei attraversamenti
della terra”, aggiungendo difficoltà viarie. La soluzione della galleria flot-
tante per Morandi presenta le stesse difficoltà del tubo di cui sopra a cui
vanno aggiunte difficoltà circa la manutenzione, esposto, il manufatto,
a tutte le aggressioni fisico-chimiche del mare. Optando per la soluzio-
ne del ponte fa rilevare che possono inscriversi nelle seguenti cate-
gorie: 1-più luci, ciascuna dell’ampiezza minima di ml.1000; 2-più luci,
con luce maggiore dell’ampiezza compresa tra i ml 1300 …e ml 1800;
3-una sola luce dell’ampiezza di circa ml.3000. L’intervento si concentra
7 in seguito sulla natura del terreno, sull’ingombro delle fondazioni, sui
metodi di esecuzione delle fondazioni: pur dimostrando le sue perples-
sità dovute alla stabilità aerodinamica dell’opera; alla deformazione di
essa al passaggio del traffico soprattutto ferroviario, alle difficoltà che
si intravedono nella costruzione dell’opera, alla rispondenza dell’opera
specialmente nei riguardi dell’alta sismicità della zona; alla congerie di
difficoltà di carattere tecnologico, tenendo conto che le difficoltà della
conquista di una luce libera aumentano con legge esponenziale.
Malgrado le giuste critiche aleggia in sottofondo, e neppure tanto vela-
tamente la voglia e idea di realizzarlo lui, Morandi, questo ponte, forse
da tale intendimenti deriva pure il fatto che non si sia optato per un uni-
co vincitore del concorso.
8 Come suddetto vengono assegnati sei primi premi e sei secondi premi
e si adotta l’idea di premiare le migliori soluzioni per i tipi di proposte.
Si classificano al primo posto il gruppo di Sergio Musmeci; il gruppo
Ponte di Messina SpA che coinvolse nel team lo studio Svedrup&Parcel
and Ass.; il gruppo di Eugenio Montuori, Lionel Pavlo e Leo Calini e il
gruppo Technical di Giulio Trevisan; il gruppo dell’Ing. Guido Lamberti-
ni e infine fu premiato il ponte tubolare subacqueo coordinato da Alan
9 Grant & Partners.
Tra i secondi premiati i gruppi guidati da: Pier Luigi Nervi; Giuseppe
Samonà, Rosario Caltabiano, il progetto Zancle80 coordinato da Miche
Mangeri e infine veniva assegnato un premio al tunnel sommerso incas-
sato in una diga del gruppo Quade, Douglas Parsons&Brinkerhoff; e il
tunnel sottomarino dell’impresa Costruzioni Girola.
Tra le varie proposte si segnalavano l’anello di Giuseppe Perugini e il
dotto ellittico sommerso e strallato al fondo di Giovanni Morabito che si
avvaleva della soluzione di due testate progettate da Costantino Dardi.
10 Ma veniamo più nello specifico alla descrizione dei progetti presentati
che nel loro insieme configurano una moltitudine di proposte che hanno
visto le migliori forze nel campo dell’ingegneria e dell’architettura con-
frontarsi su questo tema del colossale per una infrastruttura imparago-
nabile.
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Il ponte di Sergio Musmeci e Ludovico Quaroni nel gruppo composto
da, G. Barbaliscia, S. Dierna, F. P. D’Orsi Villani, G. Esposito, A. Quistel-
li A. Rinaldi, non ha eguali per qualità visionaria e conoscenza struttu-
rale. Nelle parole di Bruno Zevi ne constatiamo la fase aurorale: “Dopo
vari tentativi, Musmeci una notte ebbe un’improvvisa folgorazione. Si
precipitò da Zenaide e le disse: ’Forse ho scoperto l’uovo di Colombo.
Io disegno un ponte di due chilometri anziché di tre. Poi elimino i piloni
sostituendoli con cavi di sospensione che riportano pesi e tensioni alla
sommità delle antenne”.6
Sia la proposta di Musmeci che quella (lo vedremo successivamente)
di Pier Luigi Nervi, come vuole Tullia Iori “… abbandonavano lo schema
13 tradizionale per tentare avveniristiche sperimentazioni statiche e forma-
li. Da quali premesse partivano le due proposte? Per entrambi i proget-
tisti, il cruccio principale consisteva nell’intrinseca instabilità trasversale
dell’impalcato dei ponti sospesi. Questo infatti va dimensionato in modo
che la sezione trasversale possa assorbire le sollecitazioni orizzontali
dovute al vento e limitatamente a questo aspetto si comporta come una
trave appoggiata alle due estremità sui piloni. Inoltre deve avere una
sufficiente rigidità torsionale per sopportare senza danno i fenomeni
di autoeccitazione che si manifestano inevitabilmente per ogni profilo
investito da una corrente fluida.”7 Ma il ponte di Musmeci più etereo, si
staglia su un orizzonte come la tela di un ragno, avvolge lo spazio cir-
costante con leggerezza fino a far scomparire la struttura portante, ren-
dendo il paesaggio dell’intorno come compartecipe dell’opera. I piloni di
sostegno, nella loro asciuttezza, denunciano l’essenza della loro fatica
14 riducendo i pesi che sollevano fino a renderli evanescenti.
Uno spettro di funi e tensioni in cui la forma più economica nel senso
miesiano trova la sua struttura portante come conseguente. Musmeci ci
aveva abituati ad altre impennate simili, ricordiamo il ponte sul Basento
a Potenza in cui la stessa forma del calcestruzzo diviene essa stessa
portante, ma qui si tratta di superare con un solo balzo i fatidici 3.300
metri e l’arco stradale derivante dai cavi in tensione fa risultare il tutto
quasi un gioco di fili sorretto da mani gigantesche.
Uno dei disegni presentati, magistrale per la tecnica adottata coi retini
in azzurro, rende meglio dei disegni tecnici l’atmosfera dell’intorno: il
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ponte è come se fosse sospeso in un limbo geografico in attesa di un
suo compimento.
“Nelle proposizioni di tradizione architettonica ingegneresca di Musmeci
la proiezione megastrutturale determinata dal riscontro di tipologia fun-
zionale (il ponte, dal progetto dello Stretto di Messina a quello sul Niger)
si definisce attraverso la crescita per estensione di un tessuto struttura-
le, che ne qualifica la presenza plastica piuttosto in continuità di trama
che non in unità risolutiva di solo segno complessivo”.8
Il ragno Musmeci ha tessuto la sua ragnatela, il resto dei progetti pre-
sentati non riuscirà ad eguagliare tale limpidezza formale e strutturale
assieme. Dall’altro lato Giuseppe Samonà, tra i partecipanti propone
dei nuovi telamoni, con occhi ciclopici, alti e ritti come mollette ingigantite
alla Claes Oldenburg (vedi il Clothespin del 1976) immagine pregevole,
ma pochi si sono posti il problema di decifrare le opere infrastrutturali di
completamento, alcune delle quali faraoniche e sproporzionate. Persino
l’idea della conurbazione, a distanza di tempo, può essere assimilata ad
una visione un po’ surrealista a tratti demiurgica che sulla scorta di un
Plan Voisin lecorbusiano stende sulle rive dello stretto la sua città dop-
piamente lineare, o il biporto con esiti non sempre convincenti, anche se
indubbiamente apre la vertenza sull’ipotesi di attraversamenti multipli e
pluridirezionati per l’intero bacino.
Una storia lunga che ha visto susseguirsi tutti gli operatori di settore e
no nelle più ardite sperimentazioni urbane legate all’area alla cui ampia
letteratura rimandiamo il lettore.9
C’è da dire che l’idea della Metropoli futura dello Stretto di Giuseppe e
1 Alberto Samonà vuole proporsi nell’intero bacino e vede il ponte come
un elemento di congiunzione tra le due sponde capace di riannodare,
quasi fosse un filo rosso ideale le intere problematiche connesse al ter-
ritorio sottoposto a tensione progettuale fino a definirne, ad una scala
appropriata, l’assetto futuribile. Ambedue le coste si fronteggiano con
un alto grado di costruito, dando al territorio la forte connotazione strut-
turata, come se l’architettura proposta in tale ardito piano di conurba-
zione urbana potesse di per se risolvere contraddizioni insite nel luogo.
A vederlo più da vicino tutta la costa è come se fosse invasa da un’ar-
chitettura infrastrutturale che tenta un riassetto complessivo, pari per
intensità concettuale e programmatica al progetto di Quaroni Musmeci,
quest’ultimo con forte accentuazioni di elementi curvilinei e tondeggian-
ti, in grado di creare delle isole tematiche, il secondo con assi pluridi-
rezionati. Figlie, ambedue le proposte, di uno sguardo lecorbusieriano
sul territorio, appaiono ora, per quanto distribuiti linearmente lungo la
costa, come delle città possibili al pari delle città di fondazione, resiste
2 lo spirito utopistico di rinascimentale memoria a conferire a tali proposte
il pregio della visionarietà di cui il ponte risulta essere il catalizzatore,
primo e ultimo, su cui si innervano le proposte progettuali. Il pilone a
forcella proposto da Samonà, come un talamone ingigantito rimanda
al ciclopismo insito nell’isola, il tema del pilone, poi, concepito come
un tema d’arte scultoreo è avvertito da Franco Cardullo che a ragione
ritrova echi lontani in altri autori, e vede nel pilone “ un gigantesco uomo
con le braccia aperte e le gambe dritte, ben saldate al mare: il colosso
di Rodi nella credenza medioevale riportata da Athanasius Kircher in un
disegno, vede l’uomo con le gambe aperte, all’imbocco del porto mino-
re di Rodi… Certo, conclude Cardullo, la dimensione simbolica, come
opera d’arte mi sembra prevalere su quella tecnica”.10
Ma il ciclopismo, oltre che a Rodi, era avvertito nella Trinacria già dai
3 tempi omerici, e più che un colosso il pilone andrebbe associato ad un
gigantesco Polifemo con le braccia sollevate e l’occhio (medaglione) in-
castonato al centro, o rievocante il ciclope nell’atto di scagliare il masso
sulla nave di Ulisse l’ingannatore: il Nessuno.
Il ciclope è più convincente come metafora, il colosso di Rodi ha le gam-
be divaricate, mentre Polifemo ha le gambe unite e le braccia aperte a
sorreggere il masso da scagliare, infine, se proprio di metafora si tratta,
la diretta permanenza del ciclope nel’isola, e tutta la letteratura ad esso
4 connessa, dovrebbe bastare. Ricordiamo pure che una vecchia cartoli-
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na riproduceva il ciclope Polifeno nel centro dello stretto a sorreggere il
ponte che lo attraversava sotto le gambe tale da unire “l’isola di Sicilia
al Continente”.11 Si potrebbe pensare, sempre per via metaforica, alla
forcella formata dalle due dita della mano, alla molletta stendi panni in
legno, soprattutto per via dell’ingranaggio posto in mezzo, o al gioco
dello spago passante tra due mani.
La storia del progetto del pilone di Samonà ha meritato una dettagliata
trattazione e una ricostruzione persino filologica dei disegni che si sono
susseguiti.12 In alcune proposte che rievocano i lavori di altri progettisti,
da Loos a Wagner, il progetto sembra più appoggiarsi ad un’arte orafa
5 fino a divenire, l’intero oggetto, una sorta di persuasore ammiccante ed
estremamente elaborato, al limite del barocchismo. Alcune immagini
somigliano a dei mazinga contemporanei o a dei transformer, e l’idea
del corpo umano, principio primo e ultimo, dalla vitruviana al modulor
serpeggia tra gli elaborati. Resta evidente come Samonà si sia concen-
trato moltissimo su questo elemento individuandone le valenze simbo-
liche oltre che strutturali. Pilone abitato che riduce concettualmente in
un solo elemento quanto l’archetipo ci aveva abituati sui ponti abitati,
vissuti per la loro interezza.
Purtroppo nella ripetizione dei tre piloni reggenti i cavi, l’idea dell’occhio
sullo stretto si triplica perdendo di assolutezza; la perentorietà che si
evidenzia nel singolo elemento cede e si ammorbidisce nella ripetizione
6 dell’identico, una cosa immaginare due occhi che si fronteggiano dalle
sponde, altra cosa immaginarli moltiplicati sull’acqua. Se la sua forza
persuasiva risiedeva proprio in quella simbolica, è proprio quest’ulti-
ma a indebolirsi. La rimasticazione dei disegni, con multiple proposte,
persino contrastanti tra loro, rendono palese l’affanno con cui Samonà
affrontava il tema e rimangono, anche per noi, lo vedremo in seguito di
grande insegnamento circa lo svolgimento di un tema progettuale.
Quando alla fine dei suoi giorni disilluso, parlerà della Conurbazione
dello Stretto come di un’esperienza amara da rivedere, con molte riper-
cussioni in ambito urbanistico, crediamo che fosse rimasta però intatta,
7 nella sua volontà, malgrado il rigetto del ponte stesso, l’idea di vederlo,
un giorno, in piedi, fiero come un guerriero, ritto e con le scarpe ben
saldate sulle rive.
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Certo è che la soluzione degli ancoraggi inscritta in un ellissoide territo-
riale rimarrà come una delle più convincenti nel suo rapporto con il luo-
go, echi lontani si avvertiranno nella proposta di risoluzione per il Centro
Direzionale proposto da Libeskind più di recente e su cui torneremo.
La vicenda del progetto dei Samonà subirà revisioni piuttosto estreme,
alla perdita di credibilità di una urbanistica a grande scala, Giuseppe
Samonà, avrà i suoi ripensamenti. In una intervista rilasciata all’età di
82 anni parla del ponte con un nuovo punto di vista vedendolo addirit-
tura come un fatto negativo, ora è il mare interno a fare da scena fissa,
“i piani di grande scala sono un’astrazione utopistica, ed i piani locali
chiedono varianti continue; la soluzione è quella di passare dai piani
12 deduttivi a quelli induttivi, dal piccolo al grande: prima pensare alla co-
nurbazione tra Villa e Reggio e poi a quella tra le due coste”.
La disillusione verso la disciplina urbanistica intesa in senso demiurgico
appare totale!13
Pari disillusione, e maggiormente motivata, avrà anche Ludovico Qua-
roni, soprattutto in relazione al Piano regolatore di Reggio Calabria, a
distanza di anni, “ a lavori conclusi io mi sono ritrovato con una terribile
sfiducia nell’urbanistica quale s’era andata profilando negli ultimi anni”.
E dire che l’esperienza di Le Corbù aveva già anticipato tutto ciò, dal
Plan Obus per Algeri, a quello per Rio de Janeiro, ma se il ridimensio-
13 namento concettuale è apparso necessario ciò non vuol dire che alcuni
punti che convogliano spinte territoriali come il ponte, quasi riassumen-
dole, non possano essere conclusi.
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L’anello ponte del gruppo Perugini, sovverte qualsiasi ipotesi pre-
cedente, intaccando l’archetipo che vuole il ponte come unicamente
elemento di congiunzione tra le sponde. Se diverse sono le tipologie
del ponte, acutamente indagate da Alberto Giorgio Cassani, dove si
avverte una vertigine della lista di echiana memoria, è certo che tra i tipi
elencati manca il ponte anello o il ponte circolare.14
Nel progetto di Giuseppe Perugini sembra non darsi meta oltre la spon-
da, l’andamento non è monocursale, e la direzione non è data. Piuttosto
il progettista ci induce ad una riflessione sullo stretto, un soggiornare sul
ponte, un partire e pure rientrare. L’anello sposa letteralmente le due
23 sponde e le due terre in un abbraccio in cui la forte componente tecno-
logica trova riparo. L’anello sospeso sulle acque dello stretto è sostenu-
to sulle rive da complesse architetture che comprendono centri servizi
e residenze consentendo il raccordo con le future reti stradali o traccia-
ti autostradali. Il modello presentato è alquanto suggestivo. All’interno
dell’anello, come si evince da una significativa sezione, che rimanda
ad una sezione prospettica del Megabridge n.3 del 1966 di Raimund
Abrahm, oltre due carreggiate si insedia il tunnel per il collegamento
ferroviario e spazi attrezzati per la permanenza. L’anello di circa 9 chi-
lometri con un diametro del suo interno di circa 70 metri avrebbe inoltre
consentito la realizzazione di alberghi, ristoranti, luoghi di incontro ecc.
Tutte le altre proposte presentate al concorso, dal tunnel sommerso ai
ponti strallati, tentano di convincere circa l’idea di un attraversamento
da effettuare il più velocemente possibile, Perugini invece fa della so-
sta sulle acque tumultuose il suo punto di forza. Ci si domanda se a
24 tale proposta avrebbe potuto conseguire la sua realizzazione concreta,
resta il fascino di un’idea non solo temeraria e insolita ma, per la sua
conduzione ardita, degna di essere non solo ricordata ma annoverata
tra le proposte che includono una nuova dimensione spaziale nel fare
ponti: un ponte come terra di mezzo.15
“IL ponte tondo non un ponte ma una città di servizi. Non un diagramma
di strutture, ma un’architettura che con i propri valori funzionali si ponga
oltre il tempo, che non invecchi con il progredire della tecnica, che non
si renda insufficiente con l’aumentare delle richieste commerciali turisti-
che. E’ il ponte stesso che con la propria organizzazione si pone come
polo equilibratore tra due realtà in sviluppo”.16
In sostanza un ponte autodeterminato, nato da una frattura che il pro-
25 getto tenta di rinsaldare, questa frattura come la definiscono gli autori,
così esile, tale da risultare un “accadimento geografico”, o meglio ci
dicono, “ci sono state delle condizioni tali che a un certo punto hanno
fessurato l’ultima propaggine della Penisola e si è costituito Lo Stretto
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di Messina”. Ecco che per riparare a tale esigua frattura, la proposta di
un Ponte territorio.
Il progetto di tunnel del duo Dardi-Morabito lascia la soluzione degli im-
bocchi al primo. Un volume cubico sembra sdoppiarsi e nello sdoppia-
mento si smembra, quasi deflagrando la compattezza dell’edificio in una
moltitudine di schegge edilizie pluridirezionate, offrendosi al paesaggio.
L’immagine è fortemente evocativa e ci parla ancora di dualità presenti
nell’area, come i due mostri omerici; tali corrispondenze, o dualità se
vogliamo, si traducono con geometrie platoniche in cui si avvertono echi
di catastrofiche rovine, come se il blocco di origine si sgretolasse sotto
la spinta di forze telluriche ed i frammenti che attorniano le due metà si
costituissero a nuovi guardiani del canale. Vere e proprie porte di acces-
so tra l’isola e il continente, alludono geometricamente, ancora al mito
omerico, ma le esigenze contemporanee imponevano di non ricorrere
all’elemento scultoreo per raffigurare i mostri, pertanto ecco la loro re-
stituzione architettata a cui si aggiunge il tunnel sottomarino a sezione
ellittica più che convincente strutturalmente.
“Tra Scilla e Cariddi, all’impatto tra mito, storia e natura, una forma pri-
maria, il cubo, si sdoppia secondo piani accentuatamente inclinati e tra-
sla fino a deporre sulle due opposte rive le parti necessarie a ricomporre
la sua unità. L’uno diventa due o il due diventa uno: sullo skyline dello
Stretto un gioco di rimandi e di ribaltamenti ottici e logici ripropone i rap-
32 porti tra il Continente e la Sicilia come parte estratta dal tutto ovvero il
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suo contrario il suo speculare dialettico.”17
Il disegno di Dardi inscritto nel cerchio, che sarà presente nella coper-
tina del concorso, dice già tutto: scomparendo il tunnel i due mostri
architettonici possono finalmente dialogare nel silenzio delle acque e
confermare nel dialogo la separatezza delle terre.
La proposta avanzata da Pier Luigi Nervi con quattro ingranaggi a
reggere i cavi distanziati e divaricati prevede, come leggiamo nelle note
“un ponte sospeso a campata unica della lunghezza di metri 3.000. La
struttura è costituita da due cavi principali che, attraverso un sistema
di tiranti inclinati nello spazio sostengono l’impalcato; i sostegni sono
costituiti da due coppie di torri, dall’altezza di circa m.400 con una parte
inferiore in c.a., basamento, ed una superiore in acciaio, antenna. Le
fondazioni delle torri sono previste con pali in c.a., Il traffico è previsto
su tre livelli rispettivamente autostradale, carrabile e ciclabile, ferrovia-
rio ad un binario. La scelta della soluzione a luce unica deriva da con-
siderazioni preliminari sull’ambiente fisico, in particolare sul regime dei
mari.”18
Le quattro torri che si affiancano divaricano le distanze dei cavi, evitan-
do pericoli di risonanza e fungendo da vere e proprie porte territoriali
come sculture stellate si irradiano nel territorio circostante, la loro note-
vole altezza li rende particolarmente presenti nell’area, il loro insediarsi,
soprattutto quelli a punta faro, come si evince dalla planimetria è come
se tentassero di ultimare la Finis Terrae come sua naturale propaggine.
Piuttosto macchinoso, se confrontato con la leggerezza della proposta
Musmeci, offre comunque un’immagine totemica delle 4 torri le quali,
39 sorreggendo enormi tralicci metallici dove si innervano i cavi, rimanda-
no, nel loro complesso, ad un congegno, a degli ingranaggi o estrusi
metallici ingigantiti. L’aver posizionato i piloni nel versante siculo nella
parte terminale dell’isola è come voler precludere alla stessa la sua in-
sularità: così è tutta l’isola ad essere trascinata nella rete dei cavi, come
un enorme pesce triangolare legato al suo amo. Non dimentichiamo poi
che attorno agli anni sessanta Pier Luigi Nervi aveva avuto occasione
di lavorare nel versante reggino per la realizzazione del Lido comunale
detto la Rotonda, 19, era pertanto a conoscenza dei luoghi su cui andrà
ad insediare il suo progetto.
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