The words you are searching are inside this book. To get more targeted content, please make full-text search by clicking here.

Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

Discover the best professional documents and content resources in AnyFlip Document Base.
Search
Published by Vanilla Magazine, 2024-02-02 00:58:01

Sesso e Punizioni nel Medioevo

Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

SESSO E PUNIZIONI NEL MEDIOEVO Bimestrale – €9,99


C EDITORIALE Creare dal nulla una rivista di Storia e immettersi in un mercato saturo come quello dell’editoria cartacea non è facile. Roba da pazzi, aggiungerei. A pensarci bene, però, un po’ di sana follia non guasta mai. Mi viene in mente una massima di Nelson Mandela: “Sembra sempre impossibile finché non viene realizzato”. E perché no, questa frase di Will Turner (Orlando Bloom) in Pirati dei Caraibi: “Nessuna causa è persa finché ci sarà un solo folle a combattere per essa”. E allora sì, diamoci dei pazzi. Noi che abbiamo salpato i mari in burrasca della stampa periodica e voi che ci sostenete. Questo quinto numero segna l’inizio di Vanilla Magazine (rivista) 2.0. A dicembre, ci siamo visti tutti alla fiera Più libri più liberi di Roma; eravamo allo stand della Ruota Edizioni, il nostro editore, e quello è stato un punto di arrivo, un traguardo. Lì si è conclusa la prima fase del progetto, fatta di ritardi, corse contro il tempo, esperimenti e tanti (tantissimi) problemi da risolvere. In questa fase due è giunta l’ora di spingere l’acceleratore, di sfruttare al massimo il potenziale della rivista e crescere sempre di più. Prima di parlarvi del contenuto del quinto numero, però, concedetemi di ringraziare ancora una volta Valentina Modica, l’addetta al reparto grafico, e Maristella Occhionero, editrice, editor e, a partire dal prossimo numero, anche autrice di una nuovissima rubrica. Entrambe hanno sposato insieme a me questo progetto e, francamente, non potevo desiderare una squadra migliore, perché, oltre a essere affiatati, uniti e determinati, ci accomuna una grande passione per la conoscenza e la carta stampata. Sapendo quanto YouTube si diverta a censurare la divulgazione di certi argomenti “scomodi”, per non parlare delle difficoltà che Matteo ha, ha avuto e (purtroppo) avrà a rendere monetizzabili alcuni video sul canale di Vanilla, mi è venuto da pensare che alla fine aveva ragione Giuseppe Tomasi di Lampedusa – “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” – e anche nell’era digitale tutto torna al principio: alla carta e alla libertà di stampa, dove la componente economica non dipende da una piattaforma o dalle pubblicità, ma da voi lettori. Prendete questa frase come una garanzia di professionalità e qualità: la rivista è il frutto di tanta passione e tanto impegno… e lo sarà sempre. Promesso. Detto ciò, spendiamo due paroline sul quinto numero, il primo della cosiddetta “fase 2”. In copertina abbiamo un articolo che, in omaggio a un noto film di Woody Allen, avrei voluto intitolare “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso medievale… ma non avete mai osato chiedere”. Troppo lungo, lo so; eppure, quel “non avete mai osato chiedere” ha un certo significato, perché il Medioevo è un’epoca di cui, in linea di massima, tutti sanno tutto, ma pochi sanno davvero qualcosa. Mi spiego meglio. Se credete che il Medioevo sia stata un’epoca pudica, vi sbagliate. C’era una gran libertà di costumi, la gente si divertiva e i preti erano dei gran libertini. Insomma, torniamo sempre alla vecchia questione dei falsi storici tramandati di secolo in secolo. Per saperne di più, andate a pagina 44. Fra le altre novità interessanti, vi segnalo la “scandalosa”, divertente e spumeggiante Louise Weber – icona del Moulin Rogue e inventrice del Can-can – e l’epopea di Joe Petrosino, il pioniere della lotta antimafia. Il primo è un articolo di Daria Cadalt (curatrice anche della bellissima rubrica “La storia in un quadro”) che, come leggerete a pagina 30, le ho espressamente chiesto di scrivere perché (fidatevi) nessuno meglio di lei poteva restituire le atmosfere frenetiche della Parigi di fine Ottocento. Il secondo, invece, è una storia che volevo proporre al pubblico di Vanilla da diverso tempo. Perché? Personalmente, penso che quella di Joe Petrosino sia una biografia molto avvincente, ma lascio a voi l’ultima parola. E adesso, bando alle ciance. Signori e signore, grazie ancora per il supporto e benvenuti in Vanilla Magazine 2.0. Con affetto, Da sinistra verso destra: Matteo Rubboli (proprietario del marchio Vanilla Magazine), Maristella Occhionero (editor ed editrice), Valentina Modica (responsabile del reparto grafico), Nicola Ianuale (direttore responsabile e autore), Daria Cadalt (autrice)


20 STORIE DI UOMINI Joe Petrosino 30 STORIE DI DONNE Louise Weber 36 STORIE DI RE E REGINE Irene di Atene 56 STORIA MODERNA La risposta dei cosacchi al sultano 64 STORIA CONTEMPORANEA Caccia ad Adolf Eichmann 20 30 56


5 72 STORIE D’AMORE Filippo d’Orleans e Filippo di Lorena 78 STORIE DI LIBRI Le tre vite de Il piccolo principe 84 MITOLOGIA Prometeo 88 SCIENZA L’inverno dell’anno peggiore della storia 94 STORIE DI LUOGHI Port Royal 98 CRIME L’omicidio della ragazza dei sigari 44 IN EVIDENZA Sesso e punizioni nel Medioevo 4 LA STORIA IN UNA FOTO Congresso Solvay 1927 6 ACCADDE OGGI Febbraio 10 SPECIALE FEBBRAIO L’oscura origine del giorno di San Valentino 14 INVENZIONI La bicicletta 104 LA STORIA IN UN QUADRO Artemisia e Giuditta 110 LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA 112 A TAVOLA CON LA STORIA Le origini del whisky 124 CURIOSITÀ Londra in epoca medioevale RUBRICHE “ Con la tua sposa o con un’altra ti sei accoppiato da dietro, come fanno i cani? Devi fare penitenza per dieci giorni a pane e acqua. […] Hai peccato con lei in giorno di Quaresima? Devi fare penitenza quaranta giorni con pane e acqua o dare 26 soldi di elemosina; ma se ti è capitato quando eri ubriaco, farai penitenza per solo venti giorni Burcardo di Worms Regulæ Ecclesiasticaæ SOMMARIO 72 84 ” 104


6 I l Congresso Solvay, fondato dall’industriale belga Ernest Solvay nel 1912, è da considerarsi un punto di svolta nel mondo della scienza. I convegni, a cadenza triennale, si svolgono a Bruxelles e sono dedicati a importanti problemi di Fisica e Chimica. La più famosa fra queste riunioni fu certamente la quinta, quella del 1927, dedicata a elettroni e fotoni (Electrons et photons il titolo originale). Alcuni fra i fisici più importanti al mondo si incontrarono per discutere le teorie dei quanti di nuova formulazione e i protagonisti di quell’anno furono senz’ombra di dubbio Albert Einstein e Niels Bohr, che produssero un dibattito riguardante il principio di indeterminazione di Heisenberg pronunciando queste famosissime frasi… Einstein: «Dio non gioca a dadi» Bohr: «Einstein, smetti di dire a Dio cosa fare» LA STORIA IN UNA FOTO a cura di Matteo Rubboli 6 Da sinistra verso destra. Dietro: Auguste Piccard, Émile Henriot, Paul Ehrenfest, Édouard Herzen, Théophile de Donder, Erwin Schrödinger, JE Verschaffelt, Wolfgang Pauli, Werner Heisenberg, Ralph Fowler, Léon Brillouin. Fila di mezzo: Peter Debye, Martin Knudsen, William Lawrence Bragg, Hendrik Anthony Kramers, Paul Dirac, Arthur Compton, Louis de Broglie, Max Born, Niels Bohr. Prima fila: Irving Langmuir, Max Planck, Marie Curie, Hendrik Lorentz, Albert Einstein, Paul Langevin, Charles-Eugène Guye, CTR Wilson, Owen Richardson.


7 Nell’immagine originale, e in altre versioni colorate, non è possibile distinguere con certezza la medaglia, che potrebbe anche riguardare ferite subite servendo la Germania nazista: il distintivo era praticamente uguale a quello della Germania Imperiale, a parte la svastica sull’elmo. Nonostante Buchenwald non fosse un campo di sterminio come Auschwitz, fra i suoi cancelli morirono circa 56.000 persone, uccise dalla fame, dalle sevizie e dalle torture dei diavoli nazisti. Il volto di uno di questi fu consegnato alla Storia dal fotografo Harold Roberts e da un prigioniero russo, rimasto senza nome, che lo indicò con certezza. 7 CONGRESSO SOLVAY 1927 La fotografia più “intelligente” della storia 7


8 ACCADDE OGGI a cura di Nicola Ianuale 1 febbraio 1958 Nel Salone delle feste del Casinò di Sanremo, la coppia Dorelli-Modugno (all’epoca il regolamento prevedeva che lo stesso brano fosse eseguito in due differenti versioni da altrettanti artisti) si aggiudica la vittoria del Festival con Nel blu dipinto di blu, una delle canzoni più celebri della musica italiana. Nello stesso anno, Modugno parteciperà anche all’Eurovision Song Contest, classificandosi terzo dietro ai rappresentanti di Francia e Svizzera. Domenico Modugno canta Nel blu dipinto di blu durante il Festival di Sanremo del 1958 5 febbraio 62 d.C. Un tremendo terremoto con epicentro a Stabia – magnitudo 5/6 e una profondità di circa 6 chilometri – si abbatte sulla zona vesuviana, danneggiando gravemente tante città, in particolare Pompei, Ercolano e Stabia. Un preludio alla ben più famosa eruzione del 79 d.C. L’opulenza e la distruzione di un impero, dipinto di Thomas Cole 8


9 Elisabetta II il giorno dell’incoronazione 6 febbraio 1952 Sotto il comando di Costanzo Ciano, tre esemplari di motoscafo armato silurante (MAS) della Marina italiana eludono le difese austriache e si infiltrano con successo nel porto di Bakar (in italiano Buccari), oggi in Croazia, dove sganciano sei missili subacquei contro le navi nemiche, portando a compimento quella che D’Annunzio, fisicamente presente a bordo del MAS 96, definirà una “sfacciata manovra”. In realtà, l’offensiva si conclude in un nulla di fatto. Dei sei colpi, cinque restano inattivi e uno va a vuoto, ma per il Regno d’Italia è comunque un successo, anche se simbolico, che risolleva il morale dell’esercito dopo il disastro di Caporetto. La Marina ha dimostrato di poter effettuare senza problemi un’incursione segreta in territorio austroungarico e tanto basta a D’Annunzio per ribattezzare l’evento “la beffa di Buccari”. Prima di battere in ritirata, infatti, il Vate lancia in acqua alcune bottiglie con dei nastri tricolore e un messaggio di scherno: “In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa (è un riferimento alla vittoria austriaca in una battaglia navale del 1866, durante la Terza guerra d’indipendenza; n.d.r.) sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile”. Non contento, lo scrittore conierà per l’occasione anche la locuzione latina “memento audere semper”, le cui iniziali richiamavano appunto la sigla del motoscafo armato silurante. La frase sarà poi incisa su una tavoletta dietro il timone del MAS 96, ancora oggi conservata al Vittoriale degli Italiani. I principali artefici della beffa di Buccari. Da sinistra verso destra: Luigi Rizzo, Gabriele D’Annunzio e Costanzo Ciano Muore Giorgio VI, già malato da tempo di cancro ai polmoni, e gli succede sua figlia Elisabetta. La futura regina, però, non è presente al capezzale del padre, perché impegnata in un viaggio verso Australia e Nuova Zelanda, passando per alcuni territori africani. È proprio durante una visita ufficiale in Kenya che, mentre alloggia al Treetops Hotel, suo marito Filippo le comunica di essere ufficialmente la nuova sovrana d’Inghilterra. 10-11 febbraio 1918 9


10 Giordano Bruno in una stampa d’epoca A Campo de’ Fiori c’è una pira che attende il condannato del giorno. È una persona illustre, un eretico che con la sua oratoria si è procurato ben tre scomuniche – dal cattolicesimo al luteranesimo, passando per il calvinismo – che ha osato contraddire la filosofia aristotelica in voga nel pensiero occidentale e offendere l’alta concezione di quello stesso Dio i cui vicari si apprestano a bruciarlo. Prima di iniziare, il Sant’Uffizio costringe Giordano Bruno a indossare una mordacchia, una sorta di museruola, che gli blocca la lingua, affinché non possa esprimere altre blasfemie; poi, i gendarmi lo spogliano, lo trascinano sopra il palo e lo legano. È il 17 febbraio del 1600; a Roma viene arso vivo colui che passerà alla storia come il simbolo del libero pensiero. Viene arso vivo Giordano Bruno, il “Nolano”, filosofo dell’universo infinito. Nasce a Napoli Antonio De Curtis, in arte Totò. Frutto di una relazione clandestina fra Anna Clemente (1881- 1947) e Giuseppe De Curtis (1873-1944), il “principe della risata”, simbolo prima dell’avanspettacolo teatrale, poi della comicità italiana al cinema, per il suo talento verrà accostato a tanti illustri colleghi – ad esempio, Buster Keaton, i fratelli Marx e Charlie Chaplin – recitando in film cult come Totò, Peppino e… la malafemmina (1956), Miseria e nobiltà (1954), Signori si nasce (1960) e Siamo uomini o caporali (1955). Antonio De Curtis, in arte “Totò”, in una fotografia degli anni ’60 Rappresentazione dell’incontro tra Federico II e al-Malik al-Kamil 15 febbraio 1898 17 febbraio 1600 Nel contesto della Sesta Crociata, fortemente voluta da papa Gregorio IX, l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II di Svevia sottoscrive con il sultano al-Malik al-Kamil la Pace di Giaffa. Si tratta di uno storico compromesso senza spargimenti di sangue. Al-Malik cede il possesso di Gerusalemme ai cristiani, a esclusione di alcuni luoghi sacri del mondo islamico, primi fra tutti la moschea di Omar e la Cupola della Roccia; per Federico, invece, è un successo su tutti i fronti. Nel 1225, infatti, ha sposato in seconde nozze Jolanda di Brienne, legittima erede al trono di Gerusalemme, il che lo rende, di diritto, il nuovo sovrano del Santo Sepolcro. 18 febbraio 1229


11 23 febbraio 1945 L’imperatore d’Oriente Teodosio I e gli imperatori d’Occidente Graziano e Valentiniano II emettono l’editto di Tessalonica, grazie al quale il cristianesimo, allineato con quanto deliberato nel concilio di Nicea del 325, diventa l’unica religione ammessa nell’Impero romano. Inoltre, vengono vietati sia l’arianesimo sia i culti pagani. Cristo Pantocratore nella Cappella Palatina di Palazzo dei Normanni a Palermo – José Luiz Bernardes Ribeiro/CC BY-SA 4.0 11 Durante la battaglia di Iwo Jima, combattuta dal 19 febbraio al 26 marzo del 1945, come parte del teatro del Pacifico della Seconda guerra mondiale, alcuni soldati issano una bandiera statunitense sulla vetta del monte Suribachi e vengono immortalati da Joe Rosenthal, fotografo dell’Associated Press. Per la sua intensità e carica emotiva, lo scatto, intitolato Raising the Flag on Iwo Jima, vincerà il premio Pulizer alla fotografia nel 1945, diventando fin da subito un simbolo del patriottismo americano. Raising the Flag on Iwo Jima, di Joe Rosenthal 27 febbraio 380 d.C. 28 febbraio 1525 Dopo averlo deposto, imprigionato e interrogato sotto tortura, il conquistadores spagnolo Hernán Cortés ordina l’impiccagione di Cuauhtémoc, undicesimo e ultimo imperatore azteco. Leandro Izaguirre, La tortura di Cuauhtémoc, 1892


12 a cura di Matteo Rubboli SPECIALE FEBBRAIO


13 Lupercalia, olio su tela, 1635 circa L’OSCURA ORIGINE DEL GIORNO DI SAN VALENTINO San Valentino è considerato a livello mondiale il giorno degli innamorati, con un’economia di enorme rilievo che si muove attorno alla festività. Le origini di questa festa sono molto antiche, certamente pagane, e affondano le radici in epoca romana. Dal 13 al 15 febbraio, infatti, gli abitanti dell’Urbe celebravano la festa dei Lupercali, che aveva la funzione di purificare l’uomo e benedire l’arrivo della nuova stagione fertile. Queste feste vennero celebrate praticamente dall’inizio dell’Impero (27 a.C.) sino alla sua fine (476 d.C.), ben oltre la conversione al cristianesimo di Roma. 13


14 La festività veniva celebrata da sacerdoti chiamati “luperci”, che officiavano completamente nudi, eccezion fatta per le parti intime, coperte con la pelle degli animali immolati, che diverse fonti riportano come capre e cani. La pelle della capra era utilizzata a strisce, come una specie di innocua frusta, e veniva sbattuta in tutto il colle Palatino per favorire la fecondità della terra. Venivano colpiti anche gli abitanti di Roma, in particolar modo le donne, che si offrivano volontarie alle scudisciate sperando in una rapida gravidanza. Il vescovo San Valentino Sopraggiunta l’epoca cristiana, nell’Impero romano i Lupercalia si tramutarono nella celebrazione di San Valentino, che fu vescovo e martire, decapitato (secondo leggenda) alla veneranda età di 97 anni il 14 febbraio del 273. Il santo fu ucciso dal soldato romano Furius Placidus, su ordine imposto direttamente dall’imperatore Aureliano, che voleva così punire l’affronto fatto dall’uomo. Leggenda vuole che Valentino avesse acconsentito a far sposare un soldato romano di culto pagano, Sabino, con una donna cristiana, Serapia, entrambi morti pochi istanti dopo la benedizione matrimoniale. I due avevano una salute precaria e l’agiografia del santo si compie con la morte degli sposi e il martirio di Valentino stesso. Tutta questa storia è naturalmente una leggenda e, secondo l’enciclopedia dei santi, il martirio fu diverso, ma la morte del povero vescovo è comunque presente nel racconto. La storia di San Valentino da Terni, in realtà, inizia molto prima, quando fu convertito e nominato prelato alla giovanissima età di 21 anni, nel 197, posto alla guida della natia diocesi di Terni. Il suo primo incontro con un imperatore fu nel 270, con Claudio II il Gotico, che lo graziò dalla morte. Il secondo incontro, con Aureliano, non si concluse in modo tanto fortunato, e finì con la morte violenta dell’ormai anzianissimo predicatore ternano. Dopo che fu torturato e decapitato, venne sepolto dai suoi discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, che furono per questo anch’essi martirizzati. Le sue reliquie diventarono merce preziosa e finirono in giro per tutta Italia in varie chiese e santuari, fra cui la chiesa di San Giorgio a Monselice, in cui è stato recentemente ricostruito il volto del santo. Perché San Valentino? L’origine della festa che è giunta ai giorni nostri è chiaramente pagana e il nome assegnatole risale al periodo successivo alla conversione di Roma al cristianesimo, quando papa Gelasio I, nel 496, la proclamò ufficialmente. Il santo protettore degli innamorati (ma anche degli epilettici) avrebbe San Valentino in un dipinto di Leonhard Beck Reliquie del teschio di San Valentino martire, osso di Santa Pazienza martire e parte del teschio di un terzo martire. Chiesa di Santa Maria in Cosmedin, Roma - Dnalor 01/CC BY-SA 3.0 at


15 dato nome al 14 febbraio per una serie di coincidenze, ma principalmente per il giorno del martirio e per la causa che lo scatenò: la celebrazione del drammatico matrimonio fra Serapia e Sabino, proprio durante la festa delle Lupercalia. L’assegnazione della basilica di Terni ai benedettini, primi custodi della chiesa dedicata al martire cristiano, contribuì a diffondere il culto per il santo, con i monaci che si prodigarono per esportarlo oltre i confini cittadini. Lo scambio di doni e biglietti d’auguri fra innamorati (o aspiranti tali) risale, però, al Basso Medioevo, quando, con Geoffrey Chaucer, venne introdotto anche nel mondo anglosassone il concetto di “amor cortese”. Il merito della diffusione della festa e del suo nome va però in parte anche ai monaci benedettini, antichi affidatari della basilica ternana e delle reliquie di San Valentino. Durante i secoli successivi, il business legato alla stampa delle “valentine”, i biglietti d’auguri, fece il resto, con ingenti campagne pubblicitarie volte alla promozione di questa antica e strana festività. Per quanto la genesi della festa sia pagana e legata ai sacrifici di animali e azioni poco ortodosse, come le frustate “propizie” alle donne, la parte più macabra della storia è legata al martirio di San Valentino, ucciso durante il periodo delle persecuzioni cristiane. La diffusione attuale della festa è di origine riconducibile al mondo anglosassone, ma soprattutto al business della festività che, come noto, trae profitto da biglietti d’auguri, doni e pensieri romantici. IL VOLTO DI SAN VALENTINO Qualche anno fa, un team di archeologi e studiosi italiani, composto dai tecnici dell’Università di Padova e dell’Arc-Team, ha ricostruito il volto di San Valentino, partendo dalle reliquie presenti nella chiesa di San Giorgio a Monselice e chiarendo diversi aspetti riguardanti lo scheletro conservato nel reliquiario veneto. L’uomo visse fra il 119 e il 338 d. C. (con maggiore probabilità attorno al 200), era alto 1 metro e 66 centimetri e perì giovane, fra i 23 e i 27 anni. Nonostante la storia ufficiale e la chiesa lo vedano morire da martire, nello scheletro conservato a Monselice non sono state ravvisate tracce né di lapidazione né di decapitazione. Le due figure storiche principali che descrivono San Valentino vedono un martire sacerdote di Roma, sepolto sulla Flaminia, nei pressi della capitale, e un martire vescovo di Terni. Il San Valentino di Monselice afferirebbe alla prima figura, con i resti del martire che sarebbero stati prelevati dal cimitero romano dei SS. Marcellino e Pietro e portati a Monselice nel XVIII secolo, come testimoniato da un documento del 1715. Dalla ricostruzione effettuata dagli studiosi, le reliquie sarebbero cronologicamente compatibili con il San Valentino “tradizionale”, vescovo di Terni, ma non concorderebbero con la leggenda sia per la decapitazione, della quale non vi è traccia, sia per l’incredibile età (per l’epoca) di 97 anni. La creazione del volto è stata effettuata con le moderne tecniche di ricostruzione digitale, ma, curiosamente, l’artista forense non ha conosciuto l’identità del soggetto sino alla fine del processo, per non essere influenzato nell’opera di definizione dei lineamenti. Al termine della ricostruzione, il modello è stato calibrato sulla base delle fonti storiche e di un disegno, più specificamente un graffito, presente in una tavoletta di marmo all’interno del reliquiario, per poi essere stampato grazie alla tecnologia 3D. APPROFONDIMENTO La festa dei Lupercalia a Roma in un disegno che mostra i luperci vestiti da cani e capre, con Cupido e personificazioni della fertilità


16 INVENZIONI a cura di Nicola Ianuale Gara femminile a Bordeaux nel 1868


1717 LA BICICLETTA Dal falso Leonardo alla safety bycicle 17


18 Scriveva Hemingway: “È andando in bicicletta che impari meglio i contorni di un paese, perché devi sudare sulle colline e andare giù a ruota libera nelle discese”. Proprio come lo scrittore premio Nobel, anche Arthur Conan Doyle era un appassionato di ciclismo: “Quando il morale è basso, quando il giorno sembra buio, quando il lavoro diventa monotono, quando ti sembra che non ci sia più speranza, monta sulla bicicletta e pedala senza pensare a nient’altro che alla strada che percorri”. Due ruote, una catena, un sellino, un manubrio e due pedali. È questa la formula vincente che ha unito generazioni di uomini e donne di ogni estrazione sociale, bambini inclusi, ma se oggi possiamo goderci una sana e confortevole pedalata, il merito è di quei pionieri del ciclismo che, due secoli fa, hanno intuito le potenzialità della bicicletta, perfezionandola, prototipo dopo prototipo, fino a dar vita al mezzo di trasporto che tutti noi conosciamo. Il disegno della presunta bicicletta di Leonardo da Vinci Il falso Leonardo In principio fu Leonardo da Vinci… O, almeno, così si credeva. Galeotta fu una pagina del suo Codice Atlantico, che conteneva il disegno di un prototipo di bicicletta con tanto di pedali e catena. La maggior parte degli studiosi concordano che si tratti di un falso, perché, analizzando la grafia, il tratto non sembra appartenere né a Leonardo né a un suo allievo ed è abbastanza probabile che il disegno sia stato aggiunto a posteriori, probabilmente nell’Ottocento, a bicicletta già inventata. Il Codice, infatti, risale alla fine XVI secolo e fu opera dello scultore Pompeo Leoni (1531-1608), che entrò in possesso dei fogli originali appartenuti a Francesco Melzi, un allievo di Leonardo, e li riorganizzò in una grande raccolta che, in seguito, subì altri rimaneggiamenti. Il disegno in questione, però, saltò fuori solo nel Novecento, quando lo studioso Augusto Marinoni curò la pubblicazione integrale del Codice e lo trovò sul retro di una delle pagine incollate fra loro da Pompeo Leoni. Il célérifère Il secondo mito da sfatare è che la bicicletta sia nata in Francia a fine Settecento, su intuizione del conte Mède de Sivrac, che realizzò un prototipo composto da due ruote collegate fra loro da un asse di legno. Si chiamava célérifère, termine nato dall’unione delle parole latine celer (veloce) e fèro (portare), e non aveva alcun pedale, freno o manubrio, il che rendeva necessario spingerlo con i piedi e scendere dal veicolo per direzionarlo in caso di svolte. Proprio come il falso Leonardo, anche in questo caso parliamo di una sospetta attribuzione a posteriori, perché la prima te-


19 Il presunto “Conte di Sivrac” sul suo celerifero stimonianza del célérifère risale al tardo Ottocento ed è probabile che sia una storia creata ad hoc dai francesi per prendersi il merito dell’invenzione della bicicletta. Lo stesso conte de Sivrac, infatti, non sembra essere mai esistito e l’unico accostamento possibile è con un tale Jean-Henri Siévrac, che nel 1817 brevettò un mezzo chiamato appunto celerifero, ma trainato dai cavalli. La laufmachine La vera storia della bicicletta ebbe inizio nel 1817, quando il barone tedesco Karl von Drais ideò la laufmachine (macchina da corsa), chiamata in Francia draisienne, in onore del suo inventore, e in Italia, dove arrivò solo due anni dopo, nel 1819, draisina. La laufmachine, prima vera antenata della moderna bicicletta, aveva due ruote, una leva da usare a mo’ di sterzo e un poggia-pancia a cuscinetto, che serviva al conducente per far forza sui piedi, perché, in assenza dei pedali, si doveva spingere il veicolo e camminare da seduti (tipo l’automobile dei Flintstones, per intenderci). Le ruote in legno, ovviamente, non avevano ancora gli pneumatici per ammortizzare la tenuta su strada e l’uso della laufmachine provocava forti vibrazioni che le valsero il soprannome di boneshaker (scuotiossa). The American Velocipede, tratta da un numero del 1868 di Harper’s Weekly


20 Nonostante le tante imperfezioni, l’invenzione di von Drais ebbe comunque un discreto successo: si diffuse fra le persone abbienti di città e in molti si interessarono a quel nuovo mezzo di trasporto, destinato a ricevere, nel corso del secolo, tutta una serie di migliorie. La penny-farthing La svolta arrivò a metà degli anni ’60 dell’Ottocento. Dopo il passaggio dal telaio in legno a quello in ferro e l’introduzione di manubrio e pedali, quest’ultimi posizionati avanti anziché al centro, il meccanico francese Eugène Meyer perfezionò la laufmachine con l’aggiunta delle ruota a raggi, dando vita al biciclo, che aveva pedali e sediolino direttamente sulla ruota anteriore motrice. La distanza percorribile con una singola pedalata era quindi direttamente proporzionale alle dimensioni della ruota anteriore, di conseguenza più grande della posteriore, e ciò portò, in Inghilterra, all’invenzione del modello pennyfarthing, con una ruota anteriore altissima che, in alcuni casi, poteva arrivare anche un metro e mezzo di diametro. Si trattava, però, di una bicicletta molto pericolosa, perché l’altezza eccessiva esponeva il conducente a un perpetuo stato di equilibrio precario che, sia per una brusca frenata sia per le irregolarità del terreno, si traduceva spesso in rovinose cadute in avanti, talvolta mortali. Gara non ufficiale di draisine nei giardini del Lussemburgo di Parigi nell’aprile del 1818 20


21 La safety bycicle Intorno al 1870, John Kemp Starley, il cui zio era James Starley, uno dei principali pionieri britannici dell’industria del ciclismo, intuì che la richiesta del prodotto sarebbe aumentata solo se le biciclette fossero diventate più sicure e facili da guidare. Si mise al lavoro e, nel 1886, presentò la Rover, il primo modello di safety bycicle (bicicletta di sicurezza), che aveva una trasmissione a catena centrale in grado di trasferire il movimento dai pedali alle ruote, adesso uguali ed entrambe motrici. L’ultima miglioria significativa fu nel 1888, quando John Dunlop brevettò lo pneumatico, un tubo di gomma pieno d’aria, e lo usò per rivestire le ruote, ammortizzando così la tenuta su strada. In questa sua veste moderna, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la bicicletta si impose come uno dei mezzi di trasporto più popolari sul mercato e chiunque poteva imparare ad andarci. Se ne interessarono anche personaggi illustri dell’epoca – inclusi zar, sultani ed emiri (addirittura, uno di loro acquistò safety bycicle per tutto il suo harem) – ma fu solo nel nuovo secolo che, con i più abbienti impegnati a guidare le prime costosissime automobili, divenne un punto fermo del ceto medio, perché, finalmente, ci si poteva spostare velocemente senza dover usare per forza cavalli e carrozze. Bastava salire in sella sul cosiddetto “ronzino dei poveri”, come qualcuno soprannominò la bicicletta, e pedalare mantenendo l’equilibrio. Tutto qui. Da lì in poi, la strada dell’industria del ciclismo fu tutta in discesa e, nonostante qualche battuta d’arresto, le due ruote sono ancora oggi una passione che accomuna grandi e piccini. Dopotutto, come diceva John Fitzgerald Kennedy: “Niente è paragonabile al semplice piacere di un giro in bicicletta”. 21


22 STORIE DI UOMINI


23 JOE PETROSINO Il pioniere della lotta antimafia di Nicola Ianuale Il tenente Joe Petrosino, l’ispettore Carey e l’ispettore McCafferty scortano il sicario mafioso Tommaso Petto (il secondo da destra)


24 Quello che accadde il 12 marzo del 1909 a Palermo sembra quasi l’incipit di un vecchio film noir in bianco e nero. HOTEL DE FRANCE, ESTERNO SERA – L’atmosfera è da quiete prima della tempesta. Telecamera ferma sull’ingresso dell’hotel: esce un uomo di corporatura robusta, alto un metro e sessanta, che si incammina lungo la strada. Un breve piano sequenza accompagna noi spettatori nel suo breve percorso fino al Giardino Garibaldi di piazza Marina. L’uomo avanza con fare guardingo e le mani in tasca. Quando arriva a destinazione… stacco. La cinepresa si sposta sulla vicina fermata del tram, dove alcuni cittadini attendono l’ultima corsa della giornata. Sono le 20:45. Tre colpi di pistola in rapida successione squarciano il silenzio della sera. Dopo pochi secondi di pausa arriva anche il quarto. Nessuno sa cosa fare; nel dubbio, meglio fuggire. Fa eccezione il giovane marinaio Alberto Cardella, che invece si precipita sulla scena del crimine giusto in tempo per vedere un corpo disteso per terra e due ombre dileguarsi nel buio. Non c’è più nulla da fare. La vittima, lo stesso uomo che abbiamo visto uscire dall’Hotel de France, ha ricevuto ben quattro proiettili – uno al collo, due alle spalle e l’ultimo, quello fatale, alla testa – ma solo più tardi, al sopraggiungere delle forze dell’ordine, si scoprirà la sua identità. Nome: Joe Petrosino. Età: 48 anni. Professione: tenente di polizia in servizio a New York. Possibile movente: delitto di mafia. La notizia fa subito il giro degli uffici e il console statunitense a Palermo invia in patria un telegramma che recita: “Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città. STOP. Gli assassini sconosciuti. STOP. Muore un martire. STOP”. La telecamera stringe un’ultima volta sul cadavere. Dissolvenza in bianco e… cambio scena. Ha inizio il flashback. Joe Petrosino in divisa da poliziotto 30 agosto 1860 Joe Petrosino nasce a Padula, in provincia di Salerno 1873 La famiglia Petrosino emigra negli Stati Uniti d’America e si stabilisce a New York 1883 Joe entra nel corpo di polizia della città 1895 Viene promosso a sergente 1901 Infiltrandosi in un gruppo anarchico, scopre che è in programma un attentato al presidente William McKinley 1903 Joe è chiamato a investigare sul cosiddetto “delitto del barile” 1905 Ottiene la promozione a tenente e il comando della squadra investigativa dell’Italian branch 12 marzo 1909 Joe Petrosino viene ucciso con quattro colpi di pistola a Palermo CRONOLOGIA


25 Da migrante a poliziotto Giuseppe “Joe” Petrosino nasce a Padula, in provincia di Salerno, il 30 agosto del 1860. Anche se di umili origini, i suoi genitori, il sarto Prospero Petrosino e la casalinga Maria Giuseppa Arato, riescono a far istruire i figli, tutti in grado di leggere e scrivere, ma la situazione postunitaria del sud non è delle migliori e, nell’estate del 1873, decidono di abbracciare il cosiddetto “sogno americano”. I Petrosino fanno i bagagli e, dopo un interminabile viaggio in terza classe, giungono a New York, dove si stabiliscono a Mulberry street, cuore pulsante della Little Italy di Manhattan. Il piccolo Joe si dà subito da fare. Per non gravare sull’economia familiare si cimenta in svariati lavori, frequenta la scuola serale per padroneggiare la lingua inglese e, raggiunta la maggiore età, ottiene la cittadinanza statunitense. A vent’anni, insieme al suo socio e amico Pietro Iorio, affitta un chiosco in cui vende giornali e lustra scarpe ai passanti. Dà prova di grandi abilità organizzative, soprattutto nella formazione di squadre di giovani strilloni, a cui spesso si unisce, ma fortuna vuole che la sua attività si trovi proprio di fronte alla stazione di polizia del quartiere e, un giorno, intrattenendosi con gli agenti, suoi clienti abituali, uno di questi, l’ispettore Aleck Williams, decide di ingaggiarlo come informatore. Le “dritte” di Joe sono oro colato e i suoi servigi vengono ripagati con un impiego nella nettezza urbana, all’epoca alle dirette dipendenze della polizia. Per qualche anno, continua a suggerire piste da seguire, ottiene una promozione a caposquadra e, il 19 ottobre del 1883, fa quel grande salto che gli cambierà la vita. Il ragazzo sa il fatto suo – ha le spalle larghe, un fisico resistente, tanto acume e una grande predisposizione all’azione – ed è un peccato usarlo solo come informatore. Ecco perché, nonostante il metro e sessanta d’altezza, di poco inferiore al requisito minimo richiesto, Joe Petrosino diventa il primo italo-americano della polizia newyorkese. “Petrosin ind’ ’a minestra” Sono gli anni della cosiddetta “grande emigrazione”, in cui i migranti italiani raggiungono cifre spaventose e le condizioni di vita peggiorano. L’integrazione con le comunità locali è quasi impossibile: le classi dirigenti sono conservatrici e non vedono di buon occhio i nuovi arrivati, che, non parlando bene l’inglese, possono svolgere solo lavori manuali, quelli più umili; condizione che li spinge a far fronte comune e isolarsi dal resto della popolazione. È proprio in questo ambiente che nasce la criminalità organizzata di stampo mafioso, grazie a “uomini d’onore” siciliani che arrivano in America – molto Fotocromia di Mulberry Street (ingresso della Little Italy di New York) agli inizi del Novecento 25 Prospero Petrosino


26 spesso per sfuggire a condanne a morte o procedimenti giudiziari – e riprendono le attività malavitose sulla falsariga di quelle svolte in patria. Le file di queste prime cosche italoamericane finiscono per accogliere anche quei connazionali rimasti delusi dal sogno americano, persone oneste che, però, vedono nella delinquenza l’unico modo per arricchirsi e vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche. La polizia non può niente. Gli agenti sono quasi tutti ebrei o irlandesi e l’insormontabile barriera linguistica fra i due mondi rende impossibile esercitare una ben che minima giurisdizione a Little Italy. Con l’arrivo di Joe si cambia registro C’è un nuovo sceriffo in città, come direbbero in un film western, e non è più uno straniero, ma un italiano, a interfacciarsi con i suoi connazionali. Petto infuori, sguardo freddo e distintivo numero 285 in bellavista; quando è di pattuglia, la gente sa di avere di fronte un integerrimo uomo di legge. “Gli Stati Uniti sono diventati lo scarico dei rifiuti di tutta la criminalità e il banditismo italiano, in particolare della Sicilia e della Calabria”, affermerà in seguito. “Sono venuti qui, e adesso vivono prosperosamente di estorsioni, rapine, traffici illeciti di ogni sorta”. Ma la sua missione non è solo combattere le mele marce. In un contesto difficile come Little Italy, la colpa di pochi ricade su tutti e Joe vuole salvaguardare “la parte onesta della popolazione italiana”, a cui, a detta sua, “si dovrebbe fare opera educativa, affinché comprenda che qui le leggi sono uguali per tutti”. Con lui non c’è reato che tenga, neanche quello più piccolo, ed è così temuto che, al suo passaggio, gli immigrati urlano la frase in codice “Oggi petrosino ind’ ’a minestra” (oggi prezzemolo nella minestra, perché in napoletano “petrosino” vuol dire appunto prezzemolo) per avvisare gli altri abitanti del quartiere. LE ORIGINI DELLA MAFIA SICILIANA La leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso Toledo, anno 1412. I fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre membri di una società segreta di stampo criminale detta la Garduña, devono vendicare l’onore della sorella e uccidere l’uomo che l’ha violentata, un protetto del re di Spagna. L’omicidio gli vale una condanna a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di detenzione, da scontare nel carcere dell’isola di Favignana, nell’arcipelago siciliano. Durante questo lungo periodo dietro le sbarre, i tre fratelli gettano le basi di un’utopica organizzazione criminale basata sull’onore, sull’omertà e il sangue. Quando tornano in libertà, le loro strade si separano. Osso resta in Sicilia e dà vita a Cosa Nostra; Mastrosso e Carcagnosso si spostano rispettivamente in Calabria e in Campania, dove fondano la ’ndrangheta e la Camorra. Secondo la tradizione popolare, questa è l’origine della mafia, ma è bene specificare che Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono personaggi del folklore assunti a mito fondativo per nobilitare la nascita della malavita, e la stessa Garduña è il frutto della fantasia degli scrittori iberici dell’Ottocento. Un’altra teoria vuole che Cosa Nostra abbia raccolto l’eredità dell’antica setta dei Beati Paoli, attiva a Palermo nel XII secolo. Anche in questo caso siamo di fronte a una società segreta liquidata come semplice leggenda. I fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso – Arturobm/CC BY-SA 4.0 APPROFONDIMENTO


27 La promozione a sergente Il suo nome sale agli onori della cronaca statunitense nel 1890, quando a New Orleans, nella notte fra il 15 e il 16 ottobre, un gruppo di ignoti tende un agguato al capo della polizia, l’irlandese David Hennessy, un ex cacciatore di taglie arrivista e spregiudicato. Poco prima di morire, l’uomo riesce a sussurrare la parola “dagoes”, un epiteto dispregiativo tipico della xenofobia antitaliana, e, in virtù di ciò, le autorità si accaniscono contro i circa 30.000 abitanti della Little Italy locale. Il punto della questione è che a New Orleans ci sono due famiglie malavitose in guerra fra loro, i Matranga e i Provenzano, e, dopo una serie di confessioni estorte sotto maltrattamenti, diciannove siciliani finiscono in prigione, ma non tutti sono legati ad attività criminali. Non ci sono prove sufficienti per accusarli dell’omicidio di Hennessy e Joe, molto più informato dei suoi colleghi, suggerisce di concentrarsi prima di tutto sul passato dell’uomo, colluso con i Provenzano e attivo nella lotta alla criminalità solo nei confronti dei Matranga. Il 13 marzo del 1891, i giudici assolvono gli imputati, ma l’opinione pubblica non è d’accordo e gli illustri cittadini della città decidono di farsi giustizia da soli, uccidendo undici dei diciannove imputati in quello che passerà alla storia come “il linciaggio di New Orleans”. Nonostante il tragico epilogo, l’intuizione di Joe e il suo straordinario lavoro sul campo attirano l’attenzione dell’allora membro dell’Assemblea dello stato di New York Theodore Roosevelt – poi presidente degli Stati Uniti d’America dal 1901 al 1909 – che lo indirizza verso una promozione a sergente nel 1895. Via la divisa; Joe è sprecato per il servizio d’ordine e il suo nuovo compito sarà condurre le indagini con metodi mai visti prima: attraverso pedinamenti, travestimenti di ogni sorta e missioni sotto copertura. Per lui, combattere la criminalità organizzata vuol dire anche spacciarsi per un semplice operaio e lavorare per settimane in cantiere. Camaleontico come pochi, si finge uno fra tanti, stringe amicizie, mente e ascolta confidenze di individui sospetti. Torna a casa sempre con le mani incallite e il taccuino pieno di appunti; poi procede agli arresti, spesso concedendo alla stampa “l’esclusiva” di assistere alle retate e documentare la sua personale caccia ai malviventi. La notte del 18 luglio del 1898, presso il caffè Tricarica di Little Italy, il quarantaduenne Natale Brogno muore in seguito a una colluttazione con il venticinquenne Angelo Carboni, che, però, si dichiara innocente. La sua versione dei fatti è questa: “Facevamo a pugni nel buio, quando a un tratto Brogno m’è caduto davanti e non s’è più mosso. Io mi sono chinato su di lui per rialzarlo e gli ho trovato un coltello conficcato nella schiena”. La giuria non gli crede e lo condanna alla sedia elettrica, ma a Joe qualcosa non torna e, chiedendo un po’ in giro, oltre a esaminare i precedenti della vittima, si mette sulle tracce di Salvatore Ceramello, presente al Tricarica la sera dell’omicidio e da allora scomparso nel nulla. Lo insegue fino in Canada, torna in patria e lo stana nei pressi di Baltimora, dove, pistola alla mano, lo arresta presentandosi nei panni di un semplice funzionario del servizio sanitario. Ceramello, infine, confessa di aver pugnalato Brogno e viene giustiziato al posto di Carboni Negli anni successivi, Joe bracca e smantella due bande di criminali italo-americani – gli “avvelenatori”, che drogano le proprie vittime con del vino pieno di sonnifero per poi derubarle, e gli “assicuratori”, truffatori attivi nell’ambito della sottoscrizione di false polizze sulla vita – e nel 1901, su mandato di Roosevelt, adesso vicepresidente degli Stati Uniti, si infiltra in un’organizzazione anarchica del New Jersey, forse collegata all’anarchico Gaetano Bresci, colpevole del regicidio di Umberto I di Savoia del 29 luglio 1900. Joe scopre che è in atto un piano per assassinare il presidente William McKinley Rappresentazione d’epoca del linciaggio di New Orleans


28 durante la sua visita all’Esposizione panamericana di Buffalo, in programma dal 1° maggio al 2 novembre, ma l’uomo fa orecchie da mercante e, la mattina del 6 settembre, l’anarchico Leon Czolgosz lo ferisce mortalmente con un colpo di pistola. A tragedia avvenuta, Petrosino rende pubblici i risultati della sua indagine e, anche se il legame fra Bresci e Czolgosz non sarà mai provato, la stampa gli rende omaggio come “il detective italiano che ha cercato di salvare McKinley”. La Mano Nera e il “delitto del barile” Intanto, a New York, il mondo della criminalità sta cambiando e, fra le strade di Little Italy, spadroneggia la Mano Nera, un’organizzazione che racchiude diverse bande para-mafiose dedite al pizzo, alla falsificazione di banconote e all’estorsione per mezzo di lettere di scrocco, queste ultime contrassegnate dall’impronta di una mano nera, da cui appunto deriva il nome. “I cosiddetti membri della Mano Nera non hanno niente di invincibile, e verrà il giorno, io spero, che cominceremo a trovarne qualcuno penzolante da un lampione o fatto a pezzi per strada”, dirà Petrosino al New York Herald nel febbraio del 1903. Nello stesso anno, all’alba del 14 aprile, una donna trova sul marciapiede un barile con dentro un cadavere nascosto nella segatura. La vittima, sconosciuta alle forze dell’ordine, è stata uccisa a coltellate e mutilata dei genitali, rinvenuti nella sua bocca, per poi essere chiusa in un recipiente ligneo con la sigla “W.T.” sopra e una modesta quantità di polvere dolciastra attorno. Petrosino – a cui, ovviamente, viene affidato il caso – si concentra su quest’ultimi due elementi e segue una pista che lo porta alla fabbrica di dolciumi Wallace e Towney, fornitrice del locale La Stella d’Italia, di proprietà del siciliano Pietro Inzerillo e noto ritrovo della banda di Giuseppe Morello, uno dei principali boss della Mano Nera. Tutto torna e la prova del nove Joe se la procura infiltrandosi sotto copertura nella suddetta fabbrica, dove preleva della segatura che risulterà identica a quella contenuta nel barile. Movente e nome del malcapitato glieli fornisce Giuseppe Di Primo, un falsario ex socio in affari della banda Morello. Joe lo va a trovare nel carcere in cui è detenuto e, nella foto del cadavere, l’uomo riconosce suo cognato Benedetto Madonia. A detta di Di Primo, Giuseppe Morello aveva un debito con Madonia, che, forse, è stato ucciso proprio dopo un tentativo di riscossione. Scatta la retata e finiscono in manette alcuni membri della banda, fra cui Giuseppe Morello, Tommaso Petto, papabile esecutore materiale, il sicario Ignazio Lupo e Giuseppe Fontana, emigrato in America dopo la scandalosa assoluzione per l’omicidio del banchiere siciliano Emanuele Notarbartolo. Vito Cascio Ferro, invece, malavitoso palermitano arrivato a New York nel 1901, riesce a sottrarsi all’arresto scappando a New Orleans, per poi rientrare in Italia nel 1904. Nonostante l’ottimo lavoro del detective Petrosino, il processo legato al cosiddetto “delitto del barile” si conclude con un nulla di fatto. Una “lettera di scrocco” della Mano Nera 28 Tutti gli imputati tornano in libertà, ma, grazie alla presenza di Fontana, Joe inizia a intravedere quella sottile linea rossa che unisce criminalità italiana e statunitense. L’attentato a Enrico Caruso Il successivo 23 novembre, il Metropolitan House Opera di New York ha in cartellone il Rigoletto di Giuseppe Verdi, con il tenore partenopeo Enrico Caruso alla sua prima apparizione oltreoceano nel ruolo del duca di Mantova. Lo spettacolo è un successo e ad assistere a una delle repliche c’è anche Joe, grande appassionato di musica ed estimatore del suo celebre conterraneo. A rappresentazione finita, mentre Caruso si fa largo fra la folla per raggiungere l’uscita, il sergente si piazza nei pressi dell’auto del tenore, nella speranza di stringergli la mano. Sembra una serata come tante. Eppure… Il cofano dell’automobile di Caruso ha qualcosa di strano, forse è stato manomesso, e, proprio quando l’autista sta per mettere in moto, Petrosino lo ferma e rinviene una bomba a orologeria destinata a esplodere di lì a otto minuti. Come si scoprirà in seguito, il tentato omicidio è opera della Mano Nera, che sta ricattando Caruso fin dal suo arrivo in America. Il tenore Enrico Caruso nei panni del duca di Mantova in Rigoletto


29 L’Italian branch Tanto zelo e tanto coraggio gli valgono, nel 1905, la promozione a tenente e il via libera per la formazione dell’Italian branch, una sua squadra composta solo da agenti fidati di origini italiane. Per la lotta alla Mano Nera è un punto di svolta. Fra travestimenti, interrogatori, arresti e retate, per anni, Petrosino e i suoi uomini mettono in seria difficoltà il business del pizzo, facendosi nemici potenti e portando la questione malavitosa all’attenzione nazionale. Per Joe, il problema sta a monte e il Congresso dovrebbe dotare la polizia di strumenti che permettano “di arrestare o di espellere come cittadini indesiderabili quegli individui che risultano ricercati o pregiudicati nei rispettivi paesi d’origine”. La Mano Nera è nata proprio a causa dell’emigrazione dei mafiosi e, nel luglio del 1907, entra in vigore una legge che, però, rende passibile di espulsione solo chi risiede negli Stati Uniti da meno di tre anni. La vecchia guardia è nel Nuovo Mondo già da qualche tempo e, visti i risultati dell’Italian branch, il nuovo capo della polizia newyorkese, Theodore Bingham, propone a Joe, ormai all’apice della carriera, di recarsi sotto copertura in Italia, per investigare su quel mercato nero dei passaporti che ha permesso alle mele marce di arrivare a Ellis Island con la fedina penale pulita. Bisogna partire dal principio, dove tutto è iniziato, e recidere il legame fra i due mondi: è questa la nuova missione di Joe Petrosino, accolta con favore dai suoi superiori e finanziata nella più assoluta segretezza dallo Stato e da cittadini privati come John Rockfeller e altri banchieri. La missione in Sicilia Il tenente italo-americano si imbarca sul piroscafo Duca di Genova il 9 febbraio del 1909 e, a distanza di oltre tre decadi, rimette piede in patria il 21 dello stesso mese. Nel frattempo, la segretezza della missione è già stata violata dal New York Herald e la misteriosa fuga di notizie ha messo in allarme i mafiosi in contatto con l’America, inclusa una sua vecchia conoscenza: Vito Cascio Ferro. La prima tappa è Roma, dove Joe incontra il Ministro degli Esteri Camillo Peano e il Capo di polizia Francesco Leonardi. Quest’ultimo ordina a tutti i prefetti di non rilasciare passaporti ai pregiudicati in partenza per gli Stati Uniti e scrive ai questori di Sicilia, Calabria e Napoli, chiedendo loro di offrire al collega la massima collaborazione e discrezione. La strada sembra spianata – almeno a livello burocratico – ma per Joe è una corsa contro il tempo e, dopo una breve tappa nella natia Padula, il 28 febbraio arriva a Palermo. Le indagini sui nomi della sua lista, però, sono più che altro inconcludenti, perché tanti casellari giudiziari sono vuoti o scomparsi ed è evidente che certi individui godano della protezioni di politici e istituzioni. La resa dei conti arriva nella tragica sera del 12. Joe si reca a piazza Marina per incontrare un informatore e viene freddato con quattro colpi di pistola APPROFONDIMENTO LE ORIGINI DI COSA NOSTRA STATUNITENSE Dalla Five Points Gang alla Mano Nera Ainizio ’900, a New York ci sono diverse bande di strada che si contendono le varie zone d’influenza. Fra gli italiani c’è Paul Kelly, all’anagrafe Paolo Antonio Vaccarelli, un ex pugile originario di Potenza – quindi non siciliano – che dismette i panni da popolano rozzo e sporco, come vuole lo stereotipo, e inizia a vestire abiti eleganti; una caratteristica che accomunerà tutti i suoi subalterni, fino a dar vita al classico aspetto da rispettabile uomo d’affari tipico dei gangster. A New York, Kelly è il primo a concepire il crimine come un business organizzato. Fonda la famigerata Five Points Gang e apre diverse case di piacere nel West Side di Manhattan, ma nel giro della prostituzione c’è anche la Eastman Gang dell’ebreo Monk Eastman, che, invece, opera nell’Est Side di Manhattan. Le due bande criminali sono entrambe in stretti rapporti con la Tammany Hall, un’organizzazione collegata al Partito Democratico che offre protezione politica dietro lauto compenso. Nei primi anni del Novecento, Eastman e Kelly iniziano una guerra per il controllo di Manhattan e i membri della Tammany Hall propongono di decidere l’esito con un match di boxe clandestino. I due boss si affrontano per circa due ore, ma l’incontro si conclude con un pareggio e la faida continua fino al 1904, quando Eastman viene arrestato per rapina a mano armata e la Tammany Hall non interviene, decretando quindi la vittoria di Kelly. La Five Points Gang rileva tutte le attività della Eastman Gang e ottiene il monopolio su Manhattan, ma la crescente influenza dei gangster italiani costringe le bande irlandesi a riorganizzarsi nella cosiddetta White Hand Gang, il cui nome nasce in risposta a quelli che sono i loro principali rivali, i membri della Mano Nera, da cui, grazie alla fine della cosiddetta guerra castellammarese, all’intervento di Lucky Luciano e all’istituzione del Sindacato Nazionale del Crimine, nascerà la versione di Cosa Nostra statunitense. Membri della Five Points Gang di New York


30 Chi ha ucciso Joe Petrosino? La reazione delle autorità è immediata: il governo italiano mette a disposizione un premio di circa 10.000 lire per chiunque abbia informazioni utili, ma l’omertà è più forte dei soldi e le bocche restano chiuse. Nel frattempo, la salma torna a New York, dove viene accolta da oltre 250.000 persone, e il suo braccio destro, Michael Fiaschetti, gli succede nell’Italian branch. Il processo, invece, si ferma alla fase istruttoria per mancanza di prove e tutti i quindici sospettati torneranno in libertà entro il 1911. Fra loro c’è anche Vito Cascio Ferro, arrestato con una fotografia di Petrosino in tasca e rilasciato grazie a un alibi fornito da un deputato suo amico. Il nome del boss torna in auge in epoca fascista, quando il prefetto di ferro Cesare Mori riceve l’incarico di sgominare la mafia in Sicilia, riuscendo ad assicurare alla giustizia proprio Vito Cascio Ferro, che, intervistato in prigione, dichiarerà di aver ucciso solo una persona in tutta la sua vita, aggiungendo un enigmatico “e l’ho fatto disinteressatamente”. Sembra un riferimento a Joe Petrosino e l’ultimo tassello del puzzle arriva in tempi recenti, nel 2014, con un’intercettazione telefonica in cui il malavitoso Domenico Palazzotto dice: “Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto. Ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro”. Anche se non si ha alcuna certezza, l’ipotesi più attendibile è che i membri della Mano Nera, probabilmente Giuseppe Morello in primis, chiesero a don Vito di occuparsi del capo dell’Italian branch. Cascio Ferro fu, quindi, un mandante “disinteressato” – per citare le sue parole – mentre Palazzotto, fra i principali sospettati dell’epoca, uno degli esecutori materiali dell’omicidio. A livello legale, nessuno ha mai pagato per la scomparsa dell’eroico tenente newyorkese; quindi, tornando all’inizio del nostro film noir, quando Joe giunge a destinazione e muore, il punto di vista non può più essere il suo e la telecamera si sposta sulle persone presenti alla vicina fermata del tram perché noi, come loro, solo così possiamo vederne la fine. Perché non ci riguarda; perché è “cosa nostra”, dicono i mafiosi. Ma Joe non la pensava così. Usando le parole di Paolo Borsellino, il tenente Petrosino, morto martire per una giusta causa, era una di quelle “teste di minchia” che sognavano “niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”. I funerali di Joe Petrosino a New York Joe Petrosino in divisa da poliziotto


31 Il tenente Joe Petrosino


32 Ballo al Moulin Rouge, dipinto di Henri de Toulouse-Lautrec del 1889-90 STORIE DI DONNE Nome: Louise Joséphine Weber. Nome d’arte: La Goulue. Professione: danzatrice circense. Segni particolari: dopo aver fatto la modella per i più grandi artisti della Ville Lumière, diventa ballerina fissa al Moulin Rouge, consacrando se stessa come regina di Montmartre. Perché è una figura iconica? È stata lei a inventare il Can-can! Questo è tutto ciò che più o meno sapevo di lei. Poi, un bel giorno, mi scrive il mio direttore: «Daria, per il prossimo numero della rivista vogliamo approfondire la figura di Louise Weber… Chi meglio di te, che sei la nostra esperta della Parigi bohémienne?». “E fosse facile, Nicò!”, penso. Le notizie su Louise sono brevi e frammentate e la sua vita è avvolta in un’aura di mistero già dalla primissima infanzia. La maggior parte delle fonti sostiene nasca nel 1866 e trascorra i suoi primi anni al n.1 di Rue Martre di Clichy con padre, fratello e sorella. E la madre? Abbandona il tetto coniugale per rifarsi una vita con un altro uomo quando lei ha appena tre anni. Un altro accadimento sul quale le fonti concordano è che Louise perda la verginità a soli 13 anni per mano di un soldato molto più grande di lei e, questo, nonostante studi dalle suore! Mi basta una ricerca incrociata sui principali protagonisti della Montmartre del tempo ed ecco spalancarsi dinanzi ai miei occhi quel portone dei desideri che mi catapulta in un mondo fatto di sale fumose, alcol a fiumi, cosce volanti e aureole che cadono tintinnando sui banconi dei bar... NOTA DELL’AUTRICE


33 PARIGI A GAMBE ALL’ARIA Louise Weber e l’invenzione del Can-can


34 La piccola Louise è fatta per lo spettacolo. Sin dai 4/5 anni i suoi passatempi preferiti sono ballare, cantare e sgattaiolare fuori di casa indossando gli abiti oversize della madre abbandonati nell’armadio; pensate che debutta già a 6 anni all’Élysée Montmartre, in una rappresentazione per bambini patrocinata addirittura da Victor Hugo in persona. Nel 1870 il suo amato padre Dagobert, che fino a quel momento ha lavorato come carpentiere tirando su tre figli con grande sacrificio, è costretto a partire, arruolato nel conflitto franco-prussiano. Tornerà orfano di entrambe le gambe, per cui Louise è obbligata a proseguire la sua educazione in un istituto religioso, fino al 1874, anno in cui Dagobert muore e lei si trasferisce a Saint-Ouen, da suo zio Georges. Dopo gli studi trova lavoro come lavandaia e, su consiglio dell’attrice e ballerina Céleste Mogador, che conosce per caso una sera in un caffè, decide di scappare nella capitale francese in cerca di un impiego come danzatrice, magari in qualche locale nel cuore della famigerata Parigi degli artisti: Montmartre. Montmartre Il celebre quartiere si erge su una graziosa collinetta affacciata su Parigi, da cui la capitale appare, ancora oggi, in tutta la sua magnificenza. All’inizio dell’Ottocento il villaggio rurale che l’ospita è punteggiato da vigneti e mulini a vento ma, nel giro di pochi decenni, inizia a perdere quella sua connotazione prettamente agraria, venendo annesso all’interno dei confini di una capitale in rapidissima espansione, sia economica che culturale. Solo nel 1860, il villaggio di Montmartre diviene ufficialmente il 18° arrondissement della città di Parigi. Durante la Belle Époque e sino alla fine del primo conflitto mondiale, le sue strade ospitano alcuni dei più talentuosi artisti del panorama internazionale. Il quartiere è un civettuolo e colorato brulicare di modelle, cameriere, danzatrici e venditori ambulanti di tutti i tipi. Alcuni dei vecchi macinatoi come il Moulin de la Galette, vengono convertiti in sale da ballo dove musica, sbronze e chiacchiere da mal di testa diventano i protagonisti indiscussi, mentre le frizzanti serate parigine sono un fatto talmente eccitante da venir immortalate quasi quotidianamente da artisti del calibro di Henri de Toulouse-Lautrec e Vincent Van Gogh, assieme Il Moulin Rouge in un dipinto del 1910 di Georges Stein


35 ovviamente ai loro pittoreschi protagonisti. Nell’ottobre 1889 viene inaugurato il celebre Moulin Rouge, la cui fama è nota a livello mondiale per aver dato i natali a uno dei balli più rappresentativi del tempo: il Can-can. Ma andiamo con ordine, perché, lo abbiamo detto, sarà proprio Louise Weber a introdurre questa nuova danza, facendo in modo che il mondo dell’intrattenimento cambi per sempre. Ci eravamo lasciati con la sua fuga verso la capitale e alla voglia di sfondare come danzatrice. Beh, si dà il caso che, tra il lavaggio a mano di lenzuola per conto terzi a SaintOuen e il mostrare i mutandoni sui palchi dei locali più trendy di Montmartre, vi sia un breve ma intenso periodo in cui l’inquieta ragazza decide di unirsi a un gruppo di artisti circensi, che contribuiranno non poco a definire quell’animale da palcoscenico che diventerà in seguito. Notata dalle coreografe e ballerine del Cirque Fernando per le sue innegabili capacità, nel 1885 viene spedita, quasi con la forza, nel quartiere degli artisti per partecipare a qualche audizione ed entrare nel circuito dei locali notturni. Arrivata a Pigalle nello stesso anno, inizia a fare la modella per pittori e fotografi come Victor Noir e Auguste Renoir, ma è Henri de Toulouse-Lautrec a cambiarle la vita quando, durante una delle loro lunghe sedute di posa, le consiglia di proporsi al Moulin de la Galette, dove verrà immediatamente ingaggiata come ballerina. Il nome originario della sala da ballo proviene dalla specialità culinaria della casa: gallette inzuppate nel vino, molto in voga tra i “montmartrini” dell’epoca e apprezzatissime dalla nostra scatenata ballerina. Per l’occasione Lautrec disegna e fa stampare il famoso manifesto che la ritrae mentre danza, opera che è l’inizio, oltre che di un sodalizio professionale, anche di una profonda amicizia tra i due. La fama di Louise cresce assai velocemente, grazie all’esuberanza dei modi e alla rubrica riservata alla promozione degli eventi mondani di Charles Desteuque, un giornalista e scopritore di talenti all’epoca molto influente. Praticamente un Aldo Grasso ante litteram! Il Can-can Alla Galette, Louise sfoggia una serie di coreografie audaci e molto innovative, che aveva tra l’altro già messo a punto in quelle rare occasioni in cui era riuscita a partecipare come animatrice ai cabaret di periferia. Una in particolare la rende una leggenda: nell’eseguire la quadriglia – una danza tradizionale a quattro coppie disposte a forma di quadrato – e prendendo spunto dalle lavandaie di Montmartre, che ogni Louise Weber al Moulin Rouge col tipico costume del Can-can


36 domenica usavano scuotere le loro gonne per le strade del quartiere in segno di festa, Louise è solita alzare la gonna mostrando con fierezza il suo sedere coperto da delle culotte in filo bianco e merletto, con sopra disegnato un vistosissimo cuore rosso. E lo fa come a dire “Toccalo adesso!”, salvo poi schivare le mani degli sfortunati – e infoiati – spettatori, mentre si diverte a sfilargli il cappello con le dita dei piedi. Come se la tortura non fosse già abbastanza, si diverte a chiudere ogni numero rubando ai clienti della prima fila l’ultimo sorso del loro bicchiere. E così nasce una nuova forma d’espressione che rappresenta, anzitutto, uno smaccato atto di ribellione verso una società eccessivamente perbenista, una società che – ancora per poco, per fortuna! – vorrebbe le donne coperte fino alle caviglie, dimesse, poco inclini “al movimento” e, di conseguenza, distanti da una piena libertà di espressione. Piccolo disclaimer: asserire con assoluta certezza che una sola persona abbia inventato il Can-can nel delirio creativo della Parigi di quegli anni è quantomeno avventato, ma, di sicuro, Louise Weber è quella che lo ha reso celebre e ha contribuito a farlo affermare e conoscere nel mondo. E prima di lei cosa c’era? Si dice che quel tipo di danza così ribelle, da far sembrare le ballerine possedute, girasse nelle bettole e nei locali notturni di Parigi da almeno 40 anni, ma in una variante abbastanza diversa e certamente meno sfrontata. Di sicuro, Louise fu abilissima a intercettarne gli ardori, modernizzarla, farla sua e divulgarla “a gambe all’aria”. Dal Moulin Rouge al circo Ora, una data da ricordare: il 26 ottobre 1890, l’allora principe del Galles e futuro re Edoardo VII d’Inghilterra, in visita privata a Parigi, prenota un tavolo alla Galette per tentare di tastare con le sue stesse mani (!) la celebre quadriglia del Can-can, la cui reputazione ha già travalicato la Manica. Riconoscendolo, Louise si catapulta immediatamente di fronte a lui e inizia ad alzare le cosce gridando con tutto il fiato che ha in corpo: «Hey, Galles, qui si paga lo champagne, eh!» Le cronache dell’epoca riportano la notizia di un Edoardo piacevolmente sorpreso, che, alla fine, addirittura le offre l’intera bottiglia È un momento inarrestabile nella carriera della Weber, che nel 1891 viene ingaggiata dal proprietario del celebre Moulin Rouge, Charles Zidler, dove si afferma prepotentemente come La parabola artistica di Isadora Duncan ebbe inizio nel 1898, a Londra, dove trascorreva lunghe giornate al British Museum, contemplando le opere greche, studiando i movimenti delle sculture e leggendo testi sull’influsso dell’arte classica sulla musica e sulla danza. Era destinata a diventare colei che avrebbe inventato la danza moderna e un nuovo stile espressivo che abbandonava il classicismo delle convenzioni e delle posizioni artificiali in voga alla fine dell’Ottocento, a favore di una danza dai movimenti fluidi e spontanei. L’immagine emblematica di questo movimento, che Isadora cercava di riprodurre nelle sue danze, era l’onda, un’elegante fusione di luce, suono e passi di danza, che simboleggiavano la ciclicità e l’energia della natura, che continuamente si rigenera. I suoi spettacoli, ispirati all’antichità greca e al periodo rinascimentale, in cui esordiva scalza, a chiome sciolte e avvolta in pepli e veli fluttuanti, ebbero ben presto grande successo in tutta Europa. In un’epoca in cui il balletto classico era prevalentemente dominato da étoile maschili, la Duncan dei virtuosismi e delle danze anticonvenzionali, che sembravano celebrare l’indipendenza e l’espressione di sé, era adorata anche dal pubblico femminile. Il 14 settembre del 1927, a Nizza, Benoît Falchetto, un pilota automobilistico italo-francese, offrì il posto del passeggero sulla sua Bugatti alla celebre ballerina. Nel salire sulla potente vettura, prima che la lunga sciarpa che le avvolgeva il collo si impigliasse nelle ruote dell’auto strangolandola, Isadora prese commiato dai suoi amici pronunciando una frase fatale, destinata a restare tristemente famosa: “Adieu, mes amis. Je vais à la gloire!” (Addio, amici miei, vado verso la gloria!). Le parole vennero riportate da Mary Desti, che in seguito disse a Glenway Wescott, scrittore e amico di entrambe, che erano state un’esagerazione per rendere la morte dell’artista ancor più spettacolare. Le sue ultime parole sarebbero state, in realtà: “Je vais à l’amour”. Una frase che suona come “vado all’amore” o “sono innamorata”, riferendosi al pilota della Bugatti con cui si accompagnava all’albergo. Aveva sempre amato i veli e le sciarpe, Isadora, al punto che erano diventati i suoi costumi di scena preferiti. ISADORA DUNCAN Come rivoluzionò la danza VITE PARALLELE Isadora Duncan


37 una delle ballerine più conturbanti e divertenti della scuderia. Negli intermezzi tra uno spettacolo e l’altro, Louise ama fare il giro dei tavoli per ripulire i piatti di chiunque si azzardi a lasciare residui di cibo e per bere champagne e vino avanzati nei calici. Da qui il soprannome La Goulue – letteralmente “La Golosa” – che non ha niente a che fare col sesso, anche se la nostra affezionata non è certo nota per la sua compostezza in presenza di uomini, e nemmeno di donne, dato che è felicemente bisessuale e non si vergogna ad ammetterlo. L’atteggiamento libertino la porta, qualche anno dopo, a restare incinta e partorire Simon Victor. Non si sa chi sia il padre, a detta della Weber si tratta di un principe che vuole rimanere anonimo. La maternità la spinge, comunque, a prendere una decisione che cambierà per sempre le sorti della sua carriera: lasciare il Moulin Rouge per tornare a lavorare nel mondo del circo. E la scelta si rivela pure vincente, visto che diventa un’affermata domatrice di animali e conosce il prestigiatore Joseph-Nicolas Droxler, che sposerà nel 1900. Di contro, il lavoro le fa perdere per sempre una certa credibilità artistica, che, con sacrificio e tanta tenacia, è riuscita a conquistarsi. Gli ultimi anni Il 24 gennaio 1904 la Weber e suo marito vengono attaccati durante uno spettacolo da alcune belve feroci (puma o leoni, non si sa di preciso) che sono parte della scenografia di uno spettacolo che li vede entrambi protagonisti. I due se la cavano per un pelo. Dopo questo traumatico evento, Louise decide di abbandonare per sempre la carriera circense e torna al suo vecchio amore: il cabaret. Ormai fuori dal giro delle grandi scene parigine, riparte con spettacoli ben più modesti, in scena presso il piccolo Théâtre des Bouffes du Nord, nella parte settentrionale della capitale. Inutile sottolineare che il successo riscosso dalla sue performance adesso non è nemmeno paragonabile ai fasti d’un tempo: la donna è ormai una stella sbiadita in un cielo pieno di nuvole, che non lasciano spazio nemmeno a uno spiraglio di luce. Nel 1917 Louise resta vedova – suo marito viene ferito a morte durante la Prima guerra mondiale – e nel 1923 perde anche il suo amato e unico figlio, da lei soprannominato bouton d’or. Devastata dai lutti e ormai completamente dimenticata dal pubblico, Madame Louise – come adesso si fa chiamare – sceglie di dissolvere nell’alcol tutte le sue pene. Sperpera così tutti i suoi averi, inizia a ingrassare a vista d’occhio e si dà alla raccolta di stracci per le strade, che rivende per due soldi al mercato delle pulci di Saint-Ouen. Quando nel 1928, a soli sessantun anni, si mette a smerciare fiammiferi, noccioline e sigarette agli angoli della strada vicino al Moulin Rouge, in pochi riconoscono nei suoi tratti, stanchi e appesantiti, quelli della giovane ballerina che aveva cambiato le sorti del cabaret francese. Quasi sul lastrico, nel periodo primaverile ed estivo vive in una piccola roulotte parcheggiata stabilmente al n. 59 di Rue des Entrepôts, mentre in inverno si sposta nella zona di Montmartre, nei pressi del cabaret La Cigale, nella speranza che qualcuno le offra un nuovo ingaggio. Nonostante il vortice oscuro in cui è caduta, Louise resta una figura carismatica delle bettole di Parigi, per questo il regista Georges Lacombe la filma per la sua opera d’avanguardia sul popolo dei bassifondi La Zone, dove appare pesantemente invecchiata e malaticcia, anche se con ancora tanta, tantissima voglia di danzare. Un estratto della sua intervista è oggi reperibile su Youtube. Sofferente a causa dell’alcolismo e dell’obesità, La Goulue è vittima di un attacco apoplettico e, dopo dieci giorni d’agonia, muore all’Hôpital Lariboisière. È il 29 gennaio 1929. Viene sepolta nel cimitero parigino di Pantin alla presenza di Pierre Lazareff, in rappresentanza della direzione artistica del Moulin Rouge. Per merito di Michel Souvais, un suo discendente, viene esumata nel 1992 per essere trasferita, grazie anche al benestare dell’allora Presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, al cimitero degli artisti di Montmartre, dove riposa tutt’oggi. La mamma del Can-can torna così a casa, vicino a quelli come lei: i veri artisti. Articolo d’epoca che annuncia la notizia della morte di Louise Weber


38 STORIE DI RE E REGINE 38 Santa Irene la Giovane raffigurata sulla Pala d’Oro, IX secolo, Basilica di San Marco Solido di Costantino VI insieme a sua madre Irene – PHGCOM/CC BY-SA 3.0


39 IRENE DI ATENE Imperatrice, assassina e santa Bisanzio, una città magica con un’infinità di storie da raccontare. Una città che ha molti nomi: oggi viene chiamata Istanbul, ma in Grecia è ancora Costantinopoli, la città di Costantino, uno scrigno pieno di racconti che, nella nostra Italia (molto occidentale), sono meno celebri rispetto alle vicende legate ai sovrani francesi, tedeschi, spagnoli o inglesi. Ma la storia di Bisanzio e dell’Impero Romano d’Oriente è legata a doppio filo con la nostra e Irene di Atene è uno dei personaggi cardine di quella storia. Basti pensare che fu lì lì per sposare Carlo Magno, se solo non fosse stata detronizzata da un suo “fedelissimo”. Nella vicenda umana di Irene c’è tutto. Dall’avidità per il potere, al cinismo nel far accecare un figlio, dalla voglia di indipendenza rispetto al mondo maschile, alla lotta per far accettare il culto delle immagini religiose. Una storia irripetibile, vissuta da una donna unica che, come parallelismo nell’Europa più occidentale, trova il pari forse solo con quella di Teodolinda (vedi box di approfondimento), anche se questa non fu costretta alla violenza assoluta come lo fu Irene, o con Matilde di Canossa, la signora del Medioevo italiano (vedi box di approfondimento). 39


40 Irene e la “Sfilata della sposa” La storia di Irene (il suo nome completo era Ειρήνη Σαρανταπήχαινα της Αθήνας), nata ad Atene attorno al 752, inizia nella città greca che le darà il nome. Cresciuta in una ricca famiglia ateniese, i Σαρανταπήχου - Sarantapechos, della sua infanzia non sappiamo molto, se non che rimane orfana e viene cresciuta dallo zio, il capo del tema, il feudo, di Atene, che però all’epoca è un piccola città di provincia dell’Impero Bizantino, nulla a che vedere con la grande città dell’era classica o con la moderna megalopoli di oggi. Quando ha 17 anni circa, nel 769, intraprende un lunghissimo viaggio fino a giungere nei pressi di Costantinopoli, un tragitto che la conduce alla corte di Costantino V. Qui la storia diventa curiosissima. Irene partecipa alla “Sfilata della sposa”, un rito che prevede una vera e propria sfilata di donne con i titoli per diventare imperatrici consorti. Fra le ragazze, ingioiellate e abbellite il più possibile, viene scelta la vincitrice non solo per la “bellezza”, ma anche per l’eleganza e il portamento, in modo da risultare la più degna di condividere il trono. È bene specificare che non siamo sicuri di questa sfilata, perché, per Irene, non è un dato storico accertato, ma presunto. La suocera era stata scelta così e Irene stessa indirà una sfilata per il figlio Costantino. Le probabilità che sia stata scelta in questo modo sono molto alte, ma non certe. Una piccola digressione. Queste erano le caratteristiche ricercate: un’altezza giusta secondo il metro imperiale, di cui non sappiamo nulla, un seno rigoglioso, evidente richiamo alla maternità, e un piede che rientrasse nelle misure richieste, caratteristica anche questa di cui non sappiamo nulla. L’unico dato certo è che, in quel momento, la sorte di Irene cambia Rappresentazione moderna di una sfilata delle spose CRONOLOGIA 752 Nasce ad Atene Irene Sarantapechaina 769 Ha luogo a Costantinopoli il matrimonio di Leone IV e Irene 771 Nasce l’erede al trono dei Romei, il futuro Costantino V 775 Muore Costantino V e Leone IV gli succede come imperatore 780 Leone IV si spegne in seguito a un malore e Irene assume la reggenza dell’Impero 787 Al Concilio di Nicea, Irene riesce a far scomunicare gli iconoclasti Solido con l’effigie dell’imperatrice Irene – Classical Numismatic Group, Inc./CC BY-SA 3.0


41 la Storia. Viene scelta come consorte e, nel giro di un mese, si sposa con Leone, diventando erede al trono di un impero ricchissimo. È curioso pensare cosa le sarebbe successo se non fosse stata scelta. Di lei non avremmo saputo assolutamente nulla: sarebbe stata una delle tantissime persone dimenticate nel corso della Storia. E invece... Iconodulia vs iconoclastia Alla corte bizantina, Irene è benvoluta e ha la fortuna di riuscire a partorire, dopo appena un anno di nozze, un maschio, Costantino VI, nato a gennaio del 771. Riguardo la vita di Leone IV e Irene, fra il 769 e il 775 non sappiamo praticamente nulla, ma diventano protagonisti nel 775, quando Costantino V muore e Leone diventa imperatore dei Romei (Βασιλεὺς τῶν Ῥωμαίων). Sulla politica estera di Leone IV non dirò nulla, ci vorrebbe un articolo a parte per trattare di questi aspetti. La parte del suo regno che ci interessa oggi è certamente a livello di politica interna, direi quasi familiare, e di politica religiosa. Il periodo è quello della diatriba fra gli iconoclasti, coloro i quali avversano la venerazione delle immagini sacre, per loro un pretesto per idolatrare le icone stesse al pari degli dèi pagani, e gli iconoduli, coloro i quali, invece, sostengono sia legittimo realizzare e venerare le immagini sacre, perché rimandano all’idea della divinità cristiana. La lotta non è solo sul “principio”, ma anche sulla politica: mentre gli iconoduli hanno un grande seguito a livello del clero cristiano, gli iconoclasti sono affini al mondo musulmano, religione ancora oggi iconoclasta. Il talamo nuziale è condiviso da due persone di fede uguale (il cristianesimo non era ancora diviso fra cattolico e ortodosso), ma di indirizzo diverso, ovvero Irene iconodula e Leone IV iconoclasta. Il nonno di Leone IV, Leone III, aveva condotto una vera e propria battaglia contro le immagini sacre, facendo distruggere tutte le icone dell’Impero Bizantino e così aveva fatto anche il padre, Costantino V. Non voglio dilungarmi, ma abbiate pazienza, è da qui che origina una battaglia feroce: Leone III aveva condotto questa crociata contro le immagini sacre forse per convinzione religiosa e superstiziosa, perché convinto che le calamità naturali che affliggevano l’impero fossero dovute all’ira divina, ma anche per convenienza politica, perché in quel modo si ingraziava i moltissimi musulmani ed ebrei che vivevano nel suo impero. Purtroppo per lui, i cristiani erano storicamente iconoduli; quindi, da una parte otteneva consenso, mentre dall’altra lo perdeva. Leone IV si lascia influenzare dall’iconodulia di Irene d’Atene, ma non compie chissà quali persecuzioni nei confronti delle immagini sacre, fino a quando non scopre quale intollerabile “peccato” commetta la moglie. Un giorno, alzando il cuscino della donna, scopre che dorme in un letto dove sono presenti due immagini sacre coperte, due santini per esser più spicci, un affronto intollerabile per l’imperatore. Irene perde il suo favore e i consorti finiscono col dormire in stanze separate. Nel 780, Leone muore in seguito a un malore, probabilmente un violento attacco di febbre causato dalla tubercolosi. Alcuni ritengono che fu Irene ad avvelenare il marito, altri sono più scettici riguardo questa tesi, perché le fonti sono tutte successive al regno dei sovrani. In pratica non sapremo mai quale fu la reale causa della morte. Sia come sia, il figlio di nove anni della coppia, Costantino VI, diventa il nuovo imperatore. Era già stato nominato dal padre suo co-imperatore mentre era in vita e Irene assume la reggenza dello Stato. Ma l’imperatrice naviga in acque burrascose. Costantino VI e la reggenza Solo due mesi dopo l’ascesa di Costantino e Irene, i fratellastri dell’imperatore, che sono cinque (Niceforo, Cristoforo, Niceta, Antimo ed Eudocimo) e parecchio arrabbiati per non esser stati nominati come successori da Leone, pianificano di far salire al trono il più anziano fra loro, Niceforo, il quale ha già tramato contro Leone IV nel 776. La questione diventa l’ennesimo motivo per contrapporre gli iconoclasti, i fratelli di Leone e apprezzati membri dell’élite militare dell’Impero, a Irene, iconodula e avulsa dal contesto militare, ma il complotto fallisce. E Leone IV (a sinistra) e suo figlio Costantino VI (a destra) su una moneta dell’epoca. 790-791 Irene si nomina autocrate dei romani. Suo figlio reagisce e assume il potere da solo, ma la madre riesce a tornare imperatrice 797 Irene fa cavare gli occhi a Costantino VI, che morirà poco dopo, lasciando la madre saldamente al potere da sola 800 Papa Leone III incorona Carlo Magno imperatore dei romani 802 Fallisce il tentativo di Irene di sposare Carlo Magno. La donna viene poi detronizzata da Niceforo I il Logoteta e spedita in esilio lontano da Costantinopoli 803 L’ex imperatrice muore in povertà sull’isola di Lesbo 864 Irene d’Atene viene canonizzata come santa


42 qui ci si potrebbe aspettare che i cinque fratelli vengano decapitati o siano torturati a morte. E invece no. In quel tempo – era già successo con Leone IV e Niceforo – una possibile punizione per i parenti che complottavano contro l’imperatore era la tonsura clericale e la condanna all’esilio come sacerdoti. Tutti e cinque vengono quindi fatti preti e allontanati da Costantinopoli, una punizione evidentemente assai grave all’epoca. I fratelli dell’ex imperatore li ritroveremo pochi anni dopo, protagonisti di un nuovo tentativo di colpo di Stato Nel 792, Niceforo viene acclamato da una parte delle truppe come imperatore, al che Costantino VI reagisce con violenza. Niceforo finisce accecato, agli altri quattro viene tagliata la lingua e tutti subiscono il confino in monasteri sparsi per l’Impero. Sventata la congiura dei fratelli di Leone, Irene si dedica all’amministrazione dello Stato, che tenta di cambiare radicalmente a livello religioso. L’imperatrice decide che l’iconoclastia va resa illegale e ordisce tutta una serie di trame a livello clericale, affinché il suo progetto prenda forma. Alla fine, riesce davvero a far scomunicare gli iconoclasti con il Concilio di Nicea del 787, una vittoria personale che parte da lontano e la fa risultare apprezzatissima dal clero cristiano. Al concilio, però, non viene convocata una delegazione franca e Carlo Magno non la prende bene. Nel 794, chiede a papa Adriano I di scomunicare Irene, ma Adriano rimane fermo nell’accettazione dei risultati del Concilio. Anche se Adriano accetta le conclusioni, la lotta fra iconoclasti e iconoduli sarà uno dei (tantissimi) prodromi del grande Scisma del 1054, che dividerà per sempre la chiesa Romana Cattolica da quella Ortodossa, ma questo è un altro argomento. È il 787 il punto di svolta dei destini del governo di Irene. Per ricucire lo strappo con i franchi, la donna progetta di far sposare il figlio, Costantino VI, con la figlia di Carlo Magno, Rortrude, un’unione che avrebbe consentito a Occidente e Oriente di unirsi di nuovo sotto la stessa dinastia di imperatori. Il progetto, però, fallisce. Forse Irene teme che Carlo Magno la voglia allontanare dal trono, che voglia ridimensionare il suo potere; forse ci sono ragioni diverse che noi non conosciamo e non sono state registrate. Fatto sta che Oriente e Occidente rimangono divisi. L’assassinio dell’imperatore Irene è a capo dell’Impero di Costantinopoli da ormai 10 anni e, nel 790, si nomina autocrate dei romani, quindi investita di potere assoluto. Il figlio Costantino non può più accettare questa situazione, ormai ha 19 anni ed è venuto il suo momento come imperatore dei Romei. A questo punto, iniziano una TEODOLINDA Una regina cattolica a capo dei Longobardi Teodolinda nacque a Ratisbona nel 570 d.C., dal duca di Baviera Garibaldo e sua moglie Valdrada, secondogenita di Vacone, re dei longobardi da 510 al 540. La ragazza crebbe in un periodo di incertezze politiche, con i longobardi che stavano conquistando l’Italia a macchie, contaminando la cultura romana e contribuendo alla creazione di quel mix di culture che ancor oggi caratterizza il nostro paese. Nel 589 andò in sposa al re longobardo Autari, che morì un anno dopo e la lasciò priva di una discendenza o di credito politico per governare sola. Si risposò con il duca di Torino Agilulfo, proclamato re dei longobardi da un’assemblea del popolo e, negli anni successivi, la coppia strinse accordi con franchi e avari per garantire la pace ai confini del nord Italia. Teodolinda regnò in un’epoca difficilissima, in cui i rapporti fra longobardi, franchi, avari, bizantini e papato erano tutti retti da un fragilissimo equilibrio. In questo contesto, la fede della regina, cristiana cattolica, era in contrasto con la maggioranza dei popoli, in primo luogo il suo. I longobardi erano perlopiù cristiani ariani o pagani e in continuo conflitto con il pontefice. Teodolinda fu la principale interlocutrice di papa Gregorio Magno e riuscì a convincere alla tregua le fazioni in campo, longobardi da una parte e bizantini dall’altra. Non solo fermò la guerra, ma si adoperò anche per ricomporre il mondo cristiano dopo lo scisma tricapitolino. Nel 616 Agilulfo morì e gli succedette il figlio Adaloaldo, battezzato con rito cattolico nel 603. Il ragazzo era ancora troppo giovane per governare e la reggenza venne assunta da Teodolinda, che fu l’unica sovrana dei longobardi per quasi dieci anni. Intorno al 620, Adaloaldo acquisì sempre maggior potere e finì per rimanere inviso ai duchi longobardi. Il figlio di Teodolinda, infatti, adottò una politica di non belligeranza, per cattolicizzare la penisola a discapito dell’arianesimo, maggiormente diffuso fra i longobardi; una soluzione mal digerita dai battaglieri nobili al suo servizio. Arioaldo, cognato del re, probabilmente tramò per farlo uccidere e divenne sovrano dei longobardi nel 625. Teodolinda non riuscì a impedire questa serie di intrighi di corte e morì un anno dopo il figlio. La sua figura era ormai leggendaria nel popolo del Nord italia e fu sepolta nella basilica di San Giovanni Battista a Monza. VITE PARALLELE La regina Teodolinda in una miniatura delle Cronache di Norimberga


43 serie di conflitti interni di cui vi evito i dettagli, ma che si possono ricondurre sempre alla lotta fra iconoduli e iconoclasti. I diritti al trono di Costantino VI vengono sostenuti dalla frangia orientale dell’esercito, le truppe Anatoliche, iconoclaste, mentre Irene ha il suo maggior seguito a Costantinopoli dove si trovano gli iconoduli. Costantino è acclamato imperatore, ma la rivendicazione fallisce e le truppe anatoliche vengono sbaragliate. Irene punisce il figlio facendolo frustare, ma Costantino non si arrende. Le truppe anatoliche si riorganizzano e costringono Irene a rifugiarsi nel palazzo che si è fatta costruire anni prima, l’Eleuterio. Per un anno, Costantino VI regna come unico imperatore, ma, nel 791, Irene torna imperatrice. Ha certamente capito che lo scontro con la forza, opponendo le diverse frange dell’esercito che appoggiano la sua iconodulia o l’iconoclastia di Costantino VI, non la porterà a nulla. Decide quindi di operare nell’ombra con i sotterfugi, gli intrighi e i complotti, e le sue trame la portano alla vittoria contro il figlio. Spinge Costantino VI a sospettare di tradimento e accecare un generale anatolico, Alessio Mosele, una punizione che farà perdere all’imperatore il supporto della parte dell’esercito più orientale. Poi gli suggerisce di ripudiare la moglie, figlia di un nobile bizantino, in favore di Teodota, sposata nel 795, e così Costantino perde anche il favore dei cristiani più ortodossi, che lo accusano di adulterio. Passano circa 5/6 anni, in cui Irene cospira, si organizza e complotta per far risultare il figlio Costantino impopolare e inviso al popolo. Così arriviamo al 797, anno cardine della nostra storia. Irene ordina di far assassinare il figlio, ma l’attentato fallisce e Costantino scappa, con la madre che, però, riesce comunque a farlo arrestare e portare a Costantinopoli. E qui il destino dell’imperatore iconoclasta si compie. Irene decide di riservargli la punizione più grave, ma più comune fra gli imperatori bizantini: gli fa cavare gli occhi. Costantino ha solo 26 anni, è stato co-imperatore per buona parte della sua vita, ma la sua parabola terrena finisce qui. A causa delle ferite riportate muore poco dopo, lasciando sua madre sola al potere. Adesso è Irene l’unica imperatrice di Costantinopoli, la sovrana assoluta dell’Impero Romano d’Oriente È interessante anche il modo in cui si farà chiamare, “Basileus - Imperatore”, al maschile, e non “Basilissa - Imperatrice”, perché lei è la prima imperatrice dei Romei non consorte della Storia, e rimarrà anche l’unica. Per capire il Ritratto di Carlo Magno


44 sentimento che serpeggia fra il popolo vi propongo il testo di Teofane il Confessore, che commenta così l’accecamento e la morte di Costantino e l’ascesa al trono di Irene: “Il sole si oscurò per 17 giorni senza irradiare, tanto che i vascelli erravano sul mare; e tutti dicevano che era per via dell’accecamento dell’Imperatore che il sole rifiutava la sua luce. E così salì al trono Irene l’Ateniana, madre dell’Imperatore”. Il matrimonio sfiorato con Carlo Magno L’imperatore Irene, Basileus Irene, regnerà per cinque lunghi anni sull’Impero Bizantino, un periodo di tempo considerevole, se pensiamo che si tratta di una donna in un’epoca di uomini, ma soprattutto di complotti. Ha sbaragliato tutti: il marito, i cognati e, infine, il figlio. Chissà che persona si deve essere sentita: con la morale di oggi è assolutamente impossibile non solo giudicarla, ma anche comprendere cosa tutto questo possa aver significato per lei come persona. Il suo governo non dev’esser stato facile, ma Irene aveva capito che per regnare doveva accontentare il popolo. E infatti, ormai saldamente al trono, abbassa considerevolmente il carico fiscale, soprattutto a Costantinopoli, favorisce in ogni modo il clero e riduce i dazi doganali sui commerci. Tenta di accontentare tutti per mantenere il suo potere, ma da Occidente arrivano venti di burrasca. È in quel periodo che in Europa c’è Carlo Magno, re dei franchi, che non si accontenta più del suo titolo e vuole essere incoronato come Imperatore dei Romani. Il papa è Leone III, eletto nel 795, che considera il trono di “Imperatore dei Romani” vacante, perché a Costantinopoli l’unico sovrano è una donna. Leone è quindi spinto a incoronare Carlo Magno, che lo ha fatto proteggere durante un complotto e ne ha legittimato la carica di papa di fronte al popolo. La questione è lunghissima; fatto sta che Carlo Magno, nella notte di Natale dell’800, viene incoronato Imperatore dei Romani con il rito praticato a Costantinopoli, quindi legittimato come erede dei fasti di Roma e principe della cristianità. Irene non la prende benissimo. Ovviamente non riconosce Carlo come imperatore, ma non ha i mezzi per attaccare militarmente i franchi in Italia, inguaiata com’è dalla sua troppo generosa politica fiscale, e tenta di risolvere la cosa per vie diplomatiche. Non può lasciare che l’Imperatore dei Romani sia a Occidente, mentre lei è il “Basileus-Imperatore” d’Oriente, e chiama a sé degli ambasciatori franchi per risolvere la questione. La soluzione è il matrimonio fra lei e Carlo Magno Ora, con i se e con i ma la storia non si fa, ma pensiamo allo scenario: Irene, imperatrice dell’Impero Romano d’Oriente, e Carlo, Imperatore d’Occidente, sposati, uniti da un matrimonio che riunifica l’Impero più ricco dell’antichità dopo che, nel 395, l’Imperatore Teodosio l’ha definitivamente diviso in due. 405 anni dopo, Roma e Costantinopoli sarebbero tornate egemoni su parte dell’Europa e dell’Asia. Uno scenario quantomeno affascinante… Invece Irene fallisce l’ultimo appuntamento della sua vita con la vittoria, quella che sicuramente sarebbe stata la più leggendaria. Nell’802 gli ambasciatori franchi arrivano a Costantinopoli, ma Irene ha scelto fra i suoi fedelissimi qualcuno che ha sete di potere almeno quanto lei. Niceforo I il LoMATILDE DI CANOSSA La signora del Medioevo italiano Matilde di Canossa nacque a Mantova nel 1046 da un’importante famiglia di origine longobarda. Il padre era il potente marchese di Toscana e signore di Parma, Modena, Ferrara e Mantova, Bonifacio di Canossa, detto il Tiranno; la madre, Beatrice di Lotaringia, invece, era una principessa tedesca, cugina per via materna del futuro imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IV. Tra il 1052 e il 1055, morirono il padre e tutti i fratelli di Matilde; lei e la madre, quindi, si ritrovarono a gestire da sole il potere familiare e lo sconfinato margraviato dei Canossa. Nel 1069, Matilde andò in sposa a Goffredo IV, duca della Bassa Lorena, detto il Gobbo, e, tra il 1070 e il 1071, diede alla luce una bimba che morì poco dopo. L’evento la rese invisa alla famiglia del marito. Volevano un erede maschio e una donna che non solo non era in grado di generarlo, ma partoriva anche una femmina morta, era malvista a corte. Nel 1702, Matilde abbandonò il marito e tornò da sua madre nel castello dei Canossa, dove, nel gennaio del 1077, ebbe luogo l’evento noto come “l’umiliazione di Canossa”, con papa Gregorio VII, ospite proprio di Matilde, che fece attendere inginocchiato fuori le mura per tre giorni e tre notti Enrico IV, prima di concedergli il perdono. Erano tempi in cui fra papato e Sacro Romano Impero non correva buon sangue e Matilde giocò un ruolo di mediazione fondamentale. L’evento, però, le costò l’inimicizia di Enrico IV, che la privò dei titoli tedeschi e, per salvaguardare le sue terre, nel 1089 sposò il duca di Baviera Guelfo V, di 26 anni più giovane di lei. La coppia, ovviamente mal assortita, non ebbe figli e l’unione fu annullata nel 1095. Con l’ennesima discesa in Italia di Enrico IV, intenzionato a infliggere il colpo di grazia alla Chiesa, le truppe di Matilde riportarono un insperato successo militare e la donna ricevette indietro tutti i titoli e gli onori revocati in precedenza. Addirittura, nel 1111, fu incoronata viceregina d’Italia da Enrico V, nel frattempo succeduto al padre sul trono del Sacro Romano Impero. Morì nel 1115 e fu sepolta nell’abbazia di San Benedetto in Polirone, dove rimase per cinque secoli, prima di essere traslata nel 1632 a Roma, nella basilica di San Pietro. APPROFONDIMENTO Ritratto di Matilde di Canossa


45 goteta, nominato sovrintendente alle finanze (da qui proprio il soprannome “logoteta”), nell’802, riesce a ordire un complotto e a farla detronizzare, proprio mentre i franchi sono in città. Niceforo approfitta dell’assenza di Irene dal Palazzo Imperiale, fa arrivare la (falsa) notizia che lei lo ha nominato co-imperatore per aiutarla nel conflitto contro Ezio, un eunuco che era stato consigliere dell’imperatrice, e si insedia come nuovo imperatore. La notizia arriva subito alla popolazione che è a favore di Irene, ma lei decide di non riprendersi il trono con la forza (chissà poi per quale motivo). Forse Niceforo le promette che le restituirà la corona, forse vuole evitare una guerra civile devastante. Oggi è difficile immaginare le ragioni della sua ritrosia. Anche le imperatrici muoiono in povertà Irene si trova confinata al palazzo Eleuterio, dove inizialmente vive come una Basilissa, secondo le promesse di Niceforo, ma poi questi teme che l’imperatrice possa tramare contro di lui e decide di mandarla in esilio. Viene condotta prima in un monastero nelle isole dei Principi, prospicenti a Istanbul nel mar di Marmara, e poi nell’isola greca di Lesbo, nel mar Egeo. Qui Irene deve mantenersi come una qualunque altra donna dell’isola. Inizia a praticare la professione di filatrice di lana, ma la sua carriera dura poco. Il 9 agosto dell’803 muore, probabilmente per cause naturali, e il suo corpo viene trasportato fino alle isole dei Principi, dove viene sepolta. Era stata l’unica imperatrice donna dei Romani, aveva comandato l’Impero più ricco al mondo per circa 27 anni, ma alla fine dei suoi giorni si era trovata a filare la lana. Viene in mente l’espressione latina “Sic transit gloria mundi - Così passa la gloria del mondo”, ma Irene l’avrebbe preferita in greco, come la lingua che si parlava nell’Impero Bizantino e nella sua città natale; la lingua che forse avrebbe tentato di imporre anche nel nuovo Impero Romano. Ma la Storia, come sappiamo, non è fatta di ipotesi, e Irene viene ricordata come l’unica imperatrice donna dei romani d’Oriente. Peccato, in fondo, dover mettere quell’aggettivo determinativo dopo “romani”... Santa Irene di Atene Qualche decennio dopo la sua morte, Irene fu canonizzata: era riuscita a mettere la parola fine all’iconoclastia, aveva sostenuto in lungo e in largo il clero cristiano ed era stata promotrice della costruzione di luoghi di culto in tutto l’Impero Bizantino. Irene divenne santa nell’864, ma il suo culto, dopo il Grande Scisma del 1054, rimase confinato alle chiese ortodosse orientali. Anni dopo la sepoltura, le sue spoglie furono portate a Costantinopoli, nella chiesa dei Santi Apostoli, dove fu deposta in un sarcofago in pietra saccheggiato prima dai crociati nel 1204, poi dai musulmani nel 1462, quando la chiesa fu distrutta definitivamente. Oggi, di lei rimane quella bara, realizzata oltre mille anni fa, custodita nella basilica di Santa Sofia, e uno splendido mosaico nella stessa chiesa. Ha regnato per un periodo lunghissimo sui romani, è stata un comandante militare di grande determinazione, ma, in fondo, non è che un nome studiato rapidamente sui libri di Storia. Chissà, se nell’802 avesse sposato Carlo Magno come sarebbe stata ricordata... L’imperatrice Irene e l’imperatore Carlo in un’incisione xilografica del 1474 – kladcat/CC BY 2.0


46 Joachim Beuckelaer, Bordello, 1562 IN EVIDENZA


47 SESSO E PUNIZIONI NEL MEDIOEVO di Nicola Ianuale


48 Medioevo e sessualità, intesa come atto di piacere carnale, non viaggiano in parallelo… O, almeno, non nell’immaginario comune. Si è soliti pensare che sia stato il ’68 a liberare il piacere carnale dai tabù, ma, anche se in parte è vero, prima dell’età moderna e contemporanea c’è stato il Medioevo. Quando si parla della sfera sentimentale di questo capitolo di storia, il primo argomento che viene in mente è il tanto decantato amor cortese, capace di nobilitare l’animo di ogni uomo. Ne La vita nuova, ad esempio, Dante descrive così il suo primo incontro con Beatrice: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi»”. Ecco un dio più forte di me, che al suo arrivo mi dominerà I novellatori del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse Dei canoni dell’amor cortese c’è tutto: il culto della donna – ovvero un essere superiore – l’inferiorità dell’uomo, che si palesa con quel “al suo arrivo mi dominerà”, e tanto altro ancora. Per chi conosce la storia di Dante, sa bene come la vicenda si evolve e come va a finire, ma il punto è questo: l’amor cortese, quello cantato dai trovatori e giunto fino agli stilnovisti, non è che un amore letterario, tra l’altro adultero. Il vero amore medievale prevedeva il piacere della carne come componente essenziale della vita di tutti, uomini e donne, nessuno escluso. È vero, parliamo di tempi in cui la Chiesa accettava l’atto sessuale al solo fine riproduttivo, ma se credete che il Medioevo sia stata un’epoca pudica, vi sbagliate. Agli albori di questo lungo periodo storico, che va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) alla scoperta dell’America (1492), l’influenza del mondo antico iniziò a scemare: c’era meno curiosità e meno cultura, ma anche più libertà. La vera repressione iniziò a cavallo fra Basso Medioevo ed età moderna. Fu allora che le istituzioni passarono dalle parole ai fatti… quelli veri. Prima, c’era chi diceva cosa non andava fatto e perché, esistevano delle penitenze, ma nient’altro. Uomini e donne medievali facevano di testa loro e nessuno li puniva in modo esemplare. Ad esempio, ai tempi di Dante un omosessuale avrebbe rischiato poco e niente, mentre in momenti della storia successivi sarebbe intervenuta l’inquisizione a punirlo.


49 Preti, sesso e arte Il perché di questa libertà sta alla base: chi doveva contenere i fedeli erano i membri del clero, che, a loro volta, si producevano in atti carnali. I monaci erano gli unici a far voto di castità; tutti gli altri potevano convolare a nozze e avere figli o, addirittura, concubine. La Chiesa impose il celibato ecclesiastico solo dopo l’anno 1000, arrivando perfino ad annullare tutti i matrimoni preesistenti nel 1139, con il Consiglio Lateranense II, ma la situazione rimase libertaria per molto tempo. Vescovi, canonici e preti, in teoria, non potevano più sposarsi; nei fatti, convivevano con le loro amanti, talvolta chiamate “le pretesse”. Di conseguenza, se il sesso era un tabù solo formalmente, tutti ne parlavano liberamente e lo praticavano senza troppi dilemmi morali e anche l’arte rispecchiava questa particolare situazione. Basti pensare che un bestseller medievale fu il Roman de la Rose, un poema allegorico incentrato su un io narrante che voleva conquistare la donna amata. Per conquista, però, si intendeva un amore anche carnale – infatti, la rosa in questione era una metafora dell’organo sessuale femminile – e l’opera si concludeva con il protagonista che riusciva a consumare il tanto agognato atto d’amore. Un altro caso molto interessante è l’Albero della Fecondità, un affresco dal carattere esplicito rinvenuto nel 1999 nella 49 piazza di Massa Marittima. Fu realizzato fra il 1265 e 1335 e rappresenta un grande albero con organi genitali maschili che penzolano dai rami. Sotto ci sono delle donne e, in particolare, due di loro si contendono uno dei falli caduti. Senza addentrarci nelle possibili spiegazioni allegoriche, soffermiamoci su questa domanda: com’è possibile che nel Medioevo esistesse un affresco, esposto in una piazza pubblica, che raffigurava l’organo genitale maschile in modo tanto esplicito? La risposta è semplice, anche se va un po’ contro lo stereotipo che abbiamo dell’epoca medievale: il sesso non era un tabù. Spostandoci di argomento, ragioniamo su omosessualità e adulterio. Anche qui vale lo stesso discorso. Se esistevano opere che ne parlavano, vuol dire che il Medioevo non era come ce lo immaginiamo. Prendiamo in considerazione la decima novella del quinto giorno del Decameron, scritto tra il 1349 e il 1353. Boccaccio narra della storia di un tale Pietro di Vinciolo, un ricco omosessuale di Perugia che, per mettere a tacere le voci sulla sua omosessualità, decide di sposare una giovane “di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti”. La prima cosa che salta all’occhio è la descrizione di una donna a cui piace il sesso, ma siamo solo all’inizio. Dopo il matrimonio, Pietro continua con le sue avventure omosessuali e trascura le esigenze della moglie, che, un po’ per ripicca e un po’ per necessità, si prende come amante un giovane di bell’aspetto. Una sera che Pietro è a cena fuori, lo invita a casa e gli prepara da mangiare; il marito rincasa in anticipo e li scopre. Il prosieguo rasenta il tragicomico. Pietro nota che l’amante di sua moglie è un ragazzo che lui stesso ha adocchiato e intuisce il potenziale di quella situazione ambigua. La donna lo rimprovera delle sue mancanze verso i doveri coniugali – «Io son femina come l’altre, e ho voglia di quel che l’altre» – ma Pietro ha ben capito come accontentare tutti: invoca la calma e i tre personaggi si accomodano a tavola per cenare. In conclusione, Boccaccio racconta che, il giorno seguente, la coppia riaccompagna il giovane in piazza… “non assai certo qual più stato si fosse la notte, o moglie o marito”. Se quella notte avesse fatto più da moglie o da marito Omosessualità, adulterio e, forse, un ménage à trois; in questo passo del Decameron c’è tutto, ma per l’epoca non era qualcosa di impensabile. Intendiamoci, anche se non doveva essere la normalità, questo tipo di “pratiche”, se oggi possono essere considerate comuni, all’epoca non erano mica fantascienza. Allo stesso modo, vi erano i fabliaux, racconti in versi incentrati su storie piccanti. Si trattava di un genere letterario molto popolare – creato ad hoc per far divertire il pubblico – e i protagonisti erano quasi sempre i membri del clero, considerati degli antichi casanova. Il debito coniugale Ricapitolando, attraverso la tradizione artistica sappiamo che, nel Medioevo, la Chiesa condannava il sesso all’infuori della procreazione solo a parole; nei fatti, ognuno faceva di testa propria e se ne scriveva e parlava senza problemi. Questa


50 Prostituzione e adulterio Partendo dal presupposto che l’accoppiamento era considerato scevro dal piacere carnale, la Chiesa cercò di limitarne la pratica con alcuni divieti. Non si poteva giacere con il proprio partner la domenica, il venerdì e il sabato, ovvero il giorno del Signore e quelli di confessione e di preparazione alla liturgia. Lo stesso valeva per il Natale, la Pasqua e tutte le altre feste. Erano poi consigliati ben tre periodi di astinenza: durante la Quaresima, prima della natività e intorno alla Pentecoste. Se le persone avessero seguito questi dettami, avrebbero avuto a disposizione circa 185 giorni per divertirsi a letto, senza considerare che le donne erano quasi sempre incinte oppure, come natura vuole, in periodo mestruale. Gli uomini spesso non consideravano sufficiente tale finestra di tempo e sopperivano ai dinieghi coniugali imposti dalla Chiesa frequentando le case di piacere, che nel Medioevo erano considerate un male minore, da tollerare. I bordelli erano un fenomeno molto diffuso e, addirittura, regolamentato. Ad esempio, le ragazze che vi lavoravano avevano diritto a lenzuola sempre pulite, almeno due pasti al giorno e bagni per curare la propria igiene. Erano aperti tutto l’anno, a eccezione del Venerdì Santo e una buona fetta di habitué iniziale “linea morbida” nacque perché, al contrario di ciò che si possa credere, furono gli stessi padri del cristianesimo a mostrare una certa elasticità mentale a riguardo. Autori come sant’Ambrogio, san Girolamo e sant’Agostino, tutti vissuti fra il IV e V secolo d.C., pur condannando adulterio e omosessualità, riconoscevano l’importanza del sesso all’interno del matrimonio; proprio come san Paolo, che nella Prima lettera ai Corinzi introdusse un concetto rivoluzionario: il “debito coniugale”, in cui la donna non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito che, a sua volta, non è padrone del proprio corpo, che invece è di proprietà della donna. Questa reciproca appartenenza voleva dire che la donna provava piacere eccome e doveva anche essere soddisfatta dal marito e viceversa. Ci si poteva astenere dal sesso solo di comune accordo e temporaneamente; in caso contrario, per legge, così come l’uomo aveva il diritto di far causa alla moglie per inadempienza ai doveri coniugali, pure la donna, se inappagata sessualmente, era in grado di chiedere l’annullamento del matrimonio. Ma adesso passiamo dalla teoria alla pratica… Come si divertivano sotto le lenzuola i nostri antenati? Come, dove e quando Esisteva il sesso prematrimoniale? L’usanza di consumare prima delle nozze era molto comune e la verginità non era un obbligo, ma un di più. Sposare una donna illibata equivaleva ad avere la certezza che non fosse incinta di un altro e che la progenie non sarebbe stata illegittima. Il problema sorgeva in caso di gravidanze inaspettate, a cui, di solito, seguivano matrimoni riparatori. Per risolvere il problema alla radice, invece, si adottavano rudimentali (e inefficaci) metodi contraccettivi, come erbe, unguenti e riti molto discutibili. E il luogo preferito per consumare un rapporto? Le case medievali erano affollate e scomode. Al contrario, le chiese erano deserte per gran parte della giornata e pare che si prestassero al sacro e al profano. Quanto alle cosiddette “sveltine”, il sesso serviva per la procreazione e alla Chiesa poco importava della durata delle prestazioni. Quando due amanti si univano erano spesso il più vestiti possibili e in posizioni poco fantasiose. Di quest’ultimo aspetto ce ne dà notizia il vescovo Alberto Magno di Bollstädt – poi canonizzato dalla Chiesa cattolica – che esprime due considerazioni. La prima è sempre la stessa: l’importante è concepire. La seconda, però, si sposta su degli eventuali problemi logistici. Non tutti potevano cimentarsi nella classica e cristianissima posizione del missionario e l’esempio del vescovo è di due sposi in sovrappeso che, per forza di cose, devono pur giacere in qualche altro modo. Dopo il missionario, scrive sant’Alberto Magno, “la deviazione meno grave è quella laterale, poi la posizione da seduti, poi in piedi, poi la più grave è da dietro, come i cavalli. Alcuni sostengono che questa è un peccato mortale, ma io non sono d’accordo”. A riprova di quanta poca pressione esercitasse la Chiesa, il vescovo parla di gravità, non di divieti e, addirittura, si pone in disaccordo sull’ultimo caso. Tuttavia, in linea di massima c’era una posizione malvista da tutti, la cosiddetta “cavalcata del Diavolo”, ossia con la donna sopra l’uomo. La prostituzione in un’illustrazione medievale


Click to View FlipBook Version