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Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

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Published by Vanilla Magazine, 2024-02-02 00:58:01

Sesso e Punizioni nel Medioevo

Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

51 erano proprio i membri del clero. All’esterno apparivano come dei semplici bagni pubblici, dove i clienti incontravano le prostitute in delle grandi tinozze di legno piene di acqua calda e, per consumare il rapporto, si spostavano su dei letti nascosti dalle tende. Chi praticava il cosiddetto “mestiere più antico al mondo” era ovviamente mal vista, perché, essendo sessualmente attiva alla luce del giorno e all’infuori del matrimonio, rappresentava l’esatto opposto del concetto di castità proposto dalla Chiesa. In molte città, queste donne venivano emarginate anche fisicamente: spesso erano costrette a indossare indumenti distintivi, non godevano di alcun diritto civile e potevano operare solo in bordelli con licenza o strade e quartieri “a luci rosse”. L’uomo poteva quindi tradire tranquillamente la moglie, ma solo con ragazze nubili e prostitute; al contrario, la donna non poteva in alcun modo essere infedele al marito e, in caso di corna, si procedeva in due modi: se l’uomo coglieva la sposa in flagrante, poteva ucciderla senza problemi, altrimenti era previsto il taglio del naso, ma è bene specificare che queste consuetudini non si concretizzavano quasi mai. Uccidere o mutilare una moglie fedifraga equivaleva a rendere il tradimento di pubblico dominio. Insomma, meglio soprassedere. Il parere dei medici Riguardo al sesso, però, non si esprimevano solo preti e vescovi, ma anche i medici. In linea di massima, i dottori raccomandavano non più di due prestazioni a settimana e sconsigliavano il sesso da ubriachi, dopo aver mangiato troppo o a stomaco vuoto. Il momento migliore era dopo i pasti, a cibo quasi digerito. Allo stesso modo, anche l’eccessiva astinenza era da evitare e, alla base di ciò, vi era una particolare concezione dell’uomo e della donna. Il primo era considerato un essere umano caldo e secco; la seconda, fredda e umida. Il rapporto sessuale andava a bilanciare queste due condizioni, ma con l’astinenza c’era il pericolo che l’uomo diventasse troppo caldo e la donna non riuscisse a raffreddarlo abbastanza; il che comportava danni alla salute. L’orgasmo femminile, poi, godeva di una teoria molto fantasiosa. Non solo era tollerato, ma ben accetto, perché c’era una corrente di pensiero medica convinta che il concepimento avvenisse attraverso l’emissione di sperma di entrambi i sessi. Quindi, se da un lato serviva l’eiaculazione maschile, dall’altro era necessaria anche quella femminile e, di conseguenza, l’orgasmo. Masturbazione e omosessualità Con questa premessa, la masturbazione delle donna era molto più tollerata rispetto a quella degli uomini e serviva a placare il desiderio fallico. A tal proposito, è interessante vedere cosa pensasse sant’Alberto Magno: “Certe ragazze di quattordici anni non trovano soddisfazione e se non hanno un compagno, immaginano GIOVANNI XII La lussuria del papa-princeps Giovanni XII, al secolo Ottaviano dei Conti di Tuscolo, era il figlio di Alberico II di Spoleto che, nel 932, era diventato de facto il dittatore di Roma. Alla sua morte, Alberico fece giurare a clero e nobiltà di unificare potere temporale e spirituale dell’Urbe in suo figlio che, dopo la scomparsa di papa Agapito II, divenne sia princeps sia pontefice. Ascese al soglio di Pietro a soli 17 anni e senza alcuna formazione ecclesiastica, ma a Giovanni poco importava dei precetti divini e non abbandonò le sue abitudini principesche a base di feste, avventure galanti, quasi sempre adultere, e goliardie di ogni sorta. Qualche ambizione politica, però, ce l’aveva e decise di attaccare a nord il re degli italici Berengario. Per farlo, chiamò in soccorso della Chiesa Ottone I di Sassonia, a cui promise l’investitura a imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Ottone, allora, scese in Italia e costrinse Berengario a barricarsi nel Forte di San Leo. Il 2 febbraio del 962 giunse a Roma, dove siglò un accordo di reciproca fedeltà col papa e ricevette l’investitura imperiale, ma appena Ottone ripartì per sferrare l’affondo finale a Berengario, Giovanni iniziò a complottare contro l’alleato. Quando lo seppe, Ottone assediò Roma e costrinse il papa alla fuga; poi istituì un processo ecclesiastico che lo condannò e destituì per la sua condotta licenziosa. L’imperatore, infine, fece eleggere papa Leone VIII, ma, non appena si allontanò di nuovo da Roma, Giovanni riuscì a cacciare Leone e riappropriarsi del suo titolo. Morì pochi mesi dopo, il 14 maggio del 964. In meno di un decennio di pontificato era riuscito a guadagnarsi una fama degna dei peggiori antieroi della storia. Si diceva che lo avesse ucciso un ictus mandato da Dio per punirlo, che fosse morto durante un amplesso o, peggio ancora, che un oste lo avesse defenestrato dopo averlo colto in flagrante mentre giaceva con sua moglie. Sulla sua dipartita, in realtà, non si hanno certezze, ma il racconto dell’oste è forse il più suggestivo, perché racchiude i due elementi che hanno contraddistinto la sua vita: l’amore per le donne e la propensione al tradimento. Morte di papa Giovanni XII. La scena adotta l’ipotesi dell’omicidio del papa, scaraventato fuori da una finestra dopo essere stato colto in flagrante adulterio APPROFONDIMENTO


52 il coito o il membro virile e fanno delle cose con le dita o altri strumenti”. Allo stesso modo, l’abate Oddone di Cluny, vissuto prima dell’anno mille, scriveva: “Ti sei forse comportata anche tu come alcune donne che si fanno oggetti e altri marchingegni a mo’ di membro virile? Li hai adattati alle tue o altrui intimità per provare piacere con altre donnacce o esserne da queste posseduta?”. Il testo è abbastanza esplicito. In prima istanza, la fabbricazione e l’utilizzo del dildo risale alla preistoria. Ne abbiamo notizie anche in Grecia: Aristofane li indicò come oggetti in cuoio o in legno creati dagli artigiani. In seconda istanza, c’erano donne dedite al lesbismo che, appunto, si cimentavano nell’uso congiunto di questi oggetti. Inutile dire che tali pratiche erano considerate oscene, ma l’omosessualità maschile era tutto un altro paio di maniche. Ovviamente, era condannata e osteggiata, ma prima del XII secolo vi era una certa tolleranza. Il cosiddetto “peccato di sodomia”, però, almeno come testimonia san Pier Damiani (1007-1072) nel suo Liber Gomorrhianus (1049), era molto diffuso anche nel clero, al punto da rappresentare un problema gravissimo: “La sozzura sodomica si insinua come un cancro nell’ordine ecclesiastico, anzi come una bestia assetata di sangue infierisce nell’ovile di Cristo con libera audacia”. Per il vescovo ravennate ci sono tre gradi di gravità negli atti impuri dei prelati: “Alcuni si macchiano da soli, altri si contaminano a vicenda toccandosi con le mani i membri virili, altri fornicano fra le cosce e altri, infine, da dietro (la più peccaminosa; n.d.r.)”. E, allora, cosa succedeva quando si veniva colti in flagrante? Si “rinsaviva” attraverso la penitenza, ma, come spiega Pier Damiani, la Chiesa era troppo indulgente, perché nessun prete sodomita, nemmeno chi si era macchiato del peccato peggiore (da dietro), rischiava davvero la degradazione ecclesiastica; questo, perché, come si è detto, la vera repressione doveva ancora arrivare. Un piccolo appunto. Pier Damiani ci dà notizia anche della pedofilia ecclesiastica: “Un chierico o un monaco che molesta gli adolescenti o i giovani […] venga sferzato pubblicamente e perda la sua tonsura. Dopo essere stato rasato, venga ricoperto di sputi e stretto con catene di ferro, venga lasciato marcire nell’angustia del carcere per sei mesi. […] Dopo, per altri sei mesi, sotto la custodia di un padre spirituale, vivendo segregato in un piccolo cortile, venga occupato con lavori manuali e con la preghiera. Sia sottoposto a digiuni e a preghiere, e cammini sempre sotto la custodia di due fratelli spirituali, senza alcuna frase perversa, o venga unito in un concilio con i più giovani”. Oddone di Cluny e i libri penitenziali Adesso facciamo un passo indietro e riprendiamo la figura di Oddone di Cluny, vissuto fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – quindi in pieno Alto Medioevo – che fu un grande riformatore francese, tanto da esser preso a modello del monachesimo dal X secolo e nei secoli a venire. Grazie alle sue opere abbiamo un compendio San Pier Damiani


53 delle abitudini sessuali più peccaminose di uomini e donne; ad esempio, sappiamo che il sesso orale o anale era peccato di sodomia, ma le perversioni medievali si spingevano ben oltre. Una premessa, però, è d’obbligo: se Oddone scriveva di queste cose, probabilmente, qualcuno le faceva. Tutti? Certamente no, ma alcuni… Degli uomini dice: “Hai avuto rapporti sessuali durante le mestruazioni? Hai avuto rapporti con tua sorella o tua zia? Hai forse avuto rapporti omosessuali?”. Fin qui, nulla di troppo scabroso; a parte il fatto che il sangue mestruale non godeva di ottima fama e, addirittura, si pensava che facesse seccare le piante. “Hai avuto rapporti contro natura, unendoti a un maschio o addirittura con animali, quali cavalle, giovenche o asine?”. Forse la zoofilia era abbastanza diffusa, ma non solo fra gli uomini. L’abate passa poi al gentil sesso: “Anche tu ti sei comportata come quelle donne che, stese sotto un animale, si servono di qualsiasi tecnica per avere con lo stesso un rapporto sessuale?”. Se da una parte c’era la zoofilia attiva, dall’altra c’era anche quella passiva. Poi, il discorso sugli animali va avanti e s’intreccia con il capitolo dei filtri d’amore. “Hai fatto quello che alcune donne hanno l’abitudine di fare, e cioè: prendono un pesce vivo e se lo introducono nel sesso fino a che esso non muoia, per poi cuocerlo e darlo da mangiare ai mariti?”. E ancora: “Hai bevuto del sangue o del seme di tuo marito, affinché lui ti ami di più?”. Ciò di cui scrive Oddone sono, probabilmente, peccati da lui appresi durante le confessioni, ma le punizioni “severe”, quelle della Chiesa dell’età moderna e contemporanea, per intenderci, erano ancora lontane, e l’espiazione passava L’IGIENE NEL MEDIOEVO 5 curiosità Nonostante il livello d’igiene non fosse paragonabile a quello odierno per la differente tecnologia idrica disponibile in casa, nel Medioevo la pulizia del corpo era usanza comune a tutte le latitudini d’Europa, molto più frequente rispetto ai periodi storici seguenti, come il Rinascimento o l’Illuminismo. Ecco cinque curiosità che sfateranno questo (ennesimo) falso storico sull’epoca medievale: Nelle parti più isolate d’Europa, l’usanza per il popolo di fare un bagno completo era generalmente limitata ai mesi estivi, quando le miti temperature consentivano di immergersi senza rischiare di ammalarsi. Durante questo periodo, i contadini potevano rinfrescarsi negli stagni o nei torrenti, mentre coloro che vivano al mare si tuffavano in acqua. Gli abitanti delle città medievali sfruttavano le strutture (quelle ancora funzionanti) realizzate dagli antichi Romani, come, ad esempio, le Terme di Bath in Inghilterra o le terme di Diocleziano a Roma, o almeno ne utilizzavano le parti che non erano state distrutte per riutilizzare i materiali edili. Se i bagni pubblici dell’Alto Medioevo erano anche di origine romana, nel XII secolo sorsero in Italia, nella Spagna cristiana, in Inghilterra e in Germania i “vasconi”, bagni pubblici con acqua riscaldata e accessibili a tutti. I bagni pubblici mostravano parti del corpo comunemente considerate da coprire e la Chiesa era restia ad approvare tale promiscuità di costumi. L’eccessiva pratica dell’igiene in pubblico, quindi non l’igiene in sé, ma i bagni svestiti, veniva vista negativamente dal clero. Alla fine del XIV secolo, i bagni pubblici diventarono un luogo più simile a delle case di piacere, anziché dei bagni deputati alla sola igiene e la Chiesa, per questo, iniziò a deplorare non la pratica dell’igiene, ma la condivisione del proprio corpo in pubblico, principio di una promiscuità inaccettabile. A differenza della gente comune, che doveva trovare luoghi pubblici dove riuscire a lavarsi, i nobili potevano generalmente permettersi un bagno privato. Questo era spesso una grande vasca in legno, con una tenda attorno, riempita da brocche di acqua bollente e profumata con erbe o fiori. APPROFONDIMENTO Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1480 circa 1 2 3 4 5


54 per penitenze di poco conto. Per quanto la Chiesa provasse a limitare il sesso all’infuori della procreazione, vigeva la trasgressione; quindi, se ognuno faceva come voleva, tanto valeva dirgli almeno come redimersi. I libri penitenziali, infatti, erano molto diffusi e fra le loro pagine i fedeli potevano leggere le penitenze associate ai vari peccati. Ad esempio, nell’XI secolo, il vescovo Burcardo di Worms, autore dei 20 volumi delle Regulæ Ecclesiasticaæ, anch’egli canonizzato, scriveva: “Con la tua sposa o con un’altra ti sei accoppiato da dietro, come fanno i cani? Devi fare penitenza per dieci giorni a pane e acqua. […] Hai peccato con lei in giorno di Quaresima? Devi fare penitenza quaranta giorni con pane e acqua o dare 26 soldi di elemosina; ma se ti è capitato quando eri ubriaco, farai penitenza per solo venti giorni”. Per quanto riguarda l’omosessualità, invece… “Fornicasti, così come fanno alcuni, e hai preso in mano il membro di un altro uomo, e lui il tuo, e in questo modo avete mosso alternativamente i membri nelle vostre mani, e così per tale diletto hai eiaculato? Se lo ha fatto, trenta giorni a pane e acqua”. È evidente che il gioco valeva la candela e, infatti, le persone continuavano a cedere alle tentazioni Sesso e parole A riprova di quanto sessualmente aperto fosse il Medioevo, apriamo una breve parentesi sulla componente lessicale. Sia nella letteratura sia nella lingua parlata vigeva la libertà d’espressione e gli organi genitali venivano apostrofati anche con termini volgari. Una piccola eccezione coinvolgeva solo le donne, alle quali era sconsigliato adottare un determinato linguaggio, ma più per una questione di classe. Un altro aspetto interessante era la frutta, che spesso si prestava a doppi sensi. Ciliegie e mele rosse, se regalate da un uomo, erano un simbolo d’amore, come oggi lo è un mazzo di rose; fichi e pere, invece, erano associati al desiderio sessuale, per via della loro vaga somiglianza agli organi riproduttivi femminili. Falsi storici Giunti a questo punto, non ci resta che parlare di due grandi questioni legate al sesso medievale: la cintura di castità e lo ius primae noctis. Nel primo caso, la credenza più diffusa vuole che le cinture siano nate grazie a quei cavalieri crociati in partenza per la Terra Santa che, al loro ritorno, non volevano trovare “sorprese extraconiugali”. Si trattava di una serie di fasce metalliche utili a “chiudere a chiave” le proprie mogli e assicurarsene la fedeltà, ma si tratta di un falso storico che non tiene conto di una banalissima questione pratica: i bisogni fisiologici. Anche in presenza di piccole fessure per il passaggio di feci e urine, le donne con indosso la cintura di castità avrebbero potuto contrarre infezioni e morire; senza considerare che, prima di raggiungere il fronte, i mariti erano soliti trascorrere un’ultima notte d’amore con le consorti. E se fossero rimaste incinte? Che, poi, se proprio vogliamo dirla tutta, per risolvere il problema della chiave sarebbe bastato chiamare un buon fabbro e chiedergli di “liberare” le grazie della nobildonna. Motivi pratici a parte, la prova schiacciante è che non esiste alcuna cintura di castità medievale autentica. La prima comparsa scritta di questo oggetto, infatti, risale al 1405. Nel suo Bellifortis, l’ingegnere militare tedesco Konrad Kyeser mostrò il disegno del cosiddetto “congegno fiorentino”, una cintura di castità di cui non si trova alcuna traccia storica nella Firenze di allora. Quella mostrata da Kyeser è solo una testimonianza “per sentito dire”, il frutto di voci di corridoio e nulla più. Il vero fraintendimento, però, nacque a metà Ottocento, quando alcuni musei misero in esposizione cinture di castità medievali a detta loro autentiche. Peccato che si trattavano di false cinture, create a posteriori e offerte al pubblico in un’epoca in cui, paradossalmente, circolavano per davvero delle cinture di castità, quelle di età vittoriana, realizzate con materiali morbidi e indossabili solo per brevi periodi. Questi esemplari, però, servivano alle donne per proteggersi dagli stupri e agli adolescenti per non praticare l’autoerotismo; di mariti gelosi… nessuna traccia. Lo ius primae noctis, invece, conosciuto in Francia come droit de cuissage e derecho de pernada in Spagna, era, secondo la credenza popolare, la prerogativa di un qualsiasi signore feudale di consumare un rapporto sessuale con la novella sposa di un suo suddito. Anche se esistono prove che testimoniano violenze carnali perpetrate della nobiltà medievale, non c’è alcuna traccia di una legge che legittimasse l’abuso di una ragazza durante la sua prima notte di nozze. In realtà, lo ius primae noctis era una tassa da pagare – in soldi, non in natura – per ottenere il consenso del signore a procedere con il matrimonio. È probabile che questo falso mito sia nato già nel XII secolo per mettere in cattiva luce proprio i signori feudali, per poi diffondersi, sopravvivere e ingigantirsi sempre di più. Ad esempio, ai tempi della Francia illuminista del Settecento, nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, se ne parla come “quel diritto che i signori si arrogarono prima e durante l’epoca delle Crociate, diritto di giacere nella prima notte con le donne appena maritate, le loro vassalle plebee […]”. Vien da sé che falsi storici come lo ius primae noctis e la cintura di castità abbiano alimentato lo stereotipo dell’oscurantismo medievale, quando, invece, la mentalità sessuale era molto più aperta di quelle a venire. Altro che repressioni e punizioni… Fu solo a partire dal Basso Medioevo, e molto più in età moderna, che la Chiesa iniziò a far rispettare un certo rigore morale: i costumi si irrigidirono e comparvero rigidi dettami a cui ogni fedele doveva prestarsi senza discutere. Prima di allora, i cittadini del Medioevo vivevano, scrivevano e parlavano della sessualità liberamente. Non c’era alcuna feroce repressione su larga scala; anche l’omosessualità era accettata senza prestarvi particolare attenzione. Le persone trasgredivano e si godevano il piacere della carne… Con buona pace, e partecipazione, del clero. La cintura di castità raffigurata nel Bellifortis di Konrad Kyeser


55 IL SESSO NELL’ANTICA ROMA 5 curiosità Prima ancora di quella medievale, anche la mentalità sessuale degli antichi romani lasciava ampi spazi al divertimento, ma con le dovute eccezioni e limitazioni. Ecco cinque curiosità su alcuni usi e costumi dei nostri antenati: La privacy non era importante e marito e moglie si accoppiavano anche in presenza del cubicularius, uno schiavo fidato che dormiva ai piedi del letto dei padroni e li assisteva durante gli atti sessuali, facendo luce o portando loro da bere. La prostituzione era una pratica, legale e regolamentata dallo Stato, che abbracciava persone di ambo i sessi e di qualsiasi estrazione sociale. In teoria, anche una ragazza con la cittadinanza romana poteva prostituirsi, ma, in quel caso, perdeva il suo status. Ciascuna professionista del settore doveva registrarsi presso un magistrato e fornire il suo vero nome, l’età e il luogo di nascita. Se si trattava di una giovane di buona famiglia, il burocrate la redarguiva per farle cambiare idea, perché si trattava di un processo irreversibile. In ogni caso, la transazione si chiudeva con il rilascio della licentia stupri. La verginità prematrimoniale era un obbligo femminile e seguiva una certa logica. In prima istanza serviva a impedire che le fanciulle giungessero all’altare già incinte di qualcuno che non fosse il futuro marito; in seconda istanza si pensava che ci fossero meno probabilità che commettessero adulterio se avessero scoperto i piaceri carnali il più tardi possibile. Al contrario la verginità maschile era inaccettabile. L’uomo romano era un dominatore e doveva cominciare il suo apprendistato virile già nella prima pubertà. Non di rado, infatti, i padri portavano i propri figli nei lupanari, affinché una prostituta li iniziasse al sesso. A differenza delle prostitute, le matrone non erano quasi mai del tutto nude. Indossavano gioielli, bracciali e cavigliere anche durante i rapporti e, anziché sciogliersi i capelli, li lasciavano legati attorno alla nuca. L’ideale fisico dell’epoca era quello della donna con i fianchi larghi, una caratteristica che richiamava la fecondità, e, di conseguenza, il seno lo si preferiva piccolo. Dato che non aveva alcuna rilevanza erotica, le nostre antenate giacevano con i mariti indossando lo strophium, una fascia a mo’ di reggiseno. La libertà sessuale degli uomini era pressoché illimitata. Potevano frequentare schiave, liberte, attrici e prostitute, avere concubine o intrattenere relazioni con altri maschi. Nella lingua latina, infatti, non esistevano i termini etero, omo o bisessuale: l’unica distinzione era la dicotomia penetrato e penetrante. In parole povere, il problema non era il sesso della persona con la quale ci si divertiva fra la lenzuola, ma il come lo si faceva. Il discorso si applicava a ogni aspetto della vita sessuale maschile. Si poteva giacere con chiunque, a patto che non si assumesse un ruolo passivo. APPROFONDIMENTO Una donna romana con lo strophium 1 2 3 4 5


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58 Il’ja Efimovič Repin, I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia, 1880-1891 STORIA MODERNA


59 L’IRRIVERENTE RISPOSTA DEI COSACCHI AL SULTANO MAOMETTO IV di Matteo Rubboli 59


60 I van Sirko è un guerriero leggendario in Ucraina, simbolo di forza, astuzia e coraggio, protagonista di saghe e storie di guerra. La sua vita trascorse sui campi di battaglia, eppure, se ancor oggi è ricordato in tutto il mondo non è per le sue imprese belliche, pur considerevoli, ma per la lettera di risposta al sultano ottomano Maometto IV, che gli fece recapitare nel 1675. Quella lettera e Ivan sono anche il soggetto usato dal pittore russo Ilya Repin, per realizzare, fra il 1880 e il 1891, un quadro che mostra Ivan mentre ride sbeffeggiando il sultano con i suoi compagni cosacchi, tutti attorno alla persona che scrive la lettera. Cosa era successo e cosa aveva scritto il sultano Mehemet IV ai cosacchi per provocare quelle risate? Raffigurazione moderna di Ivan Sirko


61 La lettera Gli ottomani avevano appena perso una battaglia contro i cosacchi zaporoghi dell’Ucraina meridionale, e Maometto pensò bene di scrivere all’atamano Ivan Sirko – il capo, per intenderci – una lettera in cui chiedeva loro di arrendersi: In quanto Sultano; figlio di Maometto; fratello del Sole e della Luna; nipote e viceré per grazia di Dio; governatore del regno di Macedonia, Babilonia, Gerusalemme, Alto e Basso Egitto; imperatore degli imperatori; sovrano dei sovrani; cavaliere straordinario e imbattuto; fedele guardiano della tomba di Gesù Cristo; fido prescelto da Dio stesso; speranza e conforto dei Musulmani; grande difensore dei Cristiani. Io comando a voi, cosacchi dello Zaporož’e, di sottomettervi a me volontariamente e senza resistenza alcuna, e cessare di tediarmi con i vostri attacchi. Il Sultano Turco Mehmet IV Il’ja Efimovič Repin Mentre stava lavorando al suo quadro, già nel 1889, Ilya Repin iniziò in parallelo una seconda versione dei cosacchi, improntata su una maggior fedeltà storica grazie alla collaborazione con l’accademico Dmytro Yavornytsky. L’opera, leggermente più piccola dell’originale, rimase incompiuta e non fu mai completata. Dal 1935, è conservata al Museo d’Arte di Kharkiv. LO SAPEVI CHE... ? Seconda versione del dipinto


62 Per dipingere il quadro, Repin usò come modelli molti suoi amici e/o conoscenti dell’Università di San Pietroburgo, tutti di origini diverse: ucraini, ebrei, cosacchi e russi. Michail Ivanovič Glinka (Novospasskoe, 1º giugno 1804 - Berlino, 15 febbraio 1857), uno dei più importanti compositori russi della sua generazione. Nikolai Dmitriyevich Kuznetsov (Stepanovka, 2 dicembre 1850 - Sarajevo, 2 marzo 1929), pittore russo e professore d’arte presso l’Accademia imperiale delle arti di San Pietroburgo. Vassily Vassilovitch Tarnovsky junior (Antonovka, 1° aprile 1837 - Kiev, 13 luglio 1899), mecenate e filantropo ucraino. Jan Ciągliński (Varsavia, 20 febbraio 1858 - San Pietroburgo, 6 gennaio 1913), pittore polacco fra i primi esponenti dell’impressionismo russo.


63 LENTE D’INGRANDIMENTO 63 Michail Ivanovič Dragomirov (Konotop, 8 novembre 1830 - Konotop, 15 ottobre 1905), generale dell’esercito imperiale russo e professore e scrittore di arte militare. Dmytro Ivanovyč Javornyc’kyj (Charkiv, 6 novembre 1855 -Dnipro, 5 agosto 1940), storico, archeologo, etnografo, folklorista e lessicologo ucraino. Alexander Ivanovich Urusov (Mosca, 2 aprile 1843 - Mosca, 16 luglio 1900), avvocato, filantropo e critico letterario russo. Fëdor Ignat’evič Stravinskij (Noviy Dvor, 20 giugno 1843 - San Pietroburgo, 21 novembre 1902), cantante lirico russo e padre del compositore Igor’ Fëdorovič Stravinskij. CURIOSITÀ I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia divenne fin da subito un punto di riferimento della cultura russa, parodiata, emulata o citata negli anni successivi. Ad esempio, ci sono due vignette di satira politica che raffigurano i membri della Duma del 1907 che redigono una risposta a Pyotr Stolypin, Primo ministro russo dal 1906 al 1911, e alcuni leader bolscevichi del 1923 mentre scrivono una lettera a George Curzon, Ministro degli esteri del Regno Unito dal 1919 al 1924. In alto: I membri della Duma del 1907 redigono una risposta a Stolypin In basso: Parodia del dipinto del 1923, “I bolscevichi che scrivono una risposta all’inglese Curzon”


64 Il sultano Mehmed IV Immaginiamo la faccia di Ivan e dei suoi compagni quando il dotto del campo lesse loro le parole di Maometto. Immaginiamola per i tre secondi in cui non scoppiarono a ridere e iniziarono a sbeffeggiare il turco. Dopo le risate e gli insulti, i cosacchi fecero scrivere una lettera che è l’esempio migliore della schietta volgarità e pragmatismo degli uomini del ’600. I cosacchi dello Zaporož’e rispondono al sultano dei turchi. – Tu, diavolo d’un turco, maledetto compare e fratello del demonio, servitore di Lucifero stesso. Che cazzo di cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo? Il demonio caca, e il tuo esercito si mangia la sua merda. Non avrai mai, figlio di puttana, dei cristiani ai tuoi ordini; non temiamo il tuo esercito e per terra e per mare continueremo a combatterti, sia fottuta tua madre. Tu sguattero di Babilonia, carrettiere di Macedonia, birraio di Gerusalemme, fottitore di capre di Alessandria, porcaro d’Alto e Basso Egitto, maiale d’Armenia, ladro infame della Podolia, pigliainculo dei Tartari boia di Kam’janec’ e più grande sciocco di tutto il mondo e degli inferi, idiota davanti al nostro Dio, nipote del Serpente (quindi del demonio) e ruga del nostro cazzo. Muso di porco, culo di giumenta, cane di un macellaio, fronte non battezzata, scopati tua madre! Questo dichiarano gli Zaporozi, essere infimo. Non puoi dare ordini nemmeno ai maiali di un cristiano. Concludiamo, non sappiamo la data e non possediamo calendario; la luna è in cielo, l’anno sta scritto sui libri: il giorno è lo stesso sia da noi che da voi. Puoi baciarci il culo! L’Atamano Ivan Sirko, con l’intera armata dello Zaporož’e Se forse abbiamo immaginato la faccia di Ivan quando lesse la lettera del sultano, è difficile immaginare quella di Maometto quando ricevette la risposta... Un riferimento concreto I riferimenti nella lettera sono innumerevoli, proviamo a spiegarne uno. Quando i cosacchi dicono al sultano “Piglianculo dei Tartari” si tratta di un’allusione alla presunta pederastia dei turchi, leggendaria nel mondo cristiano dell’epoca. Forse furono i veneziani a diffondere questa voce, di ritorno dai viaggi in Anatolia o in Arabia. I mercanti veneti raccontarono le abitudini “contro natura” degli ottomani, che bestemmiavano senza ri-


65 CURIOSITÀ tegno e “si sbaciucchiavano con gli amici del cuore”, ovviamente sottintendendo che questi fossero solo i preliminari. Sui campi di battaglia europei, inoltre, i turchi erano leggendari sodomizzatori dei prigionieri, una “tortura” che spiega perfettamente l’insulto rivolto al sultano dai cosacchi. Realtà o leggenda? Oggi è difficile sapere se questa lettera fu davvero recapitata a Maometto IV o se si tratti solo di una leggenda. Forse, il racconto popolare volle celebrare il coraggio e l’essere indomabile dei cosacchi di fronte al potente sultano. La missiva potrebbe essere un falso storico, oppure pura verità; oggi è quasi impossibile appurare la realtà dei fatti. Vera o falsa che sia, ci racconta lo spirito del ’600, l’ultimo secolo di grandi guerre fra cristiani e ottomani, quando anche piccoli gruppi di coraggiosi riuscivano a tener testa a eserciti messi in campo da grandi potenze del Mediterraneo. Facendo un collegamento con gli ucraini odierni, mi vien da pensare: altri tempi, altri modi di comunicare, stessi cosacchi. I l dipinto I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia, alto 2,03 metri e largo 3,58, fu acquistato dallo zar Alessandro III per circa 35.000 rubli, una cifra da record per quello che era il mercato dell’arte russa dell’epoca. Dopo la transazione, l’opera finì esposta a San Pietroburgo, al Museo Russo di Sua Maestà Imperiale Alessandro III, poi Museo di Stato Russo, dove si trova tutt’ora. Matrimonio tra cosacchi, dipinto di Józef Brandt


66 L’affondamento del Titanic, incisione di Willy Stöwer STORIA CONTEMPORANEA Adolf Eichmann nel 1942


6767 CACCIA AD ADOLF EICHMANN di Matteo Rubboli Mandato d’arresto per Adolf Eichmann emesso il 23 maggio del 1960 Donne e bambini ungheresi arrivano ad Auschwitz-Birkenau nel 1944 67


68 Adolf Eichmann ispirò il libro di Hannah Arendt La banalità del male. Funzionario pubblico di carriera nella Germania nazista, fu incaricato di amministrare la logistica della “soluzione finale”, il piano per sterminare tutti gli ebrei organizzandone il rapimento in tutta Europa e il loro trasporto nei campi di concentramento allo scopo di essere uccisi. Diversi storici hanno osservato che portò a termine il suo lavoro con la stessa attenzione burocratica, non emotiva e scrupolosa, nei dettagli, che avrebbe dato alla manutenzione delle strade o alla fornitura di cibo a una popolazione in difficoltà. Chi era Adolf Eichmann? Adolf Eichmann nacque a Solingen, in Germania, il 19 marzo del 1906. Alla morte della madre, nel 1914, la famiglia si trasferì in Austria, dove il giovane Adolf andò a scuola (la Kaiser Franz Joseph Staatsoberrealschule, la stessa frequentata da Hitler 17 anni prima) senza, però, completare le superiori. Dopo aver studiato come meccanico, iniziò a lavorare col padre, poi fu impiegato come agente di commercio e venditore di zona per la Vacuum Oil Company AG, un’azienda statunitense, negli anni fra il 1927 e il 1933. Durante questo periodo, si avvicinò prima al Frontkämpfervereinigung, un movimento politico fascista e pan-germanista e, in un secondo momento, al partito nazista vero e proprio, su invito dell’amico di famiglia Ernst Kaltenbrunner, facendo carriera fino a entrare a far parte delle alte gerarchie. Nel novembre del 1932 divenne membro delle SS CRONOLOGIA 16 marzo 1906 Adolf Eichmann nasce a Solingen, in Germania 1932 Diventa membro delle SS di Heinrich Himmler 1934 Viene assegnato a un’unità delle SS a Dachau 1939 Himmler forma l’Ufficio centrale di sicurezza del Reich ed Eichmann ottiene un posto nella sezione sugli affari ebraici di Berlino 1942 Le alte sfere naziste organizzano la “soluzione finale della questione ebraica”; Eichmann viene scelto per coordinare le parti logistiche dell’operazione 1946 Fugge dal campo dove lo hanno rinchiuso i soldati statunitensi 1950 Sfrutta la ratline per scappare in Argentina e assumere l’identità di Ricardo Klement 1960 Il Mossad individua e rapisce Eichmann a Buenos Aires 1961 Ha inizio a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann 31 maggio 1962 Riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità, viene impiccato nella prigione di Ramla Sullo sfondo: Adolf Eichmann in prigione durante il processo Adolf Eichmann durante il processo 68


69 di Heinrich Himmler, il corpo paramilitare nazista e, dopo aver lasciato Linz nel 1933, si unì alla scuola della Legione austriaca a Lechfeld, in Germania. Da gennaio a ottobre del 1934 fu assegnato a un’unità SS a Dachau e fu nominato all’ufficio centrale SS Sicherheitsdienst (“Servizio di sicurezza”) di Berlino, dove lavorò nella sezione che si occupava di affari ebraici. Avanzò costantemente all’interno delle SS e fu inviato a Vienna dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, nel marzo del 1938, per liberare la città dagli ebrei. Un anno dopo, fu mandato a Praga con un compito simile. Quando, nel 1939, Himmler formò l’Ufficio centrale di sicurezza del Reich, Eichmann passò nella sua sezione sugli affari ebraici a Berlino. Nel gennaio del 1942, in una villa sul lago nel quartiere Wannsee di Berlino, fu convocata una conferenza degli alti funzionari nazisti per organizzare quella che i nazisti chiamavano la “soluzione finale alla questione ebraica”. Eichmann fu scelto per coordinare le parti logistiche dell’operazione, di fatto diventando il capo dei carnefici della Germania. In stretta osservanza agli ordini, organizzò l’identificazione e il trasporto degli ebrei di tutta l’Europa sotto il giogo nazista verso le loro destinazioni finali ad Auschwitz e in altri campi di sterminio nella Polonia occupata dai tedeschi. Le conseguenze dell’efficienza del suo lavoro sono note a tutti: sei milioni di morti La fuga Dopo la fine della seconda guerra mondiale, le truppe statunitensi catturarono Eichmann, che all’epoca si faceva identificare come Otto Eckmann, ma, nel 1946, riuscì a fuggire dal campo di prigionia dove si trovava. Nel 1948 ottenne un permesso di viaggio per l’Argentina e una falsa identità con il nome di Ricardo Klement attraverso un’organizzazione diretta dal vescovo Alois Hudal, un religioso austriaco con note simpatie naziste che viveva in Italia. Quei documenti gli diedero accesso a un passaporto umanitario del Comitato Internazionale della Croce Rossa a cui, nel 1950, si aggiunsero altri permessi di ingresso che gli consentirono l’emigrazione in Argentina. L’ex gerarca nazista viaggiò attraverso l’Europa, soggiornando in una serie di monasteri conniventi. Partì da Genova in nave il 17 giugno 1950 e arrivò a Buenos Aires il 14 luglio. Inizialmente, Eichmann visse nella provincia di Tucumán, dove lavorava per un appaltatore del governo. Nel 1952 fu raggiunto dalla sua famiglia e tutti si trasferirono a Buenos Aires. L’uomo svolse una serie di umili mestieri fino a quando non trovò lavoro presso la Mercedes-Benz, dove divenne capo-dipartimento. La famiglia costruì una casa in via Garibaldi 14 (ora 6061 via Garibaldi) e vi si trasferì nel 1960. Durante il 1956, fu intervistato dal giornalista nazista Willem Sassen, con l’intenzione di produrre una biografia, e i due registrarono audio e tennero appunti che furono la base Tedesca figlia di un ex soldato della Wehrmacht lei, ebreo lui, Serge e Beate si conobbero a Parigi nel 1963. Scattò la scintilla e Serge le raccontò delle sue esperienze con il mondo nazista. Da allora, entrambi si prodigarono affinché gli impuniti pagassero il loro conto con la giustizia. Pochi anni dopo arriv ò il primo gesto eclatante: Beate riuscì a salire sul palco di un convegno politico e schiaffeggiò in pubblico, dandogli del nazista, il cancelliere tedesco Kurt Kiesinger, principale responsabile della propaganda antisemita durante il Terzo Reich. Da lì, la strada fu tutta in discesa. Nel 1971, i Klarsfeld rintracciarono a Colonia Kurt Lishka, ex capo della Gestapo di Parigi, e, coadiuvati da un cineoperatore, l o pedinarono e realizzarono un filmato che fu mostrato in diretta televisiva mondiale, riportando in auge il suo nome. Tentarono senza successo anche di rapirlo e portarlo in Francia, per aggirare il divieto di estradizione in vigore in Germani dal ’54. Sempre nel ’71, scovarono in Bolivia Klaus Barbie, l’ex capo della Gestapo di Lione, ma fu solo con Alois Brunner, membro del partito dal 1931 ed ex subalterno di Adolf Eichmann, che alzarono l’asticella e idearono un piano degno di un film di James Bond. Brunner si trovava a Damasco, dove godeva della protezione del regime di Hafez el-Assad, e i Klarsfeld si avvalsero dell’aiuto del governo israeliano per compiere qualcosa di unico. Ci racconta Beate: «Ho preso in prestito il passaporto della nostra cameriera, ho cambiato la mia pettinatura per assomigliarle e sono entrata in Siria. A Damasco ho trovato il suo numero di telefono, viveva sotto falso nome, Georg Fischer, e ho finto di essere anch’io una nazista. Dissi che avrebbe dovuto lasciare il suo appartamento perché gli israeliani sapevano dov’era. Disse: “Grazie, mia cara”. Era tutto quello che avevo bisogno di sentire. Ha dimostrato che era esattamente chi sospettavamo». La recita di Beate fu presto scoperta dalle autorità siriane, che la arrestarono e trattennero per tre mesi. Quanto a Brunner, seguì fin troppo alla lettera il consiglio e riuscì a scappare prima che l’intelligence israeliana potesse catturarlo. Da allora, di lui non si ebbero più notizie, ma si presume sia morto pochi anni fa. Oggi, varcata la soglia degli ottant’anni, i coniugi Klarsfeld sono due veterani della caccia ai nazisti e la loro attività, da molti definita “un’azienda di famiglia”, è sinonimo di giustizia. SERGE E BEATE KLARSFELD Coniugi a caccia di nazisti APPROFONDIMENTO 69


70 per una serie di articoli apparsi sulle riviste Life e Stern alla fine del 1960. L’identificazione Diversi sopravvissuti all’Olocausto si dedicarono alla ricerca di Eichmann e altri nazisti; tra questi c’era il cacciatore di ebrei Simon Wiesenthal. Wiesenthal apprese da una lettera del 1953 che Eichmann era stato visto a Buenos Aires e trasmise tale informazione al consolato israeliano a Vienna nel 1954. Il padre di Eichmann morì nel 1960 e Wiesenthal prese accordi con alcuni detective privati per fotografare di nascosto i membri della famiglia al funerale. Otto Eichmann, il fratello, era fortemente somigliante ad Adolf, ma del ricercato non esistevano fotografie recenti. Le immagini del fratello furono però fornite al Mossad, il servizio segreto israeliano per gli affari esteri, il 18 febbraio del 1960. Lothar Hermann, un emigrato tedesco in Argentina sopravvissuto a Dachau, fu determinante nell’identificazione del fuggitivo. Sua figlia Sylvia iniziò a frequentare un uomo di nome Klaus Eichmann nel 1956 che si vantava del passato nazista di suo padre. Hermann avvertì Fritz Bauer, procuratore generale dello stato dell’Assia, nella Germania occidentale. Lothar mandò quindi sua figlia in missione conoscitiva: fu accolta alla porta dallo stesso Eichmann, che disse di essere lo zio di Klaus. Klaus arrivò non molto tempo dopo, ma si tradì quando si rivolse ad Adolf Eichmann come “padre”. Fritz Bauer passò le informazioni di persona al direttore del Mossad, Isser Harel, che incaricò gli agenti di sorvegliare il gruppo, anche se inizialmente non si trovò alcuna prova concreta. Harel inviò Zvi Aharoni, agente dello Shin Bet, a Buenos Aires, il 1° marzo del 1960 e Aharoni fu in grado di confermare l’identità del fuggiasco dopo diverse settimane di indagini. L’Argentina era famosa per il respingimento delle richieste di estradizione dei criminali nazisti; quindi, l’allora Primo Ministro israeliano, David Ben-Gurion, prese la decisione di catturare Eichmann in gran segreto, per portarlo in Israele e processarlo. Isser Harel arrivò nel maggio del 1960 per sovrintendere l’operazione e l’agente del Mossad Rafi Eitan (futuro politico israeliano) venne nominato capo di una squadra di otto uomini, la maggior parte dei quali erano agenti dello Shin Bet. La cattura La squadra catturò Eichmann l’11 maggio del 1960, vicino alla sua casa in via Garibaldi a San Fernando, a Buenos Aires. Gli agenti erano arrivati ad aprile e avevano osservato la sua routine quotidiana per molto tempo, notando che ogni sera arrivava a casa dal lavoro all’incirca alla stessa ora. Il piano prevedeva di rapirlo mentre camminava accanto a un campo che si trovava nel tragitto dalla fermata dell’autobus a casa sua, ma l’operazione fu quasi abbandonata quando Eichmann non scese dal solito autobus, ma da quello successivo. Infine, l’ex gerarca nazista fu arrestato e, nove giorni più tardi, gli agenti riuscirono a portarlo di nascosto fuori dal paese. Un aereo di una compagnia israeliana, giunto in Argentina con la scusa del trasporto di autorità per i festeggiamenti del 150º anniversario dell’indipendenza argentina, caricò Eichmann (preventivamente sedato), che fu qualificato come un dipendente dell’azienda gravemente malato. Dopo aver risolto le polemiche sorte con l’Argentina, a Gerusalemme ebbe inizio il processo, molto controverso sin dall’inizio. Il procedimento giudiziario – svolto di fronte a tre giudici ebrei di uno stato ebraico che non esisteva durante l’Olocausto – scatenò l’accusa di illegittimità, e in molti chiesero un tribunale internazionale per giudicare Eichmann, mentre altri lo volevano processato in Germania, ma Israele non cedette. Un ruolo da funzionario Sotto interrogatorio, Eichmann dichiarò di non essere un antisemita e di non essere d’accordo con il volgare antisemitismo di Julius Streicher e di altri che scrivevano sul periodico Der Stürmer. Si ritrasse come un burocrate che si era limitato a svolgere i compiti a lui assegnati e, quanto alle accuse contro di lui, sostenne di non aver violato alcuna legge e di essere “il tipo di uomo che non può mentire”. Negando qualsiasi responsabilità nell’Olocausto, disse: Il passaporto falso con il quale Adolf Eichmann arrivò in Argentina


71 «Non ho potuto fare a meno di svolgere i miei compiti. Avevo degli ordini che eseguivo, ma non avevo nulla a che fare con questa faccenda». Fu evasivo nel descrivere il suo ruolo nella realizzazione dello sterminio e affermò di essere responsabile soltanto del trasporto degli ebrei ai campi. Egli aggiunse: «Non ho mai affermato di non sapere della soluzione finale, ho detto che l’Ufficio IV B4 (l’ufficio di Eichmann; n.d.r.) non aveva nulla a che fare con lo sterminio degli ebrei». Eichmann negava la responsabilità morale nello sterminio, ma sembrava orgoglioso della sua efficacia nello stabilire procedure efficienti per deportare milioni di vittime. È bene precisare che non si limitò a seguire gli ordini nel coordinare un’operazione di questa portata. Era un manager intraprendente e proattivo, che si basava su una varietà di strategie e tattiche per garantire l’efficienza dei mezzi di trasporto per deportare gli ebrei, ed era in grado di trovare soluzioni innovative per superare gli ostacoli. Secondo la Arendt, Eichmann era una creatura mostruosa e patetica allo stesso tempo, che rappresentava l’apoteosi della singolare ossessione del Terzo Reich per lo sterminio da un lato e la documentazione e l’organizzazione dall’altro. Si nascose dietro la scusa di aver semplicemente “eseguito gli ordini”, nonostante avesse organizzato il trasporto di ebrei e altri soggetti “indesiderabili” nei campi di sterminio nazisti. Per la Arendt, tale ragionamento non era la prova del male puro, ma mostrava, invece, che dimenticare la propria umanità in un sistema omicida come quello del Terzo Reich non era altro che un abbandono della moralità di fronte a qualcosa di più grande. Non qualcosa di degno di maggiore ammirazione, ma qualcosa di più grande Eichmann ammise che la sua spietata efficienza nel realizzare la “soluzione finale” derivava dal desiderio di far progredire la sua carriera e la scrittrice affermò: “L’intera vicenda è d’una normalità assoluta”. Alla fine del processo, Eichmann fu anche tacciato di aver trattato con sufficienza numerosi sopravvissuti ai campi di sterminio e di non aver mostrato alHANS MÜNCH Il controverso “uomo buono di Auschwitz” Nel 1943, Hans divenne uno dei medici nazisti dell’Istituto di Igiene di Rajsko, a circa 4 chilometri da Auschwitz. In teoria, il centro doveva studiare le epidemie che scoppiavano nel campo e impedire che si diffondessero fra il personale tedesco. Nella pratica, dovette assistere al processo di gassazione degli ebrei, firmare i documenti delle esecuzioni e, soprattutto, condurre esperimenti su cavie umane. Ma Hans non ci stava a prendere parte all’Olocausto. In laboratorio gli arrivavano uomini, donne e bambini da sottoporre a esperimenti su malattie come il tifo, la malaria o i reumatismi e studiò diversi espedienti che prevedevano iniezioni innocue e la falsificazione dei risultati dei test. Salvò anche numerose donne del famigerato Blocco 10, fingendo di sottoporle a prolungati esperimenti che, in realtà, gli stavano allungando la vita. Quando le cavie diventavano inutili, infatti, il loro destino erano i forni crematori. Dopo la guerra, finì sotto processo, ma le testimonianze dei tanti pazienti che aveva salvato gli valsero l’assoluzione e il soprannome di “uomo buono di Auschwitz”. Nel 1998, però, Hans rilasciò una serie di dichiarazioni molto discutibili a un giornale tedesco e a una radio francese. Usò frasi razziste e antisemite, lodò il suo vecchio collega Josef Mengele, il dottor morte, e si disse contento delle ricerche che aveva condotto ad Auschwitz. Di lì a poco gli fu diagnosticato l’Alzheimer e finì di nuovo sotto processo per aver incitato all’odio razziale e minimizzato i crimini contro l’umanità. Nel 2001 fu riconosciuto colpevole, ma l’accusa rinunciò alla condanna per via dei problemi di salute mentale dell’imputato. Morì il 6 dicembre del 2001. VITE PARALLELE L’avvocato difensore Robert Servatius (in primo piano) e il procuratore capo Gideon Hausner (in piedi) durante il processo Eichmann a Gerusalemme Hans Münch - Fair use


72 cun rimorso per quello che aveva fatto. I giudici, infine, lo condannarono a morte “per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei”. L’esecuzione Adolf Eichmann venne impiccato a Ramla, in prigione, il 31 maggio del 1962. Le richieste di grazia da parte sua, della moglie e di alcuni parenti di Linz caddero nel vuoto. Esiste una controversia riguardo le ultime parole che pronunciò. Secondo una versione, disse: «Lunga vita alla Germania. Lunga vita all’Austria. Lunga vita all’Argentina. Questi sono i paesi con i quali sono stato associato e io non li dimenticherò mai. Io dovevo rispettare le regole della guerra e la mia bandiera. Sono pronto». Ma Rafi Eitan, che accompagnò Eichmann all’impiccagione, disse nel 2014 di averlo sentito in seguito borbottare «Spero che tutti voi mi seguirete», rendendo queste le sue ultime parole. Un uomo banale, schiacciato dalla banalità del male. I giudici del processo di Adolf Eichman (da sinistra a destra) Benjamin Halevi, Moshe Landau e Yitzhak Raveh 72


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7474 STORIE D'AMORE


7575 LO “SCANDALOSO” AMORE FRA FILIPPO D’ORLEANS E FILIPPO DI LORENA di Annalisa Lo Monaco Filippo di Lorena è “tanto bello quanto un angelo”, appartenente alla nobile stirpe dei Guisa, figlio cadetto di Enrico di Lorena, mentre sua madre è parente del potentissimo cardinale Richelieu, ormai defunto quando il piccolo vede la luce. Nato nel 1643, viene tenuto a battesimo nientemeno che dalla regina madre, Anna d’Austria, e dal cardinale Mazzarino, altro potentissimo personaggio della corte parigina. Riceve il nome di Filippo in omaggio al secondogenito reale, Filippo d’Orleans, figlio di Anna e Luigi XIII, fratello del futuro Luigi XIV, il Re Sole. 75 A sinistra: Ritratto di Filippo di Lorena raffigurato come Ganimede A destra: Filippo I di Borbone-Orléans in abiti militari in un dipinto di Pierre Mignard del 1675


76 I due Filippo Le vite di Filippo di Lorena, le Chevalier de Lorraine, e di Filippo d’Orleans, chiamato con l’appellativo Monsieur (riservato al fratello del re), si incrociano presto: crescono entrambi al Palais-Royal, insieme al Delfino di Francia e ad altri figli di famiglie nobili (era un modo per tenere sotto controllo possibili rivalità e tradimenti dei genitori). Probabilmente giocano alla guerra insieme, i due piccoli Filippo, ed entrambi più avanti si dimostreranno – stranamente, e si vedrà il perché – bravi soldati. Il Cavaliere di Lorena è bellissimo e coraggioso, con l’alterigia tipica dei Guisa, ma è pur sempre un figlio cadetto, con possibilità economiche praticamente nulle. Come da prassi, intraprende la carriera militare e si fa onore in Italia, poi in Ungheria, e ancora contro i turchi, quando batte in duello uno di loro che aveva sfidato “il più coraggioso dei cristiani”. Filippo d’Orleans, invece, nasce nel 1640. Suo padre muore tre anni dopo e la madre Anna assume la reggenza in nome di Luigi sotto la protezione dell’onnipresente Mazzarino e del cognato Gastone d’Orleans, fratello del defunto re. Per evitare tra il Delfino Luigi e Filippo quei pericolosissimi contrasti che c’erano stati tra Gastone (che aveva tramato più volte ai danni del fratello) e Luigi XIII, il cardinale Mazzarino, espertissimo in inganni e sotterfugi, consiglia ad Anna di educare il piccolo Filippo in modo da non tirarne fuori i possibili lati combattivi del carattere. Come da consuetudine, i bambini vengono vestiti con abiti femminili fino alla fine della fanciullezza (vedi box di approfondimento), ma, nel caso di Filippo, quella tradizione si trasforma in qualcosa di diverso: Anna lo chiama “la mia bambina” e lo asseconda se il ragazzo vuole vestirsi, truccarsi e ingioiellarsi da donna anche quando non è ormai più un bambino, addirittura in occasione di feste e balli pubblici, con grande scandalo della buona società dell’epoca. Filippo ama consigliare le dame di corte sulle loro toilettes, su come rimontare dei gioielli ormai passati di moda, ma ha anche il gusto della chiacchiera e del pettegolezzo. A corte vive un nipote di Mazzarino, Filippo Mancini, duca di Never, che alcune voci indicano come l’uomo che si prenderà la verginità del duca d’Orleans: “[…] mi è stato assicurato, d’altra parte, che il duca di Nevers fosse stato il primo a corrompere Monsieur, il quale era un principe di una grande bellezza. Così la regina madre aveva allontanato Monsieur dal duca di Nevers, che era accusato di avere importato in Francia la moda del vizio ultramontano (l’omosessualità; n.d.r.) […]” (Primi-Visconti, Memoires). Con una penna affilata più di una spada, il duca di Saint-Simon, nelle sue memorie, fa un ritratto quasi caricaturale di Filippo: “[…] Era un piccolo uomo panciuto, montato su dei trampoli da quanto erano alti i tacchi delle sue scarpe, sempre agghindato come una donna, pieno di anelli, di braccialetti e di gioielli dappertutto, con una lunga parrucca tutta spinta sul davanti, nera ed incipriata, e con nastri ovunque ne potesse mettere, pieno di ogni sorta di profumi ed in tutte le cose la pulizia fatta a persona. […] Lo accusavano di mettere impercettibilmente del rouge. Il naso era molto lungo, la bocca e gli occhi belli, il viso pieno ma molto lungo. Tutti i suoi ritratti gli assomigliano. Ero piccato nel vederlo spesso far ricordare che era il figlio di Luigi XIII, di questo grande principe dal quale, fatta eccezione per il valore, era completamente differente […]”. Anna d’Austria in un ritratto di Frans Pourbus il Giovane (1616) Antoon van Dyck, Ritratto di Gastone di Francia, 1632 o 1634


77 Anche il terribile Saint-Simon riconosce quindi a Filippo il “valore”, che dimostra (sconcertando quelli che lo conoscono solo come un principe effeminato) nella Battaglia di Cassel (1677), durante la guerra franco-olandese, con una vittoria che lo rende molto popolare. Il fratello, Luigi XIV, pensa bene che la cosa potrebbe diventare pericolosa e gli toglie ogni incarico di comando, ma, in compenso, per tenerlo lontano dai giochi di potere, lo riempie di titoli (che significano proprietà e rendite) e quattrini, tanto che Monsieur accumula un’enorme ricchezza, indispensabile al suo tenore di vita oltremodo dispendioso. D’altronde, Filippo rappresenta un po’ una spina nel fianco del re, per via della sua mai nascosta omosessualità. È vero che Monsieur si sposa due volte, sempre per doveri dinastici, ma si circonda di favoriti e si innamora perdutamente del Cavaliere di Lorena, suo amante fin dal 1658. Il triangolo sentimentale Non è solo una questione di sesso fra i due, almeno per quanto riguarda Monsieur, che è letteralmente soggiogato dal bellissimo Chevalier, un tipo definito “insinuante, brutale e privo di scrupoli […] tanto avido quanto un avvoltoio”. Nel 1661, Monsieur sposa Enrichetta Anna Stuart, sorella di Carlo II d’Inghilterra, peraltro cugina di primo grado di Filippo. Minette, come la chiamano a corte, è una donna forte, che ama civettare con molti uomini della corte francese, fino a diventare l’amante del cognato, il Re Sole, e perfino del Conte di Guisa, mentre questi è uno dei favoriti di Filippo. Fatto sta PERCHÉ I BAMBINI MASCHI VENIVANO VESTITI DA FEMMINE? Èquasi impossibile, se non per occhi esperti di Storia del costume, distinguere i maschietti dalle femminucce nei quadri che ritraggono bambini e/o bambine, perché sono tutti vestiti allo stesso modo: indossano lunghe gonne, scarpe vezzose e portano i capelli lunghi. I pantaloni non erano contemplati nell’abbigliamento di un bambino almeno fino ai quattro anni d’età, ma l’uso di gonne e di abiti che oggi definiremmo “da femmina”, poteva prolungarsi fino agli otto anni, talvolta anche oltre. Malgrado possa sembrare una moda poco pratica, in realtà, quel modo di vestire i bambini di ambo i sessi assolveva proprio a uno scopo funzionale. In tempi nei quali non esistevano i pannolini usa e getta e i pantaloni avevano complicati sistemi di chiusura e, cambiare un bambino che indossava una gonna, risultava indubbiamente più semplice e veloce. E così, all’incirca dalla metà del XVI secolo fino alla fine del XIX (ma in qualche caso anche agli inizi del XX), i bambini occidentali indossavano abiti oggi ritenuti esclusivamente femminili. Con un ulteriore vantaggio pratico, di tipo economico: quando i vestiti erano ancora piuttosto costosi, anche per le famiglie della piccola nobiltà, era facile realizzare delle gonne che potessero essere allungate, seguendo la crescita del ragazzo. E se le famiglie più ricche, nelle quali non si doveva passare un vestito da un figlio/a all’altro/a, potevano permettersi una distinzione di genere con l’uso di certi colori o determinate rifiniture, i meno abbienti erano abituati a usare abiti da riutilizzare con tutti i bambini della famiglia. Verso la fino del XVIII secolo, gonne e sottovesti furono gradualmente sostituite, a partire dai tre anni, con i pagliaccetti, e poi ancora da abiti corti, indossati sopra a pantaloncini bianchi, indifferentemente da maschi e femmine. Solo alla fine della prima guerra mondiale gli abiti divennero definitivamente differenti per maschi e femmine. APPROFONDIMENTO Luigi da bambino con la madre, Anna d’Austria Ritratto di Filippo di Lorena


78 che, a dispetto del marito, Minette diventa una donna molto potente, anche perché è lei a impegnarsi nel Trattato di Dover con suo fratello Carlo per conto del re di Francia. In compenso, però, pretende che il Cavaliere di Lorena sia allontanato dalla Corte. Luigi XIV deve cedere: il 30 gennaio del 1670, Filippo di Lorena viene arrestato mentre si trova nella stanza di Monsieur, che sviene per lo choc. Monsieur si vendica abbandonando la corte e portandosi appresso la moglie, che deve per forza seguirlo nel castello di Villers-Cotterêts Intanto, il Lorena scrive all’amante da Lione, dove è confinato in un’abbazia, facendo montare la rabbia di Filippo nei confronti della moglie, indicata come responsabile dell’arresto. Luigi XIV, allora, fa prima rinchiudere il Cavaliere nello Château d’If (quello del Conte di Montecristo), dal quale non può comunicare con nessuno, poi lo manda in esilio a Roma. La vittoria di Enrichetta dura poco, perché, il 30 giugno del 1670, a soli 26 anni, la donna muore all’improvviso. Subito le malelingue parlano di un avvelenamento voluto dal Cavaliere, ma pare che, in realtà, si sia trattato di peritonite. Il secondo matrimonio di Monsieur Monsieur ed Enrichetta non hanno eredi maschi sopravvissuti; è quindi d’obbligo un nuovo matrimonio. La scelta cade su Elisabetta Carlotta del Palatinato (seconda cugina dello sposo), che viene descritta come un maschio mancato. Il perfido Saint-Simon cita un gentiluomo di camera di Filippo: “[…] gli scappò di dire che non sapeva perché rimanesse in quella bottega, che Monsieur era la donna più stupida del mondo e Madame l’uomo più stupido che avesse mai visto […]”. Il matrimonio sembra, però, andare bene, almeno fin quando non rientra dall’Italia, su insistenza di Filippo, il Cavaliere di Lorena, all’inizio del 1672. La coppia ha comunque due figli, un maschio e una femmina. I coniugi hanno fatto il loro dovere e, dalla nascita della bambina, nel 1676, smettono di dormire insieme, pare con gran sollievo per entrambi. L’ingombrante presenza del Lorena viene a malapena tollerata da Elisabetta, ma le cose peggiorano quando il Cavaliere si mette di mezzo per convincere Monsieur a far sposare l’unico figlio maschio, Filippo anche lui (che poi diventerà reggente alla morte dello zio), con una delle figlie di Luigi XIV e della marchesa di Montespan. MARIA MANCINI Il grande amore italiano di Luigi XIV Terminata la guerra franco-spagnola (1635-1659), le corti di Parigi e Madrid misero nero su bianco la fine delle ostilità firmando la pace dei Pirenei. In quella sede, Mazzarino siglò il suo più grande successo diplomatico con una postilla che prevedeva la pacificazione delle due casate attraverso l’unione matri- moniale fra Luigi XIV e l’Infante di Spagna, Maria Teresa d’Asburgo. C’era solo un problema: il re di Francia era innamorato di Maria Mancini, una delle celebri Mazarinettes. Le Mazarinettes erano le sette nipoti che il cardinale aveva portato a Parigi per avere delle confidenti di sangue con cui rilassarsi e trascorrere il tempo libero, oltre a combinar loro matrimoni vantaggiosi con membri di spicco della nobiltà francese e italiana. Lo zio le aveva accolte fra il 1647 e il 1653 e le ragazze, tutte note per la loro avvenenza, erano cresciute sotto la protezione della regina Anna e al fianco del giovane Luigi XIV. Il futuro re, però, si era invaghito, ricambiato, di Maria Mancini: bruna, vivace e bella, come la descrissero i suoi contemporanei. Il loro fu un amore puro, mai consumato, ma Luigi faceva sul serio e voleva a tutti i costi sposarla. Mazzarino dovette intervenire a malincuore. Se, da un lato, la nipote sul trono di Francia avrebbe rappresentato la ciliegina sulla torta della sua grande ascesa sociale, dall’altro c’era in ballo l’alleanza franco-spagnola. Fece valere la ragion di Stato e, con il beneplacito della regina, mandò la nipote in Italia, dove andò in sposa a Lorenzo Onofrio Colonna. La relazione con Luigi era nota negli ambienti aristocratici e leggenda narra che, dopo la prima notte di nozze, il nobile restò sorpreso quando constatò che sua moglie era ancora illibata. Quanto a Luigi, non ebbe altra scelta che rinunciare alla Mancini e sposare Maria Teresa. Riuscì a consolarsi solo molti anni dopo, con l’umilissima Madame de Maintenon, ma questa è un’altra storia. VITE PARALLELE Maria Mancini


79 La fine dei due Filippo Il Re Sole preme per quel matrimonio, tanto da elargire soldi in quantità al Cavaliere per la sua opera di mediazione, ben sapendo quale sia l’ascendente del Lorena su Filippo. Quel matrimonio alla fine si fa e diventa fonte di perenni diatribe tra i due fratelli: Filippo rinfaccia a Luigi di non aver mantenuto le promesse di elargizioni e incarichi, fatte a lui e al figlio in cambio di quelle nozze disonorevoli; il sovrano, dal canto suo, tira fuori le infedeltà del giovane Filippo (da che pulpito viene la predica!). L’8 giugno del 1701, litigano talmente forte che, nel Castello di Marly, le loro urla sono sentite da tutti. La rabbia, però, non toglie l’appetito a Monsieur, che cena abbondantemente e poi se ne torna alla sua residenza di Saint Cloud. Il giorno dopo muore per un colpo apoplettico. Luigi se ne dispiace sinceramente e anche la moglie, Elisabetta, che comunque si affretta a bruciare tutte le lettere di Filippo ai suoi vari favoriti. E il Cavaliere di Lorena? Poco più di un anno dopo, l’8 dicembre del 1702, muore anche lui per un colpo apoplettico, in miseria assoluta, tanto che il funerale viene pagato da qualche amico. Alla fine di tutte queste vicende, tra intrighi di palazzo, maldicenze e tradimenti, l’unica cosa che resta certa è quell’amore scandaloso che legò, a dispetto di tutti, per oltre trent’anni, i due Filippo. Monsieur e le Chevalier de Lorraine. Enrichetta nei panni della dea Minerva mentre regge un ritratto di Monsieur 79


80 STORIE DI LIBRI Il Piccolo Principe in un’illustrazione del romanzo


81 FIABA, GIOCO E LIBRO ILLUSTRATO Le tre vite de Il piccolo principe di Roberto Cocchis 81 Copertina de Il piccolo principe – Licenza Fair use


82 Nel 2009, scrivendo un’originale biografia di Antoine de Saint-Exupéry, I misteri di Sant-Exupéry, l’editore Jean-Claude Perrier valutò che il successo planetario de Il piccolo principe si poteva misurare secondo le seguenti cifre: tradotto in 210 lingue, 130 milioni di copie vendute. Da allora, i numeri, specie il secondo, non possono che essere ulteriormente cresciuti. Sicuramente, Il piccolo principe è il più noto classico per l’infanzia del XX secolo (letto peraltro con piacere anche da moltissimi adulti) e la sua fama ha finito per oscurare quasi completamente quella delle altre opere del suo autore, benché queste siano tutte molto meritevoli (i romanzi Volo di notte e Corriere del Sud, i libri di memorie Terra degli uomini e Pilota di guerra, la vibrante Lettera a un ostaggio, dedicata a un amico ebreo durante l’occupazione nazista della Francia, e il capolavoro incompiuto Cittadella). Poiché il libro uscì nel 1943, quando de Saint-Exupéry viveva a New York dopo aver lasciato la Francia per non sottomettersi al regime filonazista di Vichy, si è aperta da tempo una diatriba sulla sua origine. Perché l’autore, un pilota di aerei che fino ad allora aveva pubblicato solo testi sulla vita degli aviatori (ma finendo sempre per affrontare tematiche di grande interesse per chiunque e proponendo sempre riflessioni personali e profonde), decise di scrivere un libro per bambini? La vulgata più diffusa racconta che de Saint-Exupéry, sempre a corto di soldi, si vide offrire questa possibilità dai suoi editori americani, Eugene Raynal e Curtice Hitchcock, e la colse al volo allettato dal cospicuo anticipo che l’accompagnava. In altri termini, Il piccolo principe sarebbe stato scritto apposta, durante il 1942, per i bambini americani, che furono anche i primi a leggerlo, quando fu pubblicato in inglese (a cura di un traduttore, perché de SaintExupéry si era sempre rifiutato di imparare quella lingua, per sottolineare che la sua assenza dalla Francia era solo transitoria) il 6 aprile del 1943. Tuttavia, le ricerche degli ultimi anni, hanno dimostrato che le cose non stanno proprio così Le vicende editoriali Consultando i materiali in possesso dei vari amici ed eredi di de Saint-Exupéry, è emerso che il libro è passato per almeno quattro stesure diverse. La prima volta che l’omino dai capelli arruffati con il mantello compare in qualche disegno dell’autore è addirittura a metà anni ’30. E non solo. In realtà, pare che Il piccolo principe dovesse già uscire nel 1940. In quel periodo, de Saint-Exupéry sentiva di attraversare un periodo di crisi creativa (dovuta anche agli insuccessi di tutti i suoi tanti tentativi di lavorare nel cinema come sceneggiatore) e temeva di non riuscire a consegnare al suo editore, Gaston Gallimard, tutti i sette libri previsti dal contratto che aveva sottoscritto (fino ad allora, si era fermato a due). Per rinnovare il suo stile, su suggerimento dell’amico Jean Paulhan, avrebbe provato a scrivere un testo per bambini, per il quale Gallimard lo avrebbe lasciato libero di cercarsi un altro editore. Questo editore sarebbe stato un certo Alfred Mame, ultimo discendente di una famiglia di editori attiva a Tours dal 1796, presentatogli dall’aIl Piccolo Principe sul retro di una banconota da 50 franchi


83 mica Nelly de Vogué. Con il libro ancora allo stato di bozza, però, il bombardamento di Tours da parte dei tedeschi aveva distrutto lo stabilimento della Mame, rendendo impossibile la pubblicazione. È proprio Alfred Mame, morto nel 1994, a raccontarlo. Tuttavia, questa versione non è verificabile, in quanto lo stesso bombardamento della Mame che distrusse gli stabilimenti cancellò anche l’archivio dell’editore con tutti i contratti; mentre Nelly de Voguè, che avrebbe fatto da intermediaria tra editore e scrittore, è morta senza lasciare testimonianze al riguardo e le sue carte personali non sono ancora consultabili. Se questa storia è vera, de Saint-Exupéry abbandonò momentaneamente l’idea di pubblicare il libro, ma continuò a portarsene dietro il dattiloscritto. Nell’estate del 1942, a New York, il suo agente Maximilian Becker e il suo traduttore in inglese, Lewis Galantière (che però non tradusse Il piccolo principe) lo sollecitarono a scrivere un testo specifico per il mercato americano, convincendolo a riprendere in mano il progetto di un libro per l’infanzia. Rispetto al libro che non era stato possibile pubblicare in Francia, però, de SaintExupéry aggiunse una novità: le illustrazioni, inizialmente non previste. Si rivolse inizialmente a un amico pittore, Bernard Lamotte, che aveva già illustrato altri suoi libri; poi, non del tutto soddisfatto, finì per realizzare le illustrazioni da solo (era abilissimo nel disegno tecnico ma anche nel disegno in generale, e aveva anche altri talenti, ad esempio suonava benissimo il violino) riprendendo il vecchio soggetto dell’omino dai capelli arruffati con il mantello. La nuova stesura doveva per forza essere molto diversa da quella originaria (le opere di de Saint-Exupéry passavano sempre per un procedimento creativo molto complicato, caratterizzato da innumerevoli rifacimenti), perché abbiamo precise testimonianze e prove di come alcune delle idee in essa riportate presero forma proprio durante il soggiorno newyorkese, mentre l’autore intratteneva giocando una bambina, figlia di una coppia di amici che lo ospitavano e lo aiutavano. L’amico in questione, il diplomatico Henri Claudel (figlio del famoso scrittore Paul Claudel) non ha fatto in tempo a parlarne in pubblico, e neanche sua moglie, ma la loro figlia maggiore, Marie-Sygne Claudel, nata nel 1937, possiede ancora diversi disegni che de Saint-Exupéry realizzò mentre giocava con lei. Mentre il figlio minore, Francois, nato dopo la scomparsa di de Saint-Exupéry, ha avuto modo di raccogliere le confidenze del padre riguardo la sua amicizia con lo scrittore. 83 VITE PARALLELE ALICE LIDDELL La bambina che ispirò Alice in Wonderland Fin dall’infanzia, Charles Dodgson, noto come Lewis Carroll, dimostrò una notevole capacità d’apprendimento, nonostante i tanti problemi di salute che lo affliggevano. In tenera età, contrasse una malattia che lo lasciò sordo da un orecchio e debole di torace, mentre una rara forma di emicrania gli provocava delle visioni distorte della realtà, mostrandogli oggetti molto più grandi o più piccoli della dimensione reale. Forse, questa malattia (diagnosticata all’epoca come epilessia), e in particolare i suoi sintomi hanno in qualche modo contribuito alla stesura del romanzo, pubblicato nel 1865 con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Tre anni prima, il 4 luglio del 1862, Charles era uscito per una gita in barca sul fiume Tamigi con il reverendo Robinson Duckworth e tre sue figlie: Alice, di 10 anni, Edith, di 8, e Lorina, di 13. Mentre il reverendo remava, lungo un tragitto di circa 8 km, Alice chiese all’amico di famiglia di raccontare una delle sue storie, tanto apprezzate dalle tre sorelle. Charles narrò di una bambina di nome Alice che, inseguendo un coniglio, cadeva in un mondo sotterraneo, fantastico e assurdo, vivendo incredibili avventure. Le bambine rimasero affascinate dal racconto e la piccola Alice chiese a Charles di mettere per iscritto la storia per lei. Dodgson la accontentò e le spedì un manoscritto, corredato da illustrazioni realizzate da lui stesso, intitolato Alice’s adventures Under Ground, che le arrivò il 26 novembre del 1864. Nel 1865, Charles decise di pubblicare la sua storia, ampliata e arricchita con nuovi personaggi. Il libro ebbe immediatamente un enorme successo e Lewis Carroll divenne un nome famoso in tutto il mondo. Charles era un amico di famiglia dei Liddell da molto tempo, fin dal 1855, ma i rapporti con loro si interruppero bruscamente nel 1863. Secondo alcuni biografi successivi, era platonicamente innamorato della piccola Alice, allora undicenne, tanto da farle una proposta di matrimonio: questo sarebbe stato il motivo della rottura tra Dodgson e i Liddell. Studi più recenti hanno tuttavia escluso questa possibilità, mettendo l’accento invece su un pettegolezzo che aveva iniziato a girare quell’estate del 1863: una relazione con la maggiore delle sorelle, Lorina, se non addirittura con la signora Liddell. Paul Claudel


84 I disegni per Marie-Sygne Dunque, nel 1942, de Saint-Exupéry è spesso ospite dei Claudel a New York e gli piace inventare storie per intrattenere la piccola Marie-Sygne. Lei, da parte sua, ricorda che lo scrittore aveva sempre un blocco di fogli e una matita con sé e disegnava di tutto. Poi di solito buttava tutto nella spazzatura, anche se la lungimirante madre di Marie-Sygne a volte tirava fuori dal bidone qualche schizzo particolarmente ben riuscito per conservarlo. Marie-Sygne Claudel conserva in casa propria sette disegni originari di de Saint-Exupéry. Tre di essi rimandano subito a Il piccolo principe: uno rappresenta un boa che inghiotte una volpe (nel libro, la volpe si trasformerà in un elefante); un altro raffigura proprio il Piccolo Principe, esattamente come apparirà nel libro; il terzo pure rappresenta il Piccolo Principe, con un retino per farfalle in mano, ma non è uno schizzo, bensì un acquerello, e sotto c’è scritto che “è molto triste, voleva prendere una Marie-Sygne ma vede solo dei gabbiani” (Sygne si legge come Cygne, cigno). Altri quattro disegni raffigurano la storia di un bambino diverso dal Piccolo Principe, una storia piuttosto ironica sul fatto che il bambino non piace a Marie-Sygne, ma neanche lei piace a lui; perciò, “se ne vanno” tutti e due. Ma Marie-Sygne, prima di nascere, abitava su una stella (soggetto dell’ultimo disegno) che si è spenta dopo che lei se n’è andata: e anche questo è un evidente richiamo alla trama de Il piccolo principe. La fine di Antoine de Saint-Exupéry Pochi mesi dopo, il libro venne stampato e ottenne subito un ottimo successo. Per essere letto dai francesi nella lingua in cui fu scritto, però, si dovrà aspettare il 1946, dopo la fine della guerra. Curiosamente, poco dopo l’uscita del libro, de SaintExupéry ridiede vita al suo piccolo eroe in una corrispondenza privata. Separato dalla moglie Consuelo Suncin (dalla quale però non divorziò mai), era un vero tombeur de femmes, ma a volte anche a lui andava male. Nell’estate del 1943, ad Algeri, intrattenne una relazione e una corrisponden- z a con una donna rimasta sconosciuta, che lo mandò in bianco. In calce alle sue lettere, l’omino dai capelli arruffati con il mantello ricompare per esprimere la collera e il dispiacere. Poi, non ebbe più il tempo di riproporlo. Arruolato volontario – nonostante l’età avanzata (era nato a Lione il 29 giugno del 1900) e le cattive condizioni fisiche, retaggio delle conseguenze di tanti incidenti aerei – nell’aviazione militare della Francia Libera, nell’estate del 1944 compì una serie di missioni di ricognizione sulla Francia meridionale, partendo da un aeroporto vicino Bastia, in Corsica. Dall’ultima di queste, la mattina del 31 luglio 1944, non tornò. Non si è mai stabilito se sia stato abbattuto da un caccia tedesco o dalla contraerea, o se il suo aereo sia caduto per un’avaria o un malore. Solo nel 1998, al largo di Marsiglia, un pescatore ha ritrovato accidentalmente il cinturino del suo orologio d’argento (con dedica della moglie Consuelo), permettendo almeno di stabilire esattamente il luogo in cui è caduto. Il personaggio dello studioso in un’illustrazione del romanzo Consuelo de Saint-Exupéry


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86 La nazionale italiana al suo esordio contro la Francia 86 MITOLOGIA 86


8787 PROMETEO Un eroe solo contro la tirannide di Annalisa Lo Monaco Prometeo incatenato in un dipinto di Thomas Cole del 1847


88 La storia di Prometeo, Epimeteo e Pandora è un conosciutissimo mito dell’antica Grecia, raccontato all’infinito nel corso dei millenni. Forse perché è la storia stessa dell’umanità, un mito che spiega la creazione dell’uomo, la nascita della conoscenza e un’età felice senza dolore, prima degli orribili inizi di una condizione di miseria… In breve, della rottura fra dèi e uomini. La creazione dell’uomo Il mito narra che, quando l’universo fu creato, dal caos si formò la Terra e gli dèi decisero di popolarla con creature in grado di vivere grazie ai loro doni. Il compito di creare l’uomo e gli altri animali fu affidato ai fratelli titani Prometeo ed Epimeteo, gli unici di quella stirpe di dèi primordiali (che non appartengono, quindi, alla congrega degli dèi dell’Olimpo) a non esser stati rinchiusi nel Tartaro da Zeus. Prometeo, il cui nome significa “colui che riflette in tempo”, era saggio, con il dono della lungimiranza, e pensò a ciò che sarebbe stato necessario negli anni a venire. D’altra parte, Epimeteo, “colui che riflette in ritardo”, era avventato e impulsivo: incapace di pianificare il futuro, si preoccupava solo del presente. I fratelli iniziarono a creare la vita sulla Terra. Epimeteo plasmò rapidamente animali che abitavano nelle foreste, nuotavano nei mari e volavano nell’aria. Fu così impulsivo da fornire a queste creature diversi doni: “Nel compiere la distribuzione, ad alcuni donava la forza e non la velocità, e ad altri invece, i più deboli, la velocità per la fuga” (Platone, Protagora). Alcune specie ebbero così le ali, altri artigli o zoccoli, poi pellicce per il freddo e così via. Insomma, Epimeteo finì tutti i doni possibili. Mentre suo fratello generava creature con poco pensiero, Prometeo lavorava con cura alla creazione dell’uomo. Partì da un mucchietto di argilla, lo modellò secondo l’immagine degli dèi e progettò il nuovo essere affinché fosse più nobile di qualsiasi altra bestia. Senza più doni da elargire, però, Prometeo rubò ad Atena l’intelligenza e la memoria, e li regalò agli uomini. Da quel momento in poi il titano, a suo rischio e pericolo, sarà sempre amico dell’umanità Zeus non era molto contento dei doni fatti agli uomini, pericolosi per le capacità che avrebbero potuto sviluppare. Alla fin fine, non amava molto quelle creature un po’ troppo simili agli dèi. Poi accadde che, in un’epoca nella quale ancora uomini e dèi trascorrevano del tempo insieme, Prometeo favorì le sue creature attribuendo loro con l’inganno la parte migliore di un toro sacrificato. Zeus, che aveva scelto personalmente la porzione di carne apparentemente più gustosa, che in realtà consisteva solo di ossa, infuriato con Prometeo per essere stato raggirato, anziché prendersela con lui punì gli uomini togliendo loro il fuoco, rappresentazione simbolica della forza della conoscenza. Il titano non poteva sopportare di vedere le sue creature ridotte a uno stato poco più che bestiale e, ancora una volta, decise di aiutarle: una notte si arrampicò sull’Olimpo e attese che Febo, il dio del sole, uscisse all’alba con il suo carro di fuoco, da cui rubò una scintilla che nascose in un bastone cavo per farne dono agli uomini. L’ira di Zeus fu incontenibile: per tre giorni e tre notti tempeste, terremoti e alluvioni si abbatterono sulla Terra, ma il re degli dèi non aveva ancora finito. Decise di punire direttamente Prometeo e di affliggere gli uomini con mali di ogni sorta. La punizione di Prometeo Prometeo si era dimostrato un traditore della sua stirpe e Zeus ordinò al dio-fabbro Efesto di incatenarlo a una roccia del Caucaso, la più esposta alle intemperie. Efesto, a malincuore, dovette obbedire: “O ribelle Prometeo, dovrò incatenarti alla roccia disumana con blocchi di bronzo impossibili da spezzare. Qui non vedrai più figure, né voci di esseri viventi, ma immobilizzato e cotto alla vampa del fiammeggiante Sole, sentirai la tua carne sfiorire e a poco poco sformarsi” (Eschilo, Prometeo incatenato). Ma la tortura non finiva qui: Prometeo all’improvviso sentì un frullo d’ali. Era un’aquila inviata da Zeus per divorargli il fegato, che ogni notte sarebbe ricresciuto, in un supplizio destinato a continuare per l’eternità. La punizione degli uomini Con gli uomini Zeus superò se stesso: “Qual pena per aver rubato il fuoco, voglio donare ai mortali un male di cui dovranno essere contenti, in modo che facciano festa al loro stesso male” (Esiodo, Dirck van Baburen, Vulcano incatena Prometeo, 1623


89 APPROFONDIMENTO Le opere e i giorni). Ordinò così a Efesto di plasmare la prima donna, Pandora, bellissima d’aspetto, ma con “in petto l’indole ingannatrice, le menzogne e gli astuti discorsi”. Insieme a un vaso dal contenuto misterioso, la prima donna del genere umano era destinata a Epimeteo, che, dopo aver rifiutato quel bellissimo regalo, ricordando gli ammonimenti del fratello a non fidarsi di Zeus, alla fine lo accettò, forse sperando di salvare così Prometeo. Le conseguenze furono catastrofiche: Pandora, pare su istigazione di Zeus, aprì il vaso per vedere cosa ci fosse. Ne uscirono tutti i mali del mondo, quelli che affliggeranno il genere umano da quel giorno in avanti. Rimase dentro solo la speranza, l’unica luce rimasta a illuminare la vita degli uomini. Tutto questo, a detta di Esiodo, accadde per colpa di una donna: “Da lei infatti, nacque la stirpe nefasta delle donne. Ah, quale immensa sciagura per gli uomini mortali!” (Esiodo, Teogonia) Attribuire la responsabilità a Zeus forse poteva essere pericoloso, vendicativo com’era… Prometeo, da quei lontanissimi giorni in cui nacque il suo mito, è sempre stato il simbolo della lotta a un potere tirannico e una metafora dei rischi che si corrono superando i propri limiti. Ma i Greci, che nella elpis, lo spirito della speranza, ci credevano davvero, immaginarono un altro finale per la storia di Prometeo: il tragediografo Eschilo, in un’opera perduta intitolata Prometeo liberato, racconta di come Eracle sia riuscito a uccidere l’aquila di Zeus e a liberare il titano. Alla fine, il ribelle Prometeo vinse la sua lotta contro la divinità avversa. GRECIA, 210.000 ANNI FA Il primo Homo sapiens d’Europa Uno studio dell’Università di Tubinga, pubblicato su Nature il 10 luglio del 2019, ha svelato la natura dei crani scoperti nel 1978 nella grotta di Apidima, nelle vicinanze di Kalamata e Sparta. 210.000 anni fa i nostri antenati vissero in questa antica grotta del Peloponneso, situata in quello che viene definito il “secondo dito” della regione ellenica, fra i primi coloni del continente Europeo. Lo svela lo studio sui crani “Apidima 1” e “Apidima 2”, scoperti nel 1978 da una spedizione condotta dal Museo archeologico nazionale di Grecia in collaborazione con il Laboratorio di Geologia storica-Paleontologia dell’Università di Atene, l’Istituto di Geologia e sfruttamento minerale e l’Università Aristotele di Salonicco. Il capo della ricerca Theodore Pitsios e i ricercatori scoprirono circa 20.000 reperti, fra cui frammenti di ossa, denti di diversi animali e strumenti litici risalenti a diverse epoche della preistoria. I due fossili maggiormente significativi sono due crani, di cui uno, Apidima 2, ha una morfologia neandertaliana e risale a circa 170.000 anni fa, mentre Apidima 1 è molto più vecchio, datato con il metodo dell’uranio-torio a 210.000 anni fa, e rappresenta un mix di caratteristiche umane antiche e moderne. Apidima 1 è la più antica testimonianza di Homo sapiens fuori dall’Africa. Il salto cronologico rispetto alle datazioni più antiche è impressionante, perché il cranio è più antico di 150.000 anni rispetto ai precedenti reperti europei considerati più vecchi. La ricercatrice a capo del progetto, Katerina Harvati, spiega: “I nostri risultati suggeriscono che almeno due gruppi di persone vivevano nel Pleistocene medio in quella che oggi è la Grecia meridionale: una popolazione di Homo sapiens, seguita da una popolazione di Neanderthal”. La Grecia, patria degli dèi dell’Olimpo e degli eroi omerici, ha quindi svelato uno dei suoi più straordinari segreti. Apidima 1 non venne forgiato da Prometeo, ma per noi esseri umani moderni rappresenta un tassello chiave nella comprensione della colonizzazione del genere Homo fuori dall’Africa. Jan Cossiers, Prometeo ruba il fuoco, XVII secolo Ricostruzione di Homo sapiens dell’età dei metalli Matteo De Stefano/MUSE / CC BY-SA 3.0


90 SCIENZA Versante ovest di Colle Gnifetti


91 536 d.C. L’inverno senza fine dell’anno peggiore della storia di Annalisa Lo Monaco


92 È capitato a tutti, prima o poi nella vita, di augurarsi che un anno particolarmente difficile arrivi alla fine, sperando che quello successivo riservi giorni migliori. Ma qual è stato l’anno peggiore nella storia dell’uomo? Sembra impossibile dare una risposta, perché l’umanità, da sempre, ha dovuto fare i conti con innumerevoli catastrofi, naturali e non, oltre a epidemie come la peste o l’influenza “spagnola” che, nel non troppo lontano biennio 1918/1920, uccise dai 50 ai 100 milioni di persone. Lo storico medievale Michael McCormick, dell’Università di Harvard, è del parere che il 536 d.C sia stato «l’inizio di uno dei periodi peggiori per gli esseri viventi, se non l’anno peggiore», come affermò in un’intervista. In quel drammatico anno, però, non si diffusero pestilenze più letali del solito, né si svolsero guerre particolarmente cruente. Allora perché lo scienziato è giunto a questa conclusione? Il disastro arrivò dal cielo, nella forma di una coltre di nebbia che ricoprì con un manto d’oscurità l’intera Europa, il Medio Oriente e alcune aree dell’Asia. Per 18 mesi, “il sole ha dato la sua luce senza luminosità, come la luna, durante tutto l’anno”, scrisse lo storico bizantino Procopio di Cesarea. Le temperature precipitarono drasticamente, arrivando poco sopra lo zero durante tutta l’estate: fu l’inizio di un lungo decennio di freddo, il più gelido degli ultimi 2.300 anni. “Dal 24 marzo di quest’anno fino al 24 giugno dell’anno successivo… l’inverno era grave, tanto che dalla grande e insolita quantità di neve perirono gli uccelli…” (Zaccaria di Mitilene – Cronaca). Un anno senza sole, quindi, un lunghissimo inverno che provocò carestie un po’ ovunque: in Cina nevicò in piena estate, non c’erano raccolti e la gente moriva di fame; in Irlanda, tra il 536 e il 539, non si produsse più pane. Ma come si era formata quella impenetrabile coltre di nebbia? Era noto già da tempo che attorno alla metà del sesto secolo si fosse verificato un periodo di oscurità, ma cosa l’avesse provocato è rimasto sempre un mistero. Negli anni ’90, alcuni studi sugli anelli degli alberi suggerirono che intorno alla metà del 500 d.C. le estati fossero state insolitamente fredde. Una ricerca di qualche anno fa scoprì in Antartide le tracce di una violentissima eruzione vulcanica, avvenuta tra la fine del 535 e l’inizio del 536. Gli studiosi ipotizzarono che fosse avvenuta in Nord America. Invece, un’analisi del ghiaccio, che nel corso dei secoli si era stratificato nel ghiacciaio di Colle Gnifetti, al confine tra la Svizzera e Italia, fece stabilire qualcosa di Pieter Brueghel il Vecchio, Cacciatori nella neve, 1565


93 diverso. La ricerca fu condotta dal team guidato da McCormick, in collaborazione con lo studioso esperto di ghiaccio Paul Mayewski. Il cilindro di ghiaccio analizzato dagli studiosi narrò di tempeste che avevano portato la sabbia del Sahara, dell’inquinamento dovuto alle attività dell’uomo e delle ceneri piovute dal cielo dopo violente eruzioni vulcaniche. Due particelle di vetro vulcanico mostrarono una composizione chimica simile alle rocce vulcaniche islandesi: il grande freddo del 536 sarebbe stato, quindi, dovuto all’eruzione di un vulcano in Islanda (anche se per alcuni scienziati sono necessarie ulteriori prove). In ogni caso, che la devastante eruzione sia avvenuta in Nord America oppure in Islanda, portò freddo, carestie e morte in gran parte del pianeta. Nel 540 e nel 547 ci furono altre due eruzioni; intanto, nel 541, un’epidemia di peste partì dall’Egitto e si diffuse nei territori dell’Impero Romano d’Oriente, uccidendo più di un terzo della popolazione e accelerando la perdita dei territori occidentali riconquistati dall’imperatore bizantino Giustiniano. Secondo gli studiosi, in Europa ci volle all’incirca un secolo perché l’economia cominciasse a riprendersi, un dato che viene estrapolato sempre dai ghiacciai di Colle Gnifetti. Nel 640 si registrò un picco nella presenza di piombo, segnale che l’argento fosse nuovamente richiesto come metallo prezioso. La scomparsa del piombo nei ghiacciai alpini, negli anni tra il 1349 e il 1353, è il segno di un altro terribile periodo nella storia dell’uomo, quello della Peste Nera, ma questa è un’altra storia… 500 ANNI DI FREDDO La piccola era glaciale Gli anni che vanno dal IX agli inizi del XIV secolo furono caratterizzati da temperature estremamente miti. Prove documentarie, oggettive e scientifiche, ci parlano di una fase del clima con siccità e temperature elevate in Africa, Asia e in Nord America. Dal 1300 tutto cambiò: i ghiacciai, quasi assenti in precedenza, tornarono a ricoprire il mare del Nord e le montagne, sulle vette nordafricane comparve la neve e Timbuctù, importante centro carovaniero africano, nell’arco di trecento anni fu completamente allagata almeno tredici volte dal fiume Niger gonfiato dalle piogge. In Cina, la crisi innescata dal clima impazzito generò carestie e conseguenti rivolte politiche, che sfociarono, a metà ’600, nella caduta della dinastia Ming in favore dei Qing. In Europa si registrarono ondate di gelo senza precedenti e il mar Baltico ghiacciò più volte. Groenlandia e Islanda furono completamente circondate e ricoperte di ghiaccio e, in quegli anni, la loro popolazione si dimezzò. Più a sud non andò meglio: i ghiacciai invasero terreni prima fertili e abitati, distruggendo tutto; tempeste e inondazioni causate dalle abbondanti piogge o dallo scioglimento della neve furono una vera e propria calamità. Nel XVIII secolo, ben otto tempeste gelate interessarono Lisbona. Si susseguirono carestie, flagellando la popolazione europea, e si dovettero abbandonare coltivazioni di piante non più adatte al clima. L’umanità, di fronte a questo stravolgimento del clima, reagì adattandosi con stoffe più pesanti e abiti che coprivano meglio il corpo, e migliorando l’architettura degli edifici, più improntata a mantenere il calore interno. Fu un periodo decisamente turbolento, terminato soltanto verso la fine dell’Ottocento, quando il clima gradualmente entrò nella fase attuale, più mite. APPROFONDIMENTO Fiere sul ghiaccio lungo il Tamigi Il Tamigi ghiacciato, 1677


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96 STORIE DI LUOGHI


97 Navi all’orizzonte a Port Royal in un quadro del 1820 circa PORT ROYAL La città più malvagia del XVII secolo di Annalisa Lo Monaco 97


98 “La città più malvagia della terra” dopo Sodoma e Gomorra, citate nella Bibbia solo per raccontare la depravazione dei loro abitanti, è il porto giamaicano di Port Royal, poco lontano dall’attuale capitale Kingston, che conquistò la sinistra fama di luogo più malfamato e peccaminoso al mondo. Come le due città bibliche (sulle quali leggendariamente Dio fece cadere una pioggia di fuoco), anche Port Royal fu (quasi) distrutta da un evento naturale: un terremoto seguito da un maremoto, catastrofe che molti, in particolare gli spagnoli, considerarono una punizione divina. Erano le 11:43 – ora in cui si fermò un orologio da taschino recuperato dagli archeologi subacquei – del 7 giugno 1692, quando un devastante terremoto colpì la ricchissima e dissoluta città, covo di pirati, prostitute e commercianti di schiavi. L’ira divina, almeno secondo i membri del clero locale, non si accontentò di aver fatto tremare la terra e scatenò anche uno tsunami. Morirono tra le 1.000 e le 3.000 persone, all’incirca metà della popolazione, mentre altre 2.000 perirono nei mesi successivi a causa delle epidemie. Prima della devastazione, Port Royal era la più grande città dei Caraibi, sfrontatamente ricca e amorale, il “porto sicuro” dove i corsari prima e i pirati dopo potevano vivere senza correre rischi, se non quelli legati alla frequentazione di taverne e case di piacere. Questo perché, dopo aver strappato la Giamaica agli spagnoli nel 1655, i governatori britannici affidarono la difesa di Port Royal proprio ai pirati, che da lì partivano per le loro scorrerie contro le navi da carico e le colonie costiere degli spagnoli. Fino all’arrivo degli inglesi, Port Royal era solo un piccolo porto poco considerato dagli spagnoli, ma poi divenne la seconda colonia britannica più grande dopo Boston, talmente ricca da annoverare ben quattro orafi su una popolazione di circa 6.500 persone. Le famose piratesse Mary Read e Anne Bonny conoscevano bene la città, mentre pirati del calibro di Barbanera e Calico Jack sperperavano il loro denaro tra bordelli e taverne (se ne contava una ogni dieci residenti), bevendo il Kill-Devil Rum, “un caldo, infernale e terribile liquore” che, probabilmente, accorciò la vita di molti di loro, come ad Mappa storica dei porti di Port Royal e Kingston – Edward Long/CC BY 4.0


99 esempio quella del corsaro Henry Morgan, assiduo frequentatore dei locali più malfamati della città. Non che avessero molta probabilità di morire vecchi, i pirati, nemmeno a Port Royal. In particolare, dopo il 1687, quando la Giamaica approvò le leggi antipirateria e il vecchio “porto sicuro” si trasformò nel luogo dove i bucanieri venivano giustiziati. Quel 7 giugno del 1692, quasi tutti gli edifici di Port Royal erano stati inghiottiti dal mare, perché le costruzioni sorgevano su un terreno sabbioso, saturo d’acqua, che durante il terremoto prese una consistenza fangosa, simile a quella delle sabbie mobili. Gran parte della città scomparve nel giro di poche ore, compresi quattro dei cinque forti difensivi. I cadaveri in decomposizione ammorbavano l’aria e diffondevano malattie, mentre chi era sopravvissuto si dava al saccheggio. Oggi, dopo molte altre catastrofi naturali (incendi, uragani e altri terremoti), Port Royal è solo un villaggio popolato da meno di 2.000 persone, ma è anche un importante sito archeologico sottomarino, perché i resti della città vecchia si trovano a pochi metri sottacqua. La storia della città più malvagia della terra potrebbe continuare: da covo di pirati a città sommersa da esplorare, un luogo magico dove storia e leggenda si rincorrono seguendo l’eterno infrangersi delle onde. LO SAPEVI CHE… ? Pirati e corsari non sono proprio sinonimi. Pirata, infatti, è il termine generale per indicare un fuorilegge del mare che, come recita una legge inglese del XVI secolo, compiva anche “crimini e omicidi in porti, fiumi, insenature”, mentre il corsaro era un pirata legale, perché autorizzato da un sovrano, mediante “lettera di corsa”, ad attaccare e saccheggiare le navi degli altri paesi. Bucaniere e filibustiere, invece, sono sinonimi di pirata, ma non di corsaro. Il primo deriva da boucan, usato dagli indigeni caraibici per definire la griglia di legno su cui arrostivano gli animali. Tale metodo di cottura, antesignano del moderno barbecue, fu appreso nel Seicento dai coloni anglo-francesi del Nuovo Mondo che, incoraggiati dalla tolleranza verso la pirateria, decisero di prendere la via del mare. Filibustiere deriva dalle parole vrijbuiter (olandese) e freebooter (inglese) – entrambe traducibili con “predone” – che diedero vita a filibuster, un libero cacciatore di tesori. Altre scuole di pensiero, però, ipotizzano che derivi dalle flyboat, una tipologia di nave usata dai pirati per razziare in alto mare. La cattura della East Indiaman Kent da parte della corsara Confiance del francese Robert Surcouf La fortezza di Port Royal – Raychristofer/CC BY-SA 4.0


100 CRIME 100 A sinistra: Illustrazione de Il mistero di Marie Roget, il romanzo di Edgar Allan Poe ispirato alla morte di Mary Rogers A destra: Edgar Allan Poe


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