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Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

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Published by Vanilla Magazine, 2024-02-02 00:58:01

Sesso e Punizioni nel Medioevo

Vanilla Magazine Febbraio 2023
Preti libertini, penitenze di poco conto, sveltine in chiesa, zoofilia, ménage a trois... Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso nel Medioevo... ma non avete mai osato chiedere. Nell'articolo in evidenza di questo mese, sfateremo vari tabù sulle abitudini fra le lenzuola dei nostri antenati, che, al contrario di ciò che si pensa, si divertivano senza subire punizioni esemplari. A proposito di sessualità: in "Storie di donne" torneremo indietro nel tempo al Mouline Rouge di fine '800, quando l'alcol scorreva a fiumi e Louise Weber inventò il Can-can. Può una regina assassina essere venerata come santa? Chiedete a Irene di Atene... Tutto merito - almeno secondo il mito greco - del titano Prometeo, colui che donò la conoscenza agli uomini e subì l'ira funesta di Zeus. Anche Joe Petrosino, uno zelante agente italo-americano in servizio a New York, pagò amaramente il suo altruismo. Mise alle strette la famigerata Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, e volò a Palermo per investigare sulla Mafia, ma la sua parabola eroica si concluse nel peggiore dei modi. Parleremo anche dell'invenzione della bicicletta, delle origini del whisky, dell'amore fra Filippo d'Orleans e Filippo di Lorena, dell'irriverente risposta dei cosacchi di Ivan Sirko al sultano Maometto IV... e tanto altro ancora.

101 L’OMICIDIO DELLA RAGAZZA DEI SIGARI Il caso irrisolto che ispirò Edgar Allan Poe di Annalisa Lo Monaco 101 Nello storico cimitero di Greenwood, a Brooklyn, c’è un imponente mausoleo costruito come un antico tempio. È il luogo dell’eterno riposo di John Anderson, un ricco commerciante di New York, proprietario di un lussuoso negozio per fumatori (volgarmente un tabaccaio) che sorgeva a Lower Manhattan. Anderson si trovò coinvolto in un caso di omicidio che scosse l’opinione pubblica cittadina dell’epoca, un delitto rimasto sempre irrisolto: “l’omicidio della ragazza dei sigari”. 101


102 Fu uno dei primi casi di omicidio che attirarono la morbosa curiosità del pubblico, anche per i sordidi dettagli rivelati dai tabloid popolari, che in quegli anni stavano iniziando la loro ascesa. L’omicidio, e soprattutto la superficialità delle indagini (che infatti non diedero alcun risultato), furono tra i motivi che portarono a riformare e modernizzare il dipartimento di polizia della città, oltre che l’ispirazione per un racconto di Edgar Allan Poe, l’inventore del racconto poliziesco. La New York di metà ’800 Nel 1841, New York si avviava a diventare la più grande città degli Stati Uniti, con circa 320.000 abitanti, grazie ai molti immigrati irlandesi e tedeschi (i milioni di europei che cercarono fortuna nel Nuovo Mondo partirono in massa qualche decennio dopo – vedi box di approfondimento). Attorno alle zone signorili come la Quinta Strada, Broadway e il Greenwich Village, si allargavano squallide baraccopoli: la città era in costante crescita e brulicava di ogni genere di persone. A garantire la sicurezza dei cittadini, prestavano servizio meno di duecento tra poliziotti, agenti e guardie, organizzati con un antiquato sistema di sorveglianza. Tra Liberty Street e Broadway c’era il negozio di John Anderson, un locale di alta classe dove si vendevano articoli per fumatori, in sostanza una tabaccheria di lusso, frequentata dagli uomini più in vista della città. Oltre ai prodotti, semplici o esclusivi, c’era anche un altro motivo a rendere così popolare il negozio di Anderson: Mary Cecilia Rogers. Mary Rogers La ragazza era conosciuta in città come la “Beautiful Cigar Girl”, la bella ragazza dei sigari, famosa per il suo bel viso e la graziosa figura. Mary Rogers fu assunta per stare alla cassa, con il secondo fine di attirare i gentiluomini della città e flirtare discretamente con loro. E, infatti, gli uomini accorrevano, dai modesti impiegati fino a famosi scrittori. Il negozio di Anderson divenne una sorta di club di fumatori letterario, frequento da personaggi come Washington Irving, Edgar Allan Poe e molti altri. Anche se, talvolta, la ragazza si mostrava confusa da un complimento troppo audace, in realtà, il suo sguardo rimaneva sempre freddo e distaccato, consapevole del proprio ruolo. Pare che il suo sorriso fosse più efficace di una freccia di Cupido Mary Rogers divenne quindi molto nota in città, tanto da suscitare chiacchiere e pettegolezzi, perfino articoli sui giornali. Ad esempio, sul New York Morning Herald, un giornalista metteva in guardia dai pericoli che potevano correre le belle ragazze, impiegate a bella posta per attirare clienti, perché quelli senza scrupoli potevano condurle alla rovina. PurtropNew York in una xilografia del 1876 Mary Rogers nel fiume, 1841


103 po, il giornalista dell’Herald fu profetico, perché, durante l’estate del 1841, Mary Rogers scomparve nel nulla. La scomparsa In una domenica di mezza estate, il 25 luglio, Mary disse alla madre e al fidanzato, Daniel Payne, che sarebbe andata a trovare alcuni parenti nel New Jersey. Durante la giornata, New York fu investita da una forte tempesta, così nessuno si preoccupò del fatto che Mary non fosse rientrata a casa (o meglio, nella pensione gestita dalla madre). Già un’altra volta, nel 1838, era scomparsa lasciando un biglietto in cui minacciava il suicidio. Una folla di ammiratori era accorsa al negozio per chiedere notizie e la ragazza era arrivata a rassicurarli. Secondo molti si era trattato di una trovata pubblicitaria di Anderson, ma, in quel luglio del 1841, Mary non fece più ritorno. Il 28, due uomini che passeggiavano lungo le rive del fiume Hudson, in una località chiamata Sybil’s Cave (grotta della Sibilla), videro galleggiare in acqua qualcosa che sembrava un corpo di donna. Si avvicinarono con una barca e rimasero scioccati alla vista del corpo di Mary, brutalmente assassinata. Secondo il medico legale, la donna era stata strangolata, ma prima picchiata con violenza e stuprata; secondo un rapporto medico “i suoi lineamenti erano a malapena visibili perché le era stata fatta una violenza inaudita”. Le indagini L’omicidio, con una vittima così bella, giovane (Mary aveva solo 20 anni) e tanto nota in città, catturò subito l’interesse dei cittadini di New York e, ovviamente, della stampa, che riportò ogni dettaglio del caso. Il primo sospettato fu il fidanzato, subito scagionato perché dotato di alibi. Nei dintorni di una taverna vicina al luogo dove era stato trovato il corpo, furono rinvenuti dei vestiti di Mary “evidentemente lì da almeno tre o quattro settimane”. Poi, nel mese di ottobre, ci fu qualcosa che rese ancora più drammatico l’accaduto: il fidanzato si suicidò, avvelenandosi proprio nei pressi della Sybil’s Cave. Lasciò un biglietto piuttosto criptico: “Al mondo – eccomi qui sul posto. Possa Dio perdonare la mia vita sprecata”. Un anno dopo il suicidio di Payne, il proprietario della taverna fece una confessione sul letto di morte: Mary Rogers, quella domenica, era stata nella sua taverna insieme a un uomo “alto e scuro”, che lui sapeva essere un dottore. Secondo l’oste, la ragazza era lì, nel suo locale, per sottoporsi a un aborto, poi finito in tragedia. Lui stesso si sarebbe sbarazzato del corpo, mentre uno dei figli aveva gettato i vestiti nel bosco. Tutta questa presunta ricostruzione, però, non spiegava né lo strangolamento, né la brutale violenza subita da Mary. La vox populi, invece, indicava come colpevole il suo datore di lavoro, John Anderson, che, probabilmente, l’aveva messa incinta e poi consegnata nella mani di Madame Restell, la più famosa abortista di New York (l’interruzione della gravidanza divenne reato solo dal 1845). Secondo alcune lettere anonime, recapitate all’Herald, la Restell era responsabile della morte di Mary, ma non fu mai indagata dalla polizia. L’attenzione per il caso irrisolto, come sempre accade, fu distolta da altri efferati omicidi, ma lo scrittore Edgar Allan Poe realizzò una continuazione de Gli omicidi della Rue Morgue, intitolando il racconto Il mistero di Marie Rogêt. La storia, scritta nel 1842, era ambientata a Parigi, ma Poe precisò: “Gli straordinari dettagli che ora sono chiamato a rendere pubblici… saranno riconosciuti da tutti i lettori dell’omicidio di Mary Cecilia Rogers, a New York”. Anche nel racconto di Poe, come nella realtà, l’omicidio rimane irrisolto. APPROFONDIMENTO ELLIS ISLAND Il purgatorio degli europei Ellis Island è ormai un luogo storico, la concreta memoria di milioni di emigranti che cercarono, tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, una vita migliore negli Stati Uniti. Fino al 1954, anno in cui fu trasferito in un’altra sede, l’ufficio immigrazione degli Stati Uniti vide transitare attraverso Ellis Island 12 milioni di persone, che arrivavano da ogni parte del mondo, soprattutto dall’Europa. Alcuni migranti potevano rimanere sull’isola per giorni, o settimane, prima di conoscere il loro destino, e tutti dovevano sottoporsi a un controllo medico, per accertare che non appartenessero a determinate categorie: “I vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali, e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano”. Gli idonei passavano nella Sala Registri, dove gli venivano richieste tutte le informazioni necessarie a stabilire se potessero essere accettati negli Stati Uniti, per poi essere accompagnati al traghetto che li avrebbe finalmente fatti arrivare alla tanto agognata Manhattan. Dal 1917, gli Stati Uniti iniziarono a limitare i flussi migratori introducendo anche il test sull’analfabetismo, mentre dal 1924 furono applicate le quote d’ingresso: dall’Irlanda potevano arrivare 17.000 persone, dall’Italia 7.400, e solo 2.700 dalla Russia. Dal 1929, anno d’inizio della grande depressione, gli ingressi si ridussero drasticamente, mentre aumentò enormemente il numero degli espulsi. Furono rimpatriati, transitando sempre da Ellis Island, i dissidenti politici, gli anarchici e tutti coloro che non avevano né lavoro né denaro. Il record d’ingressi a Ellis Island fu registrato il 17 aprile 1907, quando arrivarono 11.747 persone in un giorno. 103


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106 LA STORIA IN UN QUADRO a cura di Daria Cadalt


107 ARTEMISIA E GIUDITTA Due donne, una sola giustizia Artemisia Gentileschi, Cleopatra, 1633-1635


108 108 Se si pensa all’episodio biblico riguardante la prima eroina del popolo ebraico, la seducente vedova Giuditta di Betulia – che per salvare la propria gente dalla tirannia dell’esercito assiro riesce a sedurre il generale Oloferne facendogli, poi, saltare la testa con una scimitarra – non può che palesarsi davanti ai nostri occhi uno dei celebri dipinti del maestro del realismo barocco per antonomasia: “Giuditta e Oloferne” dell’immenso Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. Nell’opera la donna è immortalata nel preciso gesto della decapitazione ed è assistita dall’inquietante e vecchia serva Abra, intenta a sorreggere il drappo contenente il cesto nel quale andrà conservata la preziosa testa-cimelio del generale. La Giuditta di Caravaggio è fredda e risoluta, tanto che sembra distaccarsi persino fisicamente dalla sua vittima agonizzante, quasi volesse manifestargli tutto il suo disprezzo; la scena appare cruenta eppure essenziale, nei colori come negli elementi stessi, a partire dal drappo rosso e dall’abbigliamento della ricca vedova, che è semplice e privo di qualsiasi ornamento. Tuttavia, se si scegliesse di guardare la vicenda dell’eroina Giuditta da una prospettiva più contemporanea, e dalla stessa si volessero cogliere valori come forza e riscatto a trecentosessanta gradi, sarebbe impossibile non pensare a chi, dei diritti delle donne, ne ha fatto una vera e propria causa universale, nella pittura come nella vita. Oggi vi parlo di un’artista che è stata costretta a difendere la sua integrità morale per buona parte della sua esistenza e di uno dei suoi soggetti più significativi: Artemisia Gentileschi e le mille sfaccettature del femminile personificate dalla sua “Giuditta” che decapita Oloferne. Indubbiamente, la fine del XVI secolo rappresenta un momento di svolta per l’attività delle artiste: se ancora nel Quattrocento le pittrici sono soprattutto monache che operano esclusivamente all’interno dei conventi in cui sono confinate, nel Cinquecento iniziano a competere seriamente con i loro colleghi maschi. Nel corso dei primi anni del Seicento, sebbene il mondo delle arti figurative sia ancora prepotentemente dominato dagli uomini, le “artiste” continuano ad acquisire un certo prestigio; fra queste spicca certamente Artemisia Gentileschi che, ben presto, diventerà una delle protagoniste indiscusse delle corti internazionali, con quel suo stile prettamente caravaggesco che fa breccia nei cuori di chiunque: dai nobili ai papi, fino ad arrivare ai reali in persona. Il maestro lombardo è morto da qualche anno, tuttavia il suo modo di dipingere, come la sua stessa esistenza costellata da losche vicende giudiziarie, abitudini insalubri e amori malati, lo hanno già catapultato nell’olimpo degli artisti più influenti di tutti i tempi. “Questa femina” Ma non è soltanto l’influenza di Caravaggio a rendere così seducente l’opera della Gentileschi: la donna è infatti cresciuta nell’arte e suo padre, il celebre e apprezzato pittore pisano Artemisia Gentileschi, Ester e Assuero, 1628-1635


109 Orazio Gentileschi, è stato il suo primo maestro. Nel 1605 la dodicenne Artemisia resta orfana di madre. Il terribile evento la lega ancor di più a Orazio, che, nel corso della sua formazione, si premura di fornirle i migliori insegnamenti in modo da garantirle una preparazione quanto più possibile completa. Il tutto, manco a dirlo, rigorosamente in casa, perché all’epoca già non è auspicabile che una donna dipinga, figuriamoci la frequentazione di un luogo tanto trasgressivo come una bottega di pittura! Nonostante le restrizioni dettate dalle convenzioni sociali, però, Orazio si pavoneggia spesso di questa figlia così capace e anticonformista: “Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”, usa ripetere orgogliosamente a chiunque incontri (lo so, le “h” sono troppe, colpa del latino che, intanto, ha definitivamente soppresso il volgare come lingua di cultura!). Artemisia e Agostino Tassi Comunque, “questa femina” è talmente sveglia e affascinante che non passa molto tempo prima che uno dei colleghi di Orazio, il pittore Agostino Tassi – un tardo manierista noto principalmente per i suoi studi sulla prospettiva e la predilezione verso le giovani fanciulle – che dava lezioni a sua figlia, inizi a trasformarsi in un vero e proprio sex-offender e cominci a perseguitarla in tutti i modi possibili, impedendo ad altri uomini di avvicinarla, facendola pedinare, cercando pretesti per visitarla in casa al di fuori delle lezioni. Tutto questo per mesi e mesi: uno stalker da manuale, insomma. E a forza di insistere, quel manigoldo riesce a intrufolarsi nella camera da letto della ragazza. È il pomeriggio del 6 maggio del 1611 quando il Tassi entra di prepotenza nella stanza di Artemisia, la gira di schiena, le blocca le braccia e la costringe con la forza ad avere un rapporto sessuale con lui. Quello che si dice un vero gentiluomo! Le cronache riportano che, nei giorni successivi, gli stupri si sarebbero addirittura ripetuti, complice il silenzio di Tuzia, la governante, molto più interessata a mantenere calme le acque – non sia mai venga licenziata – che alla violenza su quella ragazza che praticamente ha visto nascere. Anche Artemisia inizialmente tace: il disonore dello stupro e la speranza in un matrimonio riparatore la spingono a tenere la bocca chiusa. Ma poi Orazio scopre il fattaccio – anche perché il Tassi è solito vantarsi nel quartiere del fatto di possedere la giovane figlia del vecchio Gentileschi ogni qualvolta ne abbia voglia, anche contro la sua volontà – quindi si arrabbia come un puma selvatico, scatenando letteralmente l’inferno in terra. Stuprum et Lenocinium L’uomo presenta una supplica a papa Paolo V Borghese per riparare al danno subito dalla figlia, “forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte”. Nella denuncia figurano anche la governante Tuzia e Cosimo Quorli, furiere del pontefice, colpevole di aver convinto Artemisia a consegnargli gratuitamente un suo quadro con l’inganno – oltre al danno, pure la beffa, povera ragazza! Così, nel marzo del 1612, si apre il processo Stuprum et Lenocinium (che sta per “Stupro ed Induzione alla prostituzione”) contro Agostino Tassi. Sotto tortura – all’epoca si usava legare delle cordicelle alle dita delle interrogate, che venivano sapientemente tirate quando codeste signorine non riferivano ciò che le autorità volevano sentire – Artemisia dichiara che l’anno precedente, nella sua casa di via della Croce, il suo insegnante di prospettiva l’ha violentata, e che è successo più di una volta; posizione, quella del Tassi, già aggravata dalla sua discutibile reputazione, che comprende un sospetto uxoricidio e una condanna per incesto nei confronti della cognata quattordicenne. A questo proposito la sorella di Agostino, Olimpia, aveva dichiarato: “Questo mio fratello è un furbaccio et un tristo che non ha mai voluto fare bene sino da piccolo et perciò se ne andò via fuori di Roma a Livorno et si troveranno scritture et processi delle furberie che ha fatte quando è stato fuori Roma!”. Nemmeno col sangue del suo sangue era riuscito a prendersi bene! Alla fine, Agostino se la cava con una condanna a otto mesi di reclusione da scontare nella prigione di Corte Savella, un verdetto che non verrà mai posto in essere, poiché, nel frattempo, il suo avvocato riesce a far annullare la sentenza; contemporaneamente il buon Orazio, archiviata definitivamente la vicenda giudiziaria e smaltita la rabbia, se lo riprende a lavorare con sé come niente fosse. Un immagine totalmente riabilitata quella del Tasso, c’è poco da aggiungere. Peccato non si possa dire lo stesso della povera Artemisia, che dovrà difendersi dall’accusa di essere una poco di buono per almeno un altro decennio, se non oltre. Tuttavia, questo triste episodio segna una svolta importante nella vita, quanto nell’opera di Artemisia, che continua a produrre tele meravigliose dal forte significato intrinseco. Ricordate Giuditta e la lezione data al tiranno Oloferne citata all’inizio di questa storia? Bene, torniamo a quell’immagine così significativa, perché sta proprio lì il cuore di tutta la vicenda. Giuditta che decapita Oloferne Come accennato in precedenza, Caravaggio aveva rappresentato l’omicidio del generale assiro con un linguaggio estremamente realistico, ma essenziale e distaccato. Nella versione della Gentileschi, invece, la figura di Giuditta è quasi un alter-ego della stessa Artemisia: una versione di se stessa più forte e determinata, che tutto può e nulla teme. Da giovane Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638-1639


110 donna con un’insaziabile fame di affermarsi in una dimensione prettamente maschile, in questa precisa opera – che verrà riprodotta in due versioni diverse a distanza di otto anni l’una dall’altra – la pittrice romana rivendica finalmente il suo diritto a un ruolo attivo nel mondo e lo fa senza vergogna. Si coglie immediatamente un impeto, una voglia di rivalsa che non si limita soltanto alla figura della protagonista, ma anche a quella della sua ancella. Un’ancella che, con grande coraggio e determinazione, partecipa attivamente alla decapitazione del generale, bloccandogli addirittura le braccia. Con le maniche degli abiti ordinatamente arrotolate, le due complici impiegano tutte le loro forze contro l’oppressore, mentre quest’ultimo tenta inutilmente di liberarsi. Il linguaggio di Artemisia si manifesta nelle espressioni e nelle gesta delle protagoniste, ma anche nella cura per i dettagli: attraverso la complessità delle acconciature, dei decori del vestito, la minuziosa attenzione verso i particolari del bracciale di Giuditta, si sottolinea un potere, una consapevolezza, una bellezza di cui nessuna donna dovrà più aver paura, poiché nessun uomo riuscirà più ad approfittarne, pena l’annientamento totale dello stesso. D’altronde le cosiddette femmes fortes (donne forti) sono un soggetto molto amato in Europa all’inizio del Seicento: in ogni collezione prestigiosa che si rispetti, infatti, è facile trovare dipinti che rappresentino eroine del passato che compiono imprese memorabili contro ogni forma di pregiudizio. Nel corso di tutta la sua carriera, e in particolare tra Roma, Firenze e Napoli, Artemisia ritrarrà personaggi quali Cleopatra, Maddalena, Dalila e Minerva e lo farà dandogli le sembianze proprio di se stessa, a sottolineare tanto la sua voglia di emancipazione quanto di affermazione di una precisa identità all’interno di una società fortemente patriarcale. Il lascito di Artemisia Gentileschi Nell’ultima fase della sua vita, dopo essersi sposata e aver avuto una figlia, Prudenzia – più che un nome un avvertimento, non credete? – Artemisia Gentileschi si trasferisce a Napoli. Sotto il Vesuvio, complice la straordinaria vivacità della città, si afferma come l’artista donna più talentuosa della sua generazione, continuando a produrre una grande quantità di opere pubbliche e private, grazie anche all’aiuto del fratello Francesco, diventato uno dei suoi più fidati collaboratori dopo la morte dell’amato marito. Muore nel 1653, consapevole di aver finalmente trovato il proprio posto nel mondo e di aver ricevuto il riscatto che meritava, anche se a caro prezzo. Eppure, l’odio verso il suo stupratore, e verso chiunque altro abbia abusato, fisicamente e psicologicamente, di una donna indifesa, resterà immortalato nei suoi dipinti per l’eternità, come un manifesto scolpito nella pietra e questo, senza ombra di dubbio, rappresenta il suo lascito più prezioso. Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni, 1610 circa 110


111 Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620-1621


112 IL PRIMO FRIGORIFERO In un certo senso, il primo (rudimentale) frigorifero creato dell’uomo ha oltre 2.000 anni ed è lo yakhchāl persiano, traducibile con “fossa del ghiaccio” o “pozzo di ghiaccio”. Esternamente, si presenta con una struttura a forma di cupola, ma, al suo interno, ha dei sotterranei con dei sistemi di ventilazione e delle pareti isolanti di paglia, fango e argilla che mantengono basse le temperature delle camere. D’inverno, i persiani raccoglievano il ghiaccio e lo trasportavano a blocchi nei meandri di uno yakhchāl, dove, per tutto l’anno, conservavano cibi d’ogni sorta (latte, carne, verdure, ecc.). Sappiamo che queste particolari strutture esistevano già nel IV secolo a.C., ma se vogliamo parlare del primo frigorifero moderno, dobbiamo spostarci fra il Settecento e l’Ottocento, quando si smise di pensare a come “mantenere” il freddo e si iniziò a studiare un metodo per “crearlo”. IL PRIMO SELFIE Anno 1839: Robert Cornelius aziona la macchina fotografica e si piazza davanti all’obiettivo per circa un minuto. È questo il primo selfie della Storia? Dipende, perché, anche se Cornelius si scattò un autoritratto, è pur vero che lo fece senza tenere in mano l’apparecchio, una peculiarità del selfie contemporaneo che, invece, ritroviamo in una fotografia del 1920, realizzata a New York sul tetto del Marceau Studio, sulla Fifth Avenue. I protagonisti sono cinque fotografi: Pirie MacDonald, Colonel Marceau, Pop Core nel mezzo e Joseph Byron e Ben Falk ai lati che, insieme, sorreggono l’apparecchio con una mano. però, non gli rispose. 112 LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA a cura di Nicola Ianuale Lo yakhchāl di Abarkuh, nell’odierno Iran – Pastaiken/CC BY-SA 3.0 Il selfie dei fotografi newyorkesi immortalato dall’esterno Autoritratto di Robert Cornelius del 1839


113 LA PRIMA CERIMONIA DEGLI OSCAR Il 16 maggio 1929, poco meno di 300 persone si riunirono alla Blossom Room dell’Hollywood Roosevelt Hotel di Los Angeles per una cena privata che includeva anche la prima edizione assoluta degli Accademy Awards, anche noti come “premi Oscar”, durata appena 4 minuti e 22 secondi. In quella storica serata, trionfarono Ali come “Miglior produzione”, Aurora come “Miglior produzione artistica”, Frank Borzage come “Miglior regista per un film drammatico”, Lewis Mileston come “Miglior regista per un film commedia”, Emil Jannings come “Miglior attore” e Janet Gaynor come “Miglior attrice”. IL PRIMO QUOTIDIANO 113 IL PRIMO FUMETTO Convenzionalmente, anche se gli appassionati del genere dibattono tutt’ora, tale primato spetta a Hogan’s Alley, una serie di strisce a fumetto – il cui protagonista è l’iconico Mickey Dugan, anche noto come Yellow Kid – disegnata da Richard Felton Outcault e pubblicata per la prima volta come supplemento domenicale del New York Wold il 5 maggio del 1895. Inizialmente, i personaggi si esprimevano con frasi scritte all’interno di piccoli riquadri, mentre le battute del protagonista venivano riportate sul suo lungo vestito giallo e fu solo con la striscia intitolata The Yellow Kid and his new phonograph, del 25 ottobre 1896, che Outcault utilizzò per la prima volta le nuvolette di dialogo. La prima cerimonia di consegna degli Accademy Awards Josef Danhauser, Lettori di giornali, 1840 La striscia a fumetti The Yellow Kid and his new phonograph, disegnata da Richard F. Outcault e pubblicata nel 1896 Il primo quotidiano della storia, inteso come una pubblicazione periodica con impostazioni tipografiche simili a quelle che tutti noi conosciamo, si chiamava Leipziger Zeitung e aveva per sottotitolo “Notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo”. Fondata a Lipsia nel 1650 da Timotheus Ritzsch, la testata era inizialmente un settimanale e si trasformò in quotidiano solo dieci anni dopo, nel 1660, quando erano passati circa due secoli dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. Dopo Johannes Gutenberg, la diffusione delle informazioni aveva trovato spazio in alcuni periodici in formato libro e nei “fogli di notizie”, le cosiddette gazzette, ma fu il Leipziger Zeitung che segnò un passaggio epocale. Se, però, volessimo individuare un antenato storico, potremmo dire che i progenitori di tutti i quotidiani sono gli acta diurna (dal latino: “decisioni del popolo”), comparsi a Roma intorno al 59 a.C. – forse a opera di Giulio Cesare – e affissi nei luoghi pubblici per informare i cittadini sulle ultime notizie dell’Urbe.


114 A TAVOLA CON LA STORIA a cura di Nicola Ianuale


115 LE ORIGINI DEL WHISKY Dall’acquavite al proibizionismo 115 115


116 Èuna sorta di birra distillata. Si fa con alcol, cereali – fra i più utilizzati ci sono segale, grano, mais e orzo – e botti di legno per l’invecchiamento, che va dai 2 ai 20 anni, se non di più. Lo si beve liscio o con ghiaccio, diluito con un po’ d’acqua, in porzione “doppia”, da due dita, a volte tre. Dici whisky e pensi a qualche film in cui il cliente chiede al barista di “lasciargli la bottiglia”. Personaggi del piccolo o grande schermo e della letteratura lo sorseggiano per festeggiare, meditare o annegare i propri dispiaceri nell’alcol. Gli esempi sono tantissimi; primo fra tutti Humphrey Bogart. Lo nomini e un cinefilo qualsiasi pensa a qualche noir o film gangster in bianco e nero con il whisky sempre presente, ovviamente accompagnato dalla giusta dose di tabacco. Pellicole della Hollywood classica a parte, il discorso non cambia nemmeno in tempi recenti. Impossibile non citare l’iconica scena di Shining (1980), capolavoro di Stanley Kubrick tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, in cui Jack Torrance dialoga a suon di Jack Daniel’s con Lloyd, l’immaginario e inquietante barman dell’Overlook Hotel. C’è chi lo preferisce assoluto e chi ama degustarlo in un cocktail. Manhattan, Old Fashioned, Godfather, Jack & Cola, Whisky Sour… Anche loro compaiono nei film. Ad esempio, in Midnight in Paris (2011), Scott Fitzgerald porta il protagonista Gil, tornato per caso indietro nel tempo dal 2010 ai ruggenti anni ’20, in un locale che a detta sua fa: «un Whisky Sour alla dinamite». Già che abbiamo tirato in causa l’autore de Il grande Gatsby, lo stesso discorso vale anche per la letteratura. Dici whisky e pensi a Hemingway, Chandler, Bukowski, Hammett… e via dicendo. Ma quando e come ha avuto inizio la storia di questo celebre distillato? Chiedete agli scozzesi e vi diranno che è tutto merito loro. Chiedete agli irlandesi e non saranno affatto d’accordo. Chi ha ragione? Scopriamolo insieme. Whisky o whiskey? Il primo dubbio da chiarire è a livello grafico. Si scrive whisky o whiskey? Con whisky si intendono i distillati canadesi e scozzesi, quest’ultimo conosciuto all’estero come scotch; mentre con whiskey ci si riferisce ai distillati irlandesi e statunitensi, anche noti uno come irish whisky e bourbon l’altro, perché storicamente prodotto con granoturco, segale e malto d’orzo nell’omonima contea del Kentucky. Entrambi i nomi sono corretti e derivano dall’anglicizzazione del termine gaelico uisce beatha che, a sua volta, deriva da 116 John Frederick Lewis, Ospitalità delle Highland, 1832 Humphrey Bogart ne Il mistero del falco (1941)


117 acqua vitae, acqua della vita, locuzione latina usata per indicare, in via generale, tutti gli alcolici ottenuti tramite distillazione. Le origini Sulle origini della bevanda in sé c’è poco da dire. L’arte della distillazione, praticata attraverso l’utilizzo dell’alambicco, inventato dagli arabi e perfezionato dagli europei, risale a diversi millenni prima della nascita di Cristo, ma non si hanno certezze su quando sia stata utilizzata per dar vita al whisky. C’è chi attribuisce la ricetta agli egizi o ai greci, e chi pensa che fu importata dal mondo arabo durante il Medioevo. Prima del XVI secolo, le fonti sono poche, confusionarie e scarne, ma sappiamo per certo che, intorno al ’500, si diffuse in Scozia e Irlanda, dove si produceva acquavite per scopi terapeutici nei monasteri. Gli irlandesi ne fanno risalire le origini alle prime distillazioni fatte in onore di San Patrizio, ma non ci sono prove a sostegno di questa tesi, mentre è vero che un documento del 1494, in cui si parla di una quantità di malto indirizzata a John Corr, frate scozzese impegnato nella produzione di acquavite proprio per la festa di San Patrizio, in effetti, potrebbe riferirsi al whisky. Il problema è che il primo vero accenno al whisky come lo conosciamo noi appare solo in una rivista irlandese del XVIII secolo. Prima di allora, non sappiamo quale fosse la ricetta, anche perché si parlava sempre di acquavite o, al massimo, c’erano riferimenti al malto. Non c’è dubbio, però, che, agli albori della sua storia, il whisky fosse una bevanda dei ceti bassi, molto diffusa soprattutto fra monaci, bottegai e gente di campagna. I secoli di clandestinità Se la paternità è ancora fonte di dibattito fra irlandesi e scozzesi, furono quest’ultimi i primi a distillarlo a scopo di lucro a partire dal XVI secolo. La bevanda, infatti, divenne presto una gran fonte di guadagno e, nel 1506, re Giacomo IV di Scozia concesse il monopolio della sua produzione nella città di Dundee alla gilda dei barbieri-chirurghi di Edimburgo. Con l’inizio delle carestie in terra britannica, la distillazione del whisky passò nelle mani delle persone abbienti, perché, in tempi difficili, erano le uniche a potersi permettere il lusso di utilizzare il grano all’infuori dell’alimentazione. Ciò portò a un degrado sociale a cui il governo cercò di porre rimedio con restrizioni che, nel 1707, con gli Atti d’unione fra Inghilterra e Scozia, sfociarono 117 Giacomo IV di Scozia Brevetto statunitense di un alambicco del XIX secolo


118 Sullo sfondo: Botti di whisky invecchiato – Nicor/CC BY-SA 3.0 nell’entrata in vigore della tassa sul malto, già presente in patria dal 1644. Così facendo, il parlamento di Londra si assicurò nuovi introiti per finanziare le guerre, ma più della metà dei produttori di whisky si diede alla clandestinità. Per oltre due secoli, gli scozzesi iniziarono a distillare di notte, quando il fumo degli alambicchi dava meno nell’occhio, e il risultato fu una bevanda ad alto tasso alcolico che prese il nome di moonshine, ovvero “chiaro di luna”. Ovviamente, le botti venivano nascoste nei posti più disparati – nella bare, sotto gli altari, ecc. – e, spesso, recavano diciture strane, usate proprio per depistare i funzionari del governo. Ad esempio, chi mai poteva sospettare di un barile con su scritto “disinfettante per pecore”? Il proliferare del contrabbando si protrasse fino al 1823, quando il parlamento fece un passo indietro e riportò le tasse sui distillati a livelli accettabili. Ironia della sorte, proprio un anno prima, Giorgio IV d’Inghilterra si era recato in visita in Scozia e, per festeggiare, gli era stato proposto di brindare con un whisky, a sua insaputa, illegale. La consacrazione I tempi stavano cambiando e, con la fine della produzione clandestina, non si trattava più di una bevanda per poveri. A differenza del gin, malvisto e condannato dalla Corona, adesso era il re in persona a bere e apprezzare il whisky e tale fortuna continuò anche con le generazioni successive. Ad esempio, la regina Vittoria, un’habitué della villeggiatura in Scozia, nei suoi spostamenti portava sempre con sé una bottiglia di scotch… Proprio lei che, mentre appoggiava le leghe della temperanza contro l’esagerazione del consumo di alcolici, nel frattempo insigniva due distillerie, la Lochnagar e la Brokla, del Royal Warrant, un’onorificenza conferita alle attività commerciali che rifornivano la casata reale. Con le flotte della Royal Navy che salpavano cariche di alcolici, il whisky si iniziò a diffondere anche all’infuori dei confini britannici, per poi consacrarsi definitivamente nei mercati internazionali a fine XIX secolo, quando un’epidemia di fillossere – insetti che si attaccano alle viti e provocano la morte dei grappoli – fece crollare il mercato del brandy, distillato proprio dall’uva e, all’epoca, fra le bevande più in voga. A inizio ’900, il whisky era ormai una bevanda signorile, consumata da personalità illustri che, molto spesso, dettavano moda. Basti pensare a Edoardo VIII, re d’Inghilterra dal 20 gennaio all’11 dicembre del 1936, che amava sorseggiare il suo scotch diluendolo con un po’ d’acqua. Ovviamente, fu subito imitato Fra le due guerre mondiali, l’intero settore andò in crisi e, per la prima volta nella sua storia, nel 1943, non fu distillata nemmeno una goccia di whisky. Giusto a titolo informativo, a quei tempi, il governo fascista ebbe la brillante idea di italianizzare il nome della bevanda in “spirito d’avena”. A voi i commenti… L’irish whiskey Una piccola precisazione: se finora abbiamo parlato soprattutto del whisky scozzese, è perché sul fronte degli irlandesi ci sono solo pochi eventi degni di nota. Ad esempio, è a loro che va il primato della prima licenza di distillazione ufficiale, concessa alla Od Bushmills nel 1608. In seguito, grazie alla rivoluzione industriale, la John Jameson & Son diffuse l’irish whiskey, meno affumicato rispetto alla sua controparte highlander, anche oltreoceano, diventando, proprio a inizio ’900, la bevanda preferita dagli statunitensi. Poi ci fu il proibizionismo, ricominciò il contrabbando e… Il resto è storia nota. Edoardo VIII d’Inghilterra APPROFONDIMENTO Per scrivere ho bisogno solo di carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky William Faulkner Mai rimandare di baciare una bella ragazza o aprire una bottiglia di whisky Ernest Hemingway Se non posso bere whisky e fumare sigari in Paradiso, allora non ci voglio andare Mark Twain Amo il whisky vecchio e le donne giovani Erron Flynn Il segreto della longevità? Niente sport, solo whisky e sigari Winston Churchill 1 2 3 4 5 5 AFORISMI SUL WHISKY


119 119 Un uomo versa del whisky in una fiaschetta. Dipinto a olio del 1869 dell’artista scozzese Erskine Nicol


120 CURIOSITÀ a cura di Matteo Rubboli


121 LONDRA IN EPOCA MEDIEVALE Della Londra medievale è rimasto quasi nulla, come alcune parti di mura nei pressi del Museo, il Guildhall e alcuni edifici religiosi della City. La causa di così poche testimonianze di quel lunghissimo periodo, durante il quale l’Inghilterra giocò un ruolo primario nello scacchiere della politica europea, è da ricercare principalmente nel grande incendio del 1666, che ridusse in cenere la città. Del Medioevo rimane, però, la complessa trama delle vie cittadine e Londra rappresenta oggi l’unica città sostanzialmente moderna con uno schema stradale di quell’epoca. Qualche anno fa, il dottor Matthew Green ha pubblicato una serie di guide che parlano di Londra attraverso i secoli, ed è stato intervistato dal sito Medievalist per comprendere come potesse apparire la città circa 600 anni or sono, intorno al 1390. 121


122 Coprifuoco La Londra medievale era assai pericolosa quando calavano le tenebre. In città vigeva un severo coprifuoco: le 20:00 d’estate e le 21:00 d’inverno. Le persone non potevano circolare, dovevano spegnere i fuochi e stare lontani dalle strade. Chiunque fosse sorpreso a star fuori dopo il coprifuoco poteva essere arrestato e il carcere in quel periodo non doveva essere molto diverso da un inferno. 122 Popolazione Londra aveva una popolazione di circa 40.000 persone. Nonostante dovesse essere maggiormente popolata, era stata recentemente decimata da un’epidemia di peste (1347). La città come la conosciamo oggi stava cominciando a crescere al di fuori dei suoi limiti, ma al di là di Holborn non c’era praticamente nulla. Londra nel 1300 – Grandiose/CC BY-SA 3.0 Gli odori Londra puzzava in modo orripilante. Un mix fra escrementi, rifiuti, animali e altro contribuiva a rendere una visita in città semplicemente terrificante; senza dimenticare le candele di sego (grasso animale) che emanavano un tanfo insopportabile. La prigione di Newgate, Londra Veduta di Londra e del London Bridge, 1554


123 La Cattedrale di San Paolo Nel 1390, la cattedrale di San Paolo (o più comunemente Saint Paul Cathedral) era ancora un edificio gotico, costruito dai normanni a partire dal 1087 e terminata nel XIV secolo circa. Alta 149 metri, era un vero e proprio faro della cristianità, che venne distrutta dapprima dalla riforma protestante e dallo scisma anglicano, poi da un fulmine che, nel 1561, devastò la guglia principale. Commerci Il vino era uno dei beni più importanti nell’Europa medievale, insieme al sale e all’olio. A Londra arrivava principalmente della Guascogna e veniva servito nelle 350 osterie cittadine ad avvocati, nobili e clero. Naturalmente, non esistevano i diversi tipi di vini di oggi e la scelta era sostanzialmente fra bianco e rosso. La vecchia cattedrale di San Paolo Mescita di vino rosso, Tacuinum sanitatis casanatensis, XIV secolo 123


124 IN EVIDENZA APRILE OSPITALITÀ MORTALE La Cena Nera (1440) e il massacro di Glencoe (1692) Gli eventi storici che hanno ispirato Le piogge di Castamere (nozze rosse), nona puntata della terza stagione de Il Trono di Spade.


125 DA PRINCIPE A RIVOLUZIONARIO Ascesa e caduta del “Piccolo Napoleone” BERT TRAUTMANN Da ex nazista a eroe di Manchester NEL PROSSIMO NUMERO DI VANILLA MAGAZINE THE DARK SIDE OF THE MOON Il finto allunaggio di Stanley Kubrick LA GINECOLOGA DI AUSCHWITZ La difficile “scelta” di Gisella Perl OLOCAUSTO STORIE SPORTIVE CINEMA STORIE DI RE E REGINE Prenota ora la tua copia di Vanilla Magazine #6 In uscita il 29/3/2024


Pubblicazione periodica bimestrale – Anno I – n.5 Editore: La Ruota Edizioni Via Montevideo 22 00198 - Roma [email protected] www.laruotaedizioni.it Direttore responsabile: Nicola Ianuale Editor: Maristella Occhionero Consulente editoriale: Matteo Rubboli Grafica: Valentina Modica Redazione: Annalisa Lo Monaco, Matteo Rubboli, Nicola Ianuale, Roberto Cocchis e Daria Cadalt. Stampa: Booksfactory www.booksfactory.it Il periodico Vanilla Magazine è stato iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Roma al numero 135 del 2023 con decreto del Presidente di Sezione del 16/10/2023 Proprietà Letteraria riservata ©2023 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - Aut. n° Pubblicità: per acquistare spazi pubblicitari all’interno della rivista scrivere a [email protected] www.vanillamagazine.it Siamo anche su IN COPERTINA Prete medioevale e la sua amante N.5- FEBBRAIO 2024 Visita il nostro shop vanillamagazine.myshopify.com Vanilla Magazine #3 Vanilla Magazine #4 Vanilla Magazine #1 Vanilla Magazine #2 DISPONIBILI NEL NOSTRO SHOP Errata corrige Vanilla Magazine #4 • Nella rubrica Accadde oggi, alla voce “7 dicembre 1941”, viene erroneamente riportato che gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra al Giappone l’8 ottobre. La data esatta è l’8 dicembre


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