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Il volume ripercorre, attraverso le numerose immagini tratte dall’Archivio Storico Indire e da archivi esterni, il cammino fatto dall’Italia per l’inserimento degli alunni disabili a scuola. Un inserimento coraggioso, promosso dalla legge 517 del 1977 che, a 40 anni dalla sua emanazione, rimane ancora attuale. Capisaldi di quella norma, l’introduzione del docente di sostegno in possesso di un apposito titolo di specializzazione e l’abolizione delle classi differenziali e delle scuole speciali con la proposta, di fatto, di un nuovo modello pedagogico per gli studenti con difficoltà di apprendimento e di adattamento.

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Published by Indire Ricerca, 2023-06-07 05:00:52

Nessuno escluso. Il lungo viaggio dell'inclusione nella scuola italiana

Il volume ripercorre, attraverso le numerose immagini tratte dall’Archivio Storico Indire e da archivi esterni, il cammino fatto dall’Italia per l’inserimento degli alunni disabili a scuola. Un inserimento coraggioso, promosso dalla legge 517 del 1977 che, a 40 anni dalla sua emanazione, rimane ancora attuale. Capisaldi di quella norma, l’introduzione del docente di sostegno in possesso di un apposito titolo di specializzazione e l’abolizione delle classi differenziali e delle scuole speciali con la proposta, di fatto, di un nuovo modello pedagogico per gli studenti con difficoltà di apprendimento e di adattamento.

Keywords: inclusione,scuola

A CURA DI: F. Benedetti, F. Caprino, P. Giorgi, P. Infante RICERCHE ICONOGRAFICHE: I. Zoppi GRAFICA: P. Curina, M. Guerrini REALIZZAZIONE EDITORIALE: apice librI Referenze fotografiche: Archivio Storico Fotografico Indire; Archivio Fotografico Indire/Giuseppe Moscato; Archivio Fotografico Istituto dei Ciechi di Milano-Museo Louis Braille; Archivio Fondazione Pio Istituto dei Sordi Milano; Associazione Italiana Persone Down Onlus; Fondazione Pubblicità Progresso. Si ringrazia per la collaborazione alla ricerca iconografica: Dott.ssa Annalisa Dall’Asta (Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma); Istituto Comprensivo Seravezza (LU); Prof.ssa Daniela Boscolo, Istituto Tecnico Cristoforo Colombo, Porto Viro (RO), la redazione di «Per Noi Autistici», Giulio Di Martino.


NESSUNO ESCLUSO Il lungo viaggio dell’inclusione nella scuola italiana


Indice • La lunga strada dell’inclusione: una prospettiva storica… (1859-1977) Pamela Giorgi 9 • Dai pionieri della pedagogia speciale all’educazione inclusiva Francesca Caprino 23 • Uno sguardo fotografico Irene Zoppi 39 • Luoghi e spazi 45 • Metodi e strumenti 51 • Cura del corpo 59 • Socialità 65 • Verso il mondo del lavoro 71 • Inclusione sociale: includere gli esclusi Fausto Benedetti 77 • Integrazione: la rivoluzione della Legge 517 del 4 agosto 1977 Pierpaolo Infante 95 • Bibliografia 125


La disabilità in ambito scolastico è un tema complesso perché è necessario affrontare molteplici aspetti legati ai bisogni degli alunni con handicap ma anche alle necessità delle loro famiglie e dei docenti che ogni giorno si impegnano nel mettere in atto strategie per migliorare i percorsi inclusivi. Compito della scuola è infatti quello di supportare la crescita personale e sociale dell’alunno con disabilità, facilitarne il passaggio nel mondo del lavoro perché si possa realizzare appieno il suo progetto di vita. Questa ricerca, grazie alla collaborazione con INDIRE, apre una finestra, attraverso una serie d’immagini, sul passato e sul presente dell’inclusione scolastica in Italia, offrendo la possibilità di guardare al futuro con una maggiore consapevolezza dei traguardi finora raggiunti. L’iconografia proposta in questo volume ci aiuta a collocare nel tempo le azioni di una didattica inclusiva alla luce della Legge 517 del 1977 e dei suoi significati pedagogici. I dati statistici selezionati e inseriti in questo lavoro sull’inclusione da un lato ci confortano per i percorsi intrapresi, dall’altro ci aiutano a capire quanto ancora dobbiamo realizzare al fine di offrire a tutti le stesse opportunità e occasioni educative. Il risultato è quello di osservare una storia, tutta italiana, fatta da una comunità in cammino che da quarant’anni si impegna per affermare i diritti degli alunni disabili, al fine di realizzare il pieno sviluppo della persona umana. Domenico Petruzzo Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana


9 «Quelli che vanno nella mia scuola sono stupidi. Solo che non mi è permesso dirlo, anche se è vero. Vogliono che dica che hanno delle difficoltà nell’apprendimento o hanno delle esigenze particolari. Il termine tecnico esatto è Gruppo H. Questa sì che è una cosa stupida, perché tutti hanno dei problemi nell’apprendimento, perché imparare a parlare francese o capire il principio della relatività è difficile, ed è altrettanto vero che ognuno ha delle esigenze particolari, come mio padre che deve portarsi dietro delle pillole di dolcificante da mettere dentro il caffè per non ingrassare, oppure la signora Peters che gira sempre con un apparecchio acustico color crema, o Siobhan che ha degli occhiali talmente spessi che ti fanno venire il mal di testa se li provi, e nessuna di queste persone viene classificata come Gruppo H, anche se hanno delle esigenze particolari» M. Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. A partire dal periodo immediatamente postunitario, quando il sistema scolastico italiano diviene il medesimo per l’intero territorio nazionale, relativamente al problema dei fanciulli con disabilità lo stato opta - dopo un lungo silenzio normativo che di fatto implica un regime di esclusione in assenza di qualsiasi intervento che rimane di fatto in carico essenzialmente agli istituti religiosi – per l’istruzione separata. Gli anni ‘20 vedono la realizzazione di un sistema di istruzione per i fanciulli con disabilità a Pamela Giorgi, INDIRE La lunga strada dell’inclusione: una prospettiva storica… (1859-1977)


10 carico dello Stato in scuole speciali o in classi differenziali. Si giunge al radicale mutamento di questo assetto solo negli anni ’70, quando si passa all’inserimento e all’integrazione nella ‘scuola di tutti’, secondo approcci progressivamente più aperti alla cura educativa di bisogni differenti. L’intento del presente contributo è quello di tracciare un sintetica cronologia di tale evoluzione interna al sistema scolastico italiano. Le didascalie delle immagini scelte a corredo del volume consentiranno a chi lo sfoglierà di ripercorrere la storia dell’approccio educativo alla diversità. Sarà sufficiente, forse, soffermarsi sul lessico usato: tra un passato colmo di definizioni quali ‘minorati’, ‘anormali psichici’, ‘gracili’ e ‘motulesi’, sino all’oggi, corre un fil rouge che conduce dalla separazione sociale all’inclusione. Dall’esclusione all’istruzione in ‘scuole speciali’ e in ‘classi differenziali’ Ai propri esordi la scuola pubblica del nascente Stato Unitario non fu investita da nessuna esplicita norma legislativa che prevedesse la collocazione di alunni con disabilità al proprio interno. Infatti, il testo normativo centrale per la scuola di quegli anni, la Legge Casati del 1859 - che sanciva la nascita della Scuola di Stato, gratuita, obbligatoria ed uguale per entrambi i sessi - non contemplava affatto il diritto all’istruzione degli alunni con disabilità. Una tendenza certamente collocabile nel solco di una lunga tradizione, che, sino al XVIII secolo, aveva disconosciuto alle persone con disabilità ogni diritto, e che si mostrò ancora nel XIX secolo come quasi immemore della forte cesura segnata da uno snodo normativo fondamentale, quella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino (1789), che aveva sancita l’uguaglianza per tutti gli esseri umani indipendentemente dal ceto, dalla razza, dal sesso e, appunto, dalle condizioni fisiche e psichiche1 . Tuttavia, sebbene lo Stato non avesse investito la scuola pubblica di alcun ruolo sul tema, sotto il profilo della riflessione scientifica, invece, l’Ottocento rappresentò una fase molto importante 1 F. Bocci, Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere, 2011.


11 per gli sviluppi successivi. In Italia, dove gli istituti rivolti alla riabilitazione e all’educazione degli alunni con disabilità erano allora in prevalenza fondati da ecclesiastici e da congregazioni religiose, si assistette al rafforzarsi di una maggiore sensibilità sociale e culturale sul tema e all’orientamento di parte della comunità scientifica verso un nuovo approccio metodologico, teso ad un ampliamento delle possibilità di integrazione sociale degli alunni con disabilità. È in questo periodo, infatti, che si diffuse il metodo del linguaggio dei segni per i sordomuti, nel Settecento già adottato in Francia dall’abate Charles-Michel de l’Épée (1712-1789) e dopo qualche tempo diventato popolare in molti paesi d’Europa, grazie soprattutto alla facilità del suo insegnamento e apprendimento. A tale metodo si contrapponeva in quel periodo quello orale, ideato e praticato in Germania dall’educatore Samuel Heinicke (1727-1790). Tra i maggiori fautori di simile dibattito in Italia, prodromo delle posteriori riforme culturali e metodologiche, vi fu Padre Tommaso Pendola (1800-1883), impegnato non solo nell’educazione dei sordomuti, ma anche nelle definizione e diffusione, mediante la rivista «Dell’educazione dei sordomuti in Italia» (da lui stesso fondata nel 1872), di un quadro teorico condiviso tra i vari educatori della penisola e diretto a rafforzare gli studi nel settore dell’educazione speciale2. Su più fronti quegli anni videro un incremento dell’assunzione sociale e istituzionale dell’educazione degli alunni con disabilità, senza che, tuttavia, si giungesse alla risoluzione del problema del ruolo e delle funzioni della Scuola di Stato e delle istituzioni attive, escluse dalle sovvenzioni pubbliche e spesso dequalificate perché assimilate a mere istituzioni di carità. Così come non si giunse a risolvere né la difficile situazione della formazione degli insegnanti, i cui diplomi non avevano valore legale, né a superare il divario esistente, soprattutto in termini di quantità, tra gli istituti del nord e quelli del sud d’Italia. Tutti aspetti che trovarono solu2 R. Sani, Towards a history of special education in Italy: schools for the deaf-mute from the Napoleonic era to the Gentile Reforms, in «History of Education & Children’s Literature» II, 1(2007), pp. 35-55 e R. Sani, Per una storia dell’educazione speciale in Italia: le scuole per i sordomuti dall’età napoleonica alla Riforma Gentile, in «Annali Della Facoltà di Lettere E Filosofia» 35(2002), pp. 219-246.


12 zione solo con la Riforma Gentile, che, oltre a sancire, per la prima volta nella storia, l’obbligatorietà dell’educazione dei ciechi e dei sordomuti, previde per gli istituti preposti di potersi avvalere dei finanziamenti dello Stato, oltre a sancire una migliore, riconosciuta e omogenea formazione degli ‘insegnanti speciali’. Tra tutte le esperienze che sul fronte dell’educazione speciale furono avviate con successo sul finire dell’Ottocento citiamo in questa sede quella per la cura e la riabilitazione dei bambini con deficit psicofisici ad opera di Sante De Sanctis (1862-1935) e la prima scuola magistrale ortofrenica diretta da Maria Montessori (1870-1952)3. La Montessori espresse i propri convincimenti relativi al problema dei fanciulli con disabilità e della loro educazione in occasione del primo Congresso pedagogico nazionale, tenutosi tra l’8 e il 15 settembre del 1898. Qui, come rappresentante della scienza medica, accusò i pedagogisti della loro chiusura riguardo la questione, ormai sociale, di coloro che la scienza medica di allora definiva ‘deficienti’, mettendo anche in evidenza lo stato in cui questi bambini erano costretti a vivere perché disconosciuti dalla società. Il discorso pronunciato dalla Montessori ebbe molto successo, tant’è che la sua proposta di introdurre le ‘classi aggiunte’ e di dare ai bambini ‘deficienti’ un’educazione speciale fu accolta da tutti i partecipanti. Essa chiedeva una scuola aperta, considerando inaccettabile e incivile una scuola chiusa e che rifiutava i bambini disprezzati e trascurati dalla società. In quella occasione Montessori affermò altresì con insistenza la necessità di un corpo insegnante preparato, che avesse una formazione a livello scientifico capace di seguire lo sviluppo psichico e morale dei bambini ritardati. Lo stesso anno del Congresso Pedagogico di Torino, la scienziata vedeva pubblicato il suo saggio dal titolo Miserie sociali e nuovi ritrovati della scienza4, nel quale riassumeva il suo pensiero circa la possibilità di edu3 G. Cives, Maria Montessori: pedagogista complessa, Pisa, Edizioni ETS, 2001. 4 M. Montessori, Miserie sociali e nuovi ritrovati della scienza, in Atti del Primo Congresso Pedagogico Nazionale Italiano (Torino 8-15 settembre 1898), Torino, Stabilimento Tipografico diretto da F. Cadorna, 1899, pp. 122-123.


13 care i ‘deficienti’, così come avveniva in altri paesi europei, e lo faceva riproponendo con fermezza l’esigenza di creare degli Istituti speciali in cui operassero in forte sinergia medici e docenti. La scienziata partiva proprio dalla necessità da parte dei governi di iniziare a farsi carico direttamente di tale tipo di istruzione istituendo scuole speciali statali ove realizzare interventi didattici individualizzati. Creare queste scuole avrebbe comportato per lo stato una forte spesa, ma la questione era questione sociale primaria su cui lo stato doveva necessariamente impegnarsi. Essa proponeva, nel saggio come nel convegno, le ‘classi aggiunte’, da istituire in ogni scuola elementare accanto alle classi normali. Pochi anni dopo Maria Montessori sperimenterà personalmente i risultati che potevano raggiungere i bambini ‘deficienti’ se trattati con specifici metodi: ne La scoperta del bambino5 ricorderà come fosse riuscita a far leggere e scrivere correttamente alcuni bambini internati nel manicomio, i quali poi poterono presentarsi a un esame nelle scuole pubbliche insieme ai bambini normali e superarne la prova. A valle di questo dibattito, caratterizzante tutto l’Ottocento, gli inizi del Novecento videro in alcune scuole italiane inaugurarsi esperienze di sperimentazione in cui si tentò l’accoglienza e l’istruzione agli alunni ‘ritardati’ in classi differenziali e coesistenti con le tante specifiche realtà educative (Scuole speciali) presenti sul territorio nazionale per i bambini ciechi, sordi o con altri problemi specifici. Tutto questo si collocava in un parallelo contesto europeo, ove esperienze analoghe proliferarono: classes pour arriérés in Francia, clases de niños retardados in Spagna, Hilfclassen in Germania e special classes nel Regno Unito. Nel dicembre 1904 veniva inoltre istituito per legge anche il Corso di perfezionamento per i licenziati delle scuole normali detto ‘scuola pedagogica’, di cui era relatore Luigi Credaro (1860-1939) e in cui, oltre a lui, insegnarono proprio sia De Sanctis, sia Montessori. Circa il primo intervento organico dello stato in materia, occorre menzionare la tenace opera di due giovani ciechi, Augusto Romagnoli (1876- 1946) ed Aurelio Nicolodi (1894-1950). Proprio il loro intenso lavoro por5 M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1950.


14 tò, nel 1923, all’emanazione di due importanti Regi Decreti. Romagnoli e Nicolodi realizzarono il loro obiettivo primario del pieno riconoscimento giuridico del cieco come persona e soggetto educabile. Augusto Romagnoli, in particolare, espresse la necessità di un intervento educativo e scolastico finalizzato a promuovere l’integrità umana dell’alunno cieco, ricercando il modo più efficace per lo sviluppo delle sue potenzialità, nel suo libro Ragazzi ciechi6. Qui narra la propria esperienza come educatore di fanciulle non vedenti presso l’Ospizio Margherita di Roma, in cui era riuscito efficacemente a mettere in pratica le idee circa un’educazione nuova, fondata su un’esperienza fisica capace di giungere alla realizzazione di obiettivi spirituali attraverso l’orientamento, l’esplorazione, il gioco e, quindi, la capacità di costruire, plasmare, nella prospettiva di un’integrazione dei ciechi nel contesto scolastico e poi in quello sociale fondata essenzialmente sul principio dell’autoriscatto. L’apporto di Romagnoli e Nicolodi fu determinante: lo Stato si assunse, di lì a poco, l’onere di disciplinare tutto ciò che aveva attinenza con l’educazione speciale. La disciplina normativa specificatamente dedicata si ebbe con la Riforma Gentile (Regio Decreto n. 3126 del 1923), che, nel sancire l’obbligo scolastico sino al quattordicesimo anno di età a tutti gli alunni, comprendeva anche i ciechi e i sordomuti, purché in assenza di altre patologie che ne impedissero l’ottemperanza. Qualche anno dopo la riforma del 1923 (col Testo Unico sull’istruzione elementare, post-elementare e sulle sue opere d’integrazione, contenuto nel Regio Decreto n. 577 del 1928), furono aperte dallo Stato classi differenziali per studenti con lievi ritardi, ospitate nei normali plessi scolastici, che operarono accanto a scuole speciali per sordi, ciechi ed anormali psichici, situati in strutture distinte. Per i casi più gravi vennero previsti istituti speciali, in cui gli allievi vivevano internati e separati dalle proprie famiglie. In sintesi, la riforma accoglieva per la scuola pubblica la forma dell’educazione separata per gli alunni con disabilità. I ciechi, gli ipovedenti, i sordomuti, gli ‘anormali psichici’, i ‘motulesi’ dovevano frequentare le scuole 6 A. Romagnoli, Ragazzi ciechi, Firenze, Stamperia nazionale braille, 1909


15 elementari e talvolta le medie, in istituti specializzati o in classi speciali che fornivano loro personale specializzato, sussidi didattici specifici e la possibilità di confrontarsi continuamente con altri ragazzi affetti dalla stessa minorazione, senza affatto considerare come ciò comportasse lo sradicamento degli alunni dal loro ambiente familiare e sociale e, anche laddove questo non avvenisse, la mancanza di confronto con i coetanei ‘normali’. Le classi differenziali non furono tuttavia solo delle classi scolastiche destinate ad alunni ‘diversamente abili’ o affetti da disturbi dell’apprendimento o problemi di socializzazione, ma furono anche luogo ove collocare tutti quegli gli allievi che presentavano problemi di condotta o disagio sociale o familiare. A lungo sarebbe stato questo il caso dei figli degli emigranti del sud che giungevano nel nord-ovest, i quali molto spesso, di ‘anormale’ avevano solo la scarsissima frequentazione della lingua italiana e una serie di problematiche di adattamento socio-culturale al nuovo contesto. Superamento della didattica speciale: la Legge 517 del 1977 A partire dal secondo dopo guerra l’ordinamento italiano andò incontro ad un mutamento radicale rispetto al passato, trasformando il nostro modello pedagogico, fondato sulla sostanziale separazione degli alunni con disabilità, in un modello all’avanguardia in Europa, caratterizzato, appunto, dal passaggio all’integrazione. Ciò non avvenne, però, che a partire dalla fine degli anni ‘60, attraverso un processo lento e per certi versi combattuto dalla base della scuola italiana, per poi essere recepito a livello normativo solo in seconda battuta. Nonostante la Carta Costituzionale prevedesse, infatti, per tutti gli Italiani uguaglianza (art. 3), libero accesso all’istruzione scolastica, senza alcuna discriminazione (art. 34, comma 1), e specificasse come gli ‘inabili’ e i ‘minorati’ avessero diritto all’educazione e all’avviamento professionale (art. 38), per tutti gli anni ‘50 e ‘60 resistettero quelle classi differenziali volte rispettivamente ad accogliere sia alunni con disabilità gravi, sia quelli con più lievi difficoltà di apprendimento e socializzazione.


16 Così l’Italia democratica e repubblicana la scuola ‘di tutti ed uguale per tutti’ era prevista nel testo costituzionale, ma non nella normativa per la Scuola, che rimaneva ancora ancorata ai modelli del passato. Questo in parte anche perché la politica scolastica di quel periodo non lasciò molto spazio alla questione dell’educazione degli atipici, considerando ben più urgente il problema del fronteggiare l’analfabetismo ancora dilagante e poco funzionale ad un’Italia alle prese con il boom economico. Uno dei pochi testi normativi in proposito, la Circolare Ministeriale n. 1771/12 del 1953, intervenuta a chiarire la differenza tra classi speciali per minorati, scuole di differenziazione e classi differenziali, ribadiva la scelta politica passata per l’educazione separata degli alunni con disabilità. La circolare così spiegava: «Le classi speciali per minorati e quelle di differenziazione didattica sono istituti scolastici nei quali viene impartito l’insegnamento elementare ai fanciulli aventi determinate minorazioni fisiche o psichiche ed istituti nei quali vengono adottati speciali metodi didattici per l’insegnamento ai ragazzi anormali, es. scuole Montessori. Le classi differenziali, invece, non sono istituti scolastici a sé stanti, ma funzionano presso le comuni scuole elementari ed accolgono gli alunni nervosi, tardivi, instabili, i quali rivelano l’inadattabilità alla disciplina comune e ai normali metodi e ritmi d’insegnamento e possono raggiungere un livello migliore solo se l’insegnamento viene ad essi impartito con modi e forme particolari». Anche un secondo intervento normativo, nel 1962, che prevedeva una vera e propria disciplina organica dello stato nell’ambito delle scuole speciali (la Legge n. 1073), non fece che qualche ritocco formale all’assetto tradizionale, ribadito, seppur non riferendosi direttamente all’ordinamento scolastico, ma solo allo stanziamento di fondi «per il funzionamento, l’assistenza igienico-sanitaria e le attrezzature per le classi differenziali nelle scuole statali e per le classi di scuola speciale da istituire anche nei comuni minori». In quello stesso anno intervenne anche la Legge n. 1859, che in via prioritaria ebbe il grande merito di sancire l’istituzione della scuola media unica, obbligatoria, gratuita, ma previde altresì classi di aggiornamento per gli alunni che presentano difficoltà di apprendimento (art. 11), l’istituzione di classi differenziali per alunni


17 disadattati scolastici con un calendario speciale con appositi programmi e orari di insegnamento (art. 12). Stesso discorso vale per una circolare ministeriale di poco successiva: la quale auspicava l’incremento di tutte le scuole atte ad accogliere alunni con disabilità, ponendo l’accento su un’appurata selezione al fine di escludere «gli scolari che possono trarre profitto da un buon insegnamento individualizzato nella scuola comune […] Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica possono essere affidate soltanto le classi differenziali nelle quali saranno accolti gli alunni le cui anomalie sono tali da prevedere un facile e rapido adattamento alla scuola comune». Ancora qualche anno dopo, nel 1967, poco era cambiato: il Decreto Presidente della Repubblica n. 1518 stabiliva, infatti, che «soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento e assistenza medico-didattica sono indirizzati alle scuole speciali. I soggetti ipodotati intellettuali non gravi, disadattati ambientali, o soggetti con anomalie del comportamento, per i quali possa prevedersi il reinserimento nella scuola comune sono indirizzati alle classi differenziali» (art. 30). Questa rapida carrellata di disposizioni normative mette in luce come ancora al termine degli anni ‘60, a livello normativo, continuassero a persistere sia classi speciali e differenziali internamente alla Scuola pubblica, sia, accanto ad esse, istituti speciali in cui gli alunni ricevevano, in base alle loro possibilità di apprendimento, l’istruzione obbligatoria gratuita, che, in queste scuole, durava almeno 10 anni, anche se la frequenza poteva essere protratta fino al ventunesimo anno di età «per i soggetti per i quali la preparazione professionale lasci prevedere una più completa riabilitazione». Qui i ragazzi seguivano le lezioni dalle 9 alle 16:30, compreso il sabato dalle 9 alle 14, suddivisi in classi la cui composizione numerica era variabile, seguiti da un’insegnante specializzato che applicava programmi personalizzati basati su educazione psicomotoria, educazione all’espressione, apprendimento attivo, educazione del carattere. I sistemi di apprendimento ricorrevano in larga parte a forme laboratoriali in particolare di canto, ginnastica, disegno, lavoro manuale


18 quale falegnameria, cartonaggio, tipografia e lavori domestici femminili, con un’assistenza che si estendeva talvolta anche in ambito extra-scolastico, esempio con l’organizzazione di centri estivi presso i locali della scuola, colonie estive e invernali. Tale impianto metodologico venne nuovamente ribadito sino al 1968, quando la Legge n. 444, relativa alla scuola materna statale, trattando il problema dei bambini ‘handicappati’, affermava: «Per i bambini dai tre ai sei anni affetti da disturbi dell’intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali, lo Stato istituisce sezioni speciali presso scuole materne statali e, per i casi più gravi, scuole materne speciali». A questo proposito occorre sottolineare come quella logica di separazione sottesa dal sistema delle classi e delle scuole differenziali, che abbiamo visto resistette così tenacemente nel secondo dopo guerra, si confrontò (e si scontrò) proprio in quella fase storica, con un elemento caratterizzante lo sviluppo socio-economico: laddove, infatti, le grandi città industriali italiane affrontavano la forte immigrazione dal sud - con famiglie sradicate dal paese di origine e con difficoltà forti di integrazione, i cui figli subivano sovente ricadute sull’apprendimento - è facile immaginare il crescente numero di studenti inseriti nelle classi differenziali, che sorgevano pressoché in tutte le sedi scolastiche, in risposta al bisogno sociale emergente collegato appunto con il fenomeno migratorio. Quest’ultimo fu forse uno degli elementi scatenanti, alla fine degli anni ’60, la polemica riguardo alle classi differenziali: si accusò la scuola, infatti, non solo di aver ghettizzato coloro che per particolari ragioni non erano simili fisicamente agli altri, ma anche di farlo con chi era socialmente svantaggiato. Fra gli alunni con disabilità venivano, infatti, tradizionalmente compresi anche i ‘disadattati del carattere e del comportamento’: il termine era così estensivamente applicato sia ad individui portatori di gravi lesioni organiche e/o di gravi deficit psicologici sia a quelli le cui problematiche erano riconducibili unicamente a particolari condizioni socio-familiari. In tale prospettiva si inserirono alcune esperienze determinanti, tra cui quella di don Lorenzo Milani (1920-1967) prima a San Donato in Calenzano (Fi) e poi nella celebre attività scolare di Barbiana. Si cominciò così a parlare di ‘inserimento’ degli alunni con disabilità nella


19 ‘scuola di tutti’, cercando con nuovi metodi, con nuovi ordinamenti e con l’introduzione degli organi collegiali, di attuare quanto era sancito dalla Costituzione, ovvero che «la scuola è aperta a tutti». Grazie ai contributi della pedagogia speciale e della neuropsichiatria infantile, l’ormai secolare distinzione tra recuperabili e irrecuperabili, posta a fondamento della separazione, venne messa in discussione: l’attenzione si spostò invece sulle potenzialità e sui margini id recupero dei soggetti, cercando di sollevarli dalla secolare condizione di isolamento e di separazione. D’altronde le idee della contestazione, partita già nel 1966 dalla Berkeley University, stavano ormai facendo breccia anche in Europa. Uno degli aspetti più significativi del movimento che dilagò nel mondo occidentale in quegli anni riguardò proprio la critica a tutte le forme discriminative ed emarginati: accanto agli svantaggi sociali e agli svantaggi per età (vecchi e bambini), stavano anche le persone con disabilità psico-fisica. Il vecchio approccio al problema della disabilità ne rimase travolto. Una delle maggiori artefici dell’inclusione degli alunni diversamente abili nel sistema scolastico italiano, Mirella Antonione Casale (1925-)7 , ma con lei molti altri, ebbero l’audacia di negare l’ottica esclusivamente medico-specialistica con cui la questione era storicamente stata sempre affrontata, legando l’architettura di ogni persona in funzione del suo deficit (infatti tutti gli appartamenti ad una categoria nosografica venivano percepiti e trattati come relativamente omogenei fra loro). Venne sottolineata invece l’importanza dei fattori socio-politico-culturali nella genesi e nel recupero degli alunni con disabilità attuando una critica radicale all’impostazione puramente medico-biologico che appariva strumentalizzabile ai fini di una emarginazione di persone ritenute meno ‘funzionali’. Furono anche altre le motivazioni con cui si contestò l’inserimento in strutture mono specialistica e la metodologia della separazione (dai coetanei e spesso anche dalla famiglia): il danno arrecato al processo educativo dalla mancanza assoluta di socializzazione esterna di chi era colpito da disabilità e pertanto costretto all’educa7 M. Antonione Casale, P. Peila Castellani, F. Saglio, Il bambino handicappato e la scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.


20 zione speciale; e l’impossibilità di educare all’accettazione del diverso e a sentimenti di sincera solidarietà quei bambini e quei ragazzi delle scuole ‘normali’ che diventavano uomini senza aver mai parlato o giocato con un loro coetaneo colpito da una minorazione. La contestazione ebbe il merito di presentare quello dell’alunno con disabilità come un problema non solo del singolo ma della società, alla quale veniva ricondotta la responsabilità nella genesi di alcune problematiche. Sulla base di questo il trattamento doveva essere essenzialmente pedagogico-sociale e doveva coinvolgere la Scuola tutta. La critica fu ampia e trovò grande adesione nella parte più progressista della scuola di base, tanto che furono gli stessi operatori delle scuole differenziali a sollecitare i genitori degli alunni perché tentassero l’accesso alla scuola ‘normale’. Il fenomeno degli inserimenti scolastici di alunni con disabilità contra lege o extra lege fu massiccio e parecchie decine di migliaia di giovani disabili lasciarono gli istituti e le scuole speciali: tra il 1968 e il 1975 il sistema delle scuole speciali perse più di 22.000 iscritti e migliaia di studenti con disabilità vennero iscritti alle scuole comuni senza alcuna previsione normativa né particolari attenzioni o sostegni materiali o educativi. Quest’esperienza fu così caotica e precipitosa da guadagnarsi il nome di ‘inserimento selvaggio’. Gli inserimenti dovettero il loro successo al clima proprio di quegli anni: nella società e nella scuola era maturata una consapevolezza della necessità di cambiamento e un clima di innovazione ben rappresentati nella Lettera a una professoressa8. L’accoglienza degli alunni con disabilità, favorendo il rinnovamento e la sperimentazione didattica, rientrava precisamente in quella volontà di cambiamento. La prima risposta normativa a queste sollecitazioni, che ormai arrivavano dalla pratica didattica, fu la Legge n. 118 del 1971: contenente una significativa individuazione del principio dell’integrazione, essa stabiliva come anche gli alunni disabili dovessero adempiere l’obbligo scolastico nelle scuole comuni, ad eccezione di quelli più gravi (fra i quali si conside8 Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana (cur.), Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.


21 ravano i ciechi, i sordi, gli intellettivi ed i motori gravi come i tetraplegici, cioè con impossibilità a muovere i quattro arti e spesso anche a parlare), la legge altresì prevedeva facilitazioni per l’accesso all’istruzione con l’abbattimento delle barriere, assistenza durante l’orario scolastico degli invalidi civili non autosufficienti e frequentanti la scuola dell’obbligo. Tendeva, inoltre, a rendere ‘normali’ le sezioni speciali superstiti ove il programma svolto avrebbe dovuto essere uguale a quello delle classi elementari ‘normali’. Di lì a poco, nel 1972, l’autodenuncia di un gruppo di genitori circa l’iscrizione dei propri figli con disabilità alla scuola ‘normale’ provocò una sentenza di legittimità da parte della Corte Costituzionale. Diritto poi successivamente sancito dalla Legge n. 360 del 1976, senza però che vi si dicesse nulla sulle modalità con cui l’inserimento dovesse realizzarsi. Nel 1975 la commissione parlamentare guidata dalla senatrice democristiana Franca Falcucci aveva pubblicato una relazione centrale sul tema, qui si affermava come: «una struttura scolastica idonea ad affrontare il problema dei ragazzi handicappati [...] non deve essere configurata in nessun modo come un nuovo tipo di scuola speciale o differenziale». La relazione sosteneva inoltre come la scuola dovesse «rapportare l’azione educativa alle potenzialità individuali di ogni allievo» e dovesse essere «la struttura più appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati». Infine, come il «criterio di valutazione dell’esito scolastico» dovesse «fare riferimento al grado di maturazione raggiunto dall’alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti realizzati, superando il concetto rigido del voto o della pagella». Il concetto d’integrazione aveva ormai iniziato a farsi strada anche a livello normativo: la Legge n. 118 del 1971 era intervenuta anche sul terreno dell’assistenza economica e sanitaria (gratuita fruizione e adattamento dei mezzi trasporto pubblico) e dell’abbattimento delle barriere architettoniche (art. 27). Il Decreto Presidente della Repubblica n. 970 del 1975 aveva introdotto nell’ordinamento giuridico la figura dell’insegnante di sostegno formato e specializzato per poter favorire l’integrazione scolastica. Ma la vera svolta si realizzò con la Legge n. 517 del 1977


22 contenente l’affermazione definitiva nel nostro paese di un modello pedagogico-educativo avanzatissimo, basato sull’integrazione scolastica. La legge portò innovazioni che si ispiravano ad una visione egualitaria e non selettiva della scuola: recependo quanto enunciato dalla commissione Falcucci, stabiliva l’integrazione in classe dell’alunno con disabilità, abolendo le classi differenziali e individuando modalità organizzative specifiche per rendere effettivo questo principio. «Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni [...] sono previste forme d’integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicap da realizzare mediante l’utilizzazione […] In tali classi devono essere assicurati la necessaria integrazione specialista, il servizio psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale» (art. 7).


23 Gli ineducabili La vicenda dell’educazione e dell’integrazione scolastica di bambini e ragazzi con disabilità in Italia non può prescindere dalle connessioni con il contesto storico e culturale che l’ha accompagnata, dallo sguardo della società sulla disabilità, sulla malattia e sulla diversità in generale. Pensare a questa storia come un procedere lineare verso il miglioramento sarebbe un errore, a grandi avanzamenti sono talvolta succedute battute d’arresto, innovazioni pensate per realizzare un maggior grado di integrazione hanno con il tempo rivelato la loro componente marginalizzante. La complessità è il segno distintivo dell’avventura dell’educazione inclusiva, un’avventura che ha portato il nostro paese a fare scelte avanzatissime che ne fanno tuttora un unicum nel panorama europeo e mondiale. Per lunghi secoli le persone con disabilità hanno subito il rifiuto e la marginalizzazione da parte della società, vedendosi negati anche i più elementari diritti. Nel mondo antico la presenza di una menomazione era vista come uno stigma divino, la prova tangibile del peccato, il segno di un sortilegio. Le prime risposte, nel medioevo, date ai bisogni di questi individui si limitano a iniziative di stampo assistenziale: sorgono asili caritatevoli che ospitano persone con caratteristiche diverse e spesso accomunate dalla povertà. In questo contesto la questione dell’educazione di bambini e raFrancesca Caprino, INDIRE Dai pionieri della pedagogia speciale all’educazione inclusiva


24 gazzi con disabilità non poteva essere posta né tantomeno affrontata, occorrerà infatti attendere il secolo dei lumi perché ciò avvenga. Agli albori dell’educazione speciale Le prime esperienze di educazione formale delle persone con disabilità di cui si conservi notizia sono principalmente rivolte a bambini e ragazzi con disabilità sensoriali. Antesignano dell’educazione dei sordi, in Italia, è l’abate Tommaso Silvestri che, dopo essersi recato in Francia presso l’abate Charles-Michel de l’Épée che qui aveva fondato, nel 1770, una scuola speciale e che aveva messo a punto un sistema convenzionale di lingua dei segni, fonderà a sua volta un istituto per sordi a Roma, nel 1784. Silvestri, che dirigerà la scuola sino all’anno della sua morte, adotta un metodo di istruzione bilingue descritto nell’opera Maniera di far parlare e di istruire speditamente i sordi e i muti di nascita basato oltre che sulla lingua dei segni, utilizzata come forma di comunicazione primaria, anche sulla lettura del labiale. L’uso di una lingua dei segni, che aveva rappresentato un importante progresso per l’inclusione dei sordi, subì una pesante battuta d’arresto nel 1880 quando i delegati del Congresso Internazionale per il Miglioramento della Sorte dei Sordomuti di Milano votarono una risoluzione che stabiliva il primato del metodo oralista e l’abolizione della lingua dei segni, sotto lo slogan «il gesto uccide la parola». Ci vorranno molti decenni perché la lingua dei segni, che pure continuerà a essere un veicolo di comunicazione informale tra sordi, riacquisti piena dignità e venga reintrodotta nei contesti scolastici. Il primo istituto di istruzione per ciechi sorge invece nella Napoli borbonica del 1818, presso l’Ospizio dei Santi Giuseppe e Lucia; nel corso dei decenni successivi sorgeranno altre scuole presso Padova (1838), Milano (1840) e Roma (1868) ma solo con i decreti del 1923, che rendono obbligatoria l’istruzione dei ciechi, si avrà una diffusione su scala nazionale di queste istituzioni. Sotto il profilo metodologico, queste scuole utilizzano inizialmente dei metodi mutuati da quello elaborato dal francese Valentin Haüy (1745-


25 1822) basato sull’uso di caratteri alfabetici convenzionali messi rilievo per mezzo di un sottile filo di rame, adottando, in seguito1 , il più razionale sistema a sei punti elaborato da Louis Braille nel 1829 che permetteva, oltre alla lettura, anche la scrittura per mezzo di strumenti specifici (una tavoletta sulla quale scorre un regolo e un piccolo punteruolo), un metodo che segnerà un punto di svolta per il diritto all’istruzione dei ciechi. Sebbene le prime scuole speciali, come abbiamo visto, sorgano per accogliere bambini e ragazzi con deficit della vista o dell’udito, la nascita della pedagogia speciale viene per convenzione ricondotta agli studi di Jean Marc Itard, colui che per primo ipotizzò l’educabilità di quanti venivano allora chiamati ‘idioti’. La vicenda di Itard ha contorni romanzeschi. Nel 1800 il medico francese, allora appena ventiseienne, incontrò un bambino di circa 12 anni, abbandonato e vissuto in una foresta dell’Ayveron, nella Francia meridionale, senza alcun contatto con la civiltà. Il bambino, a cui darà il nome di Victor, venne giudicato dai luminari dell’epoca, tra cui il celebre psichiatra Pinel, un selvaggio ineducabile, un ‘idiota’ in balia di insopprimibili istinti animaleschi. Ma questo giudizio inappellabile non scoraggerà Itard che per anni, testardamente, sperimenterà con il ragazzo nuovi approcci educativi. L’ipotesi di Itard è che i numerosi deficit del bambino, scrupolosamente registrati dai medici che lo avevano in precedenza osservato, non dipendessero da una condizione congenita ma dalla carenza di stimoli e di interazioni sociali esperita per molti anni. Sono cinque gli obiettivi dell’educazione di Victor che il giovane medico si prefissa: «legarlo alla vita sociale, svegliare la sensibilità nervosa, estendere la sfera delle sue idee dandogli dei nuovi bisogni e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri che lo circondano, condurlo all’uso della parola ed infine esercitare le operazioni dello spirito sugli oggetti dei suoi bisogni fisici più semplici determinando successivamente l’applicazione su degli oggetti d’istruzione»2. 1 Decisivo per la diffusione del braille fu un Congresso Internazionale tenutosi a Parigi nel 1878 che lo dichiarò codice ufficiale di scrittura e lettura per non vedenti. Notizie della sperimentazione del braille in Italia si possono rinvenire in un documento dell’Istituto dei Ciechi di Milano redatto nel 1868 (si veda sito dell’Istituto Ciechi di Milano). 2 A. Canevaro, J. Gaudreau, L’educazione degli handicappati, Roma, Carocci, 1988.


26 Sebbene l’ostinata azione educativa di Itard fosse destinata a non raggiungere gli obiettivi che si prefiggeva, il lavoro del medico francese aprirà la strada alla moderna pedagogia speciale, introducendo metodi come l’osservazione sistematica e la proposta di compiti di difficoltà graduale, destinati a conoscere un durevole consenso scientifico. Affermazione della pedagogia speciale Il novecento è il secolo che vede, in Italia, l’affermazione della pedagogia speciale e la proliferazione degli istituti di istruzione speciali. Figura chiave dell’educazione dei bambini con disabilità è sicuramente Maria Montessori. Un filo rosso lega la celebre pedagogista alle pioneristiche esperienze di Itard. Nel 1896, la Montessori, poco dopo il conseguimento della laurea e dopo aver già trascorso un internato presso la clinica psichiatrica di Santa Maria della Pietà, dove aveva avuto modo di constatare le condizioni inumane in cui vivevano i bambini qui ricoverati, si dedicò a un periodo di studio a Parigi durante il quale incontrò Bourneville lo psichiatra che all’epoca dirigeva il manicomio di Bicêtre,e che le fece conoscere i lavori di Itard e del suo allievo, Séguin, l’ideatore della ‘pedagogia scientifica’. Il soggiorno parigino fu senz’altro il momento più determinante per le future scelte professionali della Montessori: «Fu così che interessandomi agli idioti, venni a conoscere il metodo speciale di educazione per questi infelici bambini ideato da Seguin e in genere a penetrare l’idea allora nascente anche tra i medici pratici dell’efficacia di cure pedagogiche per varie forme morbose come la sordità, l’idiozia, il rachitismo»3. Medico di formazione, la Montessori si fa pedagogista, aprendo a Roma un gabinetto (l’istituto medico-psico pedagogico) dove per due anni si dedicherà senza interruzioni all’educazione di bambini con disabilità intellettive giudicati ineducabili nelle scuole elementari e sperimentando il metodo che successivamente perfezionerà ed esporterà in tutto il mondo. La Montessori fu tra i primi a comprendere la necessità di su3 M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1948, nuova edizione Milano, Garzanti, 2013.


27 perare l’approccio strettamente medico, proponendo un nuovo metodo pedagogico su base scientifica: «Io però, a differenza dei miei colleghi, ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico pedagogico per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al Congresso Pedagogico di Torino nel 1898; e credo di avere toccato una corda molto vibrante poiché l’idea , passata dai medici ai maestri elementari , si diffuse in un baleno come questione viva interessante la scuola»4. La sua proposta è incentrata su alcuni elementi cardine tra i quali occupa un posto di primissimo piano l’allestimento degli ambienti e la predisposizione di materiali progettati per stimolare i sensi del bambino e le sue capacità intellettive (ad esempio cubi, torri, perle, aste numeriche, spolette cromatiche, alfabetieri mobili, tavolette bariche). Ben presto la Montessori si preoccupa della necessità di poter disporre di personale docente competente, per questo motivo si adopera, di concerto con la neonata Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti alla fondazione della Scuola Magistrale Ortofrenica di Roma, istituto di cui assumerà l’onere della gestione, nel 1900, insieme a un giovane collega conosciuto presso la clinica psichiatrica dell’università di Roma, Giuseppe Ferruccio Montesano, il medico che per primo volle realizzare delle classi differenziali presso le scuole comuni. La Scuola Magistrale Ortofrenica si rivolgeva a maestri elementari impartendo loro nozioni di biologia, di anatomia, di fisiologia, di igiene e di didattica speciale, affiancando la teoria a esercitazioni pratiche e fornendo loro spunti per l’osservazione e per la documentazione. Progressivamente Maria Montessori comprende che i metodi sviluppati per l’educazione dei fanciulli ‘frenastenici’ possono essere con successo applicati alla così detta infanzia normale. «Fin da quando nel 1898 mi dedicai all’istruzione dei fanciulli deficienti, credetti d’intuire che quei metodi non avevano nulla di speciale all’istruzione degli idioti - ma contenevano 4 Ibidem.


28 principi di educazione più razionale di quelli in uso: tanto che perfino una mentalità inferiore poteva esserne ingrandita e svolta. Questa intuizione divenne la mia idea dopo che ebbi abbandonato la scuola dei deficienti; e a poco a poco acquistai il convincimento, che metodi consimili applicati ai fanciulli normali, avrebbero svolta la loro personalità in un modo meraviglioso, sorprendente»5. Se l’opera di Maria Montessori segna uno spartiacque nell’educazione dei bambini con disabilità intellettiva, la tiflo-pedagogia, o educazione dei ciechi, ha in Italia come principale riferimento l’opera di Augusto Romagnoli, primo non vedente, nel nostro paese, ad ottenere una cattedra nelle scuole pubbliche, nel 1908. Nel corso del suo lavoro, nei primi anni ‘10, come direttore didattico dell’ospizio per ciechi Regina Margherita di Roma, un istituto caritatevole che accoglieva bambine e ragazze cieche o con gravi deficit visivi, Romagnoli, non estraneo al clima innovatore delle ‘scuole nuove’ sperimentò, con un primo nucleo di alunne dai 5 agli 8 anni, un metodo pedagogico che valorizza l’autonomia personale (autonomia di movimento, abilità di orientamento) e sfrutta le capacità compensative dei sensi integri, un metodo che successivamente elaborò organicamente nell’opera Ragazzi ciechi 6. L’ottica è sempre quella di una ‘pedagogia riparatrice’ ma Romagnoli sembra non perdere mai di vista la motivazione del bambino, l’esperienza liberante e gioiosa del gioco. Il programma messo a punto presso il Regina Margherita comprende una grande varietà di esercizi di affinamento sensoriale e di motricità fine e grossolana di difficoltà graduata: esercizi tattili, manipolativi e di costruzione (per quali il Romagnoli adottò alcuni dei materiali montessoriani), attività fisiche come la corsa o il salto, proposte in forma ludica ed evitando ogni tipo di coercizione. Romagnoli è un fermo sostenitore di un approccio scientifico e sistema5 M. Montessori, Il metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello, S. Lapi, 1909, nuova edizione critica Roma, Opera Nazionale Montessori, 2008. 6 A. Romagnoli, Ragazzi ciechi, Firenze, Stamperia nazionale braille, 1909, nuova edizione Roma, Armando Editore, 2002.


29 tico all’educazione speciale che superi sia gli atteggiamenti assistenzialistici e pietistici che l’empirismo; è anche un fautore della co-educazione, ovvero della necessità di educare i bambini ciechi insieme ai bambini vedenti, facendo tesoro dell’aiuto che questi ultimi possono dare ai primi, anche se è lucidamente consapevole del fatto che questa condizione, che pure considera ideale, è difficilmente realizzabile nel periodo storico che si trova ad attraversare. Un ruolo fondamentale il Romagnoli lo ebbe anche nella formazione degli insegnanti specializzati, nel 1926 istituì infatti a Roma una scuola di Metodo per gli educatori dei ciechi, scuola di cui fu direttore fino all’anno della sua scomparsa, nel 1946. Va infine ricordato che già negli anni ‘10 comprese la necessità di poter disporre di assistenti, anche essi specializzati, che coadiuvassero gli insegnanti. Nei decenni successivi la tendenza sarà quella di incentrare gli interventi educativi sugli aspetti deficitari, con strumenti specifici e in luoghi separati. Nelle scuole speciali così come nelle classi differenziali l’azione didattica ed educativa è sempre legata a quella medico-pedagogica come peraltro ribadito dalla stessa normativa (D.P.R. 1518) che prevede per gli alunni la messa in atto di interventi di assistenza medico-specialistica, psico-pedagogica e sociale7 . La stessa pedagogia speciale continua a intrattenere rapporti strettissimi con la medicina, come testimonia la stessa nomenclatura della disciplina, ancora definita come ‘orto pedagogia’ o come ‘pedagogia emendatrice’. Nelle istituzioni speciali la presa in carico del bambino ruota sui costrutti di diagnosi e di trattamento, parallelamente si assiste alla definitiva affermazione della disciplina della neuro-psichiatria infantile con la realizzazione di scuole di specializzazione universitaria a Roma, Genova e Pisa e con la diffusione della rivista «Infanzia Anormale». Si dovrà invece aspettare il 1964 perché in Italia la pedagogia speciale divenga una disciplina universitaria autonoma, è infatti in quest’anno che questo insegnamento viene affidato a padre Roberto Zavalloni, presso la facoltà di magistero della Sapienza di Roma. 7 P.L. Dini, Classi differenziali e scuole speciali, Roma, Armando, 1966.


30 Crisi e tramonto del modello educativo segregazionista Negli anni ‘60, nell’ambito della pedagogia speciale, comincia progressivamente ad affermarsi la consapevolezza dell’importanza rivestita dai processi di socializzazione nell’apprendimento. Una delle esperienze più significative di questo periodo è quella realizzata da Adriano Milani Comparetti, medico della riabilitazione e fratello maggiore di don Milani, di cui condivide il carisma e lo slancio innovatore e che nel 1958 viene chiamato dalla Croce Rossa a dirigere l’istituto Anna Torrigiani di Firenze che ospita a convitto bambini affetti da paralisi cerebrale infantile, quelli che all’epoca venivano chiamati ‘spastici’. Milani Comparetti organizza con l’aiuto un gruppo di giovani insegnanti dei CEMEA (Centri di addestramento ai metodi dell’educazione attiva), organizzazione di cui faceva parte, come membro del consiglio direttivo, una scuola materna e elementare all’interno dell’istituto, portando avanti un’opera educativa orientata allo sviluppo globale della personalità del bambino, alla sua emancipazione e alla sua auto-determinazione, anticipando di decenni la visione olistica della disabilità proposta dall’organizzazione mondiale della sanità con la pubblicazione dell’ICF8. Villa Torrigiani diviene nell’arco di pochi anni un modernissimo laboratorio di sperimentazione pedagogica dove il lavoro riabilitativo si fonde con il metodo dell’educazione attiva, che in quegli anni vedeva Firenze come centro propulsivo. Qui Milani Comparetti, che parallelamente svolge un’attività scientifica assai proficua e che gli farà guadagnare una fama mondiale, forma generazioni di terapisti e insegnanti. L’attenzione dell’équipe di Villa Torrigiani (che comprende non solo il personale medico e educativo ma tutti coloro che all’istituto lavorano, addetti alle pulizie compresi) si sposta dai deficit del bambino alle sue capacità residuali e al suo potenziale; le giornate sono scandite, oltre che dallo studio e dalle cure, da giochi, letture, attività musicali, artistiche e ricreative. 8 F. Bocci, Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere, 2011.


31 È il bambino con i suoi interessi spontanei e le sue motivazioni, a essere al centro di questo progetto educativo, in una visione della scuola democratica e antiautoritaria che ambisce a restituire dignità alla persona e ad abbattere le barriere di natura sociale e ambientale che ostacolano la sua partecipazione. Il progetto educativo del Torrigiani riscuote numerosi consensi, tanto che arrivano richieste di iscrizione anche dall’estero, ma Milani Comparetti comprende presto che gli sforzi di rinnovamento non bastano a compensare l’isolamento sociale e le carenze affettive indotte dall’istituzionalizzazione, dalla separazione dal mondo degli affetti: la crescita dei piccoli alunni non può che avvenire in contesti ‘normali’, solo attraverso la socializzazione è infatti possibile sviluppare delle abilità o recuperarle; la segregazione e l’esclusione sociale, viceversa, sono condizioni che fanno di un bambino un ‘handicappato’. I tempi tuttavia non sono ancora del tutto maturi, e i tentativi di questo straordinario precursore dell’integrazione di far inserire i bambini del Torrigiani nelle scuole ordinarie incontreranno molte resistenze. Per tutti gli anni ‘60 il paradigma della separazione educativa, che secondo i più riconosciuti esperti dell’epoca trova una giustificazione nella necessità di evitare che i meno capaci possano costituire una ‘zavorra’ per il resto della classe, non viene infatti sostanzialmente messo in discussione. Lo stesso Giovanni Bollea, considerato il padre della neuropsichiatria infantile italiana, tra gli anni ‘50 e ‘60, rimane un convinto fautore della segregazione educativa non solo nei casi di conclamata disabilità ma anche in presenza di difficoltà di apprendimento non legate alla presenza di patologie specifiche. La separazione viene letta da Bollea come misura indispensabile per evitare il rallentamento della classe e il fenomeno delle ripetenze: «dall’inizio della scuola e fino alle vacanze di Natale i maestri sono chiamati a osservare i loro alunni e, successivamente, a selezionarli, con l’ausilio di un’équipe medico-psico-pedagogica, inviando gli incapaci nelle classi differenziali»9. La numerosità delle classi differenziali raggiunge il suo apice proprio in 9 G. Bollea citato in G. De Michele, Un’inguaribile incapacità di reazione al nuovo ambiente di vita. Bambini meridionali al Nord e classi differenziali negli anni ‘50 e ‘60, in «Rivista sperimentale di freniatria» n. 3, 2010, pp. 11-32.


32 questo periodo, passando dai 13000 alunni dell’anno scolastico 1958- 1959 ai 63565 degli anni 1970-1971; ben presto però la correlazione tra status socio economico e identificazione dei bambini come anormali emergerà in tutta la sua evidenza10. Il neuropsichiatra infantile Michele Zappella nel 1969 si interroga sull’«epidemia» di diagnosi nella scuola dell’obbligo con un articolo dal titolo eloquente: Un paese di deficienti? Nel 1970 viene pubblicata sulla rivista «Riforma della Scuola» una ricerca condotta presso le prime classi del comune di Ferrara che evidenzia come i bambini diagnosticati come ‘subnormali mentali’ provengano in larghissima parte da contesti familiari svantaggiati, sono infatti nel 70% dei casi figli di manovali, braccianti agricoli o sottoproletari11. Nelle città industriali del nordovest le segnalazioni di alunni da inserire in queste classi riguardano poi, nella maggior parte dei casi, i figli degli emigranti, bambini che vivono spesso un forte disagio economico e che scontano lo svantaggio sociale e culturale delle famiglie di origine. Sono bambini spesso vivaci, che parlano dialetto e che la scuola italiana, divenuta di massa ma senza sostanziali modifiche del suo impianto autoritario, non riesce ad accogliere12. È consapevole del ruolo di selezione su base classista e disciplinare operato dalle istituzioni educative speciali e differenziali, anche lo psichiatra Luigi Cancrini13 che, riprendendo un’indagine sugli istituti per minori realizzata del PCI sempre nel 1970, sottolinea come i bambini esclusi dalle scuole comuni rappresentino i capri espiatori di conflitti che spesso nulla hanno a che vedere con le loro caratteristiche personali ma che sono il riflesso di condizioni inerenti i sistemi culturali, sociali ed economici in cui si trovano a vivere. In un clima culturale che vede una progressiva crisi di tutte le istituzioni, 10 M.L. Tornesello, Il sogno di una scuola: lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore, Pistoia, Petite plaisance, 2006. 11 S. Canella, M. Poletti, L. Cattani, citati in G. Roda, Metodi e risorse per l’inclusione, relazione al seminario Metodologie e risorse per la scuola inclusiva, USR Emilia Romagna, Ferrara, 2010. 12 G. De Michele, Un’inguaribile incapacità di reazione al nuovo ambiente di vita. Bambini meridionali al Nord e classi differenziali negli anni ‘50 e ‘60, in «Rivista sperimentale di freniatria» n. 3, 2010, pp. 11-32. 13 L. Cancrini, Bambini «diversi» a scuola, Torino, Boringhieri, 1974.


33 scuola compresa, e anche grazie alla profonda influenza esercitata da intellettuali come Franco Basaglia e don Lorenzo Milani il modello segregazionista si va velocemente sgretolando. Come ebbe a dire Bruno Ciari14, poco prima della sua scomparsa, è la scuola, con la sua rigidità, con la sua incapacità di rinnovarsi per rispondere ai bisogni di elevazione culturale delle masse, a essere la grande anormale, la grande disadattata. Anche gli studenti delle scuole speciali cominciano, per la prima volta, a far sentire la loro voce e portano il tema della disabilità nell’agenda del più ampio movimento studentesco: a Genova nel 1971 un gruppo di studenti ciechi dell’Istituto Chiossone occupa la scuola, rivendicando il diritto all’inclusione nel ‘mondo reale’15. La posizione della neuropsichiatria infantile muta e lo stesso Bollea rivede radicalmente le proprie opinioni: «Dopo aver per 60 anni lottato per gli istituti medico pedagogici ad esternato e per le scuole speciali, oggi noi non vogliamo più le scuole speciali. Ci sarà ancora la scuola speciale per gli insufficienti mentali gravi, ma l’insufficiente mentale lieve e medio lieve, vale a dire l’insufficiente mentale a recuperabilità sociale parziale o totale, e che rappresenta l’85-90% di tutti gli insufficienti mentali, fa parte del complesso scolastico comune. Noi non dobbiamo dividerli, noi non dobbiamo metterli nei ‘ghetti’ come qualcuno ha detto, perché la socializzazione è unica, indipendentemente dalla recuperabilità intellettiva»16. Sulla fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 cominciano a farsi strada le prime esperienze di inserimento di bambini con disabilità nelle classi comuni, iniziative sostenute da insegnanti, pedagogisti, come Andrea Canevaro, neuropsichiatri infantili, operatori sociali e associazioni (l’ANFASS e l’AIAS su tutte), oltre che da alcuni ispettori ministeriali illuminati come Aldo Zelioli e Sergio Neri e da associazioni come il Movimento di Cooperazione Educativa. 14 B. Ciari, La grande disadattata, A. Alberti (cur.), Roma, Editori Riuniti, 1972. 15 M. Lanfranco, S. Neonato, Lotte da orbi, Politica e vicende umane nella rivolta dell’Istituto dei ciechi di Genova nel 1971, Genova, Erga, 1996. 16 G. Bollea, Critica alle classi differenziali nella scuola dell’obbligo, in «Neuropsichiatria Infantile» n. 116-117, 1970, pp. 912-916.


34 È la fase che gli oppositori di questo processo chiameranno ‘inserimento selvaggio’, un’onda di contestazione che anticipa e incanala la risposta istituzionale. È senz’altro vero che questi primi inserimenti abbiano presentato numerosi limiti: non vi era ancora, in questa fase, un serio ripensamento della didattica né il supporto di una cornice normativa che garantisse la piena realizzazione del diritto allo studio, condizioni che si verranno a creare successivamente con la così detta circolare Falcucci del 1975 e con l’emanazione della Legge 517 del 1977. Eppure senza questa ‘fuga in avanti’ è possibile se non probabile che il processo di integrazione e di inclusione dei bambini e dei ragazzi con disabilità in Italia non avrebbe avuto gli esiti che conosciamo, esiti che hanno portato l’Italia a divenire un modello in ambito internazionale e che ha stimolato un pensiero educativo originalissimo e ancora attuale. Dopo il 1977 A seguito dell’introduzione della Legge 517, si afferma un modello educativo che supera il semplice riconoscimento del diritto, da parte di bambini e ragazzi con disabilità, di essere inseriti nelle scuole comuni, definendo con chiarezza finalità e strumenti di un nuovo paradigma, quello dell’integrazione scolastica, che ha tra i suoi pilastri la didattica individualizzata, il supporto di insegnanti specializzati e la collaborazione in rete con enti del territorio. Sono anni di profonda trasformazione della scuola e l’integrazione dei bambini e ragazzi con disabilità si intreccia sinergicamente con altre innovazioni e sperimentazioni (il tempo pieno, il curricolo verticale, la realizzazione di servizi per la prima infanzia, l’uso della valutazione formativa) motivate da esigenze di modernizzazione e di democratizzazione del sistema di istruzione. L’integrazione si riverbera su tutta l’organizzazione scolastica favorendo il pluralismo, i processi partecipativi, la progettazione e la sperimentazione e contribuendo a rendere meno rigidi i confini tra scuola e extra-scuola. Nel corso di questi decenni la pedagogia speciale italiana (rappresentata, dal 2008 dalla SIPeS) conosce una crescente affermazione e, paralle-


35 lamente, crescono le riviste e i convegni dedicati al tema dell’inclusione scolastica, termine che dopo il 2000 viene preferito a quello di ‘integrazione’, un cambiamento motivato oltre che dall’influenza della letteratura pedagogica anglosassone anche da un passaggio culturale che vede estendersi l’attenzione dai soli soggetti con disabilità all’estesa platea di tutti i bambini e ragazzi che per situazioni di vulnerabilità dovuti a fattori individuali, personali o ambientali, sperimentano delle difficoltà nell’apprendimento e nella partecipazione alla vita scolastica. Particolarmente significativo, per l’evoluzione del paradigma inclusivo, è stato il massiccio aumento del fenomeno migratorio che ha portato nelle classi un consistente numero di studenti con lingue e background culturale diversi, sollecitando l’istituzione scolastica a elaborare strumenti idonei per accompagnare e gestire i processi di inclusione scolastica e sociale dei nuovi arrivati. La pedagogia interculturale, affermatasi per rispondere a questi problemi, si è incontrata con la pedagogia speciale sul comune terreno delle differenze e della complessità, contribuendo a ridisegnare e a innovare le pratiche didattiche e gli approcci educativi. In generale, negli ultimi anni, l’educazione inclusiva, oggi rafforzata da numerose evidenze scientifiche sulla sua efficacia, si è spostata dall’ottica compensativa per abbracciare un modello che legge l’individuo in formazione nella sua complessità e nel suo essere sociale, cercando di superare la vecchia didattica trasmissiva e nozionistica in favore di percorsi che sappiano valorizzare abilità e interessi diversi e leggendo la diversità stessa come un elemento che riguarda tutti e che per tutti è una risorsa. Il contributo dell’educazione speciale al rinnovamento della scuola La storia dell’educazione speciale si caratterizza per il carattere marcatamente sperimentale di molte esperienze e per l’impronta lasciata nel dibattito pedagogico generale e nelle successive evoluzioni delle discipline educative.


36 L’esempio più emblematico è senz’altro quello del metodo sviluppato da Maria Montessori, elaborato come strategia per l’educazione dei bambini ‘frenastenici’ e poi sistematizzato in un impianto educativo di ampio respiro. L’attenzione alle differenze ha consentito di leggere con più attenzione le difficoltà di apprendimento in generale, aprendo la strada a interventi didattici personalizzati e mirati a rimuovere gli ostacoli e a raggiungere il pieno potenziale di ognuno. In generale l’incontro con la differenza e con la complessità reso la scuola più democratica e più flessibile nell’organizzazione e nella didattica. A questo rinnovamento ha senz’altro contribuito l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti specializzati, avvenuta e seguito all’introduzione della Legge 517 del 1977, un evento che ha rappresentato, soprattutto nella scuola secondaria, dove gli insegnanti non avevano nessun tipo di formazione pedagogica, un forte elemento di innovazione, stimolando in tutto il corpo docente una riflessione sui processi di insegnamento e di apprendimento e sulla personalizzazione degli interventi educativi. Nel corso del tempo le competenze relative alla didattica e alla pedagogia speciale sono divenute un requisito indispensabile per l’accesso alla professione. Con l’istituzione dei corsi di laurea in scienze della formazione primaria, nell’anno accademico 1998-1999, la formazione in questa disciplina ha infatti visto una sua prima estensione ai docenti curricolari per poi essere applicata successivamente a tutti i percorsi di abilitazione all’insegnamento. A promuovere la dimensione inclusiva della scuola italiana, e con essa una visione dell’apprendimento centrato sullo studente, hanno contribuito anche alcune iniziative di formazione e di ricerca realizzate su base nazionale dal MIUR come il progetto I CARE, del 2007, e l’iniziativa dedicata nell’anno scolastico 2010-2011 alla diffusione del modello bio-psico-sociale dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La pedagogia speciale, sin dai suoi inizi, si è inoltre dotata di strumenti didattici originali e innovativi. É questo il caso, ad esempio, dei materiali montessoriani, ideati come mediatori atti a stimolare, attraverso i sensi, lo sviluppo dell’intelligenza e degli strumenti tiflodidattici, sviluppati come ausilio per l’apprendimento dei ciechi e degli ipovedenti.


37 Negli ultimi decenni il progresso nel capo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione ha dato un nuovo impulso alla messa a punto di strategie didattiche rivolte a bambini e ragazzi con disabilità, strategie che in molti casi si sono rivelate utili anche per bisogni educativi diversi. Dalla metà degli anni ‘80 si sperimenta nelle scuole l’uso di ausili informatici e di software didattici per l’integrazione scolastica di alunni con minorazioni visive, motorie e uditive. La fondazione ASPHI (Associazione per lo Sviluppo Professionale degli Handicappati nel campo dell’Informatica), nata nel 1980 su iniziativa del dirigente IBM Giovanni Zanichelli, svolge un vero e proprio ruolo di apripista in questo ambito grazie a iniziative pionieristiche nello sviluppo di applicativi e di hardware e nella formazione degli insegnanti. L’ASPHI17 muove i primi passi organizzando corsi di informatica per non vedenti ma molto presto si rivolge a un più ampio numero di destinatari. Già nel 1982 istituisce corsi per programmatori rivolti a giovani con disabilità motorie e, progressivamente, realizza iniziative di integrazione di alunni con minorazioni sensoriali o motorie nelle scuole, a partire dalla primaria. Per meglio comprendere la portata di questi progetti basti pensare che all’inizio degli anni ‘80 la diffusione dei computer nelle scuole è limitatissima e che occorrerà aspettare il 1985 perché venga realizzata, con il primo Piano Nazionale Informatica (a cui parteciperanno prevalentemente insegnanti di matematica e fisica della secondaria superiore) un’iniziativa di formazione dei docenti su base nazionale18. Gli anni ‘90 sono un periodo vivacissimo per lo sviluppo e la diffusione in ambito di tecnologie per la didattica. L’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR, a Genova, istituisce una biblioteca del software didattico, dove trovano ampio spazio gli applicativi utilizzabili nei casi di disabilità sensoriale, motoria o intellettiva. Nel 2000 INDIRE, in collaborazione con il MIUR, sviluppa Handitecno, un portale nazionale multimediale interamente dedicato alle nuove tecnologie per la disabilità nella scuola. 17 In www.asphi.it. 18 G. Chiappini, S. Manca, L’introduzione delle tecnologie educative nel contesto scolastico italiano, in «Form@re Open Journal per la Formazione in Rete», n. 46, 2006, (20 febbraio 2018).


38 L’intreccio virtuoso tra innovazione tecnologica e inclusione degli alunni con disabilità prosegue nell’ultimo ventennio anche grazie a iniziative istituzionali come il progetto del MIUR Nuove tecnologie e disabilità e l’istituzione di Centri Territoriali di Supporto (oggi denominati poli per l’inclusione) che promuovono il ruolo delle ICT nell’inclusione e, più in generale, nella qualità della didattica e dell’educazione.


39 Tra le fotografie che qui presentiamo, quelle provenienti dall’Archivio Storico Indire, presentano un contesto specifico della storia dell’integrazione scolastica, ancora legato alle scuole speciali e alle classi differenziali. I limiti cronologici del fondo fotografico infatti, coprono un arco temporale che non supera gli anni Sessanta, permettendo un’analisi storicizzata del tema a partire dagli anni Trenta. Affiancando però le immagini dell’Archivio Storico Indire a quelle dell’archivio corrente e di archivi esterni, emerge la possibilità di una lettura sia diacronica sia sincronica che permette un’analisi più complessa e problematica del tema1 . L’Archivio Storico Indire si è costituito dal 1925, anno in cui il pedagogista Giovanni Calò organizza a Firenze la prima Mostra Didattica Nazionale2. Da quell’evento nasce la raccolta di materiale documentario e fotografico che costituì dapprima il Museo Didattico Nazionale (1929-1937)3, poi divenuto Museo Nazionale della Scuola (1937-1941)4 per essere infine inglobato, nel 1941, nello spazio museale del Centro Didattico Nazionale (CDN) con sede nel fiorentino Palazzo Gerini. L’Istituto Nazionale di DocuIrene Zoppi, INDIRE Uno sguardo fotografico 1 I testi introduttivi alle sezioni tematiche fotografiche sono a cura di F. Caprino. 2 G. Calò, La mostra didattica Nazionale, in «I diritti della scuola», n. 14, 1925, pp. 209-210. 3 G. Calò, Per un Museo Didattico Nazionale, in «I diritti della scuola», n. 39, 1925, pp. 609-611. Per la storia e la consistenza dei fondi archivistici Indire cfr. P. Giorgi, J. Meda (cur.), I fondi archivistici dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica, Firenze, Polistampa, 2009. 4 La nuova sede del Museo nazionale della scuola, in «I diritti della scuola», n. 1, 1939, p. 9. Museo Nazionale della Scuola, in «I diritti della scuola», n. 1, 1937, p. 13. Museo Nazionale della Scuola, in «I diritti della scuola», n. 19, 1938, pp. 300, 343.


40 mentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), che rappresenta oggi il successore istituzionale del CDN5, conserva tuttora parte del fondo documentale raccolto dagli anni Venti, tra cui una sezione fotografica con 14mila stampe sciolte (suddivise per grado d’istruzione, aree tematiche e regionali) e album fotografici, databili tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento. La cronologia del fondo, incrementato in particolare negli anni Quaranta, periodo di massimo sviluppo del CDN, lo caratterizza per essere testimonianza di una scuola politicamente impegnata nell’attuazione della Carta della Scuola (1939), redatta dal ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai quale espressione della più alta operazione di politicizzazione scolastica6. Negli anni tra il 1945 e il dopoguerra l’attività del Centro fu sospesa e solo tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta fu ripresa la raccolta di documentazione proveniente dalle scuole italiane, seppur con minor afflusso di materiale fotografico. Queste le motivazioni per cui nell’Archivio Storico Indire, è possibile trovare oggi solo alcune tipologie di realtà scolastiche e, relativamente al tema di questo studio, è documentata in particolare la didattica delle scuole speciali attraverso fotografie che gli stessi istituiti hanno realizzato scelto e inviato per testimoniare il loro lavoro. Tra i materiali scelti, le fotografie provenienti da tre album di Milano (Scuola elementare all’aperto Sante de Sanctis per alunni anormali psichici, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili) databili tra gli anni ‘30 e ‘40, sono un interessante esempio di reportage che, oltre a mostrarci il contesto scolastico e le architetture, appositamente strutturate per una specifica didattica ‘attiva’ e per la gestione dei numerosi alunni, ci offre anche, attraverso una narrazione visiva, la documentazione della giornata tipo vissuta dagli alunni quali le lezioni 5 Per la storia del CDN e di Indire: P. Giorgi (cur.), Dal Museo nazionale della scuola all’INDIRE: storia di un istituto al servizio della scuola italiana (1929- 2009), Firenze, Giunti, 2010. E. Franchi, P. Giorgi (cur.), L’obiettivo sulla scuola. Immagini dall’archivio fotografico INDIRE, Firenze, Giunti, 2012. 6 G. Biondi, F. Imberciadori, Voi siete la primavera d’Italia… l’ideologia fascista nel mondo della scuola (1925-1943), Torino, Paravia, 1982. Inaugurazione del centro didattico nazionale, in «I diritti della scuola», n. 2, 1941, pp. 26-27.


41 all’aperto, gli esercizi ginnici e la refezione. Al di là di tali aspetti, sapientemente ‘raccontati’ per immagini dallo studio fotografico professionista Crimella, su commissione dello stesso comune di Milano, queste fotografie sono oggi anche un esempio della modalità di rappresentazione della ‘disabilità’ nel contesto didattico delle scuole speciali. Gli album di Milano, donati al CDN nel 1941, contengono fotografie appositamente commissionate dal comune e destinate alla pubblicazione su giornali locali («Milano: rivista mensile del Comune»; «Bimbi al sole») e ad uso degli insegnanti («I diritti della scuola») e quindi propagandistiche dell’operato delle istituzioni e volutamente costruite e connotate. Tra le fotografie degli album, alle immagini che mostrano alcune tematiche della pedagogia d’epoca fascista, quali i saggi ginnici o l’uso della divisa, che unisce e confonde il singolo, omologandolo nel gruppo, si alterna la rappresentazione della ‘disabilità’. In queste fotografie tale tema, quando affrontato e reso chiaramente visibile, è interpretato con la tendenza a ‘normalizzarlo’ contestualizzandolo nella tematica della cura del corpo, dell’igiene, o degli esercizi e attività collettive, in cui l’elemento dell’impedimento ‘fisico’ non nascosto né esaltato, è però già presentato in un contesto ‘correttivo-medico’, in cui si cerca di ‘guarirlo’ o fortificarlo. Se nel ritratto dei bambini, di cui ben si mostra in primo piano la nudità dei gracili toraci, estesi nell’atto dell’esercizio fisico, la percezione della disabilità passa necessariamente attraverso la visione del ‘corpo’, in altre fotografie invece è rappresentata attraverso il rimando al dettaglio, appositamente costruito, che ne suggerisce la presenza. Ne è un esempio la fotografia di una lezione all’aperto, in cui le due stampelle del ragazzo seduto in primo piano sono ben visibili, appoggiate al suo banco, quale elemento su cui si focalizza primariamente lo sguardo di chi osserva l’immagine. La tendenza al reportage ‘oggettivo’, del resto difficilmente praticabile, non è mai del tutto credibile, nelle fotografie milanesi per la già indicata finalità propagandistica, tuttavia anche in altre delle fotografie storiche qui presentate, è possibile scorgere una ‘oggettività costruita’: le probabili finalità scientifiche richieste alla documentazione fotografica, hanno reso necessario la messa in posa del soggetto per descriverne


42 dettagliatamente gli aspetti peculiari. Nelle fotografie provenienti dall’Istituto dei ciechi di Cagliari ad esempio, viene messo in evidenza l’uso di alcuni sussidi didattici, specifici per bambini e ragazzi non vedenti. Qui le immagini ritraggono in posa singoli studenti, ben curati e vestiti, mentre utilizzano, al di fuori di una lezione collettiva, gli strumenti per la didattica. Probabilmente lo scopo primario delle immagini era in questo caso mostrare principalmente le dotazioni scolastiche e la loro funzione all’interno dell’istituto. Un aspetto documentato dal mezzo fotografico oggi come in passato, è l’attività laboratoriale e di preparazione al lavoro. Già dagli anni Trenta, nell’ottica dei programmi scolastici della Carta della Scuola, ampio spazio era data alla cosiddetta ‘scuola del fare’ e all’istruzione tecnica-professionale: nelle scuole speciali l’attività agricola era considerata formativa per i bambini, mentre per i ragazzi l’avviamento ad una professione pratica consentiva di prepararsi al lavoro e alla futura vita da adulti. Le fotografie storiche mostrano come tali insegnamenti fossero supportati dalla presenza di officine e laboratori scolastici appositamente attrezzati per specifiche attività professionali, quali il cucito, la rilegatura o la stampa. Le fotografie delle dotazioni meccaniche che gli istituti potevano vantare, miravano a testimoniare come essi, non meno delle scuole tecniche, fossero centri di formazione per futuri operai specializzati. Le immagini contemporanee ci raccontano come l’acquisizione di capacità professionali non sia oggi limitata alla sola lezione tecnica in classe ma sia basata anche sullo svolgimento di esperienze esterne all’ambito scolastico, che permettano di sviluppare anche capacità pratiche e relazionali. L’attuale lavoro di documentazione perseguito da Indire, riguardo le esperienze di ricerca ed innovazione didattica e pedagogica in ambito nazionale ed internazionale, è realizzato in prevalenza tramite mezzi audiovisivi, ma continua ad avvalersi anche del mezzo fotografico. I reportage realizzati testimoniano il percorso d’innovazione metodologica della scuola, sviluppato anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie nella pratica didattica. Contestualmente mostrano spazi e arredi ripensati al fine di creare ambienti in grado di rispondere a con-


43 testi educativi ed esigenze diversi, e la possibilità per ogni studente di trovare il proprio specifico modo di apprendere in base alle sue naturali propensioni7 . Nelle fotografie databili dopo gli anni Cinquanta fino ad oggi, possiamo avere testimonianza non solo delle nuove metodologie didattiche e dei cambiamenti dell’ordinamento scolastico in tema di educazione inclusiva, ma della diversa metodologie rappresentativa della ‘disabilità’ stessa. Le immagini mostrano bambini e studenti in pose più ‘libere’, sebbene organizzate appositamente per la fotografia. L’inquadrature mostrano un punto di vista del fotografo sempre più spesso ravvicinato, testimone di un maggior interesse nell’entrare in relazione con i soggetti piuttosto che ritrarli da lontano. Il processo inclusivo è così raccontato grazie a immagini del quotidiano scolastico che riguardano ogni studente: immagini non limitate ad evocare una ‘condizione’ ma a descrivere, seppur con la ‘messa in posa’, gli aspetti relazionali dei soggetti tra loro e con l’ambiente scolastico, coinvolgendo lo spettatore presentandogli un ‘contesto’, piuttosto che renderlo mero osservatore di un ‘soggetto’ ritratto. 7 Cfr. Radici di futuro. L’innovazione a scuola attraverso i 90 anni di Indire. Catalogo dell’omonima mostra (Palazzo Medici Riccardi, 2-22 ottobre 2015), P. Giorgi (cur.), Firenze, Tipografia Contini, 2015.


44 L’edificio scolastico, Scuola elementare all’aperto Umberto di Savoia per alunni gracili, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.


45 Le istituzioni educative speciali, nate agli inizi del XIX secolo, costituiscono una prima risposta ai bisogni educativi di bambini e ragazzi con disabilità, prima del tutto esclusi dall’istruzione. Oggi il modello dell’educazione inclusiva si è definitivamente affermato e la scuola dà spazio alle differenze e si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione alla vita scolastica e sociale. 1 – LUOGHI E SPAZI


46 1.1 Lezione all’aperto, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. 1.2 Attività in aula, Scuola medico-pedagogica Tortona (AL), anni ‘50-’60. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. 1.3 Aula “atelier”, Centro Internazionale L. Malaguzzi, Reggio Emilia, 2015. Foto G. Moscato, Archivio Indire, Fondo Fotografico.


47 1. 4 Lezione in classe, Istituto per sordomuti, Firenze, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. 1. 6 Lezione all’aperto, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. 1. 5 Una finestra sul mondo, parete decorata e lavagna interattiva, Istituto Comprensivo Statale di Cadeo e Pontenure, Roveleto (PC), 2012-2013.


48 1. 7 Accessibilità a scuola, bambini sperimentano l’accessibilità degli spazi scolastici, nell’ambito di un progetto di sensibilizzazione sulle differenze, Scuola Primaria Paritaria Edith Stein, Parma, 2014.


49 1.10 Ginnastica in palestra, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. 1. 9 Attività all’aperto con sussidi didattici, Regia scuola di metodo per insegnanti e maestri istitutori dei ciechi di Roma, anni ‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Materiali Scolastici. 1. 8 La refezione, Scuola elementare all’aperto Gaetano Negri per alunni motulesi, Milano, anni ‘30-‘40. Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico.


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