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ALBERTO BERTONI LA VENDETTA DI ELARD LADRI DI CORPI – PARTE TERZA ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA VENDETTA NDI ELARD Copyright © 2023 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-629-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com Prima edizione Ottobre 2023 Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a personaggi realmente esistiti o fatti realmente accaduti è da intendersi del tutto casuale o usato in chiave fittizia.
Per Caterina
1173 D.C. – L’AMBASCIATORE Fu un servitore a svegliarmi diverse ore dopo. Non appena aprii gli occhi, prima ancora di capire cosa fosse successo, ebbi la lucidità di togliermi il laccio dalla mano e gettarlo a terra, in modo che nessuno lo notasse. La servitù accorse attorno al corpo esanime del loro padrone, urlando. Alcuni di loro soccorsero anche me, temendo che potessi essermi sentito male. Quando misi a fuoco la scena, capii che tutto era andato bene. Silvio era morto e il mio spirito era nel corpo di Elard. Vomitai. Stavo malissimo. Alla nausea del nuovo corpo si aggiungevano i postumi di una sbronza colossale. Fui portato in un’altra stanza e un medico iniziò a prendersi cura di me. Mi somministrò un intruglio caldo, che invece di calmare i conati mi nauseò ancora di più. Quando venne Eleonore la vidi in lacrime. Si gettò su di me chiedendomi come stessi, io finsi di stare peggio di come andasse in realtà, per attribuire la morte del Conte a un’intossicazione alimentare. Raccontai che la serata era andata bene: avevamo mangiato, bevuto e parlato moltissimo. Poi mi ero addormentato e non ricordavo altro. Quando mi disse che il Conte era morto, mi finsi incredulo e pretesi di andare a vederlo subito. Mi dovetti far sostenere da due servi per tutto il corridoio, e quando arrivai nella camera padronale, vidi il mio precedente corpo esanime sul letto. Piansi e chiesi cosa fosse accaduto. Il sacerdote di palazzo terminò l’estrema unzione, poi mi spiegò che forse il signore era deceduto a seguito del troppo alcol o di qualche cibo che gli aveva fatto male. Io confermai questa seconda ipotesi, dicendo che anche a me faceva male lo stomaco e non mi sentivo bene. Lui assentì e mi abbracciò, poi io me ne ritornai nella mia stanza e chiesi di essere lasciato solo. Stavo davvero male e avevo molto a cui pensare.
Con il passare dei giorni apprezzai quel corpo giovane. Giunture che non dolevano e muscoli scattanti, una schiena nuova di zecca e almeno quaranta chili in meno da spostare a ogni passo. Mi ripromisi di non ingrassare più come prima. Mia madre mandò dei servi ad avvertire suo marito, che arrivò alcuni giorni dopo con tutto il suo seguito e celebrò il funerale davanti alla città. Come nuovo Conte di Hainaut, avrei dovuto vivere nel palazzo nobiliare, e la cosa mi andava benissimo. L’unica che sembrò non gradire fu la mia ex moglie che, in mancanza di un figlio si ritrovava in una posizione molto scomoda dopo l’arrivo della nuova famiglia reggente. Alla fine, accettò una sistemazione un po’ più defilata, e traslocò in una della residenze che il vescovo le mise a disposizione fuori città. Cercai di comportarmi con naturalezza, ma mia madre notò qualcosa di diverso in me: i miei interessi, il modo in cui mi rivolgevo a lei o alla servitù. Lo capii e tentai di attribuire tutto allo stress per quella situazione, allo zio che in sostanza era morto davanti a me e al fatto di ritrovarmi con un titolo nobiliare. Alla fine dovette credermi, d’altronde quale altra scelta aveva? Tutta la famiglia traslocò a Hainaut e si sistemò al castello. Il mio nuovo padre mi riteneva troppo giovane per amministrare da solo la contea e intendeva offrirmi il suo aiuto. Anche i preparativi per il matrimonio proseguirono. Organizzammo un banchetto di fidanzamento, e feci la conoscenza dei miei futuri suoceri e di colei che sarebbe diventata mia moglie. Christabel aveva sedici anni e un viso di una bellezza fredda, che non si lasciava mai andare a un sorriso. Era di costituzione minuta, bionda e con gli occhi chiarissimi, labbra piccole e sottili e due manine candide che teneva perlopiù intrecciate tra loro. Mi piacque fin da subito. La sua famiglia, che in quanto a titoli non poteva gareggiare con la nostra, le aveva garantito una dote astronomica che il vescovo si era guardato bene dal rifiutare. Cercai più volte un’occasione per rimanere da solo con lei, se non altro per scambiare due parole, ma lei rimase per tutta la sera incollata a sua madre e alla fine rinunciai. Ci sposammo la primavera successiva, nella cattedrale di Hainaut. Mio padre rinunciò a celebrare le nozze e rimase accanto a sua moglie durante la cerimonia che il sacerdote del castello volle lunga e pomposa per cercare d’impressionarlo.
Nei giorni e nei mesi seguenti, passai molto del mio tempo con mio padre. Lui e la mamma si erano trasferiti a Hainaut come si conveniva a una famiglia di conti, ed ebbi molte occasioni d’intrattenermi in lunghe e interessantissime conversazioni che vertevano soprattutto sulla politica dell’Impero. Quando ero arrivato al nord ero ancora un veneziano, e come tale ero abituato a vivere in un luogo piuttosto isolato. Ero troppo occupato dai miei commerci per interessarmi di cosa succedesse nei luoghi non battuti dalle mie navi. In seguito, mi dovetti occupare di salvaguardare la mia posizione e la mia eredità e, quando anche quella fu messa al sicuro, mi limitai a chiudermi nella mia contea, disinteressandomi a tutto il resto. Il vescovo mi aprì gli occhi sul mondo e, da uomo di chiesa qual era, pose un particolare accento sulla disputa in atto tra papato e impero. Tutto era iniziato qualche anno prima, durante il pontificato di Gregorio VII, quando stabilì che i vescovi avrebbero dovuto rispondere prima di tutto al Papa, mentre prima era normale che vescovi-conti o vescoviprincipi facessero soprattutto l’interesse del loro Re. Questa presa di posizione aveva spaccato in due il clero, tanto che durante il conclave del 7 settembre 1159, una minoranza di cardinali, fedeli all’Impero, si era rifiutata di riconoscere l’elezione di Papa Alessandro III, eleggendo l’antipapa Vittore IV. Alessandro III non aveva una concezione molto diversa da quella del suo predecessore. Riteneva, infatti, che la Chiesa dovesse “imperare con autorità assoluta e incondizionata, e che dinanzi a essa e ai suoi interessi, tutti gli altri Stati e interessi dovessero passare in seconda linea”. Il nostro sovrano, Federico I detto il Barbarossa, aveva tentato di ricomporre lo scisma, invitando i due papi a Pavia dove voleva convocare un concilio. Questa mossa gli avrebbe permesso di ergersi ad arbitro delle contese interne della Chiesa, tanto che Papa Alessandro III non vi si presentò in segno di superiorità. Federico a quel punto aveva ufficializzato l’elezione di Vittore IV che, come primo atto formale della sua investitura, aveva scomunicato lo stesso Alessandro III che per reazione, rispose scomunicando a sua volta antipapa e Imperatore. Cinque anni dopo, a Vittore IV era succeduto Pasquale III, aumentando la spaccatura in seno alla Chiesa. Federico, a quel punto, aveva radunato un esercito per invadere l’Italia eliminare Alessandro III e mettere al suo posto Pasquale III.
In Italia, a differenza della Germania, il feudalesimo stava attraversando un periodo di crisi: con poche eccezioni, i grandi feudi erano in piena decadenza, soffocati dalle crescenti autonomie cittadine. Era la nascita dei comuni: Milano, Pavia, Como. Un crescente spirito di rivolta si diffondeva per le città, le quali si scrollavano di dosso il giogo del vescovo-conte, muovevano guerra ai feudatari, distruggendo i castelli, liberando i servi e rendendosi così libere e indipendenti. Barbarossa aveva diviso a metà il suo esercito e, mentre teneva occupati i comuni lombardi, il suo cancelliere Rainaldo Dassel, puntava dritto su Roma cingendola in un assedio. Il 26 luglio Barbarossa si era riunito al resto delle truppe ed era penetrato in città mettendola a ferro e fuoco. Le cose per Barbarossa stavano andando bene. In città si tenne addirittura una cerimonia d’incoronazione di Federico Barbarossa a Re d’Italia presieduta dall’antipapa. Federico aveva vinto e Alessandro III era in fuga. Poche settimane dopo, però, i soldati furono colpiti da una terribile febbre. Un’epidemia si diffuse tra le truppe tedesche, decimando gli uomini di Federico. Fu il panico. Si diffuse la voce che quella fosse la punizione divina per aver profanato San Pietro. I soldati fuggirono, così come l’Imperatore. Alessandro ritornò sul suo trono, fortificato dal fatto di avere vinto senza nemmeno un esercito, e questo consolidò di più la sua posizione. Quello stesso anno, a Pasquale III successe l’antipapa Callisto III, che fu scelto da Barbarossa in persona. Il vescovo, mio padre, era uno di quei prelati che avevano cercato, per quanto possibile, di mantenersi neutrali: fratello del Duca d’Aremberg, era molto vicino all’Impero ma la sua nomina era stata voluta dal Papa, pertanto aveva cercato di mantenere una certa equidistanza da tali contese che aveva seguito con crescente preoccupazione. *** Dopo il matrimonio, la mia vita proseguì tranquilla. La mia giovane moglie mantenne sempre un certo distacco da me, e iniziò a passare molto del suo tempo con la madre o con le sue dame di compagnia, riservando ai suoi doveri coniugali le poche ore serali che passavamo insieme. Per quanto mi sforzassi di compiacerla, a dispetto della sua indubbia bellezza, non si dimostrò mai particolarmente focosa né interessata alle
mie attenzioni, a cui sottostava con malcelato fastidio per il solo scopo di rimanere incinta. Il mio nuovo padre, il vescovo d’Aremberg si destreggiava bene nell’amministrare le mie proprietà, e non mancava di concedermi il suo tempo ogniqualvolta lo volessi. Entro un paio d’anni gli avrei dato un nipote e avrei potuto prendere le redini della contea. L’anno dopo, un messaggero dell’Imperatore venne al castello e chiese udienza. Portava un messaggio per sua eccellenza il vescovo, nel quale gli veniva richiesto di formare un contingente di cavalieri fedeli alla corona e metterli a disposizione di Federico I per una nuova, imminente spedizione in Italia. La notizia creò un notevole trambusto. Il vescovo eseguì l’ordine. Scrisse lettere a tutte le nobili famiglie vassalle della contea, invitando i giovani cavalieri a Hainaut in vista della prossima partenza. Per alcuni giorni, il castello e tutta la città furono in fermento. La servitù fu raddoppiata per dare ospitalità a tutti i nuovi arrivati che si presentarono, accompagnati da servi e scudieri, in gruppetti più o meno numerosi. Per garantire a ciascuno una sistemazione adeguata, preparammo delle camere per i cavalieri e allestimmo delle tende per alloggiare il loro seguito. Ovunque in città si respirava un’aria di festa per questa inattesa adunanza. Le taverne e i bordelli si riempirono di nuovi clienti e le notti si popolarono degli schiamazzi di decine di giovani più o meno ubriachi. A essi si unirono un certo numero di saltimbanchi, musici e giocolieri che, attratti dall’occasione di racimolare qualche soldo, trasformarono l’attesa per la guerra in una fiera improvvisata. Anche i maniscalchi e i fabbri dovettero lavorare a più non posso per soddisfare le richieste di tutti quegli uomini: c’erano cavalli da ferrare, lame da affilare e armature da riparare. Cenavamo nella sala più grande del castello, dove era stata preparata una tavola enorme alla quale, giorno dopo giorno, sedevano sempre più persone. Dopo le prime due settimane, la servitù dovette aggiungere dei tavoli separati per fare accomodare tutti, e le cantine del castello furono letteralmente saccheggiate. Il vescovo fece arrivare vino e birra da tutta la contea, inoltre dovette acquistare taglieri di legno, caraffe e bicchieri perché non ce n’erano a sufficienza per tutti. Furono giorni caratterizzati da una notevole allegria. Il pensiero che molti di quegli uomini non avrebbero fatto ritorno non sfiorava nessuno.
Tutti avevano una gran voglia di partire e far vedere al loro Conte quanto valessero, e soprattutto al loro Imperatore. I preparativi durarono quasi un intero mese. Per tutto quel tempo io e il vescovo rimanemmo chiusi nella sua stanza ogni pomeriggio a scrivere lettere e annotare gli arrivi. La sera, mentre dalle tende si alzava il profumo degli spiedi che i cuochi del castello allestivano per nutrire gli scudieri, partecipavamo al banchetto nella sala grande che si protraeva fino a notte fonda, tanto che al mattino ci alzavamo a fatica, intontiti dalla musica e dalle bevute. Uno degli ultimi pomeriggi prima della partenza mi convocò, in presenza di un fabbro, in una saletta vicino alle scuderie. «Tieni» mi disse, indicando una cassa bordata di ferro sul pavimento. «L’ho fatta preparare per te.» Sotto lo sguardo attento del fabbro, che continuava con fare nervoso ad arrotolare le dita sul grembiule di cuoio, aprii la cassa che conteneva un’armatura di ferro con gli stemmi araldici di Hainaut. L’armatura era una cotta di maglia a maniche lunghe che arrivava alle cosce. Gli anelli che la costituivano erano piuttosto piccoli, formati da fili di ferro ripiegati e martellati fino a creare una trama fittissima. Quando la sollevai tintinnò, liberando nell’aria un profumo di olio. Era davvero pesante. Trovai anche un elmo con nasale finemente lavorato a sbalzo, con i colori della nostra casata che ne riempivano i lati. L’artigiano fu lieto del mio apprezzamento al suo lavoro, e mi aiutò a indossarla, prendendo anche le misure per apportarvi alcune modifiche. «Sarai tu a guidarli» esordì il vescovo, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Io sono troppo vecchio per la guerra, inoltre il Duca ha chiesto espressamente di te.» Lo guardai stupito. «Sul serio?» Lui annuì. «Già. Gli hanno parlato molto bene di te e voleva conoscerti meglio.» Partimmo il mese successivo: cinquecento cavalieri, più di dieci volte tanto tra scudieri e servitori; oltre duemila cavalli e decine di carri trainati da muli che trasportavano vettovaglie. La nostra partenza fu una festa per l’intera città. Ogni abitante di Hainaut si alzò all’alba per salutare quella carovana e i ragazzini ci seguirono per molte miglia prima di ritornare alle loro case. Io cavalcavo in testa al gruppo. Indossavo la mia nuova armatura, un cinturone di cuoio e due stivali nuovi di zecca. Avevo tolto l’elmo, il cui peso mi dava fastidio, e l’avevo lasciato a uno dei miei scudieri assieme
alla spada, alla lancia e allo scudo con lo stemma araldico che un artigiano aveva dipinto alcuni giorni prima. Arrivammo ad Aremberg, dove ci unimmo agli uomini del Duca e poi proseguimmo per raggiungere il resto delle truppe imperiali. Il Duca d’Aremberg si limitò a un saluto e mise suo figlio alla testa del corteo. Io cavalcavo al suo fianco assieme agli altri conti e ai nobili più blasonati. Quando raggiungemmo il luogo dell’incontro di tutte le truppe imperiali, il mio nuovo corpo fremeva dall’eccitazione. L’Imperatore in persona ci diede il benvenuto, compiacendosi per il nostro numero. Era un uomo imponente, dalla lunga barba fulva da cui derivava il suo nome. Aveva un naso lungo e dritto e uno sguardo sempre accigliato. Ci accampammo in uno spiazzo erboso in attesa che gli altri ci raggiungessero. Una mattina convocò i nobili del gruppo nella sua tenda, e ci comunicò che saremmo partiti il giorno seguente. «Ho un accordo con i Savoia» spiegò, indicando con un bastone un punto su una mappa. «Ci lasceranno passare per i loro territori, a patto di non molestare i contadini. Percorreremo questa strada fino a questa città…» continuò, battendo la punta del bastone su un puntino nero: «Susa. Faremo a pezzi quei bastardi» concluse, guardandoci con eloquenza. Ci mettemmo in marcia come programmato, e per giorni e giorni fu un monotono susseguirsi di campagne e monti. La sera mi ritrovavo con la schiena a pezzi per la cavalcata. Arrivammo a Susa dopo un lunghissimo tragitto, e la rademmo al suolo. L’ira dell’Imperatore, che voleva arrivare a Roma preceduto dai racconti delle sue imprese, non conobbe pietà per nessuno. Ogni casa fu bruciata e gli abitanti passati a fil di spada. Avremmo destituito Papa Alessandro III, per poi proseguire verso la Sicilia per annettere anch’essa all’Impero. Dopo Susa, la stessa sorte toccò ad altre piccole cittadine piemontesi. Ero già stato in guerra, quindi sapevo che i soldati combattevano due tipi di battaglie: quelle contro un altro esercito, che comportavano estenuanti combattimenti e decine di morti da entrambe le parti; e quelle casa per casa, contro inermi cittadini che correvano per salvarsi la vita, mentre frecce infuocate davano alle fiamme tutti i loro beni e le loro donne venivano inseguite per diventare il trastullo di una sera. Anche questa era la guerra, serviva per tenere alto il morale e diffondere nel nemico il terrore per il nostro arrivo. Razziare un villaggio indifeso ti
faceva sentire potente, invincibile e caricava gli uomini di quell’energia che poi avrebbero speso nelle battaglie vere. Barbarossa convocò uno dei suoi consigli di guerra. Io vi partecipavo in qualità di Conte anche se fino ad allora non c’era stato molto di cui discutere. In quell’occasione l’atmosfera era tesa. Uno dei generali dispiegò una carta geografica e indicò un punto poco distante dal segno che indicava un corso d’acqua dove in apparenza non c’era altro che un prato incolto: «Le mie avanguardie mi hanno riportato l’esistenza in questo punto di una città» tuonò l’Imperatore, sovrastando il brusìo generale. «Non c’era l’ultima volta che sono sceso in Italia. Quei bastardi devono averla costruita per fermarci, e il nome che hanno scelto per lei ne è la prova: Alessandria!» Vi giungemmo alcuni giorni dopo. La cittadina, che si chiamava come il Papa – in evidente segno di scherno nei nostri confronti – era ben fortificata. L’esercito si preparò per l’assedio. Furono montate tende, e decine di uomini furono inviati nei paraggi per sondare il terreno alla ricerca di punti deboli. La cittadella era a forma di stella, e circondata da un ampio fossato che partiva dal vicino fiume Tanaro. Sembrava non esserci modo di avvicinarsi alle altissime mura senza essere bersaglio dell’artiglieria. Indeciso sul come agire, Barbarossa prese tempo e lasciò passare l’inverno; pertanto rimanemmo nei paraggi, sperando in un’improbabile resa spontanea degli abitanti. Il consiglio di guerra si riunì di nuovo per stabilire un piano d’azione. Barbarossa ascoltò le nostre idee per un po’ senza parlare. Qualcuno suggerì di aumentare il numero delle catapulte, altri di costruire dei ponti mobili per oltrepassare il fossato. La mia valutazione della situazione in cui ci trovavamo era diversa, e decisi di esprimerla ad alta voce: «Maestà, credo che invece dovremmo andarcene.» L’Imperatore mi rivolse uno sguardo carico d’ira. «Andarcene? E lasciare che quei bifolchi ridano di noi?» «Non è importante chi ride all’inizio della guerra, signore. L’importante è chi riderà alla fine. Credo che dovremmo lasciar perdere questa città e puntare su Roma. Distruggere Alessandria ci costerebbe molto tempo e molti morti, ma non ci porterebbe alcun reale vantaggio strategico.» «No! Invece cambierebbe molto!» esclamò risentito. «Ce la ritroveremmo comunque sulla strada del ritorno dopo aver preso Roma e la Sicilia…»
«Certo, ma per allora la guerra sarà stata vinta. E comunque potremmo sempre aggirarla per costringere gli alessandrini a combattere in campo aperto o lasciarci passare.» «Questo è un atteggiamento vile, giovane Conte» commentò uno dei consiglieri. «Non vile. Prudente forse…» mi difesi, mantenendo il tono calmo. «Non siamo venuti qui per distruggere una città la cui esistenza, fino a qualche mese fa, nemmeno conoscevamo! Ma per deporre il Papa e affrontare i Normanni in Sicilia e piegarli alla volontà dell’Impero…» La voce dell’Imperatore si levò al di sopra delle altre: «Noi non scapperemo! Io non scapperò!» Poi, guardandomi, aggiunse: «Distruggerò questa città e tutte quelle che rifiutano di piegarsi all’Impero. Una dopo l’altra cadranno davanti alle mie truppe! E quando arriveremo a Roma, saremo preceduti dal terrore della nostra ira e il Papa si getterà ai miei piedi, implorandomi di avere salva la vita!» A queste parole seguì un lungo applauso e la questione fu risolta. Federico ordinò di scavare un tunnel che, partendo dalla nostra posizione attraversasse il fossato e le mura per sbucare al centro della città. L’idea era di far entrare le truppe durante la notte e massacrare gli alessandrini prima che si rendessero conto di cosa fosse successo. Nelle settimane seguenti iniziammo i lavori. Molte tende furono allestite per nascondere il sito degli scavi e il materiale fu trasportato lontano con delle ceste e versato a terra lontano da occhi indiscreti. Tutto procedette bene fino alla primavera dell’anno successivo. Quando il consiglio di guerra si riunì prima dell’attacco, gli uomini erano impazienti di combattere, poiché fermi da mesi. Il motivo della riunione era il mettere al corrente tutti di un problema che si era verificato con gli scavi. Gli uomini avevano oltrepassato fossato e mura ed erano risaliti fino quasi a uscire all’interno della cittadella, ma le nostre spie avevano riportato che gli alessandrini avevano intuito la strategia e forse conoscevano addirittura il percorso del tunnel. «Io dico di attendere» suggerì uno. «Io dico di attaccare!» replicò un altro e fu subito sostenuto dal clamore generale. «Sì! Facciamogliela vedere!» si unirono gli altri, tanto che per parlare fui costretto ad alzare la voce sopra la loro: «No! Il tunnel deve essere una sorpresa. Se c’è il sospetto che sappiano dove uscirà, dovremmo cambiare strategia.»
«Scommetto che vorresti ritirarti!» aggiunse uno, suscitando una risata generale. «Dovremmo scavare un secondo tunnel, e…» Un boato di disapprovazione m’impedì di proseguire, fino a quando non fu lo stesso Imperatore a riportare la calma, così continuai: «Voglio dire che potremmo far loro credere che stiamo terminando quel tunnel ma poi sorprenderli con un secondo che loro non si aspettano…» «Ma potrebbero volerci dei mesi!» Stavolta fu l’Imperatore a dissentire. «Sì maestà, ma…» «Non abbiamo tutto questo tempo! Attaccheremo domani notte» concluse. «Dite agli uomini di prepararsi!» I preparativi furono lunghi e rumorosi. Dopo mesi di quiete fu evidente a tutti gli alessandrini che qualcosa stava per succedere. Il nostro campo era in agitazione, tutti si preparavano alla battaglia, vestendosi e affilando le armi. L’assenza di torri d’assedio o altri manufatti che ci consentissero di penetrare le loro difese palesava che stavamo tramando qualcosa di diverso. Vidi gli uomini in fermento, all’interno delle mura, e temevo per la riuscita del piano. Avevo vissuto troppi assedi per non capire quando qualcosa sarebbe andato storto. Alla fine mi risolsi a parlarne con Federico. «Maestà» gli dissi, quando fui ammesso alla sua presenza. Lui alzò lo sguardo dalle carte che aveva davanti e mi fissò. «Maestà. Fermiamoci! Loro sanno del tunnel, è evidente. Venite a vedere… Gli uomini dietro le mura sono calmi, agiscono come se ci stessero aspettando… Loro… Hanno notato i preparativi nel nostro esercito, questo avrebbe dovuto mandarli in confusione invece… Venite a vedere voi stesso!» «Ragazzo…» rispose con calma, passandosi le dita nella lunga barba. «Da cosa nasce tutta questa sicurezza? Siete alla prima battaglia, non è così?» Avrei voluto rispondere che avevo assediato città, secoli prima che lui nascesse ma dovetti tacere, cosa che lui sembrò apprezzare. «È normale avere paura» spiegò. «Fate sì che essa diventi forza!» «Non è per la mia vita che ho paura, signore…» «Ora devo ultimare i preparativi per l’incursione» concluse. «Potete andare.»
Barbarossa fece entrare gli uomini nel tunnel a centinaia. Quando anche l’ultimo lembo di terra fosse caduto, essi avrebbero dovuto riversarsi nella cittadella il più in fretta possibile e prenderla dall’interno. Il tunnel non era largo a sufficienza per consentire il passaggio di più persone, quindi formarono una lunghissima fila in attesa di muoversi uno dietro all’altro. Quando i primi aprirono un varco con le pale, sufficiente a far penetrare un filo di luce nell’oscurità della galleria, partì l’ordine di attacco e, uno dopo l’altro, si fecero strada nella cittadella. Il nemico attendeva il nostro arrivo. Avevano circondato l’uscita della galleria, di certo ben consapevoli di dove essa sarebbe sbucata. Fu un massacro. Uno alla volta i nostri uscivano all’aperto e venivano falciati dalla spada degli alessandrini in attesa. Vista la mala parata, i generali ordinarono di muoversi ancora più rapidi, ma per chi usciva dalla galleria i corpi dei compagni caduti costituivano un ostacolo sempre più grande che li rallentava, esponendoli alle frecce degli alessandrini appostati lungo le mura. Barbarossa si rifiutò di accettare che il suo piano fosse fallito, e si ostinò a mandare gli uomini nel tunnel, condannandoli alla morte uno dopo l’altro. Fu un’ecatombe. Solo dopo molte ore dovemmo accettare la sconfitta. I pochi uomini rimasti scapparono dal tunnel con la morte negli occhi, e una riunione del consiglio di guerra fu convocata con la massima urgenza per fare il punto sulla situazione. Purtroppo non era ancora finita. Proprio quando i nostri generali stavano per riflettere sul da farsi, da quella stessa galleria fuoriuscirono centinaia di alessandrini. Prima che ce ne rendessimo conto, diedero fuoco alle tende e distrussero le macchine d’assedio. Uccisero donne, servitori e soldati. Fu il panico. Gli uomini dell’Imperatore ebbero una reazione scomposta: alcuni si diedero alla fuga, altri tentarono una disperata resistenza. Prima che i nostri generali riuscissero a ristabilire l’ordine tra le nostre file, gli alessandrini avevano messo fine all’incursione e si erano dati alla fuga, rientrando attraverso quella stessa galleria che distrussero del tutto dopo il loro passaggio. La situazione era molto grave. I morti si contavano a migliaia, le vettovaglie distrutte, le speranze di espugnare la città svanite. Barbarossa riunì i superstiti e si diede alla fuga.
Il morale degli uomini era bassissimo. Molti tra i nobili parlavano di ritornare a casa, le speranze di deporre Papa Alessandro erano pura utopia. Avevamo perso. Trovammo riparo nelle campagne del Nord Italia, tra Casteggio e Voghera. Mentre cercavamo di curare i feriti, l’Imperatore trovò un canale di comunicazione con i Lombardi, cercando di guadagnare tempo. Mentre negoziava con loro i termini della resa, mandò in Germania decine di richieste di rinforzi a tutti i nobili locali. Furono dei mesi difficili. Alcuni rinforzi arrivarono durante la primavera successiva, ma gli uomini erano pochi. Troppo pochi per poter rischiare un’altra guerra. Il consiglio di guerra era decimato. Tra i nostri, erano troppi quelli che avevano trovato la morte davanti ad Alessandria. Discutemmo sul da farsi. Io non parlai, non volevo essere considerato un codardo, sostenendo che l’unica cosa sensata da fare fosse tornarcene a casa; idea, peraltro, condivisa da molti nobili ma nessuno parlò e quando Barbarossa propose di affrontare in un ultimo scontro la Compagnia della Morte – questo era il nome che si erano dati i Lombardi – nessuno si oppose. L’Imperatore interruppe i negoziati, lanciando un guanto di sfida che sembrava più un’azione disperata che una reale minaccia nelle condizioni date. Gli uomini si prepararono alla guerra con la morte nel cuore, desiderosi di perire da eroi per il loro paese, ma consapevoli che tale sacrificio non sarebbe servito a nulla. Il 29 maggio 1176 all’alba, nei pressi di Legnano, l’esercito dell’Imperatore tedesco e quello delle città lombarde ribelli si ritrovarono schierati l’uno di fronte all’altro per lo scontro finale. Il numero dei loro soldati era di molto superiore al nostro, e a poco valsero i discorsi che l’Imperatore rivolse agli uomini prima dello scontro. Fu una carneficina. Io mi gettai nella mischia circondato dai miei cavalieri, tentando di sfondare la loro ala sinistra e aggirarli per attaccare da dietro. Non ero sicuro di farcela, ma avevo motivi per ritenere che loro avrebbero puntato al centro del nostro schieramento, così con un po’ di fortuna avrei potuto aggirarli per riattaccare dal fondo. In questo modo sarebbero stati impegnati su due fronti il che ci avrebbe dato qualche speranza.
Il nostro attacco fu respinto. I cavalli cozzarono contro un muro umano. Tentammo di ripiegare, ma i lombardi erano in numero superiore e lottavano per respingere quello che ai loro occhi era un sovrano straniero verso il quale non si sarebbero mai piegati. Persi metà dei miei uomini in quelle prime ore. Fummo travolti senza alcuna possibilità di aggirare il loro esercito. Chiamai a me i cavalieri e ordinai loro di convergere al centro, per dare man forte al grosso delle nostre truppe impegnate poco più in là, ma fu tutto inutile. Gli uomini erano nel panico e caddero sotto i colpi delle lance dei lombardi. Finii per ritrovarmi isolato, assieme a pochi altri cavalieri, circondato dai cadaveri di decine dei miei uomini. Mi guardai attorno per capire dove fossero gli altri, e vidi l’Imperatore in persona combattere sul suo cavallo. Mi gettai al galoppo verso di lui, cercando di non perderlo di vista in quella moltitudine. Non era solo ma il suo gruppo era circondato e i suoi cavalieri cadevano uno dopo l’altro sotto i colpi dei nemici. Prima che potessi arrivare, una lancia trafisse il suo cavallo e lui cadde al suolo. Lo persi di vista, non potevo dire se fosse morto o ferito. Vidi i suoi soldati radunarsi in un ultimo tentativo di difesa. Io e i miei eravamo quasi arrivati, ma il nostro numero non sarebbe stato sufficiente. Poi lo vidi. A terra, vivo. Mentre cercava di rialzarsi, privo di spada e scudo. Ordinai ai miei uomini di caricare le truppe lombarde di fronte e di tenerle impegnate il più possibile, mentre io soccorrevo Federico. «Maestà! Presto!» urlai, tendendogli la mano. Lui la prese e io lo issai sul cavallo. Con un colpo di redini feci girare l’animale e mi gettai al galoppo lontano da lì. «Cosa fai?» chiese. «La battaglia è dall’altra parte!» «La battaglia è persa, maestà. Vi porto via.» Lui protestò debolmente poi mi lasciò fare. Il prato era ricoperto dai cadaveri dei nostri. Quella fu l’ultima guerra in Italia di Federico Barbarossa. I pochi di noi che riuscirono a fuggire da quell’inferno si riunirono senza alcuna speranza di poter trattare una pace dignitosa. L’Imperatore non mi rivolse più la parola: preferiva morire in battaglia piuttosto che essere costretto a inginocchiarsi davanti al Papa e riconoscere la propria sconfitta.
Fu costretto a inviare i suoi vescovi ad Anagni, affinché riconoscessero l’autorità del Papa, e quindi sconfessò l’antipapa, ammettendo che l’unico vicario di Cristo era Alessandro III. Io mi preparavo a ritornare a casa, carico di una tristezza infinita quando una sera, senza nemmeno farsi annunciare, Federico Barbarossa entrò nella mia tenda. «Non ti ho mai ringraziato» esordì. «Maestà…» «Ho riflettuto molto su quanto è accaduto, e voglio dirti una cosa.» Mi guardò per alcuni istanti, poi continuò: «Avevi ragione.» «Mio signore…» «Lasciami parlare. Tu avevi ragione e io torto. Avremmo dovuto lasciar perdere Alessandria e puntare su Roma, avremmo dovuto scavare una seconda galleria e non attaccare in quelle condizioni l’esercito lombardo.» «Questo io non…» «Non lo hai detto? Forse no ma lo pensavi, lo pensavano tutti. È stato il mio orgoglio che ci ha condotti al disastro, non i tuoi consigli. E poi, in mezzo a quell’ultimo massacro sei ritornato indietro per prendermi e portarmi via.» Mi tese la mano. Io la strinsi, incapace di parlare. «Ho un altro lavoro per te» aggiunse. «Papa Alessandro vuole incontrarmi: vuole che io mi inginocchi ai suoi piedi. Vuole far vedere al mondo intero che un piccolo uomo, senza neppure un esercito, è riuscito a vincere contro il grande Imperatore tedesco: lo scomunicato Federico Barbarossa!» Annuii. «Capisco…» «Vuole dire al mondo che è stata la volontà di Dio!» Guardò verso l’alto poi posò di nuovo lo sguardo su di me: «Voglio che tu ti rechi da lui per negoziare la mia resa. Potrei fuggire in Germania e rifiutare l’incontro, ma questo porterebbe a una frattura nell’Impero. Altre città cercherebbero la strada dell’indipendenza e finirei per essere considerato un vile. Oppure potrei inginocchiarmi davanti a lui, cercando di ricavarne qualche vantaggio. Tuo padre è un vescovo e i tuoi consigli si sono sempre rivelati giusti, credo che tu sia la persona più adatta per questo incarico.» Fu così che, in qualità di ambasciatore, mi recai dal Papa e ottenni udienza.
Alessandro III si rivelò una persona molto colta e cortese. Si meravigliò che parlassi latino e che avessi delle solide basi teologiche, in buona parte dovute alle decine di libri che avevo letto negli anni passati. Dopo quel primo incontro lo vidi molte volte, e concordammo i dettagli della cerimonia che si sarebbe tenuta per celebrare la pace tra la Chiesa e l’Impero. Per prima cosa, dissi, avremmo dovuto scegliere un territorio neutrale. Non sarebbe stato giusto per l’Imperatore scendere fino a Roma, dove la sua stessa vita sarebbe stata in pericolo. Quel Papa, al contrario di come lo avevo immaginato, era una persona di buon senso, desiderosa di ottenere una pace giusta con l’Impero. Mi disse che ci avrebbe pensato e aggiornò l’incontro a una data successiva. Alloggiavo in un palazzo che la curia aveva messo a mia completa disposizione, dal quale inviavo ogni giorno lettere a Sua Maestà per aggiornarlo sugli sviluppi. Il Papa chiese e ottenne che il prefetto reale, che Barbarossa aveva messo a Roma nel tentativo di controllare il papato, fosse rimosso e io ottenni che a Sua Maestà fosse riconfermata la carica di Imperatore. Al Papa piacque questa formula, perché lo avrebbe fatto apparire come colui che attribuiva il titolo di Imperatore, dandogli un potere che in effetti non aveva, e allo stesso tempo metteva Federico al riparo da richieste di abdicazione. Stabilimmo altri dettagli relativi alla cerimonia che si sarebbe tenuta, e alla fine rimasero sul tavolo solo due questioni. «Dove proponete che si tenga questo incontro?» chiese Alessandro. «Che ne direste di Venezia?» proposi. L’idea mi era parsa sensata fin dall’inizio: «È un’isola neutrale da sempre, i veneziani non vi sono certo ostili e Sua Maestà potrebbe sentirsi più tutelato.» «Così sia!» mi concesse il papa. «Con questo, ogni aspetto è chiarito. Partirò per Venezia non appena…» «C’è ancora una cosa, eminenza…» aggiunsi. Lui mi fissò indispettito. Io proseguii: «La scomunica… Non sarebbe meglio se l’incontro di riconciliazione avvenisse tra due persone facenti parte della stessa chiesa? Sarebbe un modo per mostrare al mondo che…» «D’accordo!» esclamò, interrompendomi. «Rimuoverò la scomunica, ma dovrà inginocchiarsi a me e riconoscermi come l’unico legittimo Papa!» Esitai. «Sua eminenza…» «Cos’altro c’è?»
«Se posso permettermi… L’Imperatore è stato sconfitto ma è pur sempre un uomo molto potente… a Venezia verrà da voi per sottomettersi ma, se voi lo umilierete potrebbe rivelarsi un nemico molto pericoloso quando avrà riacquisito il suo potere. Non è nel vostro interesse stravincere. Vi lasceremo la nomina dei vescovi e accetteremo che essi rispondano solo a voi per quanto attiene ai loro doveri verso Dio. Accetteremo persino che Roma non sia soggetta all’autorità imperiale, ma non accetterò che il mio Imperatore diventi oggetto di scherno.» Lui si voltò per andarsene senza degnarmi di una risposta. Quando arrivò alla porta disse: «Siete un ottimo ambasciatore. Il vostro Re è fortunato.» La notizia della rimozione della scomunica fece grande piacere a Sua Maestà, così come la notizia che non avrebbe dovuto recarsi a Roma ma a Venezia. Io non vedevo l’ora di ritornare alla Serenissima, da cui mancavo da decenni. Volevo rivedere il porto con le sue navi colorate e i canali percorsi da piccole imbarcazioni. Dovetti attendere un bel po’. Il Papa pretese che lo accompagnassi nel suo viaggio, e a nulla valsero i miei tentativi di precederlo. Giungemmo in laguna il 17 aprile, dopo un lungo e faticosissimo viaggio che il Papa suddivise in decine e decine di piccole tappe per non affaticare troppo il suo vecchio corpo. La città era più grande di come la ricordavo, e più ricca. Avrei voluto concedermi molto tempo per girare tra le calli e rivedere i luoghi delle mie vite passate. Mi chiedevo cosa fosse stato delle mie navi, del mio palazzo e dei miei magazzini, che a rigor di logica avrebbero dovuto ancora appartenermi. Non potevo certo dichiararmi erede del loro padrone e farmi ammettere all’interno. Ormai ero uno straniero a Venezia. Poco più che un nobile tedesco. Il Papa mi sistemò nei suoi alloggi, e pretese di avermi sempre a disposizione. Forse temeva che potessi incontrare qualcuno o tendergli qualche tranello, fatto sta che non mi fece allontanare mai, tanto che alla fine rinunciai ai miei propositi di visita della città. Quando Federico Barbarossa giunse a Venezia, fu scortato in piazza San Marco, dove avrebbe incontrato il Papa. Io ero dietro quest’ultimo e attendevo assieme ai cardinali. Federico sbarcò e i due si videro per la prima volta dopo anni di lotte. Il vecchio Papa, incurante del protocollo che prevedeva un atto di devozione da parte dell’Imperatore, s’incamminò verso quest’ultimo con le braccia aperte, accogliendolo come un figlio.
Federico non seppe trattenere la commozione e gli andò incontro per gettarsi poi ai suoi piedi, anche Alessandro fu sopraffatto dalla commozione e come lui tutti i presenti. Lo sollevò da terra e l’abbracciò, tra gli applausi della folla. Quando l’abbraccio si sciolse, i due si recarono nella vicina basilica di San Marco dove fu celebrata la messa, e poi a un banchetto dove vennero formalizzati e siglati tutti i dettagli dell’accordo. Il Papa confermò davanti a tutti il titolo di Imperatore a Barbarossa e il titolo di Re a suo figlio. Quando il banchetto stava per terminare, mi ritrovai a passare davanti al tavolo di Federico e mi fermai per un saluto. «Hai fatto un buon lavoro» disse soltanto. «Grazie maestà.» «Alessandro mi ha riferito cose egregie sul tuo conto. Vuole che io ti rimandi a Roma con lui, in modo che tu possa continuare a farmi da ambasciatore.» «Sarebbe un onore, maestà.» Mi piaceva stare a Roma, la Città Eterna aveva sempre esercitato un fascino notevole su di me, ma non avevo ancora avuto il tempo per visitarla come avrebbe meritato. Partii il giorno seguente al seguito del Papa, rammaricandomi di non essere rimasto di più a Venezia e ripromettendomi di tornarci. Il viaggio fu lungo e scomodo, così come lo era stato quello dell’andata. Il Papa mi mise a disposizione un palazzo non troppo distante dal suo, nel quale iniziai subito la mia attività che consisteva nel rappresentare gli interessi dell’Impero e mediare tra i desideri della Chiesa e le volontà di Barbarossa, al quale mandavo ogni settimana dettagliatissime missive per aggiornarlo sull’evolversi della situazione. L’Impero riconobbe l’autodeterminazione dei comuni lombardi, senza tuttavia rinunciare alla sovranità su di essi. Loro accettarono questa formulazione piuttosto ambigua, che comunque garantiva loro di potersi amministrare liberamente, perché non consideravano più il Barbarossa una reale minaccia e sapevano che, dopo la lezione ricevuta, non sarebbe più tornato a infastidirli. ***
Rimasi a Roma per più di quattro anni poi, nel 1181, Papa Alessandro III morì. Era un uomo molto colto e avevo passato tanto del mio tempo con lui, indipendentemente dal mio incarico di ambasciatore. Amava discorrere con me di teologia, mi raccontava le storie dei santi e mi donò decine di libri che riportai con me quando abbandonai Roma. Soffrii per la sua morte, era stato un grande uomo e un grande Papa e le sue riforme sarebbero rimaste a lungo nella storia della Chiesa, ma ero desideroso di ritornare a casa e rivedere mia moglie, con la quale non avevo passato molto tempo. Molte cose erano cambiate a Hainaut, mio padre aveva iniziato dei lavori di ampliamento del castello, che erano partiti l’anno precedente e sarebbero durati ancora molti mesi. Presi su di me l’onere dell’amministrazione delle mie terre, e dedicai molto del mio tempo allo studio e alla lettura. Condussi una piacevole vita da nobile, dedicandomi alla caccia e organizzando banchetti. Andai a presentarmi all’Imperatore, che mi ringraziò per il lavoro svolto a Roma, e mi ammise nella Dieta Imperiale, il supremo organo legislativo dello stato. Tutto stava andando a gonfie vele. Ero ricco, nobile e la mia vicinanza con Barbarossa mi conferiva un crescente potere. Trascorsi quegli anni tra Hainaut e la corte, stringendo amicizie e alleanze con gli uomini più potenti dell’epoca. *** Nel 1187 la città di Gerusalemme, strappata a fatica ai musulmani anni addietro anche grazie al mio contributo, cadde sotto il controllo delle armate turche, guidate dal grande condottiero Saladino, causando sgomento in tutta la cristianità, che considerava Gerusalemme come sua di diritto. Due anni dopo, Papa Gregorio VIII, con un appello a tutti gli imperatori dell’Occidente, bandì la terza crociata con il preciso intento di riconquistarla. Barbarossa rispose all’appello della Chiesa, e convocò tutti i suoi nobili a Ratisbona. Saladino aveva conquistato l’Egitto e l’Arabia occidentale, configurandosi come un vero e proprio avversario l’Occidente. Come gli altri feudatari dell’Imperatore, accorsi a Ratisbona con i miei cavalieri. Tra le tende e i recinti dei cavalli, Barbarossa aveva radunato
un esercito di oltre centomila uomini. A questi si sarebbero uniti il re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di leone e il Re di Francia Filippo II. Partimmo via terra, alcune settimane più tardi. Barbarossa, che portò con sé il figlio Federico VI, desiderava accreditarsi come amico della Chiesa e mostrare al mondo intero la sua potenza; tuttavia, la spedizione si rivelò fin da subito molto difficile. Spostare tutti quegli uomini richiedeva la risoluzione di moltissimi problemi logistici, oltre a una notevole quantità di provviste. Non fu un viaggio semplice. Ci incamminammo per la Terrasanta attraverso i territori dei serbi, che si dimostrarono piuttosto ostili nei nostri confronti, nonostante Barbarossa li avesse ammansiti con promesse di vario tipo e li tenesse a freno con la paura di rappresaglie. All’inizio vennero meno solo gli approvvigionamenti poi, una volta nei territori degli ungheresi e dei bulgari, si aggiunse una vera e propria ostilità delle popolazioni che reagivano all’ingresso nei loro villaggi di quella moltitudine affamata. Barbarossa pretendeva dalle popolazioni locali il sostentamento per la sua missione in Terrasanta, in quanto organizzata in ossequio alla volontà di Dio, ma per quegli uomini questo significava privarsi di ogni mezzo di sostentamento per molti mesi. Così, quando si diffondeva la voce che stavamo arrivando, i villaggi si svuotavano e con essi ogni traccia di cibo. L’esercito iniziò a patire la fame e a perdere le energie. Superate Filippopoli e Adrianopoli, che per l’occasione si erano trasformate in vere e proprie città fantasma, Barbarossa mandò degli ambasciatori all’Imperatore bizantino, Isacco, pretendendo degli aiuti immediati e la predisposizione di vettovagliamenti lungo il cammino. Per molti giorni aspettammo la risposta dell’Imperatore. Gli uomini erano affamati e imbestialiti, al punto che temevamo potessero ribellarsi. Una sera, Federico riunì alcuni degli uomini di cui si fidava di più per un consiglio di guerra al quale partecipai anch’io. «Ho saputo che quel doppiogiochista di Isacco ha sbattuto in prigione i nostri ambasciatori senza nemmeno riceverli.» Dopo quest’affermazione, si levarono i commenti più sprezzanti nei confronti dell’Imperatore bizantino. Molti di noi avevano ipotizzato che ci fosse un patto tra lui e Saladino, e questo avrebbe potuto costituirne la prova. Restava da decidere cosa fare adesso, perché la situazione stava diventando sempre più disperata. «Dovremmo mandare degli altri ambasciatori e pretendere che onori il suo patto con noi!» suggerì uno.
«Non funzionerà!» rispose un altro. «Signore, dobbiamo trovare il modo di andarcene da qui, e in fretta. Altrimenti gli uomini inizieranno a disertare.» «Chiederò a mio figlio di allestire subito una flotta e dirigersi in Grecia» decise l’Imperatore. «Ottima idea, signore. Questo potrebbe mettere un po’ di pressione su quel bastardo!» «Ma ci vorranno comunque dei mesi.» Obiettò qualcuno, e non aveva tutti i torti. Di quel passo non saremmo mai giunti a destinazione. La situazione stava peggiorando di giorno in giorno. «Maestà…» dissi. «Potremmo muoverci versò Costantinopoli.» «Non sarebbe male dargli una lezione!» commentarono i più, ma Federico obbiettò che l’esercito non avrebbe potuto combattere in quelle condizioni. «Non ci sarà bisogno di combattere, maestà» spiegai: «La sola presenza di centomila uomini arrabbiati e affamati alle porte della sua città dovrebbe indurlo a venire a patti con noi. E se così non fosse, potremmo comunque trovare tutto il cibo che ci serve.» Così fu deciso. L’esercito si mosse verso Costantinopoli mentre una flotta, che si stava allestendo in Italia, ci avrebbe atteso in Grecia. Isacco stava giocando su due tavoli. Da un lato aveva dato a noi delle garanzie di sostegno per tenersi buono l’Imperatore tedesco, dall’altro era sceso a patti con Saladino e gli aveva garantito che saremmo arrivati nel suo regno allo stremo delle forze. L’avvicinarsi di centomila uomini rabbiosi alla sua capitale lo indusse a riconsiderare la sua posizione. Prima che potessimo arrivare, ci mandò incontro degli ambasciatori, ci portò viveri e generi di prima necessità e in seguito ci mise a disposizione la sua intera flotta per traghettarci fino in Asia Minore. Il mio piano aveva funzionato, non dovemmo nemmeno avvicinarci a Costantinopoli. Quel bastardo non avrebbe mai potuto mettere in pericolo la sua capitale. Purtroppo i problemi non finirono. Anche in Asia Minore i sovrani locali non onorarono i patti con noi, e ci fecero mancare gli aiuti promessi e gli approvvigionamenti che ci sarebbero stati necessari per la spedizione. Fu così che, con estrema fatica, attraversammo il Tauro per fermarci sulle sponde del fiume Göksu, in Cilicia. Era il 10 giugno del 1190, faceva un caldo torrido. L’esercito si accampò per fare scorta di acqua e prepararsi per la notte. Eravamo in viaggio da più di un anno.
Federico decise di concedersi un po’ di refrigerio e si spogliò per entrare in acqua, in un tratto dove il fiume creava una piccola ansa e gli sarebbe arrivata più o meno all’altezza dell’anca. Una volta entrato in acqua iniziò a sentirsi male e un istante dopo morì. Fu uno shock per tutti. Suo figlio Federico VI prese il comando, ma l’esercito, senza il suo Imperatore e stremato dalla fame e dalle lunghe marce, finì per ritrovarsi nel caos. Ci furono moltissime diserzioni. Quando i turchi lo vennero a sapere, iniziarono a compiere numerosissimi piccoli raid che, pur senza avere un effetto troppo distruttivo sulle nostre truppe, lo ebbero sul nostro morale. Eravamo isolati in un territorio ostile, senza alleati, né cibo, senza il nostro Imperatore e i turchi si stavano preparando a ucciderci tutti. Dopo la morte di Federico, gli uomini volevano tornare a casa, e anch’io. Ci fu subito chiaro che il figlio non era all’altezza del compito. Il cadavere di suo padre lo ossessionava. Avrebbe voluto raggiungere Gerusalemme per far sì che fosse seppellito lì, ma il caldo opprimente dell’Asia Minore finì ben presto con il farlo marcire. Il nostro esercito malridotto si ritrovò così a marciare sotto la costante minaccia delle incursioni turche, senza viveri, con un generale inadatto e trascinandosi dietro il cadavere in decomposizione di Barbarossa. Le defezioni furono tantissime. Durante quei giorni persino io mi chiesi cosa stessi facendo ancora in quel posto. Era evidente che saremmo andati incontro a una morte certa di quel passo. La crociata sarebbe fallita e la fede di Federico VI non sarebbe stata sufficiente per condurci alla vittoria. A Gerusalemme, il nostro esercito si sarebbe potuto riunire con quelli di Filippo II di Francia e di Riccardo Cuor di leone, e forse avremmo avuto qualche chance di vittoria, ma naturalmente questo lo sapevano anche i turchi e non ce l’avrebbero mai consentito. L’unica possibilità che avevamo di riunirci agli altri crociati sarebbe stata di muoverci in fretta, evitando le scaramucce e gli agguati e dirigendoci verso Gerusalemme a marce forzate, ma eravamo senza viveri in un territorio ostile, e il nostro condottiero sembrava preoccupato soprattutto della salma del padre. Dal momento che trasportarla stava diventando impossibile a causa del puzzo che emanava, la fece immergere nell’aceto, ma anche in questo modo la carne continuava a marcire. I nobili lo pregarono di seppellirlo lungo il cammino e alla fine Federico VI cedette e accettò di tumulare il padre nella chiesa di San Pietro ad Antiochia. Prima della sepoltura però fece togliere gli organi interni e le
ossa. Non ho mai saputo cosa ne avesse fatto degli organi ma sono sicuro che portò con sé le ossa almeno fino alla città di Tiro, dove ottenne che venissero poste sotto al pavimento della cattedrale. Se l’esercito che arrivò a Tiro era meno della metà di quello che era partito dalla Germania, gli uomini che arrivarono ad Acri non furono più di cinquemila. Io ero così esausto da reggermi a stento in piedi, e non sapevo nemmeno perché mi ostinassi a proseguire. Gli uomini avevano perso la fede assieme alla speranza. Consideravano la morte di Barbarossa una sorta di punizione divina e, dal canto loro, i musulmani ne erano galvanizzati e continuavano ad attaccarci giorno dopo giorno con rinnovato vigore. Federico VI si dispose ad assediare Acri, credendo nella sua arroganza che ci sarebbe riuscito. Cinquemila uomini. Solo uno ogni venti lo aveva seguito fino a lì. Gli altri erano morti o se n’erano ritornati a casa. Sapevo che non avremmo mai preso quella città. Non parlavo molto in quei giorni. Continuavo a cercare dei motivi per seguire quel giovane arrogante ma non ne trovavo più. All’inizio lo avevo seguito per rispetto nei confronti di suo padre, poi perché non mi andava di scappare, ma davanti alle mura di Acri capii che avevo sbagliato. Ormai era troppo tardi. Ero stremato e affamato, e non potevo andare da nessuna parte. Montammo le tende davanti alla città fortificata, aspettando di sapere dal nostro nuovo generale quale arguta tattica avrebbe utilizzato per portare cinquemila soldati malnutriti e stanchi oltre quelle mura, ma il destino avverso non aveva ancora terminato di riversare su di noi la sua sventura. Poche settimane dopo l’inizio dell’assedio, Federico si ammalò di peste e in breve tempo ne morì. Quando la voce della morte del figlio di Barbarossa si diffuse tra gli uomini, corsi nella sua tenda per accertarmi che fosse vero. Lo vidi: immobile, con il volto deformato dalla malattia che i suoi più stretti generali avevano tentato di tenere nascosta fino alla fine, e presi una decisione. Montai sul mio cavallo e me ne tornai indietro. Non cercai la compagnia di altri, ma dopo le prime ore di viaggio mi guardai attorno, accorgendomi di non essere solo. Mi ritrovai in un gruppetto di venti o trenta cavalieri.
Viaggiavamo in gruppo ma eravamo soli. Chiusi nel nostro dolore, nel senso di fallimento e, per molti, nello sconforto di sentirsi abbandonati da quel Dio per il quale avevano accettato di compiere la crociata. Cavalcammo per mesi e mesi, evitando le truppe turche per semplice fortuna, o perché gli uomini di Saladino preferivano concentrarsi sui crociati che continuavano a combattere piuttosto che su quelli che se ne stavano andando. Nemmeno i banditi ci infastidirono: forse perché eravamo armati, ma magari perché eravamo più poveri e affamati di loro. Fu un viaggio terribile. Alcuni di noi presero strade diverse e ci separammo. Dovemmo vendere armi e armature per mettere qualcosa sotto i denti, e molti di noi vendettero persino il cavallo finendo con il rimanere indietro. Io non arrivai a tanto. Ero abituato alla fame e avevo imparato nella mia vita di monaco che dopo alcuni giorni di digiuno il corpo si stabilizzava ed era possibile estraniarsi dal mondo all’interno dei propri pensieri, mentre il cavallo continuava a camminare verso casa. Dal caldo torrido dell’Impero bizantino al freddo inverno delle pianure serbe il viaggio fu terribile, ma in qualche modo riuscii a ritornare a casa. Era il 1193 ero stato via più di quattro anni. Arrivai al castello sdraiato su un carro trainato da un mulo. Non un gran modo di viaggiare per un Conte tedesco, ma il mio cavallo era morto da un pezzo e quando ero giunto all’interno dell’Impero ero ridotto così male da non essere riconosciuto da nessuno. Avevo continuato a procedere a piedi, febbricitante e indebolito dalla fame, fino a che non fui soccorso da un contadino che, riconosciute le mie insegne e gli stemmi araldici ormai lisi ricamati nelle mie vesti, mi chiese se io fossi il Conte di Hainaut. Alla mia risposta affermativa si offrì di trasportarmi sul suo carretto fino al castello, rendendo quegli ultimi chilometri inaspettatamente semplici. Al mio arrivo avevo perso i sensi. Quando mi svegliai mi dissero che avevo dormito per due giorni, e che avevo delirato dalla febbre. La servitù si era fatta in quattro per nutrirmi e accudirmi, mi avevano lavato, cambiato e tenuto al caldo. Dopo altri due giorni riuscii persino ad alzarmi e a camminare un po’. Mia moglie venne a trovarmi. Ricordo che pensai che per lei il tempo non sembrava trascorso: era bella come il primo giorno.
Non le raccontai cosa fosse successo. Non volevo ripercorrere le tappe di quella disavventura, non mi sentivo ancora pronto, forse le avrei parlato in seguito, quando il tempo mi avesse aiutato a lenire le mie sofferenze. I medici dissero che mi stavo riprendendo bene e che ero fuori pericolo. Mi raccomandarono di mangiare, di bere e di non affaticarmi e se ne andarono. Ero ritornato a casa. Ero vivo ed ero felice. Poi successe. Quel pomeriggio mi ero alzato. Era la prima volta che non mi girava la testa in posizione eretta, così avevo deciso che sarei uscito all’aperto e avrei fatto due passi nel cortile. Mi ero aggrappato a una sedia per non cadere, poi mi ero appoggiato a un muro, a una porta e alla fine ero uscito dalla stanza. Avevo male alle gambe ma camminavo abbastanza bene e, passo dopo passo, iniziai a sentirmi un po’ meglio. Giunsi all’esterno ma non andai oltre, un servo mi vide, mi corse incontro e mi sostenne per paura che cadessi. Io non caddi ma chiesi una sedia, lui me la portò e io rimasi lì per un’ora buona prima di sentire il desiderio di ritornare a letto. Vi ritornai con le mie gambe, senza sostenermi da nessuna parte, con la consapevolezza che l’indomani sarebbe andata meglio. Mi servirono la cena che consumai in camera, guardando il fuoco bruciare nel camino mentre il giorno lasciava il posto alle ombre della sera. Ricordo che mi addormentai, pensando che l’indomani avrei dovuto convocare il contadino che mi aveva riportato a casa con il carretto per farlo ricompensare, perché senza il suo intervento forse a quell’ora sarei morto. Non sentii nessun rumore, almeno all’inizio. Quello che mi svegliò fu una mano premuta con forza sulla bocca. Spalancai gli occhi ma non riuscii a vedere molto: solo un’ombra indistinta che il fuoco del camino, ormai ridotto a poche braci, non riusciva a illuminare. Cercai di levarmi di dosso quella mano e in quel preciso momento una lama mi trafisse il cuore. Ricordo il dolore acuto e la sensazione di caldo per il sangue lungo il fianco. Lui estrasse la lama dal mio petto e mi colpì di nuovo. Lo fece molte volte ma solo la prima fu davvero dolorosa, percepii le altre come in un sogno, mentre la mia coscienza abbandonava quel corpo esanime che tentava invano di gridare al mondo il suo dolore, mentre una mano sulla bocca glielo impediva.
Ci fu un lungo attimo d’incoscienza poi ripresi i sensi. Ero disorientato e scosso. Ci misi un po’ per capire dove fossi, poi mi guardai attorno, lasciando che i miei occhi si abituassero all’oscurità. Mi sentivo le mani calde e bagnate, le guardai. In una stringevo un coltello, l’altra era premuta sulla bocca di un uomo ormai morto. L’odore di sangue riempiva la stanza.
1193 D.C. – IL SICARIO La sensazione di nausea fu immediata, ma cercai di resistere. Dovevo pensare. Il terrore che mi aveva assalito quando mi ero ritrovato una lama nel cuore non mi aveva abbandonato nemmeno dopo il passaggio nell’altro corpo. In fondo ero ancora in pericolo. Mi alzai tentando di stare in equilibrio sulle nuove gambe, ma finii per muovermi in modo goffo. Cos’era successo? Avevo bisogno di riflettere ma lontano da lì. Se mi avessero trovato in quella stanza, sarei stato subito giustiziato. Mi spostai verso la porta, facendo cadere una sedia. Era buio, non sapevo nemmeno quanto fossi alto e camminavo come se non riuscissi a trovare l’equilibrio. Quando aprii la porta qualcuno mi sentì. «Chi va là? Signore, siete voi?» urlò una guardia. Io non risposi e corsi nella direzione opposta, cercando di non fare rumore. Non sapevo nemmeno chi fossi ma conoscevo quel palazzo e sapevo esattamente dove andare. Andai verso la scala di servizio e scesi nel cortile. In quel preciso momento sentii un grido provenire dalla stanza del Conte. Qualcuno aveva trovato il cadavere. A quel grido ne seguirono altri, poi si accesero le torce. Presto il castello sarebbe stato in piena attività e tutti mi avrebbero dato la caccia. Di notte le porte esterne erano chiuse, e nessuno poteva entrare o uscire ma avevo un’idea di come fuggire. Mi diressi verso quella parte delle mura interessata dal lavoro di ampliamento che aveva iniziato il vescovo. Dovevo fare in fretta, alle mie spalle le trombe stavano richiamando gli uomini dalle camerate. Raggiunsi un’impalcatura e la sfruttai per scendere oltre il muro, poi iniziai a correre senza nemmeno fare caso alla direzione che avevo preso. Corsi fino a rimanere senza fiato, poi camminai e appena il cuore smise di martellarmi nel petto ripresi a correre. Avrebbero rivoltato il castello per trovarmi e, non appena fosse sorto il sole, avrebbero mandato fuori dalle mura dei cavalieri per proseguire le ricerche. Dovevo allontanarmi il più possibile.
Mi fermai vicino a un corso d’acqua quando il sole era già sorto. Tremavo. Perché mi aveva accoltellato? Di chi era questo corpo e perché voleva la mia morte? Mi guardai le mani: grandi e tozze, con unghie sporche e corte. Era un corpo massiccio, cosce grosse, ventre abbondante, vestito come un qualsiasi vagabondo; stringevo ancora il coltello nella mano destra insanguinata. Dovevo lavarmi, così immersi le mani nell’acqua e le sfregai fino a togliere ogni traccia di sangue, poi sfregai le macchie sulla veste e alla fine mi lavai il viso. Avevo una folta barba nera che mi ricopriva la faccia. Mi specchiai in quel corso d’acqua e vidi un volto che non avevo mai visto prima. «Chi è quest’uomo e perché mi ha ucciso?» domandai al riflesso sull’acqua. Non avevo nemici, non dentro il mio palazzo perlomeno. Iniziai a toccarmi alla ricerca di qualcosa che potesse servire a identificarmi ma non portavo niente con me, tranne quel coltello e una piccola borsa di stoffa con all’interno otto monete d’argento. Terminata quella pausa, ripulii il coltello arrugginito, lo nascosi nella veste e ricominciai a muovermi. Dovevo riflettere. Per prima cosa dovevo allontanarmi il più possibile da Hainaut. Non sapevo nemmeno il mio nome ma qualcuno avrebbe potuto riconoscermi e volevo evitare di mettermi in situazioni spiacevoli. Mi persuasi che qualcuno avesse ingaggiato quest’uomo per uccidermi, e che quelle monete fossero un anticipo per il lavoro; ma chi? E perché? A quell’ora probabilmente qualcuno mi aspettava per darmi il resto della somma pattuita, ma non potevo sapere chi, né dove, né quando. Continuai a camminare, chiedendomi chi mai avrebbe potuto avere interesse per la mia morte, ma non mi diedi nessuna risposta. Non avevo eredi. Alla mia morte il feudo sarebbe ritornato ai duchi di Aremberg che lo avrebbero assegnato a qualche altro loro vassallo. Mia moglie sarebbe stata sistemata in qualche palazzo di loro proprietà o in un convento e sarebbe stata dimenticata, di tutti i miei servi solo alcuni sarebbero rimasti, mentre la maggior parte sarebbe stata sostituita. Nemmeno i miei contadini ci avrebbero guadagnato nulla dalla mia morte. Non riuscivo a capire. Camminai ancora, tormentato dal dubbio. Spremendo invano il mio nuovo cervello alla ricerca di alcune delle informazioni in esso contenute ma senza esito. Come mi chiamavo? Chi ero? Perché ero giunto fin lì?
Decisi che avrei dovuto scegliere da me quale fosse la mia storia per poterla raccontare al momento giusto. Dopo due giorni di marcia iniziai ad avere fame e sonno. Fui grato del fatto che quel corpo fosse molto robusto. Mi fermai nel primo villaggio che incrociai. Non sapevo dove fossi ma ritenevo di avere messo abbastanza strada tra me e il castello di Hainaut. Spesi una delle mie otto monete per due ciotole di zuppa e una brocca di birra in una locanda, poi mi addormentai sul tavolo. Quando mi svegliarono, uscii e iniziai a chiedere in giro se qualcuno avesse bisogno di un bracciante. A causa della crociata, molti uomini erano partiti a seguito dei nobili come scudieri, servi o solo per assecondare un certo senso di avventura. Di questi, ben pochi avevano fatto ritorno, quindi per un uomo robusto che aveva voglia di lavorare, c’era la possibilità di rendersi utile in cambio di un pasto caldo e un posto per dormire. Feci per un po’ l’aiuto maniscalco poi aiutai nei campi. A chi me lo chiedeva, dissi che ero ritornato dalla crociata e stavo tornando a casa, senza specificare dove. Molti mi chiesero se avessi conosciuto il loro figlio o il loro marito, e rispondevo di no ma che forse avrebbe fatto ritorno presto. Trascorsi in questo modo alcuni mesi. Lavorando dove capitava, dormendo un po’ ovunque e continuando a spostarmi per la paura che da Hainaut qualcuno fosse sulle mie tracce. In un villaggio nei pressi di Colonia, trovai una vedova che aveva perso due figli nella crociata e che mi prese a lavorare con lei. Per circa due mesi l’aiutai nei campi, facendo quei lavori di fatica che lei non riusciva più a svolgere a causa dell’artrite e del suo fisico minuto. Non aveva soldi con cui pagarmi, ma mi consentì di dormire sul pavimento dentro casa e mi diede due pasti al giorno che era molto più di quanto mi avessero offerto fino ad allora. Iniziai a riflettere su cosa poter fare. La priorità fino a quel momento era stata sopravvivere, ma ora dovevo trovare un corpo nuovo in cui vivere. Non avevo nessuna intenzione di finire i miei giorni come un mendicante. Dovevo ragionare. Purtroppo nelle campagne tedesche non c’erano molte possibilità di incrociare qualcuno che avesse una vita migliore della mia. Perlopiù vedevo solo servi della gleba che si spaccavano la schiena nei campi per arricchire un signore che in molti non avevano nemmeno mai visto.
Ero depresso, non vedevo via d’uscita. Potevo partire, ma per andare dove? Non sapevo nemmeno dove fossi con esattezza. Una mattina, la mia nuova padrona mi disse che tra poco a Colonia si sarebbe tenuto un grande torneo. Cavalieri si sarebbero radunati in città da ogni dove, e questo le avrebbe dato l’opportunità di guadagnare qualche moneta vendendo fette di torta. Aveva utilizzato tutti i suoi pochi risparmi per acquistare del miele con cui intendeva farcire una torta fatta con le carote del suo orto. Durante la sera iniziò la preparazione, che durò per un paio d’ore. Ottenuto l’impasto, lo mise dentro a una casseruola di coccio che poi chiuse con un coperchio. La mise a cuocere sul piano del camino, dal momento che non possedeva un vero e proprio forno, rigirandola in continuazione fino a quando quella stanza buia si riempì di un profumo invitante. La mattina seguente si svegliò prima dell’alba e mi chiese se volessi andare con lei. Ci incamminammo prima del sorgere del sole, e arrivammo a Colonia dopo un paio d’ore. Le porte della città erano aperte e le guardie consentivano l’ingresso a decine di contadini come noi che avrebbero tentato di vendere qualcosa per racimolare qualche soldo. Tutto era addobbato a festa. Ovunque, gli stemmi araldici dell’arcivescovo che governava la città decoravano le facciate di mattoni delle case. C’era tantissima gente che andava e veniva: soprattutto a piedi ma anche con asini, o carretti trainati da buoi, lungo le strade lastricate di pietra. La vecchia mi condusse nella piazza principale, che era stata recintata per consentire ai cavalieri di gareggiare tra loro senza la scocciatura dei popolani. Vidi persino dei giocolieri e dei cantastorie farsi strada in quella moltitudine. La vecchia scelse un posto di suo gradimento e sistemò a terra una vecchia coperta. Su di essa collocò la casseruola con la torta che nel frattempo aveva tagliato in fette tutte uguali. «Puoi farti un giro, se vuoi» disse. «Posso arrangiarmi da sola qui.» Poi iniziò a declamare a gran voce che la sua torta era buonissima e che chi ne avesse voluta una fetta avrebbe dovuto farsi avanti, iniziando a ignorarmi. Presi nota mentalmente della sua posizione e iniziai a fare due passi, guardandomi intorno. Non sarebbe stato facile per noi popolani vedere qualcosa: l’area del torneo era delimitata da una palizzata entro la quale non eravamo ammessi. Gli unici che avrebbero visto lo spettacolo, a eccezione dei cavalieri, dei nobili e delle dame, sarebbero stati i
ragazzini che si erano arrampicati sugli alberi o sulle mura lì vicino, e che nessuno sembrava avere intenzione di scacciare. “Buon per loro” pensai, non avendo nessuna intenzione di fare lo stesso. Mi aggirai nei dintorni, curiosando tra i mille banchetti improvvisati. Avevo ancora quasi tutte le monete d’argento che avevo preso assieme a quel corpo, ma non potevo certo permettermi di spenderle. Osservai venditori di caldarroste, di torte, di pani e focacce e infine mi concessi di spendere il mio tempo ascoltando un cantastorie declamare le gesta del grande Federico Barbarossa durante l’ultima crociata. Quel tale stava inventando di sana pianta o perlomeno riferiva gli aneddoti di qualche soldato piuttosto fantasioso. Nulla di ciò che raccontò corrispondeva al vero, al punto che mi sarebbe piaciuto interromperlo e dirgli: “No amico, non è andata cosi! Io c’ero!”, ma non era il caso. Chissà che faccia avrebbero fatto tutti questi bifolchi se avessero saputo che io l’avevo persino conosciuto il Barbarossa. Quando il racconto stava per giungere alla fine – o almeno così immaginai perché eravamo arrivati al punto in cui il sovrano si concedeva un bagno nel fiume Göksu per lavarsi di dosso il sangue dei nemici che aveva appena ucciso – la gente rumoreggiò e si voltò per guardare un gruppo di nobili che stava entrando in città. Guardai anch’io e vidi alcune persone che non riconobbi, poi, dietro di loro il vescovo di Hainaut, che in un’altra vita avevo chiamato padre, teneva sotto braccio sua genera, la donna che fino a sei mesi prima era stata mia moglie: Christabel. Vedendoli il cuore mi si fermò nel petto. Avrei voluto correr loro incontro e urlare che ero io: Elard, che non ero morto, che ero prigioniero in questo corpo ma volevo tornare a casa con loro. Sapevo che non avrei fatto nulla di tutto questo. Era impossibile che mi credessero e mi sarei solo guadagnato qualche frustata. Continuai a seguirli con lo sguardo. Lui l’aiutò a salire un gradino e… Guardai meglio, potevo essermi sbagliato. Mi feci largo tra le persone che attorniavano il cantastorie e tentai di avvicinarmi un po’ per osservarla meglio. Lei si girò nella mia direzione, forse perché si sentiva osservata o per una semplice coincidenza, fu un attimo, ma quando mi guardò fui quasi sicuro che mi avesse riconosciuto. Un secondo dopo proseguì. Avevo visto quello che avevo bisogno di vedere e mi aveva lasciato senza parole. Era incinta.
La fine del racconto del cantastorie non m’interessava più. Iniziai a camminare riflettendo su ciò che avevo visto. Era possibile che avesse già un nuovo marito? No. Era passato troppo poco tempo. Portava ancora abiti a lutto, per la tradizione non avrebbe potuto risposarsi ancora per un altro anno, eppure ero sicuro di non essermi sbagliato, come avrei potuto del resto? Quella pancia era almeno di otto o forse nove mesi… mi bloccai. Da quanto mi trovavo in questo corpo? Iniziai a contare sulle dita, ero appena ritornato dalla crociata. Non potevano esserne passati più di sei. Questo significava che era già incinta quando ero ritornato dall’Oriente. Doveva essersi fatta un amante in mia assenza, ma chi? Quando l’indignazione per il tradimento sgombrò la mia mente, iniziai a guardare agli ultimi avvenimenti da un differente punto di vista: se quando ero ritornato lei era già consapevole di essere incinta, forse allora era stata proprio lei a mandare quel sicario; oppure il suo amante. Finalmente qualcuno aveva un movente per il mio omicidio. D’altro canto, se fossi sopravvissuto, avrei di certo saputo che quel bimbo non era mio e le conseguenze per lei sarebbero state spiacevoli, come minimo l’avrei ripudiata e, se avessi preso lui, lo avrei fatto impiccare. Ne ero sicuro. Forse lei sperava che non sarei mai tornato e, vistomi rincasare, anche se in quello stato, le era preso il panico e aveva premeditato la mia uccisione. Decisi di appostarmi da qualche parte per osservarla meglio. Volevo vedere se parlava con qualcuno, così da capire se ci fosse anche il suo amante. Mi spostai e andai ad arrampicarmi su uno dei muraglioni della città. Quel corpo non era adatto a una cosa simile e mi dovetti far aiutare da un paio di ragazzini per riuscire a sedermi su una delle merlature. Attesi per più di un’ora l’inizio del torneo, e su quel muro si era radunata una discreta folla. Dopo uno squillo di tromba, l’araldo presentò i cavalieri che si sarebbero sfidati nella mischia. Declamò i loro nomi uno per uno e li fece schierare dentro la piazza principale all’interno dello steccato. Spiegò le regole, ossia non colpire un avversario a terra e a cercare di non affondare troppo i colpi, e li divise in due gruppi: i primi avrebbero impersonato i ribelli lombardi, i secondi gli uomini al seguito di Barbarossa nell’ultima delle sue spedizioni in Italia. La mischia iniziò subito dopo. I cavalieri conversero verso il centro e se le diedero di santa ragione, tra gli applausi e gli incitamenti del pubblico.
Nelle mischie, le armi erano spuntate e senza filo ma pur sempre di ferro e non era raro che ci fossero feriti o qualche morto. Una volta caduti a terra, non ci si poteva rialzare e si doveva abbandonare il campo di battaglia. Non guardai lo scontro, se non nei brevi momenti nei quali le urla dei tifosi attiravano la mia attenzione, altrimenti catturata da Christabel. Sembrava divertirsi molto, anche troppo per una nobildonna in lutto che avrebbe dovuto mostrare un contegno maggiore. A parte questo non notai nulla di strano, il suo amante non era tra loro. Le truppe di Barbarossa vinsero lo scontro contro i ribelli italici, i contusi e gli svenuti furono portati via, e a quelli erano rimasti in piedi fu assegnato un ricco premio in denaro. Christabel applaudì divertita. Dopo la mischia ci fu un intermezzo con dei giocolieri, e subito dopo fu allestito il campo per la giostra: una recente innovazione nei tornei cavallereschi e solo da poco aveva iniziato a prendere piede, tanto è vero che solo alcuni dei cavalieri vi presero parte. La giostra consisteva in uno scontro tra due cavalieri armati di lancia, che galoppavano in direzioni opposte sui due lati di una staccionata, tentando di disarcionarsi a vicenda. Vinceva quello che restava in piedi. Vi parteciparono solo sei cavalieri, che quindi furono divisi in tre gruppi di due che giostrarono per meno di un’ora. Quando il torneo terminò, i nobili si riunirono a palazzo per un rinfresco. Christabel osservò il suo lutto e ritornò a casa con il vescovo che, prima di partire, abbracciò con calore l’arcivescovo di Colonia che lo aveva invitato. «Chi è quella?» chiesi, fingendo di non riconoscere mia moglie. «La signora incinta?» rispose un ragazzo che aveva l’aria di saperla lunga. «Proprio lei.» «È la contessa di Hainaut, si chiama Christina o qualcosa del genere…» replicò. «Quella il cui marito è stato ucciso?» domandai. «Allora il figlio di chi è?» «Come di chi è? Del Conte! Prima l’ha messa incinta, poi è morto! Lo sanno tutti.» Lo sanno tutti. Dunque era questo quello che si diceva. Lei è rimasta incinta prima della mia morte.
D’altro canto, perché no? Sembrava la soluzione più ovvia. E a palazzo cosa avrà raccontato? Io sono stato via per tre anni… Deve avere detto che lo abbiamo concepito mentre ero ancora debilitato per la lunga marcia fino a casa. Forse ha sostenuto che le ero mancato al punto di non poter resistere. I conti non tornavano, la sua pancia non era di sei mesi, ma almeno di otto. Come poteva il vescovo non essersene accorto? “Quando il bambino nascerà, qualcuno dovrà pur contare i mesi e accorgersi che il padre non sono io? No…”, pensai. “Nessuno lo farà. A nessuno di loro converrebbe uno scandalo”. Dopo la morte di un Conte senza eredi, il feudo torna nella disponibilità del suo signore, nel mio caso il Duca d’Aremberg, che lo assegna a un altro nobile di sua fiducia, ma questo a Hainaut non era successo. Christabel e il vescovo erano ancora lì. Il bambino che lei portava in grembo li aveva salvati: il figlio del Conte. L’erede della contea era stato concepito quindi aveva dei diritti su quelle terre. Probabilmente al Duca erano state riferite delle date imprecise e altrettanto imprecisi saranno nel comunicargli la data di nascita del piccolo così nessuno obbietterà nulla e tutti saranno contenti: il vescovo, che potrà continuare ad accampare diritti sulle proprietà del cognato poi ereditate dal figlio, ora defunto, e soprattutto Christabel che resterà contessa di Hainaut fino alla maggiore età del nascituro, e poi continuerà a fare la nobildonna. Se io fossi sopravvissuto, per lei e il bastardo che porta in grembo non sarebbe stato affatto facile. Era stata lei a mandare il sicario, ne ero sicuro. In quel momento decisi di ucciderla. Tornai indietro, immerso nei miei pensieri. Non sapevo come fare, ma almeno sapevo dove andare per provarci: Hainaut. Quando la donna per cui lavoravo mi vide con la testa fra le nuvole, mi gridò di darmi una mossa e riportarle indietro il carretto. Lo presi con me e mi avviai verso casa sua. Era visibilmente contenta della giornata, pensai che avesse venduto tutte le fette di torta e che ne avesse ricavato quanto previsto ma non glielo chiesi. Avevo altro a cui pensare. Una volta arrivati, le dissi che avevo intenzione di ripartire. Ci rimase male. Il mio aiuto le serviva ma sapeva che prima o poi sarebbe successo, quindi non tentò di dissuadermi. Chiesi il permesso di dormire da lei per quell’ultima notte e lei me lo accordò: «Certo che
dormirai qui! Non vorrai mica che ti lasci in mezzo a una strada dopo che hai lavorato per me per tutto questo tempo!» Il mattino seguente si svegliò prima di me, e quando aprii gli occhi mi diede un fazzoletto con del pane nero, alcune carote e una fetta di torta. «È per il viaggio» mi spiegò. «Se tornerai da queste parti torna a salutarmi, intesi?» Ringraziai e partii, quel cibo si sarebbe rivelato davvero utile. Giunsi a Hainaut alcuni giorni dopo. Mi dovetti fermare lungo la strada e, dal momento che non mi sentivo inseguito, la via del ritorno divenne più lunga di quella dell’andata. A Hainaut alloggiai in una locanda, ma solo per una notte. Il mio argento non mi consentiva di rimanere più a lungo, quindi iniziai a cercare un lavoro. Per mia fortuna, la stessa crociata che aveva strappato molti uomini alle loro mogli a Colonia, aveva riservato lo stesso trattamento a tanti che risiedevano a Hainaut, quindi trovare di che sopravvivere non si rivelò troppo complicato. Finii a lavorare per un vecchio fuori città che nella crociata aveva perso molti dei figli maschi, partiti come servi proprio al mio servizio, senza più fare ritorno. In casa aveva un piccolo lanificio dove lavoravamo in sette: oltre a lui e a sua moglie, c’eravamo io, i suoi due figli maschi superstiti e due figlie femmine. Gli affari andavano bene e nel periodo successivo alla tosatura cercava sempre qualche aiutante per la bottega. Una volta scaricati i sacchi di lana, il lavoro consisteva nella districatura, nella cardatura e filatura. I rocchetti ottenuti dovevano essere pronti in tempo per la fiera della lana di Hainaut, dove sarebbero stati venduti a qualche tintore che li avrebbe colorati e trasformati in vestiti. Avevo vissuto in una famiglia di produttori di tappeti molti anni prima, ma non mi ero mai particolarmente interessato a come si trasformasse il vello di una pecora in un morbido filo bianco. La lana andava per prima cosa battuta, per liberarla dai corpi estranei e dalle impurità, poi veniva cardata, ovvero sfregata tra due assicelle di legno irte di chiodi fino a rendere le fibre soffici e leggere. Solo a quel punto queste venivano arrotolate fino a formare dei fili, perlopiù dalle due donne di casa.
Lavorai con loro per quasi due mesi, in cambio di un pasto caldo e la possibilità di dormire accanto al fuoco. La casa consisteva di un’unica stanza al pianterreno, i posti vicino al camino erano assegnati in un rigido ordine gerarchico: i più vicini alle braci erano per il padrone e la moglie, poi venivano i maschi, le femmine e quindi io che mi ritagliai uno spazio nell’angolo tra due muri, a ridosso dei sacchi di lana grezza. Durante i giorni che passai sotto il loro tetto, pensai molto alla contessa di Hainaut e come fare per avvicinarmi a lei, ma non la rividi più. In verità uscii pochissimo di casa, solo per soddisfare qualche bisogno fisiologico e poco più. Il lavoro era molto e non avevo tempo libero da dedicare ad altro. Nei giorni precedenti alla fiera terminammo di lavorare tutta la lana che il padrone aveva comprato, poi aiutai gli altri a riempire i sacchi con i rocchetti di filo e li caricai sul carretto che i suoi figli avrebbero portato in città per la fiera. Il mio lavoro sarebbe finito lì. Non avevano bisogno di me per vendere i fili, e fino alla prossima tosatura non avrebbero necessitato di due braccia in più. Decisi di seguirli. Dovevo comunque andare a Hainaut e la fiera sarebbe stata un ottimo posto dove tentare un agguato alla mia ex moglie. Arrivammo prima dell’alba, per avere modo di scegliere uno dei posti migliori dove sistemare la merce. Accompagnai il padrone fino a un angolo della piazza principale, vicino alla chiesa del castello nella quale si sarebbe celebrata la messa che avrebbe sancito l’inizio degli otto giorni di fiera, e che sarebbe terminata con una seconda e ultima messa. A quel punto, mentre commercianti e popolani se ne ritornavano a casa, il Conte avrebbe allestito un banchetto per i nobili, pertanto, i loro festeggiamenti avrebbero proseguito per un giorno in più. Salutai il padrone e i suoi figli, e m’incamminai per le vie del paese, osservando i vari venditori sistemare le mercanzie in attesa della benedizione del vescovo che sarebbe seguita alla messa. Speravo d’incontrare Christabel in chiesa ma non venne. Era del tutto inconsueto che la figlia del vescovo, nonché Contessa di Hainaut non presenziasse alla messa d’inaugurazione della fiera della lana, ma tant’è. La messa terminò e i nobili iniziarono a curiosare tra i venditori prima di ritornare al castello dove avrebbero trovato un rinfresco e si sarebbero persi in lunghissime chiacchiere di caccia o politica.
Avrei voluto chiedere notizie di Christabel ma non lo feci. Mi venne in mente che – con la mia incredibile sfortuna – magari quel giorno era proprio in procinto di partorire, e quindi non sarebbe stata presente alla fiera. Non mi era rimasto molto argento, solo due monete delle sei che avevo trovato addosso a quel corpo. Le dovetti spendere entrambe nei giorni seguenti per mangiare, poiché non avrei trovato un lavoro durante la fiera e non osavo andarmene senza aver portato a termine la missione. Christabel comparve dopo tre giorni. La vidi per un attimo tra la folla, la riconobbi e la seguii. Tentai anche di avvicinarmi, ma era circondata dalle sue damigelle e dalle guardie, tanto che non avrei avuto nessuna chance di ucciderla senza essere bloccato da loro. Non restò molto, fece un breve giro tra le bancarelle senza soffermarsi su alcuna, non parlò con nessuno, passeggiò per un po’ e ritornò indietro. Avevo indovinato la mia previsione: non era più incinta, doveva aver partorito nei giorni scorsi. Non la vidi più e questo, giorno dopo giorno, mi gettò nello sconforto. Iniziai a pensare che forse sarebbe stata presente alla messa finale, ma ucciderla in quella sede sarebbe stato impossibile come lo era stato in precedenza. Ero davvero triste e arrabbiato. Ero intrappolato in un corpo senza nome, avevo perso il mio potere e il mio titolo. Volevo ucciderla e la consapevolezza che non ci sarei riuscito mi deprimeva. Avrei aspettato la fine della fiera, poi me ne sarei andato da qualche parte e avrei lavorato per vivere, concentrandomi sul prossimo corpo da rubare. Perso in queste considerazioni, intravidi tra quella moltitudine una ragazzina che lì per lì mi sembrò familiare, tanto da attirare la mia attenzione. Non ricordavo chi fosse ma decisi di seguirla mentre ci pensavo. Era pomeriggio, il sole sarebbe tramontato di lì a poco. Lei passeggiava leggera, nel suo vestitino pulito soffermandosi incantata a guardare i venditori, in particolare quelli che le proponevano dolci o altre leccornie strane. Era una ragazzina come tante altre, avrà avuto sì e no quindici anni, eppure non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Quando decise di acquistare un dolcetto e se lo portò alla bocca, non come avrebbe fatto una qualsiasi contadinella, ma con una certa grazia e mettendo la mano sinistra sotto il mento per trattenere eventuali gocce che avrebbero potuto macchiarle il vestito, ricordai: era una delle damigelle di Christabel.
Mi venne un’idea. Mi avvicinai per non perderla d’occhio. Lei si spostò per mangiare il dolcetto in tranquillità e io la seguii. Temetti che ritornasse a palazzo senza darmi la possibilità di fare quello che volevo e in effetti poco dopo prese la via del ritorno. Per mia fortuna, un giocoliere poco più avanti iniziò ad arringare la folla, chiedendo a tutti di guardare con attenzione cosa avrebbe fatto. Lei gli si avvicinò ma, in virtù della sua piccola statura rimase dietro la barriera umana che si era formata attorno a lui, tanto da riuscire a vedere qualcosa solo mettendosi in punta di piedi e solo quando gli uomini davanti a lei si aprivano quel tanto da consentirle una sbirciatina. Io mi guardai attorno, consapevole del pericolo a cui mi stavo esponendo. Era pieno di gente ma tutti sembravano guardare verso il giocoliere, che nel frattempo aveva cominciato a lanciare in aria delle palline. Senza pensarci troppo mi misi dietro di lei, diedi un ultimo sguardo attorno e con uno scatto le tappai la bocca con la mano destra, e con la sinistra le cinsi le spalle per trascinarla via. Indietreggiai per qualche metro, poi m’infilai in un vicolo e lo percorsi fino alla fine. Quel vicolo terminava in una specie di cortile. Svoltai l’angolo e mi ci nascosi dietro, la ragazza era svenuta: forse per lo shock, forse perché con la destra avevo premuto troppo. Non aveva nessuna importanza. La appoggiai contro il muro, mi guardai attorno per assicurarmi che non mi avesse seguito nessuno e quindi tirai fuori il coltello con cui era stato ucciso il Conte. Tenendo la mano della ragazza me lo avvicinai al petto e spinsi per trafiggermi il cuore. Esitai. Sapevo che mi sarei risvegliato in lei ma mi mancava comunque il coraggio di affondare la lama. Non potevo rischiare che si svegliasse, avrebbe potuto urlare e i miei piani sarebbero falliti. Tentai di nuovo ma riuscii solo a ferirmi, prima che la mia mano si paralizzasse. Impiccarmi o bere il veleno era stato molto più facile. In quel momento lei aprì gli occhi. La situazione mi stava sfuggendo di mano. Dovevo assolutamente agire. Mi guardò, percepii un senso d’incredulità che subito divenne panico. Non potevo esitare ancora, avrebbe urlato. Continuai a stringere la sua mano nella mia e mi gettai di lato, badando bene di continuare a mantenere la punta del coltello appoggiata contro il petto.
Prima di arrivare a terra ritrassi istintivamente la testa all’indietro per evitare di sbattere la faccia. Ma un attimo dopo, il pugnale che continuavo a tenere puntato su di me, trapassò il mio cuore da parte a parte uccidendomi sul colpo. Fine anteprima. Continua…
INDICE 1173 d.C. – L’ambasciatore ............................................................ 7 1193 d.C. – Il sicario ..................................................................... 32 1194 d.C. – La damigella ...... Errore. Il segnalibro non è definito. 1214 d.C. – Il generale .......... Errore. Il segnalibro non è definito. 1249 d.C. – Il cavaliere ......... Errore. Il segnalibro non è definito. 1296 d.C. – Il bandito ........... Errore. Il segnalibro non è definito. 1347 d.C. – Il medico ............ Errore. Il segnalibro non è definito. 1409 d.C. – Il frate ................ Errore. Il segnalibro non è definito. Nota dell’autore .................... Errore. Il segnalibro non è definito.