In uscita il 27/10/2023 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2023 (4,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
ARNALDO MANUELE PELLE AL NEON ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ PELLE AL NEON Copyright © 2023 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-630-8 Copertina, Immagine proposta da: Autore Prima edizione Ottobre 2023
PELLE AL NEON Continuava a guardarsi le mani, il tremito si era acquietato, e ora le poteva osservare meglio, sembravano invecchiate, gli strumenti assoluti del suo fare vita e dare morte, davano segni di stanchezza. Strane efelidi avevano chiazzato il dorso, come se l’effetto della luce, con il tempo, ne avesse alterato l’aspetto, producendo macchioline irregolari distribuite, senza senso della geometria, sull’epidermide. Il palmo appariva più ruvido, quella che era stata delicata superficie, segnata da molte linee intersecanti, si era ispessita e aveva il tatto di un pezzo di cuoio. Provò a muovere le dita, sporche di sangue, terminali del fluire della sua energia, ancora una volta rispondevano bene ai richiami del cervello, con quella strana capacità di anticipare il pensiero producendo movimenti autonomi, eppure le trovava invecchiate. Sentì il bisogno irresistibile di metterle sotto il rubinetto, insaponarle a lungo, e lasciare che la schiuma si arricchisse di bolle. Mentre l’acqua si tingeva di rosso diluendo le macchie, provava una sensazione di enorme piacere, come se insieme allo sporco, scivolasse via, con il cupo gorgoglio dello scarico, anche la tensione accumulata durante il giorno. Infine, raccolse il rasoio e lo lavò accuratamente fino a quando la lama tornò a brillare, recuperando i riflessi argentei e il suo aspetto immacolato, lo piegò e lo ripose in tasca. Si guardò allo specchio, i suoi lineamenti si erano finalmente rilassati, quella ruga efferata che increspava la bocca, attraversando le labbra sottili, era scomparsa, e anche gli occhi avevano assunto il loro colore normale, perdendo quello strano, crudele scintillio. Si scosse dal torpore ipnotico che lo specchio suscitava e si guardò attorno, riconosceva appena la stanza in cui si trovava. Poi vide la pozza per terra allargarsi sulle piastrelle lucide, ne seguì la configurazione e vide il corpo. Il liquido denso scivolava lentamente assecondando la minima pendenza. Aveva smesso di sussultare, ma aveva ancora gli occhi aperti, lo stupore della morte, aveva ceduto il posto alla rassegnazione dell’ultimo respiro. La sua pelle era diventata
ancora più bianca, di un candore fluorescente come una pelle al neon. Si sforzò di ricordarne il nome, il timbro della voce, il sorriso, ma il suo cervello aveva azionato il tasto del cancellare, e nulla era rimasto impresso nel suo recentissimo archivio. Uscì dalla stanza evitando, con un salto, di sporcarsi, ed entrò nel soggiorno, in sottofondo il giradischi continuava a diffondere la Dance of the Knights, si avvicinò, e rimase ad ascoltarlo fino alla fine, poi sollevò il braccio del giradischi e lo rimise a posto. Si guardò attorno per ricordare tutti gli oggetti che aveva toccato e verificare di averli già puliti dalle impronte che poteva aver lasciato, a cominciare dai portaritratti che aveva toccato più volte. Poi guardò a terra e sfilò la vecchia fotografia tra il vetro rotto e la cornice e se la mise in tasca, infine, dopo un’ultima occhiata a tutti gli oggetti disposti sulla tavola, si ricordò del libro e cominciò a cercarlo negli scaffali, c'erano davvero molti libri “almeno un migliaio” pensò, ma continuò a cercare con ostinazione. Per una decina di minuti i suoi occhi continuarono a scrutare i dorsi dei volumi alla ricerca del titolo, sperava fossero disposti per argomento, per autore, per casa editrice, ma non c'era un ordine logico, i libri erano disposti a caso, forse secondo l'ordine casuale con cui l'anziana professoressa li leggeva e poi li riponeva, ispirata da improvvise sollecitazioni “Li avrà letti tante volte...”pensò e per un attimo, la immaginò, immersa nella sua abituale solitudine, seduta sulla poltrona, a leggere. Stava per rinunciare, poi ebbe un'improvvisa intuizione ed entrò nella camera da letto, si guardò attorno, e vide sul comodino una pila di libri, si avvicinò e finalmente lo riconobbe, lo sfilò con delicatezza e cominciò a sfogliarlo, sulla seconda di copertina c'era appuntata, a penna stilografica, in uno sfumato color azzurro, la data in cui aveva cominciato a leggerlo: 28 marzo 1956. Aveva davvero voglia di leggerlo! Lo mise in borsa, ora poteva andare. Aprì silenziosamente la porta, e con naturalezza la richiuse alle sue spalle. Scese le scale lentamente, senza furia, addirittura soffermandosi davanti alle porte ad ascoltare, con curiosità infantile, i rumori di vite private. Fuori pioveva ancora, l’asfalto, lucido come uno specchio, rifletteva le insegne, stingendo il blu e il rosso in sfumature cangianti. Rare macchine notturne schizzavano acqua infrangendo le pozzanghere e si allontanavano inseguite dalle scie rosse dei catarifrangenti. La città sprigionava liquida malinconia e una nebbia di solitudine cominciava a
impastare i contorni delle cose. Le gocce di pioggia cominciarono a infiltrarsi nel colletto della camicia, provò un brivido, fece un profondo respiro, alzò il bavero dell’impermeabile e si avviò, con il suo passo felpato ma deciso, lasciandosi inghiottire dalla città.
L’INGEGNERE FRANCESE Stava su quel tratto di marciapiedi da tre anni. Un'apparizione misteriosa e repentina della primavera del 1999. Presidiava quel punto con ostinazione, non si spostava nemmeno per lasciare passare la gente, il peso del suo corpo aveva lasciato lo stampo degli scarponi sul velo di asfalto. Solo quando vedeva passare l'ultima corsa della tranvia a mezzanotte, si scuoteva e si avviava verso i giardini della piazza adiacente. Si fermava al cassonetto della carta, sceglieva con attenzione i cartoni più asciutti e spessi, poi s’infilava tra le piante di alloro che racchiudevano la grande aiuola e si addormentava sul suo nuovo giaciglio. Ogni giorno per un migliaio di giorni aveva replicato i soliti gesti. Si svegliava allo stridere del primo convoglio mattutino, si lavava alla fontana, meticolosamente, senza curarsi del gelo invernale e della presenza delle persone che velocemente attraversavano la piazza a occhi bassi per non incontrare il suo sguardo. Lo conoscevano quasi tutti nel quartiere, l'ingegnere francese, lo chiamavano così ma nessuno ricordava con esattezza perché. I primi giorni aveva suscitato interesse la sua presenza improvvisa e persistente, vestito con trasandata eleganza, (uno dei tanti paradossi della sua vita), i lunghi capelli argentei, la barba fluente ma curata, gli occhi azzurri che osservavano con ostinazione i passanti e salutavano con discrezione. La gente sorpresa, le prime volte non rispondeva al saluto ma poi, percorso qualche metro si girava a osservarlo con aria interrogativa. Le signore arrossivano, equivocando l'eleganza del saluto e l'ostinata ricerca dello sguardo, come un gesto di galanteria. Dopo qualche giorno i più curiosi avevano cominciato a fermarsi per scambiare quattro chiacchiere e cercare di saperne di più, lui rispondeva in un italiano passabile, ma faceva progressi ogni giorno e il suo argomentare rifletteva personalità di rilievo e cultura. Ma quella figura enigmatica oltre che curiosità, suscitava un inconfessato disagio per il suo comportamento che sfuggiva a ogni logica e che poneva inquietanti interrogativi sui meccanismi della mente umana. Tutti abbiamo paura della follia, di quell'improvviso blackout che trasforma la vita in una incomprensibile
successione di giorni disperati e allucinanti, ma l'ingegnere non era pazzo, era perfettamente normale, aveva solo fatto una scelta, era stato un processo razionale che lo aveva portato a prendere una decisione sul suo futuro, consapevolmente, ed era questo che spaventava nell'inevitabile meccanismo di immedesimazione in cui ciascuno proiettava se stesso. Un mistero dietro quegli occhi chiari, un misterioso buco nero al cui interno era pericoloso addentrarsi senza essere captati da un vortice interiore. Lui stava lì, come un monumento vivente che accendeva sigarette di continuo e sorrideva a tutti mentre un filo di fumo gli usciva dalle labbra socchiuse. Qualcuno pensava a una trovata pubblicitaria o a una provocazione di un programma televisivo e si guardava attorno nella speranza di individuare l'occhio della telecamera. Un negoziante che lo vedeva in piedi tutti i giorni attraverso la vetrina, aveva provato a regalargli una sedia pieghevole, convinto di fargli piacere e lui l'aveva accettata con un sorriso e l'aveva appoggiata al muro ma la stessa sera la sedia era finita nel cassonetto dei rifiuti ingombranti, senza che lui l'avesse utilizzata nemmeno per pochi minuti. Dopo qualche mese dalle prime apparizioni, avvenne l'incontro con un’anziana dama francese, insegnante in un Istituto dei dintorni. Cappellino stravagante souvenir dei suoi anni giovanili, lunga gonna a fiori, soprabito di morbido panno intonato alla gonna, l'andatura, una volta elegante, si era trasformata in passi leggeri e misurati, quasi a volere dissimulare la stanchezza con bisogno di riflessione e d’osservazione di quanto le stava attorno. Dapprima solo un saluto, poi complice la nazionalità, cominciarono a parlarsi e la conversazione, fatta inizialmente di luoghi comuni, il tempo, il traffico, la vita in Italia, divenne meno superficiale, le sue risposte, mai banali, ma anzi colte e ricche di inaspettate sfumature, suscitarono nella professoressa francese la curiosità di approfondire la conoscenza, così lo invitò a prendere un caffè al bar e lui accettò volentieri. Nacque una strana amicizia di strada, fatta di sorrisi, strette di mano e lunghe conversazioni al tavolino del bar. La notizia della strana amicizia tra i due trapelò rapidamente, l'anziana dama ne parlò con il parrucchiere in cui andava tutti i sabati per il piacevole inganno di trasformare l'argento dei suoi capelli in color miele, alcune signore l'ascoltarono e la diffusero amplificando le poche parole carpite a una conversazione privata. Come un soffio di vento primaverile tiepido ma insistente, le
indiscrezioni si insinuarono nelle fessure delle porte delle abitazioni e dei negozi del quartiere trasformandosi in refoli di intensità variabile e di incerta origine. Il francese divenne "l'ingegnere francese" e le voci più strane cominciarono a diffondersi sulla sua vita e le motivazioni per cui aveva deciso di trasformare la parte residuale della sua esistenza nella presenza ostinata in un punto preciso di quella strada affollata e distratta. Divenne senza volerlo l'attrazione del quartiere e salutarlo, rispondendo al sorriso, divenne una piacevole abitudine per i passanti. Qualcuno ascoltando una conversazione al bar tra l'ingegnere e l'anziana dama scoprì che l'uomo misterioso si chiamava Gerard e diffuse rapidamente la notizia. In breve il cenno di saluto si trasformò in "Buongiorno monsieur Gerard" e tutti facevano a gara per manifestargli cordialità e accettazione. Monsieur Gerard viveva alla giornata, estate o inverno che fosse, il suo abbigliamento restava lo stesso, giacca di velluto blu di taglia abbondante, maglione a collo alto dello stesso colore, pantaloni grigi di flanella spessa. Sembrava insensibile al cambio delle stagioni e agli sbalzi termici, solo quando pioveva forte, arretrava di pochi centimetri verso il fabbricato, in modo da restare sotto il riparo delle profonde gronde. Rimaneva lì, paziente, aspettando che la pioggia cessasse d’intensità, poi recuperava posizione. Mangiava una volta al giorno, la sera, spostandosi in una panchina in pietra del vicino giardino. Il suo cibo quotidiano se lo procurava in un ristorante messicano in fondo alla strada, il capo cuoco con cui aveva fatto amicizia, gli conservava in una busta, dentro contenitori di alluminio, il cibo avanzato del giorno, quasi sempre abbondanti razioni di chili e pane, e Gerard che si era del tutto assuefatto al quel sapore aggressivo e piccante, consumava senza fretta e con molto stile la sua cena, senza lesinare qualche briciola di pane inzuppato ai piccioni onnivori che gli si affollavano attorno. Rifiutava con un gesto gentile ma risoluto, offerte in denaro e le buste di cibo che qualcuno gli portava. Per lui, da quando era scattata la sua scelta interiore, le convenzioni, le abitudini della sua vita precedente erano state completamente cancellate. Ignorava in particolare, il denaro, ne aveva completamente rimosso il significato e lo rifiutava, riusciva a vivere senza, anzi ne aborriva la vista o il semplice contatto. Accettava quello strano sentimento che spingeva la gente a essere cordiale con lui, a manifestargli solidarietà, ma rifiutava che si trasformasse in contributi in denaro e in donazione di vestiti dismessi e cibarie. Un giorno di
primavera, era quasi il tramonto, la professoressa decise di fare un tentativo di farlo muovere da quel posto e da quella strada. «Ha voglia di fare due passi verso il fiume? È una giornata bellissima oggi, voglio farle vedere un posto particolare...» glielo chiese con un tono che escludeva il rifiuto. L'invito lo colse di sorpresa, arretrò senza rendersene conto, poi si guardò attorno, c'era troppa gente sul marciapiedi. «Vada avanti lei la raggiungo tra cinque minuti» le disse con un tono di voce molto basso e scosso dall'emozione. Mentre lei si avviava con il suo passo misurato, lui si torturava se mantenere la promessa di seguirla, era più forte di lui il bisogno di permanere, autocontrollarsi da un punto di coordinate certe ma sentiva di non potere rifiutare l'invito. Aspettò qualche minuto, poi quando vide la sua figura sparire dietro l'angolo, si accinse a seguirla. Riconosceva il cappellino tra la gente che si muoveva lungo il marciapiede, rimaneva alla giusta distanza, senza affrettarsi, pensava che si sarebbe girata a guardare se era dietro e lui le avrebbe fatto un segno. Lei, sicura di essere seguita, attraversò la strada con il suo passo stanco e leggero allo stesso tempo, e prese direzione verso il fiume. Ora che il flusso delle persone si era diradato, cominciò ad allungare il passo, percorsi un centinaio di metri lungo il fiume, si infilò in uno spazio in cui le spallette in pietra dell'argine si interrompevano e si fermò in una piazzola completamente inerbita. Gerard intuì che si era seduta perché la vide abbassarsi e sparire dal suo punto di vista. Le andò dietro e la vide su una delle due panchine in legno accanto a un cannocchiale panoramico a monetine. Prima di sedersi accanto volle sporgersi oltre la spalletta e guardare verso il sole. Come una sfera, galleggiava nel fiume, era il tramonto, e la materia incendiaria sembrava sciogliersi nell'acqua ed evaporare, diffondendo come in una reazione chimica, una luce di un rosso folgorante in tutte le direzioni. Rimase qualche istante a lasciarsi impressionare come uno spezzone di pellicola da solarizzare, lei nel frattempo aveva preso un libro dalla borsa e inforcati gli occhiali aveva cominciato a leggere. Ancora abbagliato, si sedette accanto a lei, lasciando tra di loro, uno spazio sufficiente a rassicurare la sua prossemica personale. Lei alzò lo sguardo, sorrise appena e continuò a leggere. Rimasero a lungo in silenzio, lui emozionato dalla situazione, lei grata per la silenziosa compagnia. Lui osservava le sue
mani mentre voltava pagina, erano mani antiche ma eleganti, consumate dal tempo, ma piene di dignità, esprimevano l'antico orgoglio di appartenerle, si muovevano, nell'aria tiepida di quella precoce primavera, tracciando rotte esclusive. Niente era stato precluso a quelle mani, pensava Gerard e le immaginava nel corso della vita, mentre stringevano altre mani protese, si posavano con sicurezza sui tasti di un pianoforte, scrivevano lettere d'amore, sfioravano una guancia. Ogni gesto misurato e consapevole di un passato lontano e di un futuro inquieto. Il sole, intanto, era stato ingoiato dal fiume, restava solo il riflesso rossastro che bucava le arcate dei ponti. Il rumore del traffico aveva ripreso volume ma in quell'angolo di verde ricavato sulla pescaia del fiume, tutto era lontano, perfino le persone che passavano a pochi passi da loro sul marciapiede sembravano distanti come un documentario di immagini sfuocate senza audio. Non avevano niente da dirsi o forse tutto ma non ce n'era bisogno in quel momento. Si era stabilita una strana intimità che impediva loro di parlare dei soliti argomenti, di banalità più o meno colte ma superficiali, percepivano entrambi una situazione nuova nel loro rapporto e solo il silenzio poteva esprimerlo. Rimasero silenziosi fino a quando il sole sparì completamente dalla loro vista, le ombre diurne si ingrigirono e si attenuarono del tutto, poi le luci dei lampioni ne generarono altre, con altre forme e dimensioni. La professoressa si scosse dalla lettura, colta da un brivido, alzò lo sguardo, sorpresa dalla sera, si guardò attorno, Gerard non c'era più accanto a lei “senza nemmeno salutarmi” pensò, ma non ci rimase male, il saluto apparteneva a convenzioni che non contavano più nulla per lui.
LA PROFESSORESSA DEMONGEOUT Erano anni ormai che si svegliava con quel sapore amaro in bocca. Bastava percepire il risveglio e il suo cervello cominciava a produrre negatività. L'angoscia aveva il sapore di un'oliva acerba, quel gusto amaro e irritante che le faceva seccare la bocca costringendola a produrre saliva. Per distrarsi da quelle sensazioni si alzava prima possibile dal letto e cominciava a compiere azioni, ripetute, convenzionali, sempre le stesse, a cominciare dall'infilare le pantofole, muoversi al buio verso la finestra, aprire gli scuretti a occhi chiusi per non farsi trafiggere dalla luce del sole già alto, una rapida occhiata giù verso la strada per cogliere segnali di vita, di movimento, di attività, per lei prive di significato. Poi, il caffè, e la prima sigaretta, aspirata con voluttà, a ricacciare indietro i primi colpi di tosse dei polmoni devastati da una vita da accanita tabagista. La stretta della depressione cominciava già da subito e a nulla servivano i suggerimenti della psicologa di controbattere a un pensiero negativo, uno positivo: per quanto si sforzasse, non ci riusciva, “non si tratta di un'espressione algebrica, ma della mia vita” pensava. Non ricordava nemmeno più da quanto tempo viveva dentro quell'incubo, ma ci sguazzava dentro ormai, in quella sensazione e tutte le mattine si guardava allo specchio rassegnata a trovarsi sempre più grigia e piena di rughe sprofondando ipnoticamente nel vuoto profondo delle sue pupille. Una senilità inesorabilmente crescente si era impadronita del suo corpo, assecondando lo sfiorire del suo interesse per la vita. Era rimasta aggrappata alla sua attività di insegnamento all'Istituto francese che le forniva stimoli, alimentandola, per sentirsi ancora viva. Il rapporto con i giovani le piaceva e durante le ore di insegnamento scopriva ancora la sua attitudine a mettersi in gioco intellettualmente e psicologicamente, accettando un rapporto paritario con gli studenti e cercando di rendere stimolanti e anticonformiste le sue ore di insegnamento. Era molto popolare tra gli studenti, che ne apprezzavano la personalità e si intrattenevano volentieri ad avere scambi di opinione dopo l'orario di lezione. Sembrava ai loro occhi, una persona speciale, piena di vitalità e
in grado, in tutte le occasioni in cui le ponevano questioni di studio o di vita, di dare pareri alternativi e irrituali, era il prototipo, per tutti, di come si potesse invecchiare senza perdere il senso della vita, ma nessuno di loro era stato in grado di percepire, dietro i suoi improvvisi e prolungati silenzi, il disagio di resistere all’esistenza e di ricacciare indietro quella sensazione terribile di vuoto che emergeva improvvisa, annebbiandole la vista. Riusciva tuttavia a gestire la sua depressione essenziale, cercando di non isolarsi e di comunicare con le persone che le gravitavano attorno. Gerard, il suo strano connazionale, era una delle persone con cui era riuscita a stabilire una connessione forte, senza spiegarsi il perché, visto che in fondo il loro rapporto era fatto di molti silenzi. Parlavano davvero poco quando erano insieme, quindi non era l’affinità linguistica ad attrarli, c'era qualcos'altro ma a nessuno dei due interessava scoprire che cosa, non avevano intenzione, ciascuno per proprie oscure ragioni, di farsi carico delle angosce dell'altro, affrontando discorsi personali e ricordi. Quella sera di novembre, dopo le lezioni, i suoi studenti l’avevano invitata a rimanere nell’Istituto Francese, per vedere un film in lingua madre; avevano insistito a lungo, chiedendole un aiuto per avere una traduzione immediata dei dialoghi che non fossero riusciti a interpretare. Lei, sorpresa, non aveva avuto né tempo né cuore per rifiutare e poi fuori pioveva, i vetri delle finestre delle aule erano rigati da una pioggia trasversale e all’interno si erano appannati, rendendo più cupo e ostile il mondo fuori. Accettò, e si dispose mentalmente al buio della sala, seduta, attorniata dai giovani. Accanto a lei prese posto una donna francese, non più giovanissima, che non aveva mai visto prima, aveva i capelli corti, espressione simpatica e sorridente e si era presentata come studentessa fuori corso da almeno dieci anni, intenzionata a completare gli studi; le aveva chiesto se, durante il film, poteva farle domande per capire meglio il significato di certe scene. C’era qualcosa nella sua voce che le ricordava un accento di una regione, ma non si sforzò più di tanto per cercare di capire. Silenzio in sala, lo schermo divenne luminoso e cominciò a diffondere immagini, mentre ciascuno, con la propria capacità di astrarsi, s’inscriveva nella sfera magica che solo il cinema sa creare. Il film scorreva, e fatali immagini in bianco e nero si riproducevano, un’enigmatica Jeanne Moreau bucava lo schermo, intrigando le vite di Jules e Jim. "Quante volte l'avrò visto..." Pensava la professoressa, "E quante volte l'avrò letto...", e cercava di ricordare
in quale mensola della libreria si trovava ora il romanzo di Henry-Pierre Roché. Ogni tanto, per verificare l'effetto che il film stava producendo in sala, la professoressa si guardava attorno e osservava i volti rapiti. La donna accanto a lei sembrava in trance, ogni tanto si girava verso di lei e chiedeva il significato di una parola, poi volgeva gli occhi verso lo schermo e si abbandonava alle suggestioni. Dopo il film era prevista una breve discussione e la professoressa, invitata a dare il suo parere, parlò a lungo del film e si soffermò in modo particolare sul romanzo. La strana studentessa le prestava molta attenzione e le faceva domande manifestando un notevole interesse e quando l'incontro si concluse e le persone cominciarono a defluire, si avvicinò e le chiese dove poteva trovare il romanzo perché voleva assolutamente leggerlo. «Non credo sia facile da trovare però se proprio ci tiene, ne ho una copia in casa, se mi promette di restituirmelo, glielo presto volentieri». «Davvero farebbe questo per me?» «Certo, è un romanzo che adoro e sono felice che qualcuno lo possa apprezzare...» «Ma allora, se non sono troppo invadente, potrei averlo anche stasera?» «Certo, abito a dieci minuti dall'Istituto, venga pure con me. A proposito non ci siamo nemmeno presentati come si chiama?» Aveva davvero uno strano accento, pur parlando con naturalezza la sua lingua, il suono delle vocali, il modo di pronunciare certe frasi le suscitavano ricordi come di un dialetto familiare. Fuori pioveva, la donna aprì l'ombrello, e la invitò a mettersi al suo fianco. Si avviarono lungo il marciapiede, respirando l'odore della pioggia e quello dolciastro delle marmitte delle macchine incolonnate e impazienti lungo la strada. I negozi erano ancora aperti e un buon odore di cucinato e di pane appena sfornato si diffondeva da una rosticceria. «Che profumo, ho un buco nello stomaco!» scappò detto alla donna. «Vuole cenare con me?» propose senza molta convinzione la professoressa, probabilmente sperando in un cortese rifiuto. «Se anche lei è sola e non la disturbo… accetto volentieri». «Bene, allora fermiamoci a comprare qualcosa in rosticceria». «Solo se mi consente di offrire la cena, lei è già stata così gentile con me...» La professoressa le sorrise, pensando che in fondo se aveva compagnia
per una sera, poteva servire a distrarla e, forse, creare un'amicizia che le mancava da anni. Dall'altro lato della strada, Gerard le osservava mentre attraversavano la strada, la sua strana amica e quella signora con i capelli corti che l'aiutava sostenendola e riparandola con l'ombrello. Sperava che la sua amica si girasse per mandarle un saluto e la seguì con lo sguardo fino a quando non le vide entrare nel portone e sparire all'interno. Provò una sensazione di leggera delusione, ma si riprese subito, in fondo per lui, andava bene anche così.
ODORI Tracce di cibo avariato nei piatti sul tavolo di cristallo, due bicchieri con poche gocce di vino ormai inacidito, una coppa piena di insalata immarcita, briciole di grissini sparsi sul piano e sul tappeto. Ma l'odore che si percepiva, sovrastante, era quello della morte, dolce e nauseabondo. Un appartamento arredato con un forte senso d’appartenenza, ogni dettaglio, dai divani ai mobili, pochi e antichi, esprimeva il gusto personale di chi amava circondarsi di oggetti significativi da non esibire, ma da utilizzare per soddisfare il proprio senso di vivere una scelta. Libri, molti libri appoggiati su mensole in legno, non allineati per dare geometria, ma disposti secondo la vocazione di volerli leggere, alcuni, sul divano, ancora aperti, forse scivolati di mano nel momento in cui il sonno aveva prevalso. Sulla consolle spie luminose ancora accese nell'amplificatore con il frontale in metallo satinato d'altri tempi e sul piatto un vecchio vinile della Decca, una registrazione del 1991 del pianista Vladimirv Ashkenazy, Romeo e Giulietta di Prokofiev. Dalla finestra socchiusa un filo d'aria agitava mollemente le tende in lino di garza a piccoli fiori rosa, la stessa stoffa dei cuscini sui divani. Molti quadri alle pareti, paesaggi a olio e piccole tempere di colline toscane, sopra il divano, un’unica concessione all'arte contemporanea, una riproduzione di un violento, carnale, astratto di Pollock. Appena varcata la porta, si era fermato nell'ingresso in meditazione, tutte le volte ripeteva quella personale procedura di astrarsi da tutto per concentrarsi completamente sul luogo delle indagini. Era innanzitutto un segno di rispetto verso chi ci abitava, sapeva di entrare senza essere invitato, nella casa e nella intimità di un estraneo e non voleva che i sopralluoghi si trasformassero in profanazioni. Il primo approccio era sensoriale, a narici dilatate cercava di percepire quell'odore profondo e singolare che ogni casa emana. Queste prime labili informazioni, lo aiutavano a cogliere anticipazioni sulla personalità di chi ci abitava. Sentì appena l'odore di un bastoncino di incenso bruciato da qualche giorno, annusò e riconobbe quello polveroso dei libri, e di cibo andato a male, poi avvicinandosi alla tenda
della finestra nell'ingresso ebbe la certezza che in quella casa viveva un fumatore, la stoffa leggera, autentica predatrice di odori, era rimasta impregnata di tabacco, quella marca di sigarette dal gusto forte, di cui non riusciva a pronunciare il nome. Ma superato la porta verso la sala, prevaleva su tutto quell'odore, per lui abituale, di morte. Diede le solite feroci istruzioni che nessuno toccasse nulla e che fosse mantenuto un profondo rispetto per quella casa e per chi ci abitava. Non tollerava il modo brusco e abitudinario con cui gli uomini della sua squadra effettuavano i sopralluoghi nelle scene di un crimine, aveva un suo metodo e un autentico protocollo che, tutti quelli che lavoravano con lui, dovevano rispettare e prima di tutto, voleva che i fotografi riprendessero tutte le stanze, con inquadrature particolareggiate e meticolose dei dettagli che riteneva importanti. Voleva essere il primo a cogliere le vibrazioni che il luogo emanava, come se le pareti, i mobili, i quadri, gli specchi attaccati sulle pareti potessero riverberare ancora le immagini e fatti accaduti, rilasciando segnali ed energie che cercava di cogliere e interpretare. La logica, la consequenzialità degli eventi, l'esame accurato di tutta la scena venivano dopo, prima l'intuizione e le sensazioni anche subliminali che un dettaglio gli poteva suscitare. Si soffermò a lungo a guardare le foto dei numerosi portaritratti disposti sulla credenza. Vecchie cornici in legno, in argento cesellato, in ottone, solo foto in bianco e nero, o color seppia, alcune sfocate erano evidentemente riprodotte da altre ancora più vecchie; niente colore, come se dalla diffusione della pellicola a colori in poi, avesse smesso di farsi fotografare o conservarle. Alcune foto, disposte sui portaritratti in legno, sembravano essere state scattate in Africa: Raffiguravano militari in divisa disposti attorno all'enorme corpo di un elefante abbattuto, uno dei militari, con l'espressione particolarmente fiera, aveva una carabina tra le mani e il piede sulla proboscide. Il volto di questo militare, che doveva essere un ufficiale, era riconoscibile anche in altre foto, da solo, insieme con altri ufficiali durante una parata, con la sciabola sguainata, a cavallo, sullo sfondo di uno strano agglomerato di case bianchissime, disordinate, edificate l'una sull'altra con una densità soffocante, un'altra in un gruppo di famiglia, disposto al centro, elegantissimo, attorniato da signore in abito lungo e cappellini, tre bambini che lo guardavano in adorazione. Uno dei portaritratti era caduto a terra, il vetro si era rotto, ma non c’era traccia della fotografia, i frammenti si erano dispersi su un tappeto di pelle di zebra che gli
consolidò l'impressione che l'arredamento fosse influenzato da uno stile coloniale o da oggetti provenienti dall'Africa. Sul tavolino accanto al divano, una serie di oggetti di avorio, un vaso con delle rose gialle appassite, un posacenere con due mozziconi e una sigaretta spenta dopo poche tirate, un portasigarette d'argento d'epoca, con la cesellatura di una antica banconota da dieci franchi riportata sul fronte, e all’interno, una fascia di elastico giallo, piuttosto logora, tratteneva alcune sigarette. Si soffermò a leggere la marca, quel nome dannato che, insieme ad altri nomi che odiava, non riusciva mai a pronunciare in modo corretto. Infine si avvicinò verso il bagno da cui sentiva sprigionare le vibrazioni negative. La porta era aperta e dall'angolo visuale in cui si trovava, era visibile una scarpa, color beige, un modello di Chanel col tacco basso, chiusa in punta, con una piccola cinghia dietro al tallone scoperto. Accanto, a pochi centimetri, si intravedeva un piede. Le dita raggrinzite e curve dall'artrosi, la caviglia e il tallone screpolati e rugosi gli fecero immaginare l'età. Si affacciò all'interno, rassegnato a esaminare il corpo. Lo colpì l'espressione incredula degli occhi aperti e rivolti verso la finestra del bagno, il corpo era prono con la testa piegata di lato, le braccia distese, una gonna a fiori, un maglione di cotone che si era inzuppato come carta assorbente nel suo sangue ormai raggrumato e ossidato in una pellicola spessa di color bruno che si era allungata sul pavimento. Pensò a sua madre, mentre la osservava, i capelli dello stesso colore miele alchemico, ma con le radici inesorabilmente grigio argento. “Una donna di settant'anni così a occhio e croce”. Una rabbia feroce si stava impadronendo di lui, mentre osservava il povero corpo. Sgozzata, non c'erano dubbi. Un taglio chirurgico, senza slabbrature, la vittima non aveva opposto alcuna resistenza, aveva lasciato che la lama affilatissima, probabilmente un bisturi o un rasoio, affondasse sotto la mascella e s’incuneasse con una traiettoria precisa fino al punto omologo, dall'altro lato, disegnando una parabola perfetta “Era stata narcotizzata? Possibile che non abbia opposto alcuna resistenza come un paziente anestetizzato alla mercé del suo chirurgo assassino?” pensò e cominciò a guardare con attenzione gli occhi. «È proprio così!» gli sfuggì ad alta voce. «La pupilla è dilatata in modo abnorme...» Uscì dal bagno ed entrò nella camera da letto, trovò molto ordine, il
letto in legno, a baldacchino, con una zanzariera agganciata ai montanti, era intatto, probabilmente rifatto la mattina e non più utilizzato. Per terra, sotto il letto, due strane pantofole rosa di peluche con l'immagine di nonna papera, facevano capolino sotto il piumone, Sartan sorrise con tenerezza al pensiero del gesto post-infantile con cui l'anziana donna le indossava tutte le mattine. Nessun indumento fuori posto, una pila di libri sul comodino, una radio sveglia che proiettava l'ora sul soffitto. Sul piano del cassettone, scuro, probabilmente di noce, di sicuro un mobile antico di pregio, erano allineate molte scatole di medicine, tra le quali riconobbe diverse confezioni di psicofarmaci e di broncodilatatori. Sull'altro comodino un bicchiere pieno di un liquido grigiastro, che lo incuriosì, al punto da avvicinarsi per sentirne l'odore, sembrava acqua sporca, ma odorava di menta, poi gli venne in mente l'immagine della madre, a letto, sofferente per il male, e quel bicchiere sul comodino con dentro la protesi ed ebbe la spiegazione. Aveva visto abbastanza, fece chiamare i fotografi che aspettavano impazienti fuori nel pianerottolo e dettò l'elenco delle inquadrature che gli interessavano, poi ordinò ai colleghi della Scientifica di raccogliere le impronte su tutti gli oggetti disposti sul tavolo, dalle posate ai bicchieri e di estendere la ricerca a tutto ciò che un eventuale ospite potesse aver toccato. Come il solito diede disposizioni affinché anche i sacchetti di spazzatura fossero portati via per poterne esaminare, con meticolosità, il contenuto. Stanco e pensieroso aprì la finestra e stette per qualche minuto a guardare. Era al quarto piano e l'altezza gli dava modo di vedere la strada sottostante nel suo sviluppo fino alla piazza in fondo. C'era molto traffico di macchine e di persone sui marciapiedi, era quasi mezzogiorno e tutti sembravano indaffarati e in movimento come un brulichio di formiche. La città accentuava i suoi battiti vitali, ma visti dall'alto, le mille direzioni, le andature e il perpetuarsi del quotidiano, ciascuno secondo i propri programmi, gli sembravano ridicoli e incomprensibili. Un'ambulanza con la luce blu accesa era parcheggiata davanti al portone insieme alle due macchine della polizia e un capannello di curiosi che si era formato lì vicino ed era tenuto a distanza da vigili e poliziotti. Qualcuno guardava verso l'alto indicando le finestre con gesti eccitati, i loro sguardi sembravano rivolti verso di lui, la loro espressione di morbosa curiosità lo disturbava a tal punto da costringerlo a richiudere la finestra con un gesto di stizza. A pochi metri dalla gente che si affollava accanto al posto di blocco, Gerard, dal
suo punto di stazionamento, osservava con attenzione, seguiva lo sguardo delle persone rivolte verso l'alto e non si rendeva conto di quanto stesse accadendo. Il brusio dei commenti si faceva sempre più forte e lui cercava di capire da qualche parola sussurrata e dal tono grave e basso di chi parlava.
PERIFERIA Il dondolio della tranvia gli stava provocando la solita sonnolenza. I vagoni erano colmi di persone e molta gente stazionava in piedi, abbarbicata ai sostegni per non perdere l'equilibrio quando il veicolo frenava. Era da qualche tempo che si sentiva stanco quando arrivava la sera e il ripetersi di quest’evento gli suscitava una dolorosa sensazione di vaghezza che lo angosciava, e contribuiva a rendere precario il suo attaccamento alla vita con una serie di conseguenze che si manifestavano con l'uso della voce a tonalità blande e l'espressione sommessa quando osservava il prossimo. Da quando era rimasto vedovo, non era riuscito a elaborare la scomparsa della sua compagna e si era lasciato andare a una vita subita, rinunciando a tutte quelle esperienze e iniziative che avevano condiviso per molti anni e che ora gli sembravano lontane e inutili. I suoi occhi si aprivano improvvisamente alle cinque di ogni mattina, con una precisione biologica che nessun orologiaio avrebbe mai potuto ottenere con meccanismi di controllo dello scorrere del tempo. La visione del soffitto si materializzava e contemporaneamente la depressione per una nuova giornata da vivere, gli riempiva la bocca di spine. Tutto il resto della giornata seguitava con ritmo immutato e scontato, fatto di routine e di tristi ripetizioni di gesti vitali minimi, anche la lettura, che era stato per tutta la vita il suo rifugio dorato, aveva perso il senso di eccitazione che aprire per la prima volta un nuovo libro, gli aveva sempre dato. Si sedeva sul divano con la coperta sulle gambe e cominciava a leggere, poi, però, come per incanto, il suo dito premeva il telecomando, lo schermo nero si accendeva e spegneva, contemporaneamente, la sua attenzione verso la vita. Si abbandonava senza reazioni alle suggestioni del piccolo schermo e spesso si svegliava dopo ore con la tv ancora accesa e il libro scivolato a terra. Era stato fortunato anche stavolta, un giovane gli aveva ceduto il posto e lui aveva accettato ormai rassegnato al fatto che la sua senilità fosse ben visibile. Accanto e di fronte a lui, gente, di varie età ed etnie, si spostava, con i propri sacchetti della spesa, borse da viaggio o da lavoro
o semplicemente con il proprio bagaglio di pensieri, verso una meta. Anche lui aveva le sue borse con gli acquisti settimanali della Coop, le teneva ben serrate tra le gambe attento che nessuno le pestasse o che non ostacolassero il flusso di chi saliva o scendeva alle fermate. I fortunati erano seduti, su due file parallele di sedili poste una di fronte all'altra. Si guardavano distrattamente, pronti a sviare lo sguardo quando i loro occhi s’incrociavano; d'altra parte era impossibile evitare di guardarsi, si doveva simulare di guardare oltre, verso il finestrino e il panorama metropolitano che scorreva alternando scorci di piazze e di viali che cominciavano a illuminarsi di luci e vetrine. Ciascuno cercava di risolvere il problema della comunicazione con il prossimo, utilizzando strumenti e strategie ormai collaudate. L'impiegato del comune che tornava a casa dal turno pomeridiano, leggeva il giornale e teneva gli occhi ostinatamente bassi, ignorando quanto lo circondava, la badante russa parlava al telefono e la differenza di lingua le garantiva privacy e impunità comunicativa, il neo laureato inviava un’urgente email con l’iPad sulle gambe, e quindi poteva a ragione considerarsi fuori del gioco, l'avvenente signora gongolava dietro gli occhiali scuri, avvertendo lo sguardo interessato di un distinto signore con cravatta e completo grigio, due ragazzi ascoltavano musica dallo stesso mp3 collegati a un cavo con due cuffie, come a un cordone ombelicale che li nutriva entrambi. Solamente quella donna dai capelli corti e l'età indefinibile tra i trentacinque e i quaranta non paventava timore nel comunicare e gli rivolgeva, senza timidezza, uno sguardo rassicurante e disinvolto. Aveva sulle ginocchia un libro, leggeva qualche rigo e poi alzava lo sguardo verso di lui. Alla seconda fermata salì un uomo dell'est con fisarmonica e cominciò a suonare musica zigana. Appoggiandosi a corpo morto a un sostegno riusciva a mantenere l'equilibrio nonostante le mani rincorressero i tasti e i gomiti si allargassero, assecondando il ritmo e il mantice dello strumento. Il brano durò non più di due fermate, poi il musicista si interruppe e chiese un contributo alla sua arte, allungando un piattino verso la gente. Sia lui che la signora gli offrirono una moneta, le loro mani quasi si sfiorarono per un attimo, alzò gli occhi, ebbe l'impressione di averla già vista e cominciò a ricambiare lo sguardo con la stessa insistenza, infine accennò un sorriso che fu ricambiato. Sentì di stare arrossendo, non gli sembrava possibile di suscitare un tale interesse, però l'amor proprio lo
spinse a sostenere lo sguardo e a intensificarlo. Alla fermata dell'Ospedale salì un giovanotto di colore, cieco, agitava il bastoncino bianco e chiedeva permesso, un altro giovane lo fece sedere al suo posto, gli sfilò lo zaino dalle spalle e glielo sistemò accanto, in modo che con il bastone potesse sentirlo. Il ragazzo cieco aveva un bel cesto di capelli ad afro, e stranamente non indossava occhiali, ma muoveva gli occhi, di uno strano color nocciola, quasi trasparente, in direzione delle voci che sentiva. Tutti lo osservavano con visibile pena e nei volti si leggeva il disagio per la situazione. Lui restava tranquillo, il bastone tra le mani, l'estremità appoggiata sullo zaino, non manifestava emozioni particolari, come se avesse una lunga assuefazione al suo stato di cecità, prestava solo molta attenzione all'altoparlante che annunciava le fermate che si succedevano inesorabilmente. La gente scendeva e i vagoni si svuotavano, ora fuori era sera, e il veicolo bucava l'oscurità in un alternarsi di pensiline luminose e di improvvise code di auto segnalate dal rosso dei catarifrangenti. Il convoglio scorreva rapido inghiottito dalla misteriosa periferia della città, i fabbricati si erano diradati e così le luci metropolitane, ora la prospettiva all'esterno non era più schiacciata dalla densità delle costruzioni ed era possibile vedere a distanza palazzi lontani dalle finestre illuminate. “La prossima fermata tocca a me” pensò con una punta di disappunto, fece un ultimo sguardo verso di lei, si alzò e si spostò verso l'uscita, ma con la coda dell'occhio notò che anche la misteriosa signora si alzava. «Scende anche lei?» si decise a chiederle, quando se la trovò accanto. Lei s’illuminò di un sorriso che gli sembrò meraviglioso e annuì. «Abito anch'io nei dintorni... Vuole che l'aiuti? Dia pure a me uno dei due sacchi, io ho le mani libere... » gli disse con un tono sincero e disponibile e lui accettò, senza nemmeno averle chiesto da che parte andasse. Anche Il ragazzo cieco scese alla stessa fermata, si era preparato per tempo, facendosi aiutare a caricare lo zaino, poi, quando le porte si aprirono, uscì e sparì rapidamente nel buio. Il convoglio, quasi vuoto ormai, continuò a scivolare nelle tenebre in direzione del capolinea.
ALBA I lampioni si erano appena spenti, un chiarore spettrale aveva cominciato a diffondersi da Est, baluginando attraverso la nebbia che ancora avvolgeva i palazzi e i campi circostanti. Un colore grigio uniforme prevaleva su tutto accentuando il senso di malinconia che la periferia emanava. Qualche finestra cominciava a illuminarsi, diffondendo segnali di risveglio nei condomini ancora sonnacchiosi. Gli piaceva molto quell'ora, si aggirava per i viali ricoperti di foglie, con il cane al guinzaglio e osservava con interesse le facciate immerse ancora nella semioscurità, scommettendo su quale finestra si sarebbe accesa per prima. Le porte finestre delle cucine che si affacciavano sui terrazzi, con i panni stesi ad asciugare, erano di solito le prime ad accendersi. Era divertente immaginare la vita degli altri, osservando da fuori. Al quarto piano, per esempio, l'operaio della Galileo, si alzava sempre prestissimo, andava in cucina, (luce al neon accesa sul tavolo di laminato), metteva la caffettiera sul fornello, poi si spostava in bagno, la finestrella piccola accanto alla cucina, si accendeva (plafoniera a soffitto in finto vetro di murano). Lo vedeva con la sua immaginazione mentre, con la canottiera stropicciata dall'insonnia, orinava stancamente con la testa appoggiata alle piastrelle e rimaneva a lungo così, ancora preda di un torpore che il fischio della caffettiera in ebollizione avrebbe definitivamente, dissolto. Gli sembrava perfino di sentirlo l'odore del caffè e il rumore del cucchiaino che gira nella tazzina, piccoli rumori di scena mattutina che il silenzio dell'alba ingigantiva. Per anni aveva osservati tutti i palazzi del quartiere e poteva descrivere le vite dai piccoli, alternati segnali luminosi. Uno skyline piatto di edifici tutti uguali, progettati negli anni 60, migliaia di appartamenti simmetrici, speculari, omologhi, contenitori catalogo per vite di periferia, qualcuna rassegnata, qualcuna in cerca di riscatto. Ora, continuando a camminare a passo svelto, con quel dannato bastardo che continuava a tirare, era fuori del quartiere e poteva finalmente sciogliere il guinzaglio, senza che nessuno gli rompesse i coglioni con le regole condominiali e soprattutto poteva lasciarlo fare i suoi bisogni senza doverlo rincorrere
con il sacchetto. Lo lasciò andare e si accese la prima sigaretta della giornata, guardando i movimenti del cane che era schizzato via ebbro di libertà e di odori da captare. Le prime gocce cominciarono a cadere all'improvviso, bagnandogli la sigaretta. “Per Dio!” gli scappò ad alta voce e continuò a imprecare cercando con gli occhi stralunati il cane, preoccupato perché si era allontanato abbastanza da casa e non aveva ombrello. Era scomparso dietro una macchia di ginepro e non rispondeva al richiamo. Un lampo viola squarciò le ultime tenebre per un attimo, e il botto del tuono fu così fragoroso da assordarlo. In un attimo la pioggia si trasformò in una cascata torrenziale, cercò di ripararsi sotto un albero, ma aveva paura dei fulmini, “Meglio l'acqua” Pensava e intanto fischiava, e urlava, ma ormai era rassegnato che il suo richiamo fosse sovrastato dal crepitare dell'acqua sulle foglie. Sempre più in collera, riparandosi con la mano, accelerò il passo, ma, all’improvviso, scivolò su qualcosa di viscido e finì a terra, nel fango di foglie e terriccio. Bestemmiando ancora, si rialzò, guardò sotto i piedi e vide una borsa di plastica della Coop semiaperta, e poco più in là, scatole di pasta, degli yogurt spiaccicati e altri generi alimentari di vario genere. “Qualcuno ha perso la spesa” pensò, poi vide la coda del cane sbucare da un cespuglio e urlò: «Dove cazzo ti sei cacciato?» Si fece strada spostando i rami e lo vide che annusava il corpo di un uomo supino, gli occhi rivolti verso il cielo, il volto una maschera di sangue e fango. In una mano stringeva ancora una busta della Coop. Superato l'attimo di orrore, facendosi forza per non vomitare, guardò con maggior attenzione il viso dell'uomo, per quanto reso irriconoscibile dal fango e dal sangue raggrumato, quegli occhi azzurri spalancati verso il cielo, gli ricordavano qualcuno. Si sforzò per qualche istante e poi ricordò senza esitazione, “Ma questo è il Beghezzi! Il vedovo della signora Luisa...” Scosso dall'emozione si guardò attorno, non sapeva che fare, era tentato dall'andare via senza far nulla per non avere rogne, poi, ricordò tutti i film che aveva visto in tv, le serie di psico killer, dei vari commissari, delle squadre speciali, e decise di diventare protagonista, prese il telefonino e fece il numero del pronto intervento, deciso eroicamente a rimanere sotto il diluvio a presidiare il corpo fino all'arrivo delle forze dell'ordine. Mise il guinzaglio al cane e si allontanò di qualche passo, per una sorta di pudore, poi chiamò la moglie per rassicurarla per l'inconsueto ritardo
che certamente le stava procurando apprensione. Quando senti la sua voce angosciata l’anticipò. «Giovanna, non ti preoccupare se ritardo, stamani mi è successo una cosa strana, ho trovato un uomo morto...» aspettò un attimo prima di proseguire, la sentì fare un'esclamazione di angoscia. «Sai quel signore anziano che abita in via Puglia in quello stabile alle spalle del nostro? Quello sposato con la signora Luisa morta qualche mese fa... L'ho trovato bello e secco dietro un cespuglio... C'ė tanto sangue, le borse della spesa... Secondo me l'ha ammazzato qualche marocchino per rubargli i soldi. Ho chiamato la polizia, vedrai arrivano da un momento all'altro. Non ti preoccupare, semmai, se ti venisse voglia di venire, sono in fondo a quella stradina dopo l'ultimo caseggiato, in direzione del laghetto. Se vieni portami l'impermeabile e un ombrello e ti porti via il cane». Dopo un'ora sotto il diluvio, non ne poteva proprio più. La pattuglia della Celere era arrivata dopo un quarto d'ora, ma l'appuntato, dopo avere visto il cadavere e transennato un'ampia zona attorno al luogo del ritrovamento, lo aveva costretto ad aspettare l'arrivo del dirigente per l'interrogatorio. Per fortuna, sua moglie gli aveva portato l'impermeabile, quel cappellaccio con cui andava a caccia e l'ombrello, poi, avvertita che il marito doveva rimanere lì, era tornata a casa, riportandosi il cane, e per preparare un termos di caffè. Ancora non c'era nessuno in giro e lei fremeva di raccontare la storia. Dopo avere messo la caffettiera sul fuoco, andò a suonare alla sorella che abitava di fronte e le raccontò il fatto. Anche lei rimase sconvolta ad ascoltare, ma intanto pensava già con chi poteva condividere la notizia e appena la sorella andò di là a preparare il termos, telefonò a due amiche dello stesso caseggiato. In breve la notizia si diffuse nell'intero quartiere e un’autentica processione cominciò a sfilare verso il sentiero che portava al laghetto. Una folla di decine di persone si accalcò attorno alla zona transennata, nonostante la pioggia battente, tutti volevano vedere il cadavere ma la polizia con metodi energici li teneva lontani. L’ispettore arrivò verso le otto e si trovò davanti a una massa compatta di persone che gli impediva letteralmente di proseguire con la vettura di servizio. Scese urlando alla gente di spostarsi mentre l'appuntato gli reggeva l'ombrello e s'incamminò guidato dall'agente che era arrivato per primo sul posto. Quel povero corpo era irriconoscibile immerso nel fango, in
uno strano impasto di acqua piovana, foglie, terriccio ed erba bagnata. “Un altro anziano!” pensò, dopo averne osservato il volto. Il fango e lo sporco del terriccio rendevano difficile capire dove fosse la ferita, il sangue era raggrumato sul collo, sotto la mandibola, ma era impossibile capire il punto colpito e con che arma. Si soffermò a osservare gli occhi, azzurri, intensi, stralunati, come se esprimessero sorpresa e non paura. “Non se lo aspettava” pensò. A terra, quasi completamente immerso nel fango notò un oggetto scuro, infilò dei guanti di plastica e lo raccolse. Era un portafogli in cuoio, apparentemente aperto e rovistato, all'interno non c'era più denaro, ma solo la patente, alcuni scontrini, delle tessere di socio di un circolo sportivo, e altri fogli piegati che decise di esaminare in seguito. «Dottor Sartan...» La voce roca dell'appuntato lo fece trasalire. «Posso far passare i fotografi?» «Un attimo ancora, li chiamo io!» rispose con tono brusco, poi riprese a guardarsi attorno, qualunque tipo di impronta era stata cancellata dalla furia dell'acqua e dal pesticcio dei curiosi, restavano solo il corpo e quei sacchetti della Coop pieni di cibo, troppo poco per rilevarne indizi. Chiamò i fotografi, diede le solite istruzioni e tornò verso la macchina. Mentre percorreva il sentiero, osservò il popolo dei curiosi, erano tutti anziani, donne e uomini, pensionati forse, capelli grigi le donne, ampie calvizie gli uomini, volti intristiti dall'età e, probabilmente, pensò con cattiveria, dalla incontinenza. Il grigio diffuso della periferia li aveva omogeneizzati come se un'unica pennellata avesse appiattito le differenze cromatiche e caratteriali, rendendoli un tutt'uno con l'anonimato del quartiere e l'intonaco stanco delle facciate dei palazzi. “È il nuovo volto della società” pensava, mentre li osservava, “Aumentano a un ritmo impressionante i sessantacinquenni e oltre, l'uso costante di medicine e di attenzione verso l'alimentazione, i corsi serali di Pilates, i consigli televisivi sul giusto stile di vita, le gite sociali organizzate per visitare i posti imperdibili, i ristoranti convenzionati a 10 euro tutto compreso, le lunghe file all'ufficio postale a riscuotere la pensione...” Pensava a tutto questo mentre i loro volti gli scorrevano sotto gli occhi. Cercò di immaginarsi anche lui anziano tra gli anziani, in fondo non gli mancava molto, aveva cinquantacinque anni, viveva solo per scelta e cominciava a sentire i primi segni del tempo da piccoli sintomi inconfessabili, fisici e mentali. Non leggeva più bene da vicino, trovava sempre più capelli sul lavabo dopo essersi pettinato, non
percorreva più le scale a piedi di corsa, per via di un leggero affanno e soprattutto, ed era la nota più dolorosa, la sua libido era visibilmente calata. Inoltre avvertiva una sorta di indurimento strutturale di certe sue manie che fino a qualche anno prima lo facevano sorridere con una specie di indulgenza versi se stesso e che ora non suscitavano più autoironia ma abitudine e normalità. “Non voglio arrivare a invecchiare subendo un declino continuo e irreversibile, meglio morire prima” pensò. Ma poi si rese conto che forse questo declino, questo inevitabile deterioramento delle funzioni vitali del suo corpo, sarebbe avvenuto progressivamente e che il suo cervello se ne sarebbe fatto una ragione, accettandolo e adeguandosi con un automatismo rassegnato. Probabilmente, come succedeva a tutti, anche le sue aspettative di vita si sarebbero rivolte alla quantità, con una rinuncia dolorosa ma ineluttabile alla qualità. La figura del padre si affacciò nitidamente nei suoi pensieri. Era più di quattro mesi che non lo andava a trovare, ma sapeva che il tempo per lui non contava più nulla, un concetto annientato, assieme a quello dei ricordi, dalla malattia che progressivamente lo aveva privato di ogni possibilità e volontà di confrontarsi con il mondo reale. Mentre risaliva in macchina per rientrare in centrale si ripromise di ritagliare qualche giorno del suo tempo per andare a trovarlo nella clinica di Palermo dove era ricoverato da qualche anno. Si sistemò con un sospiro sul sedile, poi si accorse di avere le scarpe inzaccherate di fango e se c'era una cosa che non sopportava era proprio avere le scarpe sporche. Aveva sempre avuta questa fissazione, delle scarpe pulite, dedicava il sabato pomeriggio alla accurata manutenzione delle sue calzature, le disponeva sul davanzale del terrazzo, le puliva accuratamente dalla polvere, le ingrassava con il giusto prodotto e infine le lucidava tutte, continuando fino a quando non sentiva le braccia stanche. Un'ossessione, il suo sguardo si posava sempre lì, la suola aveva uno spesso strato di morchia che debordava, arricciandosi sul cuoio nero e che gli trasmetteva quella sottile sensazione di incazzatura verso il mondo che avrebbe finito per rovinargli la giornata. Prese un fazzolettino di carta e cercò di pulirle, ma era tutto inutile, il fango si spandeva, appiccicoso e persistente. Infine, rassegnato, chiese all'appuntato di accompagnarlo a casa per cambiarle. Più tardi, in ufficio, tranquillizzato dalle Clark immacolate che aveva indossato, cominciò a riflettere sui due omicidi commessi in
meno di una settimana e di cui doveva decidersi a cominciare le indagini. IL RITO Tutto era cambiato da qualche giorno dopo il fatto di sangue che aveva sconvolto il quartiere, le persone si muovevano più veloci lungo la strada, con minore propensione a fermarsi per scambiare quattro chiacchiere. L'ingegnere francese cercava invano l'abituale cordialità negli sguardi dei passanti, da qualche giorno sembravano tutti frettolosi e sfuggenti. Ma la morte tragica dell'anziana professoressa francese aveva provocato un corto circuito nella abituale voglia di comunicazione degli abitanti e frequentatori della via, l'ombra del sospetto si era allungata come una patina gelatinosa nei rapporti tra le persone. Un delitto, un misterioso e inspiegabile delitto era stato commesso a pochi metri dalle loro case, dai loro negozi... Passata la morbosa curiosità dei giorni successivi, delle chiacchiere eccitate al bar, la gravità dell'accaduto, la paura di quello che avrebbe potuto essere un gesto replicato aveva avuto il sopravvento. Gerard non capiva, era estraneo a quelle dinamiche, aveva provato molto dolore quando aveva saputo della morte della sua amica ma fatalmente si era rassegnato ad aggiungere un altro tassello di vita lacerata alla sua esperienza. Ormai, i frammenti del misterioso caleidoscopio della sua esistenza ruotavano vorticosamente seguendo il senso dell'imponderabile e lui aveva deciso di fermarsi, di non intervenire più per alterarne il corso. All'inizio, molti anni prima, quella strana sensazione di lasciarsi andare, quell'accettare senza reazione alcuna quanto accadeva accanto a lui, sperava passasse velocemente ma poi si era rassegnato. Si era fermato in un punto qualunque del suo viaggiare, staccando la spina, inebetito dall'impotenza a comprendere i fatti della vita. Le gioie, i dolori, le tragedie, le normalità del vivere quotidiano della sua esistenza e di quella degli altri, appartenevano ad una nebulosa lontana e incomprensibile con cui si rifiutava di confrontarsi. Tutto era iniziato
quella sera di una decina di anni fa, a Lione, rientrato nell'appartamento in periferia in cui viveva, chiusa la porta alle sue spalle, guardandosi attorno non si era riconosciuto e aveva temuto di aver sbagliato casa, provando una completa estraneità verso sé stesso e quanto lo circondava. La casa, gli arredi, tutti gli oggetti a lui cari e tutto quanto lo circondava in quello spazio angusto, non significavano più nulla per lui. Quel senso di improvvisa solitudine e mancata appartenenza a quella casa, gli procurò un attacco di panico che durò qualche istante, poi Gerard rientrò in sé stesso, si sfilò le scarpe, e si diresse verso la camera da letto ma, fatti pochi passi nel corridoio, si fermò come in trance a guardare la grande foto che lo ritraeva insieme alla famiglia. Erano a Nizza, sullo sfondo della Promenade, con le palme agitate dal vento di maestrale, accanto al trenino che li avrebbe portati in giro per la città vecchia. Era l’estate di molti anni prima, sua moglie con il vestito a pois che indossava sul costume per andare al mare, i suoi due figli abbronzati gli stavano attaccati alle maniche della camicia, una con l'espressione accigliata, sembrava volesse scoppiare a piangere da un momento all'altro, l'altro, sorridente, aveva un ghiacciolo in mano. Quelle immagini lo tennero inchiodato in quella posizione a lungo, la chimica dei ricordi produceva reazioni misteriose e laceranti nel suo cervello. Si scosse dal torpore che era già buio, andò in bagno e provò a mettere la testa sotto il rubinetto, la sensazione di gelo gli tolse il respiro ma non quel senso di vuoto assoluto. Si guardò allo specchio e non si riconobbe, un rifiuto totale gli impediva di rientrare in sé, gli sembrò di sprofondare in un liquido molliccio, vischioso, cercò una inutile resistenza puntando i piedi per sentire il fondo della realtà ma le sue gambe annaspavano come da bambino quando, al mare, cercava di imparare e rimanere a galla ma scivolava verso il fondo. Continuò a sprofondare, fino a quando sentì di essere immerso completamente nel liquido misterioso, in quel preciso istante, percepì di aver compiuto il distacco da sé, per sempre. Aprì l'armadio, fece scorrere le grucce con tutti gli abiti di quell'estraneo da cui era appena uscito, scelse degli indumenti a caso, li indossò, poi prese una pentola e vi gettò dentro il portafogli con tutti i soldi, i documenti, i libretti di banca, le carte di credito e tutto ciò che di documentale gli apparteneva e che potesse ricondurre a quella che era stata, fino a qualche minuto prima, la sua identità, staccò dal muro il portaritratti con la foto della sua famiglia a
Nizza, la guardò ancora una volta, poi ruppe la cornice, stracciò la foto in mille pezzi e li buttò dentro. Poi versò all’interno dell'alcol e lo innescò con un fiammifero. Attese con determinazione e scrupolo che tutto fosse avvolto dal fuoco, osservando le fiamme che da un iniziale blu cambiavano colore di continuo, aggredendo la pelle, la filigrana delle banconote, la carta dei documenti, la plastica delle carte di credito. Un fumo denso e acre riempì la stanza costringendolo ad aprire la finestra. Quando tutto fu ridotto in cenere e in grumi irriconoscibili carbonizzati, versò il contenuto nella spazzatura e si sentì stranamente diverso. Ora si sentiva libero. Uscì di casa e per completare il rito, gettò tutte le sue chiavi di casa, dell'auto e dell'ufficio in un canale e spense la luce sulla sua vita precedente. Sentì un mondo meno ostile attorno a lui, era quasi notte, ma la città pulsava ancora di battiti di vita, gente allegra passeggiava per le strade, i bar erano ancora pieni di clienti attardati di insonnia e di voglia di spremere succo di vita. Sorrideva a tutti e salutava con gesto elegante. La gente lo osservava interdetta, ma ricambiava con un sorriso ironico ammiccando verso i compagni. Era bello sentirsi nessuno, scivolare tra la gente, senza un ruolo, senza un'identità, senza convenzioni da rispettare, senza consapevolezza e ricordi della sua vita, prima.
DUE CORPI I due corpi erano allineati uno accanto all’altro, l’anziana professoressa francese Michelle Demongeout e l'ottantenne ragioniere Mario Beghezzi, ricomposti nei locali della morgue, nudi, la pelle ingiallita e quasi fluorescente dall’evolversi della morte dentro i loro organismi. Ma c’era qualcosa di nobile nella loro immobilità, la fierezza della morte, come raggiungimento della tappa finale, senza alcuna ombra di rammarico e di dispiacere nelle loro espressioni. L’ispettore Sartan faceva queste considerazioni mentre osservava con attenzione ed era stupito dall’analogia delle due ferite sotto la mandibola. Sgozzati tutti e due e probabilmente da un’arma simile, una lama affilatissima, un bisturi o un rasoio. Ma le analogie terminavano qui, niente altro da condividere, a parte l’età. Non si conoscevano, erano di nazionalità differenti, vivevano in quartieri diversi e anche le loro amicizie, i luoghi che frequentavano non avevano niente in comune. I sopralluoghi nelle loro case, gli interrogatori dei vicini, le prime sommarie indagini storiche sulle loro vite non davano adito a nessuna ipotesi che i due si conoscessero. Nella loro esistenza avevano avuto le stesse probabilità d’incontrarsi, di due rette parallele, eppure eccoli lì, uno accanto all’altro, a dialogare nel silenzioso linguaggio finale. Erano così vicini, ora, le braccia quasi si sfioravano, magre e affusolate, quelle di lei, più corte e muscolose quelle di lui. “Deve aver fatto dello sport” pensava il commissario, “probabilmente tennis, aveva anche una tessera associativa del club Sirola nel portafogli Probabilmente, qualche anno fa, queste vene ormai invisibili e atrofizzate pulsavano sangue ed energia, e le braccia mulinavano la racchetta, forse un doppio tra pensionati, qualche tutore sul gomito, la fascia muscolare per la schiena, un compagno con cui litigare per un colpo sbagliato e ora, tutto finito...” Ma Sartan quando si concentrava a lungo, perdeva il contatto con la realtà e si astraeva, la sua fantasia riusciva anche nei momenti più impensati a liberarsi: Immaginò il loro risveglio, il gesto improvviso di due persone estranee che si svegliano nudi, uno accanto all’altro, si guardano sorpresi e cercano di coprirsi con il lenzuolo,
quelle parti del loro corpo che, benché ormai organi appassiti, suscitavano ancora, imperioso e istintivo, il pudore di essere celati. Trasportato dal filo inarrestabile dei suoi pensieri, evocò la visione di suo padre e sua madre nell’atto estremo di un ultimo amplesso e si vergognò della sua immaginazione che lo portava in una zona inesplorata della psiche. Solo un attimo, poi rientrò in sé, e riuscì a sorridere di se stesso e dell'incredibile e incontrollabile capacità di distorcere ricordi a cui sovente si abbandonava. La sua parte razionale ebbe, infine, il sopravvento. “Perché uccidere? Per derubarli? Per rancore personale? Per interessi economici? Per casualità legata a un gesto di perversione? Ognuna di queste ipotesi può avere un fondamento. Ho bisogno di conoscere il loro vissuto, ricostruire la loro vita scavando nel passato. Sarà davvero dura questa volta, non ho indizi, e mi sento privo di energie e di iniziativa”. Era più di un'ora che era accanto ai due corpi, l'addetto in camice verde che era con lui e che gli aveva aperto le celle frigo, cominciava a dare segni di impazienza, giocherellando con il telo verde che ricopriva parzialmente uno dei corpi e battendo ritmicamente il piede a terra. Sartan, colse quei segnali cinetici e poi, l'odore della formalina riportava alla realtà e alla tristezza di quella camera mortuaria. «Chiuda pure, mi basta così per oggi...» gli disse, e mentre l'addetto faceva scivolare le due lettighe dentro le celle, sentì più forte in lui, il bisogno di capire il mistero che i due corpi nascondevano. Arrivato in ufficio, diede disposizioni affinché il fotografo di servizio si recasse all’obitorio a scattare quante più foto possibili ai cadaveri, prima che l’autopsia ne facesse scempio. Poi aprì i due fascicoli e cominciò a leggerli con attenzione.
IL PADRE DELL’ISPETTORE La telefonata frantumò i sogni a cui si era abbandonato. Stordito, a occhi chiusi, cercò il telefono dal lato sbagliato tastando con la mano sul comodino e facendo cadere una pila di libri e la bottiglietta d'acqua minerale gassata che tutte le sere beveva per aiutare la digestione. Il fracasso lo svegliò definitivamente e lo liberò dalle ragnatele del sonno. Impugnò il telefono con decisione ( riusciva a passare dal sonno al pieno controllo delle sue attività in tempi brevi), e stette ad ascoltare in silenzio quanto gli veniva detto da una voce con forte accento dialettale. «Va bene, cerco di prendere il primo volo per Palermo...» rispose brevemente. Guardò l'ora, le cinque di mattina, proprio l'ora in cui riusciva a sognare, pensò per un attimo, poi uscì dal letto per prepararsi fisicamente e psicologicamente alla dura giornata che lo attendeva. Dopo tre ore era già sull'aereo e seduto accanto all'oblò, osservava con preoccupazione l'estensione blu scuro del Tirreno. Non amava viaggiare in aereo, e in particolare su quella tratta che inevitabilmente lo faceva pensare alla strage di Ustica. Faceva spaziare lo sguardo in tutte le direzioni alla ricerca di terra ferma e di umane sicurezze. Quando l'aereo toccò terra, provò la solita, indescrivibile sensazione di assoluto benessere e dopo un quarto d'ora circa, era già fuori dall'aeroporto, (era riuscito, esibendo il tesserino, a evitare le lunghe code del check-out). Percepì subito l'odore di Sicilia, un mix aggressivo di fiori d'arancio, e quell'odore aspro e potente di terra vulcanica, un effluvio di zolfo e salsedine che lui riconosceva, e che lo faceva stare bene, in un'atmosfera pregna di odori-ricordi, meno rarefatta di quella a cui era abituato. Chiamò un taxi e si lasciò trasportare ascoltando, ma come in sordina, le chiacchiere del tassista curioso-logorroico-ammiccante. Ogni tanto rispondeva: “Sì, così vanno le cose, che vuol fare, i giovani d'oggi, bellissima giornata” e aspettava da un momento all'altro che il mono-discorso scivolasse fatalmente sulla mafia e su come Palermo fosse cambiata. Ma a lui sembrava la solita città, duale, immobile e dinamica, ricca, miserabile, sporca, magnifica negli scorci e nelle
architetture, opulenta di stili, di tradizioni, di cultura stantia, ma nevrile come il pulsare delle vene in un puro sangue. Gli edifici scorrevano velocemente, in un susseguirsi di segni architettonici contraddittori, e di un carosello di macchine, scooter, e autobus, tutti dotati di richiami metallici sonori come in una giungla i cui animali avessero deciso di emettere, allo stesso tempo, i loro versi. La vettura guadagnò rapidamente la periferia e cominciò a salire per la strada che si inerpicava improvvisamente verso le colline. Gli eucalipti segnavano il nastro di asfalto delimitandolo tra due barriere di leggeri, molli rami che si prostravano verso terra sfiorandola con le agili foglie. Ora, che la distanza tra lui e la figura di suo padre diminuiva, pensava alla strana telefonata e al significato di quanto gli avevano comunicato, allarmati. “Succede una cosa strana a suo padre, sembra come se fosse guarito all'improvviso, ha ripreso a parlare e a ragionare, si ricorda tutto, come se questi cinque anni di malattia fossero stati rimossi. Il dottore dice che è un segnale pericoloso, che potrebbe significare che ... insomma, non so come dirglielo, che siamo prossimi alla fine...” Ora la macchina girava a destra per una stradina polverosa che si inerpicava ancora di più, fino al grande fico d'india e la madonnina con i fiori finti, accanto al cancello in ferro, verniciato di bianco ma con molte chiazze di ruggine. La costruzione in tufo, a due piani, era una grande villa ottocentesca di una nobile famiglia decaduta, poi acquistata da una società immobiliare e trasformata in casa di riposo. L'aveva scelta suo padre, in fotografia, quando i sintomi del male erano ancora leggeri e lui aveva manifestato il desiderio di tornare in Sicilia per restarvi per sempre. Gli era piaciuto l'aspetto decadente che la villa sprigionava, diceva che era adatta allo spirito che si era insediato in lui da quando era morta la mamma. La facciata conservava ancora l'eleganza originaria, due importanti scale contrapposte conducevano al primo piano, caratterizzato da due ampi archi che la ritmavano con le profonde ombre, come occhiaie su un volto. La pietra aveva subito con dignità l'aggressione del tempo e degli agenti atmosferici, macchie più scure di muschio si erano annidate nella tenera struttura del tufo, come un fondotinta invecchiante distribuito a chiazze. Sulla terrazza, contenuta da una balaustra della stessa pietra, era stata costruita abusivamente una stanza che veniva utilizzata come lavanderia e deposito dell'acqua per far fronte alle frequenti carenze. Nessuno ci aveva fatto caso e così la linea originaria della villa era stata deturpata
da quella svettante superfetazione. Sceso dalla vettura, rimase qualche istante a guardare le finestre bianche con i vetri che ricordava sottili come veli di cipolla, ma che ora erano protette da inferriate che conferivano un aspetto inquietante alla casa. Sulla facciata una terrificante insegna al neon "Casa di riposo di Sant'Alfio" rappresentava il definitivo colpo di grazia all'eleganza di quella che era stata una delle più prestigiose dimore di Palermo. Un'infermiera si affacciò, richiamata dal rumore dell'auto, lo vide, gli andò incontro e dopo avergli chiesto chi cercava, gli fece strada all’interno della clinica. I corridoi erano deserti, i suoi passi che risuonavano di cuoio spesso e dell'abitudine incancellabile di camminare, come durante le marce di addestramento, appoggiando i tacchi con forza, seguivano quelli silenziosi dell'infermiera che gli faceva strada. Le porte delle varie stanze dei ricoverati erano chiuse, nessun rumore era percepibile dal corridoio, sembrava fossero tutti a dormire, nonostante l'ora di tarda mattinata. La luce violenta e accecante del sole che penetrava dalle finestre, inondava lo spazio riempiendolo di vita, contrastando fortemente con l'atmosfera crepuscolare e silente che il commissario percepiva attorno a lui. «Prima la faccio parlare con il dottore» gli disse a voce bassa l'infermiera, e l'introdusse in un'ampia sala in cui i mobili in laminato di legno, di gusto dozzinale, stridevano con il fascino antico del pavimento in mosaico di marmo bicolore e delle volte e dei soffitti decorati. Un enorme lampadario in cristallo stava minacciosamente sospeso al centro della sala. Il dottore era seduto dietro una scrivania, in un angolo, gli occhi bassi a leggere, gli occhiali appesi in precario equilibrio sulla punta del naso. Lo accolse con calore quando lo vide, non si conoscevano ma date le circostanze, non poteva fare diversamente. Aveva una folta capigliatura nera e lunga pettinata all'Umberto, gli occhi ipertrofici sporgevano fuori dalle orbite, quasi una sfida alla gravità ma nel complesso gli suscitò simpatia per il sorriso con cui l'accolse. Dopo le presentazioni, il dottore cambiò tono, diventando molto professionale. «Un caso singolare, quello del suo papà (Sì, disse proprio papà, facendolo sentire di nuovo figlio bambino). È improvvisamente migliorato, riconosce, risponde alle domande e soprattutto è consapevole della sua malattia e degli anni di buio totale che ha vissuto. Come se i suoi neuroni, il suo apparato cerebrale fosse stato riparato e
lui ne avesse ripreso il totale controllo, compresa la memoria, capisce? Anche quella ha recuperato!» «Non le è mai accaduto, nella sua professione, un caso del genere?» «No, le assicuro, si possono ottenere piccoli miglioramenti sullo stile di vita, prolungarne di qualche anno la durata, rendergli meno ostile e dura la parte residuale dell'esistenza, ma mai tali miglioramenti possono riguardare la struttura celebrale nel malato di Alzheimer, rigenerare i neuroni, ripristinare la memoria e la consapevolezza della sua esistenza …» «E così lei ha pensato al canto del cigno, al miglioramento fatale che precede la morte...» «Dal punto di vista scientifico è davvero una sciocchezza, ma non me la sentivo di non comunicarglielo, se non altro avrà la sensazione di tornare a incontrare suo padre nella versione di cinque anni fa, prima dell'aggravamento dei sintomi». Seguì un lungo silenzio, il dottore lo osservava con curiosità in attesa di reazioni. «Bene dottore, ho capito cosa intende ma ora ho voglia di rivederlo, dov'è?» Il dottore prima di rispondere prese la sua cartella clinica e la consultò. «Hanno fatto colazione da un'ora circa. Visto che non ha terapie da seguire, lo potrà trovare nel parco, la faccio accompagnare...» «No, non importa, ricordo la strada...» «Bene, se dopo avesse bisogno di me per qualche chiarimento, io sono qui, mi incuriosisce la sua opinione». Si salutarono con una veloce stretta di mano che il dottore pensava interlocutoria ma che per l'ispettore era definitiva. Il parco, che Sartan ricordava molto esteso, era cosparso di foglie di eucalipto che riempivano l’aria del loro intenso profumo. Si avviò per uno dei sentieri, gli pareva di ricordare che conducesse in un laghetto popolato da oche, il padre gliene aveva parlato spesso, quando le loro telefonate erano frequenti e la conversazione ancora lucida. Lo riconobbe da lontano, la sagoma poteva essere di qualunque altra persona, la distanza era tanta da non consentire di vedere dettagli ma lui associò subito la figura di suo padre alla persona ancora indistinta che riverberava nella luce che il laghetto rifletteva. Si avvicinò silenziosamente per capire cosa facesse e lo vide inchinarsi a terra, raccogliere sassi e lanciarli, con la testa piegata di lato, verso la superficie del lago. Contava i rimbalzi e
faceva piccoli gesti di soddisfazione a ogni lancio. Rimase incuriosito a osservarlo per qualche minuto, poi si vergognò di continuare a spiarne il comportamento e decise di chiamarlo. Non sembrava stupito di vederlo, ma il sorriso era quello che ricordava, luminoso, disponibile, lo specchio di un'anima inquieta ma sempre pronta a comunicare con il prossimo, a sorridere a chiunque, anche ora che il bagliore dello smalto dei suoi denti, era un grigio riflesso di resina. «Ti aspettavo, lo immaginavo che ti avrebbero telefonato preoccupati...» gli sussurrò, mentre lo abbracciava. Sentì lo stesso imbarazzo che aveva sempre provato, quando il bisogno del padre di stringere a sé, di sentire il calore e la consistenza del corpo, gli procurava una strana vergogna e l'atteggiamento di rimanere distante e rigido. «Sei sempre il solito Fede, non ci vediamo da sei mesi, eppure riesci a mantenere il solito distacco di quando eri un ragazzino. Mai lasciarsi andare al sentimento, mi raccomando!» "Capelli bianchi e radi, un accenno di barba come sempre... troppo noioso radersi tutti i giorni come gli chiedeva la mamma" pensava Federico Sartan mentre lo seguiva verso una panchina in legno ancora in ombra. «Come stai papà?» «Così come vedi! Mi sono alzato una mattina con la sensazione di avere dormito per tanto tempo e tutti mi guardavano stupiti, le infermiere, i dottori, gli inservienti, mi guardavano come fossi un marziano. Hanno cominciato a farmi un sacco di domande, test, analisi mediche, e io non capivo e continuo a non capire che succede, io mi sento perfettamente normale, anzi... Mi sento riposato e in forma. Ho solo una sensazione di disagio quando penso al recente passato, di tutta la mia vita precedente invece, ricordo tutto». Il figlio lo guardava con un interesse stralunato, valutava con attenzione tutto quello che diceva, il modo, le espressioni, i piccoli movimenti dei muscoli facciali, lo strizzare degli occhi quando voleva puntualizzare un concetto, il passarsi la mano tra i radi capelli, suo vecchio vezzo giovanile, il sorriso ironico quando parlava di sé. Poi lo vide diventare improvvisamente serio e tacere a lungo guardandolo intensamente. I suoi occhi azzurri indagatori, lanciavano il segnale chiaro che stava per
chiedergli che gli stava accadendo, del perché avesse scatenato quella attenzione morbosa e quella ingiustificata preoccupazione. «Federico, non ho mai saputo che una persona che sta bene e in piena forma susciti tanto interesse, ti prego, non mi nascondere nulla, voglio sapere che mi succede». Temeva quella domanda, prese tutto il tempo che gli serviva per cercare una risposta significativa, ma tutto quello che riuscì a mormorare fu solo: «Niente, niente di grave... stai tranquillo...» Un sorriso amaro gli increspò appena le labbra. «Puoi parlarmene con sincerità, non ho paura di essere malato, mi sento bene e in grado di affrontare qualunque problema». «In questi ultimi tre anni non hai compreso quello che ti stava succedendo? Non ricordi di essere stato male, di avere completamente smarrito il senso della realtà?» «Ricordo solo i primi tempi, gli strani sintomi di non ricordare, la confusione in testa, le parole che non mi venivano, la difficoltà di rientrare a casa quando uscivo, il senso di smarrimento e di perdita temporanea dell'orientamento. Le chiavi! La disperazione di non trovarle mai e di non ricordare dove le avevo appoggiate». «Questo è tutto ciò che ricordi?» «Sì, poi, il lungo sonno e il risveglio...» «Non è stato davvero un sonno, eri ammalato, avevi il morbo di Alzheimer, e questa tua improvvisa guarigione ci ha sorpresi...» «Alzheimer ... Me ne parlava spesso tua madre tutte le volte che perdevo il portafogli, ci scherzava su... Anche quando mi prendeva in giro nel suo tono c'era un affetto profondo, un amore che aveva perso l'impeto ma non la profondità del sentimento che ci univa» di interruppe pensieroso, poi raccolse un altro sasso lo lanciò verso l'acqua e lo seguì con lo sguardo fino a quando, al terzo rimbalzo non lo vide affondare. Poi si rivolse al figlio con un tono all'improvviso solenne. «Ma che senso ha questa attesa della fine? Ormai anch'io sono al terzo rimbalzo...» «Che vuoi dire?» «Che sono stanco, che c'è un punto oltre il quale hai esaurito il tuo rapporto con la vita, anche se il cuore batte ancora e il cervello funziona bene». «Non ti capisco, proprio ora che ti vedo bene, che sembri miracolato,
vorresti morire! Che senso ha?» «Ma è proprio per questo! Perché sono lucido e in condizione di fare una libera scelta, sarebbe troppo semplice decidere la propria morte quando si sta male, è ora che devo scegliere! Se aggiungi alla mia stanchezza di vivere anche il rischio concreto di ricadere in questa sorta di coma appiccicoso o sonno umiliante chiamato Alzheimer, meglio ora, subito, prima possibile!» «Caro papà, ora stai esagerando, pensa alle cose belle che la vita ti può ancora offrire, come questa miracolosa guarigione per esempio, il potersi rivedere, riabbracciare, ma anche gesti come la possibilità di lanciare un sasso nell'acqua... E poi non è così semplice, non si può programmare la morte». Il padre si allontanò dal bordo del laghetto e tornò a sedersi accanto a lui. «Ma è proprio questo il nostro dramma, quello di non sapere quando si deve morire, mentre abbiamo invece una data certa, quella della nascita! Sto riflettendoci molto in questi giorni. Non si tratta solo di me, della mia voglia di smettere, è un problema molto più generale, riguarda tutta la società e non solo quella italiana, è un problema generazionale mondiale». Il figlio prese a guardarlo con attenzione, quando suo padre assumeva quel tono e quell'espressione di solito cominciava a fare proclami, atteggiandosi a salvatore del mondo ed esprimendo quasi sempre concetti astrusi ma spesso interessanti. Rassegnato a continuare ad ascoltarlo gli chiese di proseguire. «Sto leggendo in questi giorni un libro di un filosofo svedese che mi ha illuminato e le cui teorie condivido punto per punto. Tratta della programmazione della morte. Un concetto nuovo, rivoluzionario che consentirebbe a una società realmente moderna e giusta di ristabilire un nuovo, eterno equilibrio tra la vita e la morte». "Ci siamo" pensò il figlio, Don Chisciotte impugna ancora la lancia, ma continuò ad ascoltarlo con attenzione. «Credo che sia davanti agli occhi di tutti l'aumentare vertiginoso del numero degli anziani nella società, e il diminuire altrettanto rapido del numero delle nascite. Questo rapporto è destinato a crescere in modo esponenziale, le nuove scoperte in medicina consentono un allungamento della vita oltre ogni limite inimmaginabile fino a pochi
decenni fa. La nostra società è composta principalmente da anziani improduttivi che assorbono risorse economiche spaventose a danno dei giovani, con il loro bisogno di assistenza, di cure specializzate, di allungamento del periodo in cui lo stato deve pagare pensioni. Le spese sanitarie sono di gran lunga le più elevate nei bilanci statali, e la parte più rilevante di tali spese sono dovute, per forza di cose, al mantenimento e alle cure degli anziani. Ci pensi se tutti questi miliardi si potessero investire in un rilancio delle attività economiche per i giovani, per dare impulso a uno sviluppo sano e consapevole delle giuste scelte?» «E cosa vorresti fare, imporre la morte per decreto? Sarebbe inaccettabile essere costretti ad accettare la fine della propria vita, è contro una legge di natura, non si può modificare». «Non è come dici tu! Se il concetto della morte venisse elaborato come quello della nascita, come una data prestabilita per legge e ciascuno se ne facesse una ragione accettando, per il bene della società, che sia giusto dare un termine alla propria vita per garantire equilibrio economico e sociale, non credi che tutti vivremmo una vita più etica e consapevole?» «Ma quello che proponi tu è terribile, dovremmo avere tutti sul documento di identità anche la data di morte e accettare con rassegnazione che quell'anno, quel mese e quel giorno stabilito per legge, lo Stato o noi stessi, ci si privi della vita deliberatamente e volontariamente. Ti sembra possibile? Ci pensi? Un poliziotto ti ferma a un controllo, ti guarda i documenti e ti fa un verbale perché dovresti essere già morto da qualche mese...» «Lo so che questa soluzione impone il sacrificio di conoscere il giorno della fine della nostra esistenza, ma pensa ai vantaggi che questa programmazione potrebbe offrire alle generazioni future». «Cerco di immaginarlo, ma al di là di un’innegabile razionalizzazione dei ritmi e di una, come la chiami tu, programmazione dell'esistenza di ogni uomo, vedo anche un cinismo assoluto nello Stato che dovesse fare delle leggi con quello scopo, la distruzione di ogni libertà individuale a favore di scelte di carattere economico che però non servirebbero a distribuire ricchezza, ma solo a consentire il perpetuarsi delle attuali ingiustizie e disuguaglianze. E poi immagino le conseguenze inevitabili, grandi e lugubri costruzioni realizzate per portare alla morte gli anziani, o reparti ospedalieri in cui le nursery
sono accanto ai reparti di morte, incubatrici e inumatrici, due macchine costruite per l'uomo, una per assistere alla vita e l'altra per dare morte. Come fai a non trovare orribile tutto questo?» «È il fine che lo giustifica, cerca di comprendere, l'estremo sacrificio diventa accettabile se tutti muoiono alla stessa età e tutti per un fine superiore ovvero l'ottimizzazione delle risorse». «Basta, mi rifiuto di stare ancora ad ascoltarti, sono concetti che non accetterò mai e spero che nessuna società, nemmeno tra mille anni, deciderà di adottare». Il padre gli sorrise e aggiunse: «Scusami, non volevo turbarti, ormai mi conosci... Non sono cambiato... Tuttavia devo chiederti ancora qualcosa e non sarà facile...» «Di che si tratta?» «Non ti allarmare, ha a che fare con la morte, con la mia morte... Ma non ti voglio creare altre preoccupazioni oggi, ti ho già messo a dura prova con le mie intemperanze intellettuali… » e qui la sua voce divenne sottilmente ironica. «Ne parleremo la prossima volta. Anzi, ti scriverò una lettera quando sarà il momento». Il figlio era davanti a lui e voleva sapere, incuriosito dal tono misterioso e profondo delle parole del padre, ma il suono del cellulare si intromise perentoriamente a interrompere il dialogo tra padre e figlio. Federico cercò il telefono nella tasca e rispose dopo avere guardato il numero. «Un altro omicidio? Con le stesse modalità? Va bene prendo il primo aereo, stasera penso di essere di nuovo in sede». Si girò verso il padre che si stava allontanando da lui velocemente. «Dove vai? Perché scappi?» gridò mentre gli andava dietro a passo sostenuto. Lo raggiunse e lo fermò prendendolo per il braccio. Lo vide con gli occhi pieni di lacrime, che guardavano in basso e notò una macchia scura che si allargava rapidamente all'altezza del l'inguine. “Cristo!” pensò “Ci risiamo”. Fine anteprima. Continua…
INDICE Pelle al neon 5 L’ingegnere francese 8 La professoressa Demongeout 13 Odori 17 Periferia 22 Alba 25 Il rito 30 Due corpi 33 Il padre dell’ispettore 35 L’ultima preghiera Errore. Il segnalibro non è definito. Yu Mu Errore. Il segnalibro non è definito. Evelina e i gatti Errore. Il segnalibro non è definito. Cronaca nera Errore. Il segnalibro non è definito. Indagini Errore. Il segnalibro non è definito. Il fascicolo Errore. Il segnalibro non è definito. La sorella minore Errore. Il segnalibro non è definito. Il viaggio a Firenze Errore. Il segnalibro non è definito. La sconosciuta nel parco Errore. Il segnalibro non è definito. La lettera mai scritta Errore. Il segnalibro non è definito. Il battito della vita Errore. Il segnalibro non è definito. Il senso di solitudine di Federico Sartan Errore. Il segnalibro non è definito.
Il sagrestano Errore. Il segnalibro non è definito. La seduzione Errore. Il segnalibro non è definito. Il rimorso Errore. Il segnalibro non è definito. L’incubo di Salima Errore. Il segnalibro non è definito. L’adolescenza di Salima Errore. Il segnalibro non è definito. L’ultima delusione del ragioniere Beghezzi Errore. Il segnalibro non è definito. L’ultima cena di Stephanie Errore. Il segnalibro non è definito. L’errore di Yu Mu Errore. Il segnalibro non è definito. L’ultimo giorno di scuola Errore. Il segnalibro non è definito. Due giorni dopo Errore. Il segnalibro non è definito. La testimonianza Errore. Il segnalibro non è definito. Ritorno in Francia Errore. Il segnalibro non è definito. L’interrogatorio Errore. Il segnalibro non è definito. Il riconoscimento Errore. Il segnalibro non è definito. Intuizione Errore. Il segnalibro non è definito. La lettera di Vanni Errore. Il segnalibro non è definito. Una breve vacanza Errore. Il segnalibro non è definito. La corrente del fiume Errore. Il segnalibro non è definito.