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Published by Florio “SetiroN // Hypnotoad” Alagna, 2018-04-03 09:24:37

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

capitò Teresa, la figlia del fruttivendolo che aveva la banca-
rella all’angolo di via Nicolai. Notai le risatine dietro le mani,
gli sguardi ammiccanti delle mie compagne, quando la mae-
stra annunciò con chi avrei dovuto preparare la relazione.
Teresa era arrivata nella nostra classe quell’ultimo anno.
L’anno prima era stata bocciata per l’ennesima volta. Aveva
tredici o quattordici anni. Era alta due spanne più di noi.
Portava già il reggiseno, una terza abbondante presumo.
Metteva sulle unghie lo smalto rosso della madre. Calzava
scarpe con i tacchi e indossava calze di nylon, il più delle vol-
te sfilate. E si truccava pure, Teresa.

Rimasi impassibile alla decisione della maestra, per non
dare soddisfazione alle mie compagne, anche se dentro mi
sentivo bruciare.

E così, quasi ogni pomeriggio di quell’ultimo mese di
scuola, andavo a casa di Teresa per leggere insieme a lei il
Diario di Anna Frank. Me lo aveva comprato Enza, da Later-
za, in via Sparano. Teresa non poteva mai venire da me. Sua
madre non glielo permetteva. Diceva che doveva guardare i
fratelli più piccoli. Lasciavo il libro a casa sua, per non dover-
melo portare avanti e indietro. Teresa non aveva mai voglia
di leggere e così leggevo io, ad alta voce, ma la sua casa era
una bolgia infernale. I suoi fratelli più piccoli litigavano in
continuazione e se le davano di santa ragione. Lei sopportava
un po’, poi si alzava di scatto e li prendeva a schiaffoni e scu-
lacciate. Tornava a sedersi accanto a me, tirava su le gambe e
poggiava i piedi sul tavolo, senza togliersi le scarpe. Si accen-
deva una sigaretta e mi ascoltava, soffiandomi il fumo sulla
faccia. Me ne andavo appena sua madre tornava a casa. Non
era una donna molto ospitale. Mi guardava in cagnesco. Mi
metteva soggezione. Non so come, ma riuscimmo a leggere

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tutto il libro. Ormai mancavano un paio di settimane alla fi-
ne della scuola e dovevamo solo scrivere la relazione. Un po-
meriggio però, al citofono, suo fratello mi rispose che la so-
rella non c’era. E non si presentò neanche a scuola il giorno
dopo. E neanche i giorni successivi si fece vedere. Ritornai
più volte a citofonare sotto casa sua e mi dicevano sempre che
Teresa non c’era. Una volta si affacciò sua madre dal balcone
e in mezzo ai panni stesi, intravidi la sua testa con i bigodini.

«Teresa sta malata! Vattìn!» mi urlò.
Scrissi la relazione da sola, ma la firmai con il mio nome e
anche con quello di Teresa. L’ultimo giorno di scuola parlai del
Diario di Anna Frank, davanti a tutta la classe, seduta accanto
alla maestra, sulla cattedra. E poi suonò l’ultima campanella
delle elementari, al “San Giovanni Bosco”. Uscimmo a urla e
spintoni, come al solito, dal grande portone di legno incrostato.
Lungo via Crisanzio, costeggiando la Manifattura dei tabacchi,
vidi Teresa poggiata sul cofano di un’auto. Mi aspettava.
«Ma che fine hai fatto?» le chiesi quando la raggiunsi.
«Ho fatto tutto da sola».
«Tieni» mi disse, porgendomi il Diario di Anna Frank.
«Il tuo libro».
Aveva un’aria strana. Era seria. Non mi guardava in faccia.
Poi si girò su se stessa e senza neanche salutarmi se ne an-
dò, sculettando sui suoi tacchi consumati.
A casa mi accorsi che aveva scritto qualcosa sul retro della
copertina del libro, con la sua grafia ancora infantile:
Grazie che mi hai aiutato, ma a me la scuola non mi piace.
Rividi Teresa quando ero già alle medie. Camminava
sull’altro lato della strada. Spingeva una carrozzina per bam-
bini, con la copertina azzurra. Non mi vide. O fece finta di
non vedermi. Neanche io la chiamai.

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6

Te lo ricordi il giorno in cui ci siamo conosciute, Rosy?
Era il mese di luglio. Del 1976. Alla spiaggia di S. Francesco,
vicino alla Fiera del Levante. I miei genitori, come ogni an-
no, prendevano in affitto la cabina per tutta l’estate. O me-
glio, loro e i miei parenti prendevano in affitto la cabina per
tutta l’estate. La cabina 58, sempre quella, per non so quante
persone. Nonni, zii, zie, cugini, nipoti, pronipoti. Io e mam-
ma, di mattina presto, salivamo sulla filovia arancione che ci
lasciava proprio davanti all’ingresso dello stabilimento. Mi
piaceva l’esatto momento in cui attraversavo i cancelli e i tor-
nelli color verde smeraldo, verniciati da poco per la stagione
estiva. Mi sentivo una privilegiata. Mi piaceva il pavimento
cementato dell’ingresso, grigio chiaro, liscissimo, con la sab-
bia caduta da centinaia di piedi in ciabatte di gomma e zoc-
coli di legno. Mi piaceva l’odore delle creme solari, inconfon-
dibile. Odore d’estate. Odore di vacanze. E il bar, sempre af-
follato, che vendeva i ghiaccioli colorati, e i maritozzi rico-
perti di zucchero, e le granite al limone, e la focaccia già ta-
gliata a pezzi con le olive nere incastonate nella pasta, come
diamanti. Mi piaceva il jukeboxe con le canzoni di Lucio
Battisti, ad altissimo volume. I ragazzi e le ragazze erano se-
duti in bilico sulle ringhiere, ai lati delle passerelle di legno e
scherzavano, e ridevano, e cantavano con aria di sfida: Che
anno è?/ Che giorno è?/ Questo è il tempo di vivere con teee!

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Davanti alla cabina 58, ogni mattina, c’erano già le mie
zie, con i loro costumi da bagno corazzati, le gambe e i seni
enormi. A cucire, sotto gli ombrelloni. I miei zii giocavano a
carte, seduti attorno ad una cassetta di birra capovolta sulla
sabbia. Fumavano. Bevevano il caffè che le mogli avevano
portato da casa, ancora caldo, nei thermos da un litro. Total-
mente concentrati nel loro gioco. Indifferenti alle grida e ai
capricci di tutta la marmaglia dei miei cugini più piccoli, ac-
cuditi e rimbrottati continuamente dalle loro madri.

«Voglio fare il bagno!» piagnucolava la più odiosa delle
mie cugine, aggrappandosi alla coscia bianca della madre.

«Mo’ non puoi. Hai mangiato la focaccia. Devi aspettare
almeno un’ora» rispondeva mia zia, strattonandola col suo
braccio enorme. Ad ogni movimento la sua carne molle pro-
duceva piccole onde superficiali, che sembravano fatte di bu-
dino alla vaniglia.

«Nooo. Ho caldo! Voglio entrare in acqua!» si lagnava an-
cora lei, allacciando le braccia attorno alla grossa gamba di sua
madre, attraversata da vene varicose di colore blu, quasi viola,
talmente protuberanti, da voler scoppiare sotto la pelle.

«Vado a fare il bagno» annunciavo sadicamente a voce al-
ta, in modo che anche mia cugina sentisse.

«Non andare all’acqua alta!» mi diceva mamma, ad alta
voce, mentre sistemava, all’ombra delle cabine di cemento, le
cotolette che aveva portato per il pranzo.

Ma quale acqua alta? Ti ricordi Rosy? Dovevamo cammina-
re con l’acqua all’altezza delle ginocchia per almeno cento metri,
prima di raggiungere il mare più profondo. E proprio grazie
all’acqua così bassa, noi ragazzini del quartiere Libertà superava-
mo quei pochi metri di rete metallica che segnavano il confine
tangibile tra la spiaggia di San Francesco, con la sua clientela ti-

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picamente “pop” e il Trampolino, la spiaggia accanto, “la spiag-
gia dei ricchi”, come la chiamavamo. Eppure quelle incursioni
al Trampolino avevano, ogni volta, il sapore della trasgressione.
Del quotidiano abbattimento delle regole. Potevamo curiosare
in un territorio che non ci apparteneva, come spie in una terra
straniera, camuffati nei nostri costumi da bagno, mimetizzati
dall’abbronzatura della nostra pelle. Ci aggiravamo furtivi tra i
lettini azzurri disposti in file ordinate sotto ombrelloni dello
stesso colore. Due signore dalla pelle unta, cosparsa da litri di
olio solare, le bretelle del costume da bagno abbassate per otte-
nere un’abbronzatura più uniforme, sorseggiavano con la can-
nuccia un liquido rosso amarena. I loro mariti, con le pance
prominenti, i ciuffi di peli lunghi e bianchi sul petto, sfogliava-
no annoiati la Gazzetta del Mezzogiorno. Alcuni ragazzi giocava-
no a palla a volo, lanciandosi la palla al di là di una rete tenuta
ferma da due grossi pali, conficcati nella sabbia. Le ragazze li
guardavano, ridacchiavano, ammiccavano, bisbigliandosi parole
nelle orecchie. Non c’era alcun dubbio: i clienti del Trampolino
erano più ordinati. Più disciplinati. Meno chiassosi.

«Torniamo?» proponeva prima o poi qualcuno di noi,
stufo dell’esplorazione.

E facevamo ritorno, costeggiando la grata metallica che
divideva i due stabilimenti, in fila indiana, aggrappandoci
con le dita alle maglie di ferro, perché le onde schiumose che
venivano a sbatterci sulle ginocchia, non ci facessero perdere
l’equilibrio. La spiaggia di San Francesco vista così, a distan-
za, attraverso la grata di metallo, col faro di San Cataldo in
lontananza, la folla assiepata sulla sabbia, ricordava un formi-
caio impazzito.

Ti ho visto, Rosy, appena raggiunta e aggirata l’estremità
della rete metallica, quando ormai ero nella mia zona e il

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Trampolino era di nuovo terra straniera per me. Territorio
tuo. Solo tuo. Eri seduta ai bordi della piattaforma di cemento,
proprio da dove partiva la grata divisoria, con i piedi che sfio-
ravano l’acqua. Bellissima e superba. Masticavi un’enorme Big
Babol rosa. Bionda e aristocratica, come una principessa sveva.
Osservavi quella nostra strana ritirata in processione, con un
misto di curiosità e stupore, mentre tiravi su le gambe, alter-
nandole, e lasciandole poi ricadere in acqua. Prima una e poi
l’altra. Ricordo di aver provato un leggero senso di vergogna,
unito a una sorta di consapevole sconfitta. Facevo parte di un
piccolo corteo di curiosi che tornava, con la coda tra le gambe,
ai propri ranghi, al posto che gli spettava. Ti sei accorta che ti
fissavo, proprio mentre facevi con la bocca un pallone rosa che
cresceva e cresceva, sempre di più, fino a fargli raggiungere
un’estensione improponibile. Hai continuato a guardarmi an-
che quando l’enorme pallone di gomma è esploso. Hai rimesso
la Big Babol in bocca, aiutandoti con la lingua, senza smettere
di tenermi gli occhi addosso. Mi avvicinavo sempre di più ver-
so la riva, verso di te, seduta dall’altra parte della rete metallica.
Bellissima e sola. Hai inclinato leggermente la testa da un lato
e con il gesto più altero del mondo, hai portato i tuoi capelli
lunghi da una parte, sul davanti, facendoli scivolare sull’omero
della spalla destra. Non so se te lo ricordi, Rosy, ma io sì, me
lo ricordo bene. Non avevo ancora raggiunto metà del percor-
so, quando ho sentito le urla di mia madre che, dalla riva, ge-
sticolava come una Menade impazzita.

«Esci dall’acqua! Mo’ proprio!».
Ti sei voltata anche tu verso la donna che urlava. Guarda-
vi lei e guardavi me.
«Addò si sciut a frnèsc?». Che fine hai fatto?, gridava mia
madre, gesticolando.

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«È da n’ora che ti cerco! Tu m’ uè fà mrì a me!». Mi vuoi
far morire! E si portava, con una gestualità teatralmente esa-
gerata, entrambe le mani sul petto, incrociando le dita.

Nessuno, là sulla riva della spiaggia di San Francesco, fa-
ceva caso agli strepiti di mia madre. Né le signore sedute sul-
le basse sedie di plastica, mezze sprofondate sul bagnasciuga,
né i ragazzi con gli occhiali a specchio che passeggiavano con
i piedi nell’acqua, né i bambini che giocavano a rivoltarsi su
un materassino mezzo sgonfio. Nessuno le faceva caso, tran-
ne te Rosy, che voltavi la testa a guardare lei, e poi di nuovo
a fissare me. Nessuno le faceva caso, Rosy. Tranne te. E
tranne me, che cercavo di leggerti negli occhi, per indovina-
re cosa stessi pensando. Che mi sentivo le guance in fiamme
per la vergogna. Che in quel momento avrei voluto precipi-
tare nel più profondo degli abissi. Guardavi lei. Guardavi
me. Guardavo te. Ti ho dato un’ultima occhiata proprio
quando ti sono passata accanto, dall’altra parte della grata
metallica, nel momento in cui facevi un altro pallone rosa
con la Big Babol. E poi ho abbassato gli occhi e ho seguito
mia madre verso la cabina 58.

Il numero di parenti, nel frattempo, era aumentato. C’era
nonna, arrivata anche lei con la filovia arancione, portandosi
da casa la teglia di melanzane ancora calde. Restava comple-
tamente vestita, con la gonna nera, la maglia nera, seduta
all’ombra delle cabine, su una sedia a sdraio che a stento la
conteneva e si sventolava il viso accaldato con un ventaglio
dai grossi fiori sgargianti.

«Madò! C’ fasce cald!» sbuffava.
«Ci stanno pure due polpette», aggiungeva, indicando un
grande contenitore ermetico pieno di decine e decine di pol-
pette al sugo.

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C’era Enza, insieme a Gino, suo marito. Venivano per il
pranzo e rimanevano alla spiaggia con noi fino alle quattro,
per poi tornare al lavoro. C’era Saverio, appena arrivato in
motorino. Sicuramente si era svegliato da poco. Rientrava
così tardi a casa, la notte, che neanche lo sentivamo più.

Tutti mangiavano, appollaiati da qualche parte all’ombra.
Le donne si alzavano per tagliare il pane, o prendere il vino.

«Marì, passami l’acqua».
«Terè, ce n’è ancora?».
«Rosè, hai portato il caffè?».
«Concè, è sciapito. Piglia nu picc d’ sale».
E dopo quei pranzi a base di pasta al forno, e cotolette, e
parmigiane, tutti si sdraiavano all’ombra, intontiti dal caldo
e dal vino, in uno stato di torpore catalettico. C’era persino
qualcuno che russava.
Ti ho visto da lontano Rosy, mentre ti aggiravi da sola in
mezzo alla confusione di corpi sdraiati sulla sabbia. Ti ho ri-
conosciuto subito. Eri proprio tu, perfettamente distaccata
nel tuo alone aristocratico, come ti avevo visto quella matti-
na, quando con la Big Babol in bocca facevi grossi palloni ro-
sa. Immediatamente riconoscibile nella tua evidente estranei-
tà. Facilmente distinguibile per quella tua lucentezza. Per il
tuo costume da bagno rosso cremisi. Per i tuoi lunghi capelli
biondi. Mi sono alzata e ti ho seguito.
«Non ti fare il bagno mo’!», urlò mia madre, «Devi aspet-
tare almeno due ore!».
Mi voltai e le dissi: «Lo so».
Mi sei sembrata così fragile, Rosy. Così indifesa, in un ter-
ritorio che non era il tuo. Un bersaglio troppo facile per
chiunque avesse voluto farti del male. Ti seguivo, a pochi
passi dietro di te, mettendo attentamente i piedi sulle orme

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che lasciavi impresse sul bagnasciuga per qualche secondo, fi-
no a che l’onda successiva veniva a cancellarle. Avevi il por-
tamento di una gazzella in perlustrazione, mentre ancheggia-
vi lenta, con i capelli che ti arrivavano alla vita e le cui cioc-
che si spostavano leggere ad ogni passo. Ora a destra. Ora a
sinistra. Avevi nelle braccia la grazia di una danzatrice cinese.
La muscolatura di una giovane zebra nelle gambe.

Ti sei girata di sorpresa, per poco non ti sono venuta ad-
dosso. Eri più alta di me di una spanna.

«Mi stai seguendo?» mi hai chiesto, arcuando le sopracciglia.
Mi sono persa un attimo nei tuoi occhi azzurrissimi.
«Chi, io? No» ti ho risposto.
Ti sei fermata e ti sei voltata verso il mare. Giocherellavi col
piede sulle piccole onde schiumose che arrivavano pigre, for-
mando grandi archi lucidi sulla sabbia bagnata. Mi sono voltata
verso il mare anch’io. Accanto a te. Siamo rimaste in silenzio
per un po’, senza sapere cosa dirci. A scrutare l’orizzonte.
«Vuoi diventare mia amica?» mi hai chiesto all’improvviso.
Mi sono girata a guardarti. Avevi un piccolo neo sulla
guancia sinistra. Il profilo perfetto. Il naso piccolo. Hai in-
crociato le braccia, la schiena dritta, quasi in atteggiamento
di attesa, continuando a guardare verso il mare. E allora ho
capito che eri venuta a cercarmi. Avevi oltrepassato la grata
di ferro che faceva da confine tra il Trampolino e San Fran-
cesco, con l’idea di venire a scovarmi in mezzo al formicaio.
Non ci potevo credere. Mi sono sentita lusingata e felice.
«Sì» ti ho risposto.
«Io mi chiamo Anna» ho aggiunto.
«Rosy. Io sono Rosy». Hai voltato finalmente la testa nella
mia direzione e mi hai sorriso.

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7

Con le ginocchia per terra, davanti al cassetto aperto del-
l’armadio nella mia stanza, riguardavo gli articoli ritagliati
dai giornali, collezionati in tutti quei mesi. Linda dei Pooh,
sparata a tutto volume dalla radio di un’auto che passava per
strada, azzittì per qualche istante il frinire assordante delle ci-
cale. Folate di vento caldo arrivavano attraverso le imposte
socchiuse, a sollevare delicatamente i fogli riposti nel casset-
to. Ne presi uno a caso. A Roma e in altre grandi città d’Ita-
lia, fiumi di donne manifestavano per le vie, invadendo le
piazze. Portavano fiori nei capelli. Enormi cappelli da strega
sulla testa. Donne che urlavano nei megafoni. Donne con gli
striscioni. Centinaia, migliaia di braccia alzate. Centinaia,
migliaia di mani aperte, unite solo a congiungere la punta de-
gli indici e dei pollici, così da formare uno spazio vuoto e
aperto nel centro. Ero affascinata dal segreto che celavano in
quel gesto. Affascinata e incuriosita dal loro abbigliamento,
dalle loro risate sfrontate. C’era qualcosa di audace, svergo-
gnato e irriverente in quelle donne. Donne così non mi era
mai capitato di vederle da vicino, per le strade del Libertà.

Folate di vento caldo mi scompigliavano leggermente i ca-
pelli. Facevano vibrare i fogli di giornale. Ne afferrai un altro.
Uno scrittore dai capelli bianchi, Alberto Moravia, così si
chiamava, aveva urlato davanti alla folla radunata al funerale
di Pasolini:

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«Abbiamo perso un poeta e poeti non ce ne sono tanti nel mon-
do! Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo!».

Era indignato, quel signore dai capelli bianchi. Le sue pa-
role risuonavano come una terribile denuncia. Come una
condanna, una maledizione:

«Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i po-
chissimi che conteranno come poeti. Il poeta dovrebbe essere
sacro!».

Folate di vento caldo sollevavano la tenda bianca davanti
alla finestra. Presi un altro articolo. Donne che ridevano in
girotondo, tenendosi per mano. Donne con i foulard colo-
rati, le gonne lunghe. Folate di vento caldo rimescolavano i
ritagli dei giornali. Ne presi un altro. Era uno stralcio del
Corriere della sera:

Pasolini è soltanto un altro delle migliaia di omosessuali ricatta-
ti, aggrediti, “suicidati”, massacrati. Non è stato ammazzato perché
uomo di cultura, politico, poeta, ma perché omosessuale; l’omoses-
suale è visto come debole, ricattabile; il delitto contro l’omosessuale
trova ancora troppe giustificazioni e inconfessati consensi.

Omosessuale… dovevo capire bene il significato di quella
parola: o-mo-ses-sua-le. Forse voleva proprio dire “ricchione”?
Non potevo chiedere ai grandi. Intuivo che dietro quelle cinque
sillabe si nascondesse qualcosa di indicibile, qualcosa di cui nes-
suno avrebbe gradito parlarmi. Dovevo assolutamente cercare
in un dizionario, o nei volumi dell’enciclopedia Curcio, che i
miei genitori avevano acquistato anni addietro, a rate mensili, e
che occupavano un’intera mensola sopra il televisore. Volumi
mai aperti. Mai consultati. Messi in fila, in posizione verticale,
con il numero progressivo sul dorso, in cifre romane.

Gli omosessuali, continuava l’articolo, ACCUSANO la radio,
la televisione, i giornali, colpevoli ancora una volta di contrab-

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bandare come cronaca nera o come prodotto di una generica
violenza dilagante, un fatto che testimonia invece la specifica
violenza… la scritta si interrompeva così, perché il foglio era
stato strappato male. Stupida che ero stata! Aveva il bordo
completamente sfilacciato.

Folate di vento caldo facevano roteare sul pavimento al-
cune foglie ingiallite, cadute dal vaso di petunie che mamma
aveva messo sul davanzale.

Posai l’articolo del Corriere e ne presi un altro. Ghira, uno
dei tre aguzzini del Circeo, che non si trovava, che non sarebbe
mai più stato trovato, aveva scritto una lettera agli altri due
complici:

Cari amici, diceva, non mi avranno mai. Vi assicuro che quella
bastarda la faccio fuori. Per voi non c’è pericolo. A fine anno ’76
uscirete tutti per libertà provvisoria. Anche se sanno tutto, questi
bastardi faranno una brutta fine anche loro. Comunque non vi
preoccupate per la mia latitanza. Ho circa 13 milioni di lire. Forse
andrò via da Roma. Per quanto riguarda quella stronzetta, farà la
fine della Lopez. Un brivido mi percorse la schiena. Rividi la te-
sta insanguinata di Rosaria. E quella fototessera, in cui portava
il nastro nero al collo. Il sorriso timido sulle labbra.

Folate di vento caldo.
I carabinieri di Latina, dove si svolgeva il processo del Cir-
ceo, tenevano a bada una schiera di donne urlanti, fuori dal
tribunale. Se quella foto fosse stata un fumetto, nella nuvo-
letta in alto, proprio sulla testa del carabiniere, si sarebbe let-
to: «State composte!». Era esattamente quella l’espressione
stampata sulla faccia di quel militare. Un’espressione che co-
noscevo bene. La stessa di mia madre, o di mio padre, quan-
do mi intimavano: «Stai composta!».
Folate di vento caldo.

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L’omologazione che il fascismo non è riuscito ad ottenere, il
potere della società dei consumi lo ottiene, distruggendo le varie
realtà particolari, aveva detto Pasolini in un’intervista. A dire
il vero non capivo nulla di quello che c’era scritto. Avevo
strappato quel foglio dal giornale solo perché c’era una foto
di Pasolini che mi piaceva. Una foto che lo ritraeva di profilo.
Un occhio chiuso. L’altro che scrutava attraverso l’obiettivo
di una grande cinepresa.

Folate di vento caldo.
Donatella Colasanti seduta in aula tra tutte quelle donne.
Eppure sola.
Folate di vento caldo.
Il 29 luglio 1976 era stato emesso il verdetto sul massacro
del Circeo. Ergastolo! leggevo con esultanza. Anche l’aula del
tribunale era stipata di donne. Quelle stesse donne che ave-
vano urlato nei cortei. Le stesse gonne lunghe. Gli stessi fou-
lard colorati. Ergastolo! C’era un ventilatore nell’aula del tri-
bunale, proprio sotto il crocifisso appeso alla parete.
«Il delitto è lucido, freddo» – aveva detto un avvocato, men-
tre Izzo sorrideva ironico – «spietatamente voluto per il persegui-
mento di un fine ben determinato». Izzo sorrideva. Ergastolo! Iz-
zo sorrideva come il tizio con la divisa, inginocchiato accanto
al cadavere di Pasolini. Ergastolo! Ergastolo per Gianni Guido,
Angelo Izzo e Andrea Ghira, che però era latitante.
Folate di vento caldo.
Esultavano le donne con le gonne lunghe e i cappelli da
strega. Danzavano e ridevano in una sorta di orgia contagio-
sa, un’ondata quasi erotica. E non ci sarebbe stato nessun in-
vito a “stare composta”, suggerito, o esclamato, o urlato in
faccia a quelle stesse donne, che le avrebbe mai fatte tacere.
Folate. Di vento. Caldo.

62

***

Sentii la chiave infilarsi nella toppa e poi la voce di mio
fratello Saverio che diceva:

«Venite, non c’è nessuno».
Richiusi in fretta il cassetto e mi alzai.
Mio fratello quell’anno era stato bocciato. Troppe assenze
a scuola. Troppe impreparazioni.
«Meglio così» aveva detto mio padre. «A settembre va’ a
fatiga’».
E la faccenda era stata chiusa, una volta per tutte.
«Ah no! C’è mia sorella» disse Saverio senza salutare,
quando passò davanti alla mia stanza e mi vide in piedi, vici-
no all’armadio. C’erano altri due ragazzi con lui. Uno di loro
lo conoscevo bene. Si chiamava Antonio. Faceva parte di
quella cricca di giovani che passavano i pomeriggi interi a
ciondolare al bar dell’angolo, seduti sui cofani delle auto, a
bere birra, a fumare. L’altro non l’avevo mai visto. Neanche
loro salutarono. Antonio mi squadrò dalla testa ai piedi, con
le mani nelle tasche dei jeans. Portava una maglietta bianca
aderente, a maniche corte. All’interno di una manica, pro-
prio a contatto col bicipite, aveva messo il pacchetto di siga-
rette. L’altro ragazzo invece muoveva velocemente gli occhi
da una parte all’altra della stanza, con estrema curiosità, co-
me uno che non avesse mai visto un letto, o una finestra, o
un armadio. Aveva la bocca semiaperta che lasciava intrave-
dere l’incisivo superiore spezzato. Emanavano un odore ab-
bastanza sgradevole di sudore e ormoni in tumulto.
«Vabbe’ dai, venite qua» fece Saverio rivolto agli altri due
e li portò nella stanzetta piccola, quella dove dormiva. Chiu-
sero la porta.

63

Li sentivo parlare in silenzio e poi scoppiare a ridere. Non
mi piaceva che ci fossero quei due tizi dentro casa. Mi faceva
sentire a disagio. E mi dava fastidio il loro odore contamina-
tore. Uscii in punta di piedi dalla mia stanza, cercando di
non calpestare le mattonelle sconnesse dell’ingresso. Stavano
fumando. Sentivo puzza di sigarette.

Aprii piano la porta e la richiusi alle mie spalle. Sarei an-
data da Enza, alla merceria. Avrei escogitato una scusa. Le
avrei detto che a mamma serviva una spoletta di filo bianco
e avrei perso un po’ di tempo a chiacchierare con lei, fino a
che si fosse fatta ora di cena.

64

8

Era bello, Rosy, saperti lì la mattina, ad aspettarmi oltre la
grata della spiaggia di San Francesco. Ti mettevi seduta sulla
piattaforma di cemento, dalla parte del Trampolino, là dove
ti avevo visto la prima volta, con i piedi nell’acqua. Quando
mi scorgevi, da lontano, ti alzavi e mi venivi incontro. Face-
vamo il bagno proprio in quel pezzo di mare al centro dei
due stabilimenti. L’estate sembrava esserci sempre stata.
Sembrava non dovesse finire mai. E invece, di lì a un paio di
mesi, con il nuovo anno scolastico, io avrei iniziato la scuola
media e tu l’avresti conclusa. Ero affascinata da te, dalla tua
vita ordinata e pacata e soprattutto dal fatto che fossi figlia
unica. Ti ammiravo perché sapevi suonare il pianoforte, leg-
gere la musica, perché avevi le idee chiare e la schiena dritta.
Cosa mai ti piaceva di me, invece, Rosy? Ti raccontavo di
Enza, della merceria, di quanto mi sentissi sola nella stanza
che un tempo dividevo con mia sorella, ma in realtà mi chie-
devo se davvero ti interessassero i miei discorsi. Cosa ci tro-
vavi in me, Rosy, più bassa di te di dieci centimetri, dall’an-
datura miseramente goffa, se messa a confronto col tuo passo
felpato, quando ti camminavo a fianco? Mi piaceva quel tuo
essere così inconsapevolmente bella. Così inavvertitamente
adorabile. Anche mia sorella Enza era bella, ma lei lo sapeva.
Tu no. E questo, Rosy, ti rendeva ai miei occhi ancora più
vulnerabile, ancora più fragile e bisognevole di attenzioni. Tu

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non ti rendevi conto di come ti guardavano i ragazzi che so-
stavano attorno al jukebox del bar, quando andavamo a com-
prarci il ghiacciolo alla menta. Io sì però. Tu non ti accorgevi
di come i giocatori di tressette, seduti all’ombra del muretto
di calce bianca, ti sbirciavano al di sopra delle lenti scure de-
gli occhiali da sole, ammiccando l’un l’altro, come per dire
“guarda quella”, quando addentavi un pezzetto di ghiaccio e
richiudevi le labbra. Tu non lo vedevi, ma io sì! Aspiravano
avidamente la sigaretta, con aria lasciva, per poi soffiare il fu-
mo, sollevando leggermente la testa e dirigerlo verso l’alto. E
mi sentivo in pena per te. Imbarazzata per te. E arrabbiata,
anche. Avrei voluto chiedere a quei quattro sbruffoni con la
pelle della pancia tesa e dilatata come quella di un tamburo:
“ma che avete da guardare?”. E invece ti dicevo brusca:

«Andiamo via di qua. Andiamo a sederci da un’altra parte».
Come se fosse una colpa essere così visibilmente presente,
con i tuoi capelli biondi chilometrici e il tuo fisico sodo e ag-
graziato.
«Ma perché? Si sta così bene!» mi rispondevi, sedendoti su
una sedia libera e accavallando le gambe.
Non avrei mai voluto essere bella come te. Giuro. A quel
tempo, a dire il vero, ritenevo la procacità di una ragazza un
grosso problema e ringraziavo il cielo di raggiungere, in
quanto a bellezza, la mediocrità più totale. Sicuramente sotto
la sufficienza, ecco. Anche Enza catalizzava l’attenzione di
tutti, quando passeggiava, ma accanto a lei c’era sempre Gino
però. Era diverso.
«Sei sempre sulle spine!» mi dicevi, prendendomi in giro.
E poi, un giorno, sono venuta a cercarti di corsa al Tram-
polino. Ti ricordi, Rosy? Ero appena arrivata. Avevo ancora i
pantaloncini e la maglietta addosso. Ho fatto la solita traver-

66

sata in mezzo al mare, tenendomi ben salda con una mano
aggrappata alla grata divisoria. Le onde mi avevano bagnato
gli indumenti, ma non il foglio di giornale che avevo nell’al-
tra mano, ben serrato nel pugno chiuso, con il braccio com-
pletamente alzato. Parlavi con tua madre, sotto l’ombrellone.

«Rosy! Rosy!» ti ho chiamato da lontano.
Tua madre ha sollevato gli occhi nella mia direzione e ti
ha detto qualcosa. Ti sei voltata anche tu. L’hai lasciata per
venirmi incontro.
«Che hai? Perché sei così agitata?» mi hai chiesto.
«Guarda!» ho ansimato, mostrandoti il foglio di giornale ri-
tagliato dalla Gazzetta del Mezzogiorno che mio padre aveva la-
sciato sul tavolo della cucina, quella mattina di agosto del 1976.
«Graziano Mesina è scappato dal carcere!» ho continuato
col fiatone.
«E chi è Graziano Mesina?» mi hai domandato con
un’aria a metà tra il confuso e lo stupito.
«Come chi è? Il bandito!» ti ho risposto, sgranando gli oc-
chi per la meraviglia che tu non lo conoscessi.
«È la prima volta che lo sento nominare» mi hai detto.
E io non ci potevo credere, Rosy. Non ci potevo credere
che tu non sapessi niente del bandito Mesina, di quanto fosse
terribilmente pericoloso, degli omicidi, dei sequestri, delle
sue continue evasioni.
«Ma ti rendi conto? È riuscito a scappare dal supercarcere
di Lecce. Insieme ad altri dieci delinquenti!».
Non riuscivo a capacitarmi, Rosy, di come tu non fossi
minimamente preoccupata. Voglio dire, Graziano Mesina
era fuori dal carcere! Era libero! Ed era in Puglia, a pochi
chilometri da noi. Possibile che non realizzassi la gravità del-
la cosa?

67

«Hai paura di incontrarlo per strada?» mi hai chiesto, con
quella che a me sembrò una celata punta di ironia.

Ti sei accorta della mia delusione.
«Non si può mica vivere con il terrore» hai continuato.
Ero quasi offesa dalla tua reazione tiepida.
«Ma ignorare una cosa, non vuol dire che non possa farti
lo stesso del male» ti ho risposto.
E fu allora che decisi che mai ti avrei rivelato del cassetto
in fondo all’armadio, perché temevo che ti saresti presa gioco
di me. Ma a ripensarci adesso Rosy, quel cassetto, con tutti
quei fogli di giornale che parlavano di cronaca nera, e stupri,
e morti ammazzati, era un modo, infantile se vuoi, per tenere
la situazione sotto controllo. Per mettere ordine e gestire quel-
la valanga di informazioni che nessuno era in grado di spie-
garmi. A ripensarci adesso, tutto il mio amore per lo studio o
la passione per la lettura che mi avrebbero preso sempre di più
negli anni, erano un sistema, banale se vuoi, per cercare dispe-
ratamente di capire qualcosa che faticavo a capire. Per tenere
gli occhi aperti. «Iapr l’ecchij!», apri gli occhi!, continuavano a
ripetermi. Ed io volevo tenerli davvero aperti i miei occhi. Ma
aperti sul serio! Non così, tanto per dire. A me sembrava in-
vece, Rosy, che la gente in fondo, le cose preferisse non veder-
le. Non saperle. La gente rimaneva impressionata dai fatti di
violenza. Era sconvolta, ne parlava, piangeva, si rammaricava.
Ma poi ognuno tornava indifferente alla propria occupazione,
alla propria vita quotidiana, al ripetersi infinito degli stessi ge-
sti. La gente non faceva niente per cambiare la situazione, an-
zi, continuava imperterrita a comportarsi come il giorno pri-
ma, e come il giorno prima ancora. Eppure Rosy, i mostri,
presagivo già da allora, non nascono da soli. Hanno bisogno
sempre di complicità. Dietro ogni violenza, intuivo già da al-

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lora, c’è una narrazione. L’immagine della violenza improvvi-
sa, dell’orco, è un ripiego salvifico per tutti. È un patetico ten-
tativo di mettersi l’anima in pace. I mostri, la maggior parte
dei mostri, hanno una storia, invece. Sono alimentati, e asse-
condati, e perdonati fin da piccoli. Hanno madri accondi-
scendenti e padri poco attenti. Hanno sorelle silenziose e fra-
telli complici. Hanno maestri incapaci e falsi eroi da emulare.
Hanno un’intera famiglia che li protegge, pur non rendendo-
sene conto. Hanno un’intera società che li giustifica, pur non
sapendolo.

«Rosy» ti ho chiesto. «Tu non hai mai paura?».
«Ma paura di cosa, Anna?».
«Della gente cattiva» ti ho detto.
«Ma ci sono tante persone buone, anche» mi hai risposto tu.
«E non fai mai brutti sogni?».
«A volte capita. Come per tutti». Hai fatto una pausa e
poi hai continuato:
«E tu? Fai brutti sogni tu?».
Ho scosso la testa. Ho rimesso il foglio di giornale nella
tasca dei pantaloncini.
No, non ti avrei mai rivelato del cassetto in fondo al-
l’armadio.

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9

Per la prima volta alla scuola media avevo compagni di clas-
se maschi. A loro era permesso stare senza grembiule, al con-
trario di noi ragazze che dovevamo indossarlo. Era nero. Un
lugubre, informe, tristissimo grembiule nero che nascondeva i
seni che iniziavano a premere duri sotto le maglie aderenti.
Che celava agli sguardi i fianchi, che si facevano più rotondi.
Le gambe, che diventavano più tornite. I sederi, vergognosa-
mente più rimpolpati. Un giorno, durante la ricreazione, un
ragazzino della mia classe, più grande di un paio d’anni perché
ripetente, si prese la briga di stilare alla lavagna una classifica
sull’avvenenza di noi ragazze. I maschi ridacchiavano. Le fem-
mine pure. Persino il professore che entrò in classe subito dopo
per fare lezione, diede un’occhiata alla lavagna e rise sotto i baf-
fi. Il mio nome figurava tra gli ultimi quattro o cinque della li-
sta. Non ci rimasi male. Non mi fregava niente, a dire il vero.
Le uniche due cose che mi interessavano sul serio, erano le me-
ravigliose lezioni della Ludovici, la mia professoressa di italia-
no, e l’amicizia di Paola, la mia compagna di banco. I poemi
omerici e i libri di cui era stipata la casa di Paola. Ettore, Achil-
le, Ulisse e la collezione pazzesca di dischi della sorella di Paola.
Eurialo e Niso e i maglioni lunghi e colorati di Paola. Io invece
andavo ancora in giro con le scamiciate a quadri che mi cuciva
mamma e le gonne a pieghe, che arrivavano sopra il ginocchio.
Paola abitava vicino casa mia. Passava a citofonarmi ogni mat-

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tina e andavamo a scuola insieme. Parlavamo tutto il tempo.
Aveva una sorella molto più grande di lei che studiava all’arti-
stico, che ascoltava gli Inti Illimani, che partecipava alle riunio-
ni delle femministe, qualcosa che, nella mia mente, risuonava
come una sorta di setta misteriosa. Percorrevamo un pezzo di
Corso Italia, sotto la sopraelevata della ferrovia Appulo-Luca-
na. Sull’ampio marciapiede passavamo accanto ai cavalli attac-
cati ai carri, messi in fila uno dietro l’altro, utilizzati per i lavori
di trasporto dei materiali ferroviari. I cavalli mangiavano car-
rube, con il muso infilato in un sacco di iuta attaccato al collo.
Il marciapiede era ricoperto di sterco eppure a me quell’odore
piaceva. Paola si accendeva una sigaretta e me ne offriva una.
Facevo segno di no con la testa. Scendevamo lungo le scale del
sottopassaggio di via Quintino Sella ed eravamo costrette a ur-
lare, per poterci sentire in quella galleria buia e puzzolente dei
fumi di scarico che fuoriuscivano dalle auto in corsa.

Paola e la professoressa Ludovici mi aprirono un mondo.
Volevo anch’io una stanza con le mensole piene di libri. Vole-
vo anch’io i poster di Robert Capa alla parete, i dischi di Fa-
brizio De André, i grossi volumi di Dostoevskij. Volevo una
casa piena di oggetti esotici e profumi d’incenso, invece degli
orribili bicchieri di cristallo esposti nella vetrina della credenza
di mamma. Volevo tappeti colorati sul pavimento e quadri alle
pareti, al posto delle bomboniere messe in mostra sui centrini
di pizzo, o del tabernacolo di san Nicola con le tre palle in ma-
no, sopra la porta d’ingresso. E, soprattutto, volevo anch’io
gonne lunghe e gitane, jeans sdruciti con le toppe di stoffa va-
riopinta e una borsa di cuoio odoroso per portarci i libri.

«E accsì a da scì a la scola? Com’a na sciosciua?». Così vai
a scuola? Come una disordinata? mi chiedeva mia madre,
che trovava inconcepibile il fatto che io mi rifiutassi di

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sfruttare i vestiti che lei aveva cucito per Enza, tempo ad-
dietro, tristemente appesi alle grucce del mio armadio, e
preferissi invece mettere la salopette di jeans scolorita, dopo
che l’avevo tenuta in ammollo in acqua e varichina per una
notte intera.

Avevo scritto una lista dei libri che avrei comprato con i sol-
di ricevuti a Natale dai parenti. Volevo leggere. Volevo impa-
rare. Non volevo restare indietro. Osservavo i miei fratelli. En-
za mi sembrava contenta, anche se proprio non mi capacitavo
di come avesse potuto rinunciare a studiare, di sua volontà, per
sposarsi così presto. Saverio, invece, non mi pareva poi così fe-
lice. Finita l’estate, mio padre lo aveva mandato a lavorare al
cantiere del suo amico Filippo, come manovale. Lo sentivo al-
zarsi la mattina presto, prima di me. Andava a sbattere contro
i mobili, per quanto era assonnato. Imprecava a bassa voce.
Mia madre gli lasciava la colazione già pronta, sul tavolo della
cucina. Tornava a casa il pomeriggio, trascinando i piedi, e si
buttava sul letto. Dopo cena usciva e rientrava tardissimo. E il
giorno dopo si risvegliava presto. E andava a sbattere di nuovo
contro i mobili. E di nuovo imprecava. Sempre così. Sapevo
che continuava a frequentare i due tipi che un giorno aveva
portato a casa, Antonio e Maurizio, così si chiamava l’altro,
quello con l’incisivo superiore spezzato, che quella volta, a casa
mia, aveva scrutato la mia stanza con occhi spiritati. Fu per ca-
so che venni a sapere il suo nome. Antonio mi aveva fermato
per strada, un giorno, mentre tornavo da scuola:

«Di’ a tuo fratello che Maurizio sta dentro» e si mise la
mano davanti alla faccia, con le cinque dita ben aperte, mi-
mando le sbarre di una cella.

«E perché?» chiesi.
«Per un motorino di merda» rispose Antonio.

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Maurizio, a quanto si diceva in giro, era uno di quelli che
entravano e uscivano dalla galera. Tutti sapevano che rubava
e sicuramente anche Antonio era uno che si dava da fare. Sa-
verio non lo so, ma non credo.

Era sempre di malumore però. Sempre scostante. Sempre
aggressivo. Soprattutto con me. Ogni volta che era a casa, ac-
cendeva il suo registratore portatile a cassette, della Philips, a
tutto volume.

«Puoi abbassare?» gli chiedevo. «Sto studiando».
«Chiudi la porta» rispondeva brusco.
«L’ho chiusa. Si sente lo stesso».
«E allora non rompere le palle» diceva.
«Ti ho chiesto solo di abbassare un po’ il volume» conti-
nuavo esasperata.
«Se non te ne vai, ti piglio a schiaffi» minacciava.
Mi assaliva un enorme senso di frustrazione. La maggior
parte delle volte raccoglievo i libri e andavo a studiare a casa di
mia nonna, dove il tempo era scandito dai battiti delle lancette
dell’enorme orologio appeso alla parete, vicino al quadro di
Cristo con il cuore in mano. Un bel cuore, rosso cremisi, cinto
da una corona di spine e una piccola croce conficcata nell’aor-
ta. Nonna di tanto in tanto mi portava qualcosa da mangiare.
Un pezzetto di focaccia. Delle olive in calce. Mezzo panino
con la mortadella. Tornavo a casa sperando che Saverio fosse
già uscito. A volte mi capitava di vederlo al bar dell’angolo, in-
sieme agli altri ragazzi. Alcuni seduti sul cofano di un’auto.
Una Peroni in una mano, la sigaretta nell’altra. Alcuni a caval-
cioni sui motorini. Attraversavo la strada per evitare che mi ve-
desse e comunque, anche se mi avesse visto, sapevo che avreb-
be fatto finta di non conoscermi. Urlavano come se la strada
fosse casa loro. Urlavano e ridevano sguaiatamente. Non mi

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piacevano. Nessuno di loro mi piaceva. E Saverio era tra loro.
Li trovavo ignoranti, volgari, arroganti. E Saverio era tra loro.

«Non è tuo fratello quello?» mi chiese Paola un pomerig-
gio che eravamo uscite insieme, per andare a comprare gli
spartiti per il flauto dolce, da Ricordi, in via Sparano. Arros-
sii. Le avrei voluto rispondere:

«No, non può essere mio fratello. Se era mio fratello, ora
ci avrebbe chiamato e ci avrebbe comprato un gelato, là in
quel bar. Perché mio fratello mi vuole bene, cosa credi? Me ne
ha sempre voluto. Era uno che mi difendeva, lui. Mi dava i
buffetti sulle guance e mi faceva il solletico. Mi faceva morire
dal ridere, Saverio. Mi riparava i pattini a rotelle e mi portava
col motorino fino al porto vecchio, per la festa di san Nicola.
Ci sedevamo a gambe incrociate sul muretto del lungomare,
a vedere i pescatori che portano i fedeli nella propria barca, fi-
no a raggiungere il barcone grande, quello con la statua del
santo. Mangiavamo sgagliozze appena fritte. Buone. Piene di
sale. Avvolte nella carta del pane, per non scottarci le dita. Mi
regalava i giornaletti di Topolino e mi insegnava a scrivere la
acca, in corsivo maiuscolo. Per me la acca era la lettera più dif-
ficile da scrivere. Non mi riusciva proprio, per quanti sforzi
facessi. No… ti sbagli. Quello non è mio fratello».

E, in fondo, che cos’era Saverio per me, in quegli anni, se
non un’ombra fastidiosa, un’impressione, una percezione
negativa e snervante? Un’entità ostile e dannosa, ecco co-
s’era. Soprattutto da quando Enza non c’era più. Una traccia
sgradevole, ecco cos’era. Una sensazione irritante, da cui de-
sideravo liberarmi in fretta. Evitavo il più possibile di stare a
casa quando c’era anche lui. In un modo o nell’altro, avreb-
be trovato l’occasione di litigare con me, di offendermi, di
umiliarmi.

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Il punto di totale rottura accadde un pomeriggio d’inver-
no. Non mi ricordo perché quel giorno non fosse andato a
lavorare. Mio padre e mia madre non erano ancora rientrati.
Stavo ritagliando degli articoli di giornale che avevo messo da
parte. Uno riguardava Renato Vallanzasca, arrestato di nuo-
vo. Era stato fermato da due poliziotti in un posto di blocco,
nei pressi di un casello autostradale. Ne era seguito uno scon-
tro a fuoco e i due poliziotti erano morti. Anche Vallanzasca
venne colpito, ma riuscì a scappare. Avevo seguito con trepi-
dazione le notizie di quei giorni di fuga, immaginando il
bandito che si nascondeva. Ferito. Braccato. Imbestialito. La
sua cattura mi fece tirare un respiro di sollievo.

L’altro articolo era alquanto sorprendente, per me. Singo-
lare. Era datato febbraio 1977 e diceva così:

Il segretario della CGIL Luciano Lama si è salvato a stento
dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli stu-
denti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il
camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso
la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli
incidenti con la testa spaccata e varie ferite.

Un fiume, un fiume in piena di gente era nel piazzale
dell’Università di Roma, ai piedi della statua della Minerva.
A quanto pareva questo sindacalista, questo Luciano Lama,
era stato continuamente interrotto durante il suo discorso.
Disturbato da slogan, da fischi, da battimani ritmati, da con-
tro comizi improvvisati, in una sorta di tumulto in crescen-
do. Giovani appartenenti a gruppi dagli strani nomi, tipo
“Autonomia Operaia”, “Collettivo di via dei Volsci”, “India-
ni metropolitani”, avevano distrutto il carro su cui Lama ave-
va parlato e avevano fracassato ogni cosa che gli era capitata
sotto tiro. Non capivo perché. Molti studenti e lavoratori si

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erano rifugiati nelle aule o nei locali del Rettorato. Nelle foto
dell’articolo si vedevano auto in fiamme, parcheggiate sul
piazzale dell’Università. Ragazzi con il passamontagna e il
volto coperto da fazzoletti, armati di bastoni e tubi di ferro,
lanciavano pietre e bulloni. E non capivo perché. Correvano.
Si spingevano. Volavano cazzotti. Volavano estintori. E io
davvero non capivo cosa stesse succedendo. Sembrava che
l’Università fosse esplosa. C’era una guerra e non ne sapevo
il motivo. La Minerva, dall’alto del suo podio, guardava.

Sentii puzza di bruciato e rumori di pentole provenire dalla
cucina. Richiusi il cassetto dell’armadio e andai a vedere.

«Porca puttana!» disse Saverio scaraventando il padellino,
con due uova completamente bruciate, dentro il lavandino.
Aprì il rubinetto e vi fece scrosciare sopra l’acqua fredda. Un
fumo puzzolente e intenso si sparse per la cucina. Spensi il
fornello, che era rimasto acceso. Il piano cottura era comple-
tamente ricoperto da schizzi d’olio, così come le mattonelle
di maiolica bianca sulla parete.

«Porca puttana!» ripeté di nuovo Saverio, con rabbia. Uscì
dalla cucina e si chiuse nella stanzetta, sbattendo la porta.

Lo seguii e aprii la porta. Si era buttato sul letto. C’erano
due lattine di birra vuote sul pavimento. Il posacenere era
pieno di cicche.

«Lasci la cucina così?» gli chiesi.
«Che cazzo vuoi?» urlò.
«Chi pulisce ora?» continuai.
«Se vuoi pulire, pulisci tu. Se no, non mi rompere i co-
glioni».
«Io? Non l’ho fatto mica io quel casino. Io non pulisco di
certo». Chiusi con forza la porta della stanzetta e andai in ca-
mera mia. Furiosa.

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«E che cazzo c’hai di così importante da fare, eh?». Saverio
mi aveva raggiunto nella mia stanza. La sua faccia a pochi
centimetri dalla mia faccia. L’aria minacciosa. Le vene del
collo gonfie.

«Vuoi vedere che se te lo dico io, vai a pulire eccome?»
sibilò.

«Dovrai solo ammazzarmi» gli risposi tra i denti.
Saverio aveva occhi di fiamme. Occhi di odio.
«Adesso mi mette le mani attorno al collo e mi ammazza»
pensai.
E invece all’improvviso afferrò la mia bambola, Carolina,
seduta come al solito ai piedi del letto. Il colletto della camicia
un po’ ingiallito, consunto dal tempo. La gonna un po’ spie-
gazzata, i calzini slabbrati. La prese per i piedi e la scaraventò
più volte sul muro, facendole sbattere violentemente la testa.
«Fermati!», gridai, «Fermati! Lasciala!».
Ma non mi sentiva, Saverio. Era accecato da una rabbia
spropositata. Continuò a sbattere la testa di Carolina sulla
parete e poi anche sul pavimento. Gli afferrai la maglia, di
spalle, e tirai. Tirai più forte che potevo. Carolina gli cadde
dalle mani e allora Saverio iniziò a pestarla con i piedi, con
violenza.
«Lasciala! Ti odio! Lasciala!». Urlavo e piangevo.
Ansimava, Saverio. Mi faceva paura. Fu un attimo. Fu co-
me se ritornasse in se stesso, se riprendesse conoscenza all’im-
provviso. Guardammo entrambi Carolina riversa sul pavi-
mento. La testa staccata dal corpo. Al posto dei begli occhi
azzurri, due orribili orbite vuote. Un piede le penzolava, nu-
do, mezzo staccato dalla caviglia. Saverio uscì dalla stanza. Se
ne andò sbattendo la porta di casa così forte che il tabernaco-
lo di san Nicola, sulla parete, vibrò.

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Così mi vide mia madre quando, di lì a poco, rientrò a ca-
sa. In ginocchio. Per terra, davanti a Carolina distrutta. I sin-
ghiozzi che mi scuotevano le spalle. La faccia rossa di pianto.

«E cià scciss dò?». Che è successo qua?
Ed io le raccontai quello che era successo. Le raccontai
tutto. Parlavo senza fermarmi. Parlavo e piangevo. Volevo
giustizia. Sapevo di avere ragione. E invece, alla fine, mi
guardò e mi disse:
«Tuo fratello è ’na capa fresca…però pure tu, potevi da’
’na pulizata!».

***

Riposizionai, come meglio potei, gli occhi di Carolina nelle
orbite, cercando di tenerli fermi con del nastro adesivo. A volte
però il nastro cedeva e l’occhio si spostava, diventando spaven-
tosamente strabico. Conficcai il perno che aveva alla base della
testa nel vuoto del collo e glielo strinsi con uno di quei foulard
colorati di mia madre. Sembrava che soffrisse di mal di gola.
Le infilai i miei calzini ai piedi, per nascondere l’obbrobrio del-
l’arto mutilato, staccato per più della metà dalla caviglia. La
mia Carolina non sarebbe mai più guarita. Mai più le sue ferite
si sarebbero risanate. Mai più mi avrebbe chiamato «Mamma!»
con quella sua vocina trillante. Una valanga di violenza inau-
dita, gratuita, era piombata su di lei, lasciandola deturpata e
sgualcita per sempre, nonostante tutti i miei sforzi per restituir-
le anche una parvenza del suo aspetto originario.

«Che la tieni a fare? Si è rotta. Buttala» mi aveva detto mia
madre.

Ma per nessuna ragione al mondo mi sarei sbarazzata di
Carolina che tante volte, in tutti quegli anni, si era lasciata

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abbracciare nel letto, prima che io mi addormentassi, così co-
me faceva Enza.

Anche quella notte feci il solito incubo. Da tempo non mi
capitava. Il lamento. La strada buia. La 127 bianca. Io che,
terrorizzata, aprivo il portabagagli. La ragazza che mi tendeva
le braccia insanguinate. Il suo volto, però, non era più quello
di Donatella Colasanti. Il suo volto era quello di Carolina.
Gli occhi azzurri, mostruosamente strabici. La bocca paraliz-
zata in un sorriso, con gli angoli rivolti verso l’alto. La testa
spaccata.

«Mamma, mamma!».
Mi svegliai di soprassalto.

79

10

«Vogliono la parità e poi si lamentano se devono svegliarsi
la mattina presto, per andare a lavorare! E stanno tutto il
giorno fuori dalla casa. E tornano stanche, la sera. Che si cre-
devano? Che era un gioco, era? ’Na passeggiata? Ce lo volevo
proprio chiedere: vi è piaciuta la parità? E mo’ stateve citt!».

Gino sollevò quindi il bicchiere di vino rosso e se lo portò
alla bocca. Eravamo tutti a tavola, a casa di nonna, per il pranzo
di Pasqua. Ingurgitò il vino tutto d’un sorso. Posò il bicchiere
e afferrò con la mano un pezzo di agnello. Lo addentò con gu-
sto e iniziò a spolparlo. Enza lo aveva ascoltato senza interveni-
re. Il suo pancione, ormai, era come una grossa anguria sotto il
vestito di maglina. Una grossa anguria, tonda e dura. A volte
l’accarezzava con le dita delle mani bene aperte. Le faceva sci-
volare su e giù, con aria appagata e soddisfatta. Dal giorno in
cui seppe della gravidanza, Gino le proibì di continuare a lavo-
rare alla merceria Filmoda di via Manzoni. Enza protestò un
po’ perché a lei era sempre piaciuto stare dietro l’alto bancone
di legno, pieno di cassetti con le cerniere, i merletti, le scatole
di bottoni colorati. Filmoda era come se fosse casa sua, ormai.
La conoscevano tutti e tutti la stimavano, ma alla fine, da brava
moglie, fece come voleva suo marito. Il signor Vito, il proprie-
tario della merceria, quando Enza gli disse che si licenziava, per
poco non si metteva a piangere. Si passò le dita tra i capelli tinti
di nero corvino e abbassò la testa, sconsolato.

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«Se ci ripensi, la porta è sempre aperta per te» le disse, con
la voce gonfia di commozione.

Le ossa di agnello nel piatto di Gino erano così ben spol-
pate, che non era rimasto neanche un frammento di carne at-
taccato. Sembravano quasi finte.

«Che poi, a che serve che vai a lavorare, se devi pagare
qualcuno che ti tiene l’piccininn?» continuò. Si versò dell’al-
tro vino, fino all’orlo.

«Non è meglio che ’na femmina rimane a casa e se li cre-
sce lei, i figli?». Portò il bicchiere alla bocca e bevve tutto
d’un fiato.

«Mo’ basta a bere» disse Enza, scostando più lontano la
bottiglia di Salice salentino.

Gino le afferrò il braccio, mentre lei invece cercava di
stenderlo per tenere lontana la bottiglia. Si misero a ridere in-
sieme. Il tira e molla durò ancora qualche secondo, fino a che
Gino le cinse il collo e le fece il solletico con la mano, sotto
il mento. Enza lasciò la presa, ridendo e urlando:

«Basta! Basta! Mo’ mi fai partorire qua!».
Risero tutti. Mia madre, mio padre. Anche Saverio, con
cui non scambiavo ormai che brevissimi e freddi monosillabi,
si mise a ridere.
L’unica che non rise, fu nonna.
«Ci li masque aitàvn nu picc l’migghiere, ca lavorano jinde
e fora a la casa, l’ femmn non si lamendàvan» disse. Se gli uo-
mini aiutassero un po’ le mogli che lavorano sia dentro che
fuori casa, le donne non si lamenterebbero.
Si alzò da tavola e andò a prendere le scarcelle, i dolci di Pa-
squa che aveva preparato nei giorni precedenti. Nonna fu l’uni-
ca che non rise. Mise le scarcelle sulla tavola. Erano bellissime,
a forma di colomba, con il becco ricoperto di minuscoli confet-

81

tini rossi e le ali aperte, come se volessero spiccare il volo. Sulle
ali di ogni colomba era incastonato un uovo sodo, tenuto fermo
con due striscioline, fatte con la stessa pasta del dolce. Come oc-
chio, una piccola pallina di zucchero color argento. Ecco, non-
na non rise. Ed io, a distanza di tutti questi anni, penso che mia
nonna quel giorno già presagisse quello che sarebbe accaduto in
futuro. Proprio come una vecchia strega messicana. Sicuramen-
te sapeva che dopo il primo bambino Enza ne avrebbe sfornato
un altro, e poi un altro ancora. Sicuramente sapeva che con i
soldi guadagnati da Gino non sarebbe stato facile mantenere
una famiglia di tre figli, pagare l’affitto di casa, le bollette, la
spesa, le medicine quando si ammalavano, il dentista quando si
cariavano i denti, l’oculista quando c’era bisogno degli occhiali.
Sapeva che Enza un giorno, spinta da Gino stesso questa volta,
sarebbe tornata dal signor Vito, a testa bassa, a chiedere di ri-
prenderla alla merceria, ma il signor Vito adesso aveva Giovan-
na come commessa, e non poteva mica mandarla via. Era pure
brava, Giovanna! Era pure senza figli, Giovanna! Nonna forse
già prevedeva che allora mia sorella sarebbe andata a fare le pu-
lizie nelle case del quartiere Murat, per riuscire ad arrivare alla
fine del mese, per non stare con l’acqua alla gola. Per questo
nonna non rise. Perché già se la figurava davanti agli occhi, quel-
la sua nipote bella come un fiore, che usciva di casa la mattina
presto, diretta a passo veloce verso corso Cavour dove andava a
pulire, il lunedì e il mercoledì, la casa dell’avvocato Marzano. Il
martedì e il giovedì, l’appartamento del dottor De Mastro. Il ve-
nerdì dalla commara Sara, che era vecchia come un olivo sarace-
no e non aveva figlie che l’aiutassero. Sono sicura che nonna
l’immaginava già da allora Enza, che tornava a casa di corsa, con
le buste della spesa pesanti. Due per ogni braccio. «Madonna co-
me è tardi! Presto che devo preparare la cena!» pensò. Certo che

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la vedeva. Come in un film che era proiettato solo nella sua testa.
La vedeva indaffarata ai fornelli, mentre girava il sugo che stava
quasi per bruciare, e intanto chiedeva ai figli come fosse andata
a scuola. E poi sarebbe arrivato Gino, con addosso la tuta impre-
gnata dell’odore di olio per motore. Avrebbero mangiato davan-
ti al televisore acceso. «Mamma ho sete!», «Enza mi porti una
forchetta pulita?», «Mamma mi tagli la carne?», «Enza è finito il
vino». E dopo cena lui si sarebbe steso sul divano a vedere qual-
che film, dove ci si sparava, o ci si davano i cazzotti, e lei avrebbe
sparecchiato e lavato i piatti e controllato i compiti di scuola dei
figli. «Adesso mettetevi il pigiama, lavatevi subito i denti e anda-
te a dormire. Guardate che disordine che avete lasciato!» e avreb-
be raccolto dal pavimento i soldatini e i carri armati.

«Mani in alto!» intimava lo sceriffo al bandito, alla televi-
sione.

E avrebbe svuotato la lavatrice e steso i panni. E poi
avrebbe riempito la lavatrice con un altro carico.

«Fermati o sparo!» diceva ancora lo sceriffo.
E intanto uno dei figli, il più piccolo, l’avrebbe chiamata
dalla cameretta.
«Non mi viene sonno… ho paura del buio» si sarebbe la-
mentato. Ed Enza avrebbe acceso la lampada piccola sul co-
modino, quella a forma di Pantera Rosa, accarezzandogli i
capelli. E avrebbe aspettato fino a che non si fosse addormen-
tato, come faceva con me, quando ero piccola. Soltanto allo-
ra sarebbe tornata in cucina. A spazzare. A lavare per terra. A
stirare i grembiuli della scuola.
«Ti ho detto di fermarti!». Lo sceriffo questa volta urlava.
Gino, con gli occhi chiusi, russava debolmente.
Pum! Pum! Lo sceriffo sparava al bandito che, di fermarsi,
non ne voleva sapere.

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Gino apriva gli occhi all’improvviso, svegliato di soprassalto
dal rumore del fucile. Tornava a fissare il televisore. E dopo aver
stirato, Enza si sarebbe ricordata che c’erano i calzini del marito
da rammendare e si sarebbe punta il polpastrello con l’ago, per-
ché tutti quei pensieri delle cose che c’erano ancora da fare, le
avrebbero occupato la mente. «Domani» si disse. «Domani bi-
sogna pagare la bolletta della luce, che scade tra due giorni. E la
settimana prossima l’affitto di casa».

Il film era finito. Lei era distrutta. Avrebbe spento il tele-
visore lasciando Gino a russare sul divano. Sarebbe andata a
buttarsi sul letto grande. Sfinita.

Ecco perché nonna non rise, quel giorno di Pasqua del
1977. Perché sono sicura che sapesse che ogni giorno di Enza
sarebbe stato così. Che ogni sera di Enza sarebbe stata così.
Niente più passeggiate al lungomare. Niente più gelati da Par-
tenopea, in corso Cavour. Niente film al cinema Royal. Sapeva
che con il tempo i suoi begli occhi nocciola non avrebbero più
sprizzato quella luce che tutti noi conoscevamo.

E quindi, cosa c’era da ridere?

***

Quella mattina la professoressa Ludovici ci parlò della bel-
lissima ninfa Dafne che preferì essere trasformata per sempre in
un albero, piuttosto che diventare il trastullo del dio Apollo,
che aveva perso la testa per lei. Non riuscivo a pensare ad altro.
Immaginavo la splendida e selvaggia Dafne, dalle gambe forti e
abbronzate, dai capelli lunghi e morbidi che si sollevavano al
vento, nel momento in cui si rivolgeva ad Apollo, senza timore,
sfidandolo quasi: «Io non sarò mai tua!». La Ludovici ci raccon-
tò che persino i fili d’erba tra le zolle di terra, ebbero un fremito

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nell’udire la sfrontatezza della ragazza che aveva osato rifiutare
un dio. Ma Dafne era nata libera e selvaggia, amava andare a
caccia, aveva le braccia e i seni graffiati dai rovi e dalle spine e
dormiva sotto i rami di una grossa quercia. Ed inoltre, continuò
la professoressa scrutandoci con i suoi piccoli occhi azzurri die-
tro le lenti degli occhiali, spesse come fondi di bottiglia, Dafne
era una che amava scegliere. Io e Paola, sedute al secondo banco
della fila centrale, ascoltavamo rapite. Tutta la classe ascoltava
in silenzio. Con attenzione. Apollo, infuriato dalla sua risposta,
balzò su di lei pronto per prenderla con la violenza ma Dafne,
con uno scatto da animale, si lanciò in una corsa sfrenata, simile
ad un ghepardo braccato in mezzo alla foresta. E correva più
che poteva, veloce come il vento, come il fulmine. Apollo la in-
seguiva, accecato dalla passione e dall’orgoglio di vecchio bison-
te ferito. Allora a Dafne balenò in mente un’idea.

«Gea! Madre mia!» urlò, mentre correva a più non posso.
«Trasformami in un albero. Ti prego! Presto!».
E Gea, la madre Terra, col cuore gonfio di dolore, obbedì.
Le braccia e i capelli di Dafne si sollevarono al cielo, trasfor-
mandosi in rami flessuosi. Il suo corpo abbronzato divenne
una dura e ruvida corteccia e le dita dei suoi piedi si allunga-
rono fino a diventare profonde radici, abbarbicate nella terra
umida. Ebbe appena il tempo di fissare gli occhi, fieri come
lame taglienti, in quelli del dio, che ormai l’aveva raggiunta,
e gridargli in faccia con tutto il disprezzo di cui era capace:
«Io non sarò mai tua!».
Il suo bel volto scomparve per sempre nella chioma verde
scuro di un grande e profumato albero di alloro.
La Ludovici smise di parlare e ci guardò con i suoi oc-
chietti taglienti, al di sopra degli occhiali. Paola si avvicinò al
mio orecchio e sussurrò:

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«Che avresti fatto tu? Avresti scelto di trasformati per
sempre in un albero?».

«Certo che sì» risposi sottovoce.
«Per sempre? Per tutta la vita?» incalzò Paola.
«Ti ho detto di sì» le dissi.
E se non hai la fortuna di imbatterti in san Nicola con le
sue tre palle d’oro magiche, pronto a tirarti fuori dai guai e a
salvarti da qualsiasi possibile violenza, se non hai questa for-
tuna, non preferiresti trasformarti in albero anche tu?, avrei
voluto controbattere a Paola. Ripensai a Carolina, che era
stata distrutta dalla furia di Saverio. Non sarebbe stato me-
glio anche per lei assumere magicamente le sembianze di una
pianta, piuttosto che restare una bambola deturpata per sem-
pre? Una grande ortensia dai fiori viola, piuttosto che una
bambola-mostro con gli occhi mezzi fuori dalle orbite, il col-
lo tenuto fermo al tronco da un foulard, il piede monco, ri-
coperto dal mio calzino. E anche a Rosaria Lopez e a Dona-
tella Colasanti ripensai. Non avrebbero preferito anche loro
essere trasformate in due alberi di alloro, possenti e pacati, le
cui foglie odorose avrebbero vibrato leggere al vento, spar-
gendo tutto intorno la loro meravigliosa fragranza?

***

Parlavamo ancora di Dafne, io e Paola, mentre tornavamo a
casa. Aveva la sua solita sigaretta tra le dita e la gonna a fiori svo-
lazzante, lunga fino ai piedi. Eravamo arrivate all’incrocio di via
Trevisani con via Crisanzio, là dove si innalzava l’enorme co-
struzione dell’ex Ospedaletto dei bambini. Un palazzo fatiscen-
te ormai, dall’orribile e improbabile color rosa fucsia, scrostato
sui muri, con i vetri delle finestre rotti a furia delle sassate lan-

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ciate per sfregio dai ragazzini. Un enorme fantasma in disuso da
cui entravano e uscivano frotte di piccioni, messo là, al centro
del Libertà, soggetto ad un lento e inesorabile degrado, col mar-
ciapiede devastato dagli escrementi dei cani, accompagnati dai
loro padroni per fargli fare i bisogni. Io e Paola stavamo svol-
tando l’angolo e li abbiamo visti arrivare a tutta velocità, con-
tromano, tutti e due sullo stesso motorino e senza casco natu-
ralmente. Avevano il volto coperto da un passamontagna. Non
potevo esserne sicura, ma mi era sembrato di riconoscere quei
due amici che Saverio un giorno aveva portato a casa. Quello
davanti poteva essere Antonio. Il tipo seduto dietro forse era
Maurizio, quello con l’incisivo rotto. Non so se si sono accorti
di me. È accaduto tutto a una velocità impressionante. Hanno
rallentato e hanno affiancato col motorino una signora anziana
che portava una borsa appesa ad un braccio e una grossa busta
della spesa all’altro. Quello che mi sembrava Maurizio è balzato
con un salto felino giù dal motorino. Ha afferrato la borsa della
signora e l’ha strattonata con una violenza inaudita. La signora
ha urlato. Le vene del collo gonfie, ma non mollava la borsa.
Lui ha tirato ancora più forte. La signora è caduta per terra. Ur-
lava. La borsa ancora stretta nella mano. Il viso sconvolto, gli
occhi spalancati. Ho visto le sue calze di nylon lacerarsi all’al-
tezza delle ginocchia. Grosse mele rosse sono fuoriuscite dalla
busta di plastica e sono rotolate sulla strada. Urlava. Il ragazzo
tirava ancora. La signora è stata trascinata sull’asfalto per qual-
che metro, fino a quando la cinghia della borsa non ha ceduto.
Urlava, urlava, urlava. Il ragazzo ha stretto la borsa tra le brac-
cia. È saltato sul motorino e quello che poteva essere Antonio
ha accelerato, dileguandosi velocissimo, a zig-zag, tra le auto. La
signora è rimasta per terra. Adesso non urlava più. Si lamentava
invece. Non riusciva ad alzarsi. Piangeva e diceva:

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«Mi hanno rotto il femore… aiuto… mi hanno rotto il
femore…».

Era pallida. Aveva i capelli grigi scarmigliati. Mi faceva
pena vederla così, in mezzo a tutte quelle mele rosse.

Si era formato un capannello di persone che cercavano di
aiutarla ad alzarsi, ma la signora non ci riusciva. Stava troppo
male. Aveva troppo dolore.

«Un’ambulanza! Chiamate un’ambulanza!» disse qualcuno.
Con le gambe che mi tremavano, mi diressi verso la car-
toleria del tedesco, seguita da Paola.
«Signor tedesco!» dissi, senza neanche rendermi conto di
quello che dicevo.
«Signor tedesco, presto! Chiamate l’ambulanza! C’è una
signora che è stata scippata e si è rotta il femore!».
«Dofe essere signora?» mi chiese sospettoso il tedesco.
«Qua fuori! Venite a vedere!» gli risposi, quasi gridando.
Il tedesco si affacciò sulla soglia della cartoleria. Vide la fi-
la di auto ferme per strada, il capannello di persone, la signo-
ra che si lamentava, le calze rotte all’altezza delle ginocchia
sbucciate.
Rientrò nel negozio e alzò la cornetta del telefono.

***

Quella sera rimasi sveglia nel mio letto fino a quando non
sentii la chiave girare nella toppa e la porta di casa aprirsi. Save-
rio andò in bagno e poi nella sua stanza, in fondo al corridoio.
Mi alzai e andai da lui, in punta di piedi. Aprii piano la porta
della stanza. Le lucine del tabernacolo di san Nicola, proprio di
fronte, arrivavano a illuminare debolmente il corpo snello di
mio fratello, disteso sul letto, ancora con i vestiti addosso.

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«Oggi ho visto due ragazzi che scippavano la borsa a una
signora. È caduta. Si è rotta una gamba. Un’ambulanza l’ha
portata in ospedale. E a me quei due sembravano Antonio e
Maurizio» dissi a bassa voce, per non svegliare mio padre e
mia madre.

«Hai visto male. Ti sei sbagliata» replicò asciutto Saverio.
«Avevano il passamontagna in testa, ma secondo me era-
no loro» continuai.
«E io invece ti dico che ti sei sbagliata. E mo’ vattene.
Fammi dormire, chè domani devo lavorare».
Fine della discussione. Feci fatica ad addormentarmi.
Pensavo e ripensavo alle mele rosse che spiccavano sul grigio
dell’asfalto e alle ginocchia sbucciate della signora. Pensavo
alle sue calze rotte.

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Sai quando ti ho pensato tantissimo, Rosy? A maggio di
quel 1977. Pochi giorni dopo che mia sorella Enza aveva
partorito il suo primo figlio di tre chili e ottocentottanta
grammi. Il 12 maggio qualcuno uccise a Roma una ragazza
che ti somigliava molto. Giorgiana Masi si chiamava. Bellis-
sima, quasi quanto te. Dai capelli lunghi, quasi quanto i
tuoi. Osservavo il suo volto triste, pallido, sull’articolo che
avevo ritagliato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, mentre ero
inginocchiata davanti al cassetto aperto del mio armadio. Il
mio cassetto ormai colmo di morti ammazzati, e di stupri, e
di assassini, e di rivolte violente, e di rapine, e di massacri, e
di bombe e manganelli. Il mio cassetto degli orrori, con il
suo terribile contenuto, che doveva servire a esorcizzare il
male, a tenere a bada la paura, a stare accorta. Iapr l’ecchij!
Apri gli occhi! Continuavano a dirmelo. Non avevano mai
smesso di dirmelo. Forse Giorgiana non li aveva tenuti bene
aperti gli occhi. Forse, se lo avesse fatto, non sarebbe morta
così, su quel ponte sul Tevere, colpita alle spalle da una pal-
lottola, sparata non si sa da chi. Forse. O forse no.

«Non si può mica vivere col terrore…» mi dicesti tu
quella volta, alla spiaggia di San Francesco. Ma come si fa a
chiudere gli occhi davanti al male? A non averne timore?
Ecco, questo ti avrei chiesto, Rosy, se tu fossi stata lì con me
in quel momento, davanti al mio cassetto delle paure.

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Guarda quanto male, Rosy! Guarda quanto dolore! ti avrei
detto, mostrandoti quegli stralci di giornale dai margini sfi-
lacciati. Viviamo in un mondo in cui la violenza può esplo-
dere all’improvviso, quando meno te l’aspetti, come il getto
potente di un geyser, un vulcano che erutta, una forte scos-
sa di terremoto. Ho ripensato alla tua inconsapevolezza, alla
tua maniera leggera di portare a spasso la tua bellezza, senza
il minimo timore, con l’incoscienza di una bambina priva
di malizia. Non capivo se era qualcosa che ti invidiavo o se
mi faceva semplicemente rabbia.

Io avevo paura di tutto, Rosy. Delle strade del mio quar-
tiere quando imbruniva. Degli sguardi insistenti. Degli scip-
patori. Di stare da sola in casa. Persino di mio fratello.

Io avevo paura del mondo intero. E tu non avevi paura di
niente.

E ancora una volta si fece estate. Sono balzata fuori dalla
solita filovia arancione, davanti ai cancelli verde smeraldo
della spiaggia di San Francesco. Avevo il cuore in gola per
l’emozione di rivederti. Ti ho riconosciuto da lontano. Eri
seduta dall’altra parte della grata divisoria, come sempre.
Chissà! Forse mi stavi aspettando. Ti ho chiamato. Sei scat-
tata in piedi e hai agitato le braccia per salutarmi. Siamo cor-
se in acqua tutte e due, io da una parte della grata, tu dall’al-
tra. Sollevavamo, con le gambe, grandi schizzi di schiuma
bianca. Eri bellissima. Ancora più bella di come ti ricordavo.
Portavi un costume da bagno blu notte, con le perline colo-
rate infilate nelle bretelline del pezzo di sopra. Nonostante
anch’io fossi cresciuta in altezza, restavi sempre un po’ più al-
ta di me, ma di poco adesso. Abbiamo raggiunto l’estremità
della rete metallica e ci siamo abbracciate, con l’acqua che ci
arrivava alla vita.

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«Sei cresciuta!» hai esclamato. I tuoi occhi sono scivolati
sui miei seni che quell’inverno erano disastrosamente spun-
tati e levitati, tanto che mia madre un pomeriggio mi aveva
trascinato da Filmoda per comprare un reggiseno, costrin-
gendomi a indossarlo, anche se io avevo giurato a me stessa
che mai l’avrei portato in vita mia. Non so spiegarlo, ma
quando lei mi allacciò quella roba attorno al petto, io l’avver-
tii come una specie di punizione.

«Anche tu» ti ho detto.
«Sei… sei più grande». In realtà non trovavo il termine giu-
sto per descrivere quella tua nuova, evidente, palpabile consi-
stenza. Eppure la sentivo tra le mie braccia, mentre ti stringevo
impacciata. Avevi perso quella magrezza fragile dell’anno pri-
ma, ma per il resto tutto era meravigliosamente uguale. La tua
grazia, la tua limpidezza. E poi la spiaggia, la gente che la af-
follava, il piacere del sole sulla pelle, i nostri capelli che alle
punte si imbiancavano di salsedine. Ero felice di averti tutta
per me. Di non doverti dividere con nessun altro. Di essere io,
Anna, l’unica amica della ragazza più bella e solitaria del Tram-
polino. Tutto questo mi rendeva inspiegabilmente orgogliosa.
Ci siamo sedute sulla riva, le gambe incrociate, a raccon-
tarci della scuola. Tu avevi finito le medie e ti saresti iscritta
al classico. Avevi già iniziato a studiare per conto tuo il latino
e il greco, che ti appassionava particolarmente. Mi hai de-
scritto minuziosamente la tua nuova insegnante di pianofor-
te, dalle dita delle mani lunghissime e affusolate, e di come ti
avesse fatto innamorare di un certo Dmitrij Dmitrievič
Šostakovič, che aveva composto uno dei valzer più belli che
tu avessi mai ascoltato. Ho ripetuto quel nome difficilissimo,
tre o quattro volte, senza mai pronunciarlo bene, facendoti
ridere. Io invece ti ho parlato della mia amica Paola, di quan-

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to fosse aperta di vedute, così piena di risorse. Dei libri che
leggeva. Dei dischi che ascoltava. Delle gonne lunghe che in-
dossava. Di quella sua sorella più grande, che era una femmi-
nista. Il sole cambiava posizione sopra di noi, senza che ce ne
accorgessimo. E poi ti ho raccontato della professoressa Lu-
dovici, dai piccoli occhi azzurri e vispi. E devo aver parlato
con la mia solita foga accalorata nel momento in cui ti rive-
lavo che secondo me gli dei erano degli esseri superbi ed egoi-
sti perché, sollevando le sopracciglia, mi hai chiesto:

«Superbi ed egoisti? Perché dici questo?».
«Perché lo sono davvero» ti ho risposto.
«Sono gelosi se tu sai fare qualcosa meglio di loro. Sono
capricciosi se si impuntano. Sono vendicativi se malaugura-
tamente si offendono».
«Per esempio?» hai insistito.
Ci ho pensato un po’ su:
«Aracne» ho detto.
«Aracne?».
«Sì, Aracne. Lei era la tessitrice più straordinaria di tutta
la Lidia. Un vero talento. Quando tesseva con le sue lunghe
dita bianche, sembrava stesse suonando uno strumento mu-
sicale e le immagini che si componevano man mano sul te-
laio, vibravano di luce propria, come vibrano nell’aria le no-
te di una meravigliosa armonia». Erano esattamente queste
le parole che la Ludovici aveva usato. Mi erano rimaste im-
presse nella mente a tal punto che te le ho sciorinate come
se fossero state mie. E tu, Rosy, avevi smesso di ridere e mi
ascoltavi con attenzione.
«Insomma era straordinaria» ho continuato, fomentata
dal forte senso di soddisfazione per il tuo interesse. Le piccole
onde sulla riva ci scivolavano sulle gambe, accarezzandole.

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«Qualcuno allora constatò che era addirittura più brava del-
la dea Atena. Aracne disse che non avrebbe certo avuto paura a
sfidarla. E così la voce si sparse e arrivò anche alle orecchie della
dea. Verde di invidia, Atena afferrò il suo divino telaio e scese
sulla terra, in mezzo ad un polverone impetuoso e grigio di nu-
bi. Mi segui?». Hai annuito con la testa e ti sei portata i lunghi
capelli tutti da una parte, con quel tuo gesto così vezzoso.

«E quindi la ragazza tessitrice e la dea iniziarono la com-
petizione. Aracne tesseva e, di tanto in tanto, puntava i suoi
occhi fieri in quelli di Atena. Senza alcuna paura. Atena ri-
cambiava con odio il suo sguardo. Quando la gara finì, l’ope-
ra di Aracne era un capolavoro. Uno splendido arazzo con le
immagini che sembravano vive e che catturavano i raggi del
sole, assorbendoli nella tela e facendoli poi rimbalzare sotto
forma di mille colori, davanti agli occhi stupefatti di chi
guardava. Aveva vinto, non c’era dubbio. Atena, furiosa, ac-
cecata dall’invidia, trasformò la ragazza in un grosso, ripu-
gnante ragno, costretta a tessere in eterno con la bocca. E in-
somma, non ti sembra abbastanza bastarda, una così?».

«Sì, ma questo è un caso solo!» hai riso di nuovo.
«Ti sbagli» ho protestato.
«Potrei fartene un elenco di casi come questo. Marsia,
scorticato vivo perché suonava il flauto mille volte meglio di
Apollo. Prometeo, che aveva regalato il fuoco agli uomini, di-
mostrandosi così più generoso di Zeus che per questo si im-
bestialì e fece legare Prometeo ad una roccia, sulle montagne
del Caucaso. Ogni giorno un’aquila andava a mangiargli il
fegato. Ogni santo giorno. E ogni notte il fegato di Prometeo
doveva ricrescere per poter subire il supplizio il giorno dopo.
Atteone, sbranato dai cani perché aveva osato guardare quella
stupida di Diana che si faceva il bagno nuda…».

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«Sono così contenta di rivederti Anna» mi hai interrotto,
mentre il cuore mi si scioglieva in mille goccioline di stupore.
Il tuo sguardo pulito, una benedizione.

«Non avevo né il tuo indirizzo, né il tuo numero di tele-
fono» mi hai detto.

«Ho pensato: e se Anna quest’estate non viene? Non ti
avrei rivisto più. E anche quest’inverno ti ho pensato, lo sai?
Dobbiamo vederci anche in inverno, Anna. Mi devi dire do-
ve abiti. Voglio venire a trovarti, ogni tanto. Oppure possia-
mo telefonarci, chiacchierare un po’. Anzi, passo da te un po-
meriggio di questi, che dici?».

Ho annuito felice. Incredula. Profondamente grata per
quell’attenzione miracolosa che tu mi dedicavi. E se un gior-
no te ne fossi accorta? Se un giorno ti fossi resa conto che io
ero Anna, solo Anna, la ragazzina dinoccolata e sgraziata che
mai e poi mai poteva reggere il confronto con te, o con Enza?
Ricacciai indietro quei brutti pensieri.

Era l’ora del pranzo quando ci siamo alzate dal bagnasciuga.
«Ci vediamo dopo mangiato» ti ho detto, sgrullandomi la
sabbia dalle mani.
Ma quando mi sono voltata per andare verso la cabina nu-
mero 58, ho avuto un sussulto. C’era Saverio che ci osservava
a pochi metri di distanza, seminascosto in mezzo alla folla di
bagnanti. Aveva ancora i jeans e la maglietta addosso. Era ve-
nuto in spiaggia per il pranzo, per poi tornare al lavoro, dopo
mangiato. Era fermo. Pareva imbambolato. Una mano nella
tasca dei pantaloni. I capelli scuri che gli coprivano la fronte.
Non so da quanto tempo fosse lì. Ho avvertito una sgradevo-
lissima sensazione di gelo nello stomaco. Una specie di spa-
smo muscolare nelle gambe. Un’improvvisa secchezza nella
gola. Ho abbassato lo sguardo, facendo finta di non vederlo,

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proseguendo in direzione della cabina. Con la coda dell’oc-
chio mi sono accorta che lui era rimasto lì, immobile. Gli ho
lanciato uno sguardo veloce. Un attimo solo. E ho visto che
ti stava fissando, Rosy. Tu stavi costeggiando la grata metal-
lica per fare ritorno al Trampolino, aiutandoti con le dita in-
filate nelle maglie di ferro, e lui non ti ha mai levato gli occhi
di dosso.

All’ombra delle cabine in muratura i miei parenti, seduti
in cerchio per mangiare, ricordavano un accampamento di
nomadi. Nonna stava tagliando la pasta al forno in una gros-
sa teglia, ancora fumante. La distribuiva nei piatti di plastica,
in grosse porzioni.

«E ci jè? Nun ti sint bun?». Cosa c’è? Non stai bene? mi ha
chiesto quando ho rifiutato il piatto che mi porgeva, scuoten-
do la testa.

«Non tanto» ho mentito, strofinandomi la pancia con la
mano.

Subito dopo è arrivato anche Saverio. Ha preso il suo
piatto e si è messo a mangiare, seduto sulla sabbia, un po’ in
disparte, all’ombra delle cabine. L’ho scrutato per tutto il
tempo, Rosy. In silenzio. Con quella solita sensazione di peso
insopportabile alla bocca dello stomaco. E alla fine, il mal di
pancia, mi è venuto davvero.

96

12

Rino Gaetano cantava Aida alla radio. Me lo ricordo be-
ne, sai Rosy? La scuola era appena cominciata e l’ultimo gior-
no di mare ci eravamo scambiate i rispettivi indirizzi e i nu-
meri di telefono.

«Ti vengo a trovare … vengo a casa tua …» mi avevi detto.
Devo confessarti che di fronte all’imminenza di quella tua
visita, l’idea non mi entusiasmava per niente. Potevamo ve-
derci da qualsiasi altra parte della città. In via Sparano per
esempio, o sul Lungomare, vicino al teatro Margherita. O
anche alla Fiera del Levante, visto che eravamo in settembre.
Perché proprio a casa mia?
«Ehi! Non sei contenta?» mi hai chiesto, un po’ sorpresa
della mia faccia rabbuiata.
«Sì, certo» ti ho mentito.
Pensare a te, che attraversavi il tunnel di via Quintino Sel-
la, saturo dei gas di scarico delle auto, pensarti mentre risalivi
le scale del sottopassaggio, puzzolenti di urina, pensarti a
camminare sul marciapiede che correva sotto i binari soprae-
levati della ferrovia Appulo-Lucana, tutta sola, nella tua gra-
zia perfetta e immacolata, mi faceva accapponare la pelle. E
mi faceva accapponare la pelle pensarti mentre oltrepassavi
l’ex Ospedaletto dei bambini, così spettrale, nonostante quel-
l’improbabile e barocco color rosa fucsia, e poi la Manifattu-
ra dei tabacchi, e poi ancora il bar dell’angolo, dove sostava-

97

no tutti quei ragazzi, a cavalcioni dei loro motorini smarmit-
tati. Ho immaginato la scena ed ho avuto subito chiaro, nella
mia mente, che tu avresti rappresentato l’evidentissimo “ele-
mento intruso”, la presenza stridente di quella anomala vi-
gnetta. Non ero riuscita a farti cambiare idea.

Lei sfogliava i suoi ricordi / le sue istantanee / i suoi tabù…
La voce di Rino Gaetano mi graffiava le orecchie mentre
vagavo da una stanza all’altra della casa, per controllare che
tutto fosse a posto. I miei genitori non c’erano. Erano da En-
za. Mamma andava da lei tutti i pomeriggi, per darle una ma-
no con il bambino e Saverio non sarebbe tornato prima di un
paio d’ore. Non volevo assolutamente che tu incontrassi Sa-
verio. Anche pensare a questo, mi faceva accapponare la pelle.
… e poi il ritorno in un paese diviso / più nero nel viso / più
rosso d’amor …
Mi affacciavo di continuo alla finestra. Scrutavo in fondo
alla strada, aspettandomi di vederti comparire da dietro l’an-
golo, da un momento all’altro.
Ritornavo in bagno. Mi specchiavo di nuovo. Mi legavo i
capelli. Li riscioglievo.
… Aida come sei bella …come sei bella…
Quel “come sei bella” così ruvido. Così rabbioso!
Il trillo squillante del campanello di casa mi ha fatto sobbal-
zare. Ho deglutito e sono venuta ad aprirti la porta. Dovevi aver
trovato il portone aperto, di sotto, perché non hai suonato il ci-
tofono. E insomma eri tu Rosy, eri tu, sulla soglia di casa mia,
esattamente sotto il tabernacolo di san Nicola. Che cosa strana
vederti lì, nel posto dove abitavo, dove mangiavo, dove dormi-
vo, dove studiavo. Mi sono sentita, per un attimo, completa-
mente nuda. Più nuda di quando eravamo al mare, alla spiaggia
di San Francesco. Nuda e indifesa davanti a te.

98

… Aida le tue battaglie / i compromessi / la povertà …
Era stato un errore lasciarti venire a casa, lo sentivo.
«Non mi fai entrare?» mi hai chiesto.
Mi sono spostata di lato e ti ho fatto passare, con un senso
di rassegnazione nel cuore. Era come scoprirsi improvvisa-
mente stanati, dopo essere riusciti per troppo tempo a farla
franca. Impossibile nascondersi, ormai. Impossibile barare.
Eravamo in un punto di non ritorno. Niente sarebbe mai sta-
to più come prima.
«La tua stanza!» hai esclamato, quando siamo entrate in
camera mia.
Ti sei guardata intorno. Hai osservato i vecchi mobili
scelti da mia madre, per me e per Enza, quando eravamo an-
cora molto piccole. L’armadio di legno scuro, dalle grandi
ante. Quella di destra aveva i cardini rovinati e non si chiu-
deva completamente. Ti sei avvicinata alla scrivania ricolma
di libri. C’era un libro, in cima ad una pila di altri, con le tra-
duzioni di tutte le canzoni di Bob Dylan e il testo inglese a
fronte. Lo hai preso, hai sfogliato qualche pagina. L’hai ri-
messo a posto. Lentamente hai alzato lo sguardo sull’orribile
lampadario anni Sessanta, sulle bizzarre tendine alla finestra,
sul poster di Fabrizio De André sopra il letto, che mi aveva
regalato Paola per il mio compleanno. Un enorme primo
piano in bianco e nero di Fabrizio. Lo sguardo basso. Una si-
garetta accesa tra le labbra semiaperte. I capelli lunghi e lisci
che gli ricadevano sulla fronte. Accanto al poster, sulla men-
sola bianco panna, i volumi dei Quindici, che un nipote di
mio padre, assunto da poco come venditore porta a porta, ci
aveva convinto ad acquistare, anni addietro. E deve essere
stato molto convincente anche con il resto della mia famiglia,
perché i Quindici erano nelle case di tutti i miei cugini.

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