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Published by Florio “SetiroN // Hypnotoad” Alagna, 2018-04-03 09:24:37

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

«Tira zio! Tira!» diceva a mio padre quel suo nipote, ve-
stito di tutto punto, con giacca di velluto a coste e cravatta.
Reggeva un volume con le mani e tirava un lato della coper-
tina rigida, color grigio chiaro. Mio padre, svogliatamente,
senza convinzione né entusiasmo, tirava dall’altra parte. Il ni-
pote continuava a incitarlo, con foga, come se il motivo im-
prescindibile per acquistare un’enciclopedia per ragazzi, fosse
la resistenza della copertina dei volumi.

«Di più zio! Tira. Non avere paura!» lo esortava, mentre
per lo sforzo gli occhiali gli scivolavano fino alla punta del
naso.

E così uno tirava da una parte, e uno tirava dall’altra. Mio
padre comprò i Quindici a rate, ma a me e a Enza piaceva so-
lo il volume secondo, dove c’erano le favole, e un altro volu-
me intitolato Fare e costruire, dedicato al bricolage. Una volta
io e mia sorella costruimmo delle maracas con i rotoli di carta
igienica. Li avevamo riempiti di fagioli secchi e riso, come di-
cevano le istruzioni, e poi li avevamo richiusi alle estremità
con del cartoncino. Erano carine le nostre maracas, tutte ri-
coperte di carta bianca su cui avevamo disegnato, con i colori
pastello, delle decorazioni in stile messicano.

Hai continuato a osservarti intorno e hai soffermato lo
sguardo, più a lungo questa volta, su Carolina, adagiata ai piedi
del mio letto. Ero sicura che mi avresti chiesto come mai fosse
così malconcia e invece, per fortuna, non lo hai fatto.

Era tutto lì il mio mondo, Rosy. Ero io. Tutta là dentro.
Quella che ero stata e quella così come stava cambiando. Il
passato abbarbicato al presente e al futuro che doveva ancora
venire. Tutto là, in quella stanza, compreso, come un veleno
scivoloso di sottofondo, l’onnipresente odore di tabacco della
vicina Manifattura.

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«Sei tu?» mi hai chiesto indicando la bambina seduta sulle
ginocchia di Enza, in una fotografia attaccata al muro con le
puntine da disegno. Ho annuito.

Hai voluto sapere se avessi altre foto di quando ero picco-
la. Mi hai detto che adoravi guardare le vecchie foto. E così
ho preso un album di quando io, Enza e Saverio, eravamo
bambini. Eri sinceramente curiosa. Mi chiedevi di loro. Mi
facevi domande. Eravamo sedute una accanto all’altra, sul
mio letto, con le spalle al muro. Come una ladra ho rubato
con sguardi avidi la linea del tuo profilo perfetto. La fronte
bianca e alta, il tuo occhio attento, i capelli dietro l’orecchio,
la linea curva del mento, il collo esile, il ritmo sereno del tuo
petto che si alzava e si abbassava col respiro.

«Che strano che tu sia qui» mi è scappato quasi di bocca.
«Ti voglio bene, Anna» mi hai detto. E mi hai dato un ba-
cio sulla guancia.
Fiamme di imbarazzo mi bruciavano la faccia. Avrei volu-
to dirti “anche io”, come si dice in genere in queste occasioni,
ma non ci sono riuscita.
Non ricordavo più da quanto tempo non mi sentissi così
serena in quella stanza. Così piacevolmente consapevole di
non volermi trovare in nessun altro posto al mondo, se non
lì, tra quelle pareti consuete, sotto quell’orribile lampadario
anni Sessanta. E poi invece, all’improvviso, me ne sono ricor-
data. Era dai tempi di Enza che non capitava. Da quando,
bambina, correvo a infilarmi sotto le coperte con lei, per
ascoltare la storia di Mezzoculo.
All’improvviso, ho sentito il rumore della chiave infilar-
si nella toppa e la porta di casa aprirsi. Non mi ero accorta
di quanto tempo fosse passato. Non me ne ero resa conto.
Mi è mancato quasi il fiato quando Saverio si è affacciato

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nella stanza. Ci aveva sentito parlare ed era venuto a vedere
con chi fossi.

«Ciao» gli hai detto, con il più disarmante dei sorrisi. Ti
sei alzata dal letto e gli hai teso la mano.

«Io sono Rosy. Sei il fratello di Anna, vero?».
Mi sembrava di vivere in una situazione surreale. Era tut-
to così assurdo! Né io, né mio fratello eravamo abituati a tut-
ta quella cordialità.
Saverio era quasi stordito dalla tua bellezza, totalmente
impreparato a quella scena dentro la quale, mai e poi mai, si
sarebbe aspettato di essere impelagato. Non ha potuto fare al-
tro che sollevare il braccio e stringerti la mano. Era confuso,
maldestro, lento nei movimenti. Così lento che mi sembrava
di osservare un film alla moviola. Tu non hai smesso di sor-
ridere e lui non ha potuto fare altro che dire:
«Sì… Saverio».
Ha abbassato gli occhi, per una sorta di senso del pudore,
e ti ha lasciato la mano. Non avevo mai visto quell’espressio-
ne di imbarazzo sul volto di mio fratello. Mi sentivo, io stes-
sa, impacciata al posto suo.
«Ero venuto a prendere una cosa… che mi ero dimentica-
to… ora vado… ».
«Ciao» gli hai detto.
«Ciao…» ha detto anche lui.
Ma rimaneva lì.
«Sì… ciao…» ha detto ancora Saverio e finalmente è usci-
to dalla stanza e poi ha aperto la porta di casa ed è andato via.
«Anch’io devo andare. Si è fatto tardi». Hai preso la borsa
e ti ho accompagnato verso la porta. Ti sei fermata sotto il ta-
bernacolo di san Nicola e mi hai chiesto:
«Posso venire ancora?».

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«Ogni volta che vuoi» ti ho risposto.
Stavi già scendendo per le scale, quando non ho potuto
fare a meno di chiamarti:
«Rosy!». Ti sei fermata.
«Che c’è?».
Non sapevo se dirtelo o no. E poi l’ho detto:
«Apri gli occhi». Mi hai guardato con aria interrogativa.
«Stai attenta» ho aggiunto.
Hai fatto cenno di sì con la testa. Sono rientrata in casa
solo dopo aver sentito aprirsi e poi chiudersi, con un tonfo
secco e definitivo, il portone di sotto.

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La professoressa Ludovici ci aveva raccontato della pazzia
e del suicidio di Aiace, l’eroe che non si risparmiava, il guer-
riero senza paura, l’uomo dal cuore grande.

«Ma chi ama molto, odia molto» aveva aggiunto, scrutando
le nostre facce al di sopra delle spesse lenti dei suoi occhiali.

Le armi del glorioso Achille, alla sua morte, furono dona-
te a Ulisse, e questo provocò la rabbia e la disperazione di
Aiace, perché nessuno, più di lui, meritava di possederle.
Tutti lo sapevano. E così, mentre Aiace meditava di vendi-
carsi, la dea Atena intervenne. Gli tolse il senno e lo fece im-
pazzire. In preda alla follia Aiace iniziò a fare strage di vacche,
di capre, di pecore, di tori, scambiando il bestiame per i Gre-
ci. Ammazzò due grossi buoi, credendo di uccidere Agamen-
none e Menelao. Erano stati loro a decidere di affidare le ar-
mi di Achille a Ulisse. E confondendolo per Ulisse stesso, il
suo odiato rivale, Aiace prese a feroci frustate un montone.
L’eroe più grande, e più ammirato, e più temuto, divenne
oggetto di scherno e di risa. Quando la ragione tornò in lui,
si rese conto del folle e disonorevole gesto compiuto.

«E cosa c’è di peggio, per un eroe, che perdere il suo ono-
re?» i piccoli occhi azzurri della Ludovici brillavano.

La mattina presto, col cuore colmo di vergogna, Aiace si
recò sulla spiaggia. Da solo. Posò lo scudo e conficcò la spa-
da nella sabbia, con la punta scintillante rivolta al cielo. Pri-

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ma di gettarsi sulla lama affilata, guardò per un’ultima volta
il mare.

Me lo figuravo Aiace, ai primi bagliori dell’alba. Ne intui-
vo la solitudine, più grande del mare che aveva di fronte e
provai un profondo senso di pietà per l’eroe convinto di aver
perduto il proprio onore.

«E a proposito di pazzia» continuò la Ludovici, «al Jolly
proiettano Qualcuno volò sul nido del cuculo. Mi piacerebbe
che andaste a vederlo».

Io e Paola ci guardammo. Ci bastò un’occhiata per inten-
derci. Annuimmo.

Il Jolly era un vecchio cinema d’essai, di seconda e anche di
terza visione. Si trovava in via Sagarriga Visconti, nel Libertà,
all’interno di un grande cortile condominiale. Mi ci aveva por-
tato Paola, la prima volta, a vedere Il Padrino – parte seconda.
Me lo ricordo bene perché quello fu il giorno in cui mi inna-
morai perdutamente di Robert De Niro. L’ingresso del Jolly era
una vetrata che aveva profili di legno verniciati di marrone, a
sua volta contornata da una grande cornice di marmo verde. Si
accedeva alla platea attraverso una porta di legno, stile saloon, e
delle pesanti tende scure. La sala puzzava di sigarette e polvere.
Durante la proiezione nuvole di fumo si scontravano, si attor-
cigliavano, si fondevano come in una danza sopra le nostre te-
ste, seguendo la traiettoria che il fascio di luce percorreva, a for-
ma di imbuto, partendo dalla postazione del proiettore e allar-
gandosi sempre di più, fino a inondare lo schermo di fronte. Il
prezzo accessibile del biglietto attirava tantissimi studenti, che
arrivavano a gruppi. Ridendo. Scherzando tra di loro.

Come sempre, anche quella sera il cinema era stracolmo.
«A che pensi?» mi chiese Paola quando fummo di nuovo
fuori. Dopo due ore di esalazioni di fumo stantio, l’aria fresca

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nel naso era come un getto di acqua ghiacciata sulla faccia.
Eravamo uscite dal cinema in silenzio, tutte e due ancora av-
volte nella storia che avevamo appena visto. Ci capitava spes-
so di sentirci completamente catapultate nei film che anda-
vamo a vedere al Jolly, tanto da faticare a parlare, dopo. Co-
me se dovessimo a poco a poco riabituarci alla nostra realtà.

«Penso a quel ragazzo, a Billy, il balbuziente. E anche ad
Aiace penso. Tutti e due hanno preferito la morte, piuttosto
che il disonore… disonore! Disonore per chi poi? Per cosa? Aia-
ce non tollerava l’idea di diventare lo zimbello di tutti. Billy
aveva il terrore che sua madre scoprisse che era stato con una
prostituta. Ma chi decide cosa è disonorevole e cosa non lo e?».

Paola taceva. Sollevò la cerniera del giubbino di camoscio fin
sotto al collo. Era la fine di novembre. L’aria si era fatta umida.
La sirena spiegata di un’ambulanza interruppe il mio discorso.

«E poi», continuai, quando l’ambulanza si fu allontanata,
«chi dice cosa sta bene fare e cosa no? Cosa è conveniente e
cosa non lo è? Puoi diventare pazzo se sgarri. Puoi addirittura
preferire la morte se…» mi interruppi di nuovo. Altre sirene.
Due volanti della polizia sfrecciarono a tutta velocità lungo
via Sagarriga per poi girare a destra, con un rumore di gom-
me straziate sull’asfalto. Eravamo arrivate all’angolo, io e
Paola. Stavamo svoltando su via Crisanzio.

«Puoi addirittura preferire la morte se… ma mi stai a
sentire?».

Paola si era fermata. Mi dava le spalle.
«Ma che c’è? Cosa guardi?» le ho chiesto.
«Là, in fondo. In direzione di piazza Umberto! Vedi? C’è
della gente che corre» mi indicò Paola.
E, in effetti, c’erano persone che correvano, chi in direzio-
ne della piazza, chi nella direzione opposta.

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«Avviciniamoci un altro po’. Voglio capire cosa è succes-
so» disse Paola, incamminandosi decisa, senza lasciarmi ne-
anche il tempo di controbattere. La seguii controvoglia. Si
percepiva una strana elettricità per le vie. Bari pulsava di
un’energia anomala. Trasmetteva uno sgradevole senso di in-
quietudine. Un’altra volante percorse la strada, a tutta velo-
cità, a sirene spiegate.

Succede, a volte, che quando accade qualcosa di molto bel-
lo, o di molto brutto, l’aria si impregni delle sensazioni della
gente che quella cosa, in quel momento, la sta vivendo diret-
tamente. Miriadi di molecole raccolgono allora le parole, i so-
spiri, le esclamazioni, le grida, le preghiere, le gioie o le ango-
sce, e succede che il vento, o la brezza leggera, le sospinga per
le strade. Succede che l’aria si impregni di vibrazioni possenti
e incontenibili, e che queste viaggino dal punto in cui sono
state generate, da corso Vittorio Emanuele supponiamo, ac-
canto alla Prefettura supponiamo, e si propaghino a raggera,
investendo tutto ciò che incontrano: strade, auto parcheggia-
te, case, viali, giardini, passanti ignari, cartelli stradali, piazze.
Succede che queste onde fluttuino lungo i marciapiedi. Si me-
scolino agli adori e agli umori. Si moltiplichino in maniera
esponenziale, come le radici di una pianta infestante.

Giungemmo fino a piazza Cesare Battisti, io e Paola.
L’elettricità nell’aria era sempre più palpabile. Fui colta da
una spiacevole intuizione.

«Che è successo? Scusi, che è successo?». Paola aveva affer-
rato il braccio di un signore che camminava a passo sostenu-
to, in direzione contraria alla nostra.

«Hanno ammazzato un ragazzo… è morto un ragazzo…
lo hanno ucciso…» disse il signore, liberando nervosamente
il braccio dalla presa di Paola e continuando a camminare.

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Ci siamo fermate, avevamo un leggero affanno nel
petto. In lontananza potevamo ancora udire le sirene del-
la polizia. Adesso ricordavano nettamente un lamento fu-
nebre.

«Andiamocene» ho detto in un sussurro. Mi sembrava
di non avere più voce.

«Hanno ammazzato un ragazzo…» ha ripetuto Paola,
come un automa. Gli occhi fissi nel vuoto. Le braccia ab-
bassate, ai lati del corpo.

«Andiamocene!» ho ripetuto, a voce più alta. L’ho presa
per la mano e l’ho tirata.

Quelle vibrazioni, quelle molecole, quei respiri, da quel
momento hanno continuato a viaggiare con noi, con me e
con Paola, insieme all’umidità sgradevole di quella sera,
per tutta via Crisanzio, fino alla chiesa del Redentore. For-
se le abbiamo disseminate per la strada ormai deserta. For-
se hanno continuato a propagarsi a nostra insaputa. Le ser-
rande dei negozi erano abbassate ormai. Sentivamo solo i
nostri passi frettolosi sul marciapiede e poi la musica pro-
veniente da uno stereo, sparato a tutto volume, di un’auto
in corsa. Dopo le otto di sera il Libertà avrebbe potuto al-
largare le sue fauci da un momento all’altro e inghiottirti
come il buco profondo e nero in cui era caduta Alice nel
Paese delle Meraviglie.

Due isolati prima di arrivare a casa abbiamo incrociato
un tizio sui trentacinque, massimo quarant’anni. Aveva un
basco in testa e le mani infilate in una giacca nera. Ha ral-
lentato, e mentre io e Paola gli siamo passate accanto, ci ha
detto:

«Ehi! Signorine! Chi, di voi due, me la fa vedere?».

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***

«Uè! Se oggi la scuola è chiusa, vinatìnn a casa!» mi disse
mia madre, quando Paola citofonò alle 7.40 in punto, per
dirmi di scendere.

Quel giorno, 29 novembre del 1977, non ci fu scuola,
ma io e Paola non tornammo a casa. La sera prima erano
scoppiati tafferugli tra giovani militanti di destra e giovani
militanti di sinistra, in piazza Massari, vicino alla Prefettu-
ra. Benedetto Petrone, operaio comunista, era morto. Non
aveva ancora vent’anni.

«Corri, Benedè! Corri!» gli gridarono i due amici che
erano con lui quella sera.

Li avevano visti all’improvviso, all’angolo di via Cairoli,
proprio di fronte alla piazza dove si erano fermati a chiac-
chierare: un gruppo di ragazzi, più di venti, più di trenta.
Armati di bastoni e di catene. Un branco di lupi affamati.

«Corri, Benedè! Corri!».
Quattro o cinque del folto gruppo dei missini, si sgan-
ciarono dagli altri. Attraversarono minacciosi la strada.
«Corri, Benedè! Corri!».
I due amici di Benedetto si misero a correre più veloci
che potevano, percorrendo la piazza fino a raggiungere la
parte opposta, cercando di penetrare nei vicoli di Bari vec-
chia, per trovare rifugio.
«Corri, Benedè! Corri!».
Ma Benedetto non fu veloce abbastanza. Scivolò con le
sue scarpe ortopediche, cadde e rimase indietro.
«Corri, Benedè! Corri! Corri!».
Fu raggiunto quasi sotto gli alberi di piazza Massari, a
due passi dal Castello Svevo. Cadde sull’asfalto. E là fu col-

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pito con mazze, coltelli e cacciavite. Uno degli amici di Be-
nedetto tornò indietro, ma venne scagliato a terra e ferito
con una lama, sotto l’ascella. Benedetto riuscì a vederlo,
prima che gli si annebbiasse la vista. Bari vecchia era là die-
tro, a due passi. Così vicina, eppure così lontana. Anche
casa sua era là dietro, a due passi. Chissà perché in quel
momento gli venne in mente sua madre che preparava le
cartellate.4 Forse perché tra poco più di un mese sarebbe
stato Natale. Uno di questi giorni gli avrebbe sicuramente
chiesto di andare da Marnarid, il negozio di dolciumi nella
piazza della Cattedrale, a comprare il vin cotto.

Chiamava sempre lui, sua madre, quando le occorreva
qualcosa. Sempre, da quando era bambino. Una coltellata
gli colpì l’addome, ma ormai non sentiva più niente. Una
lieve brezza giunse dal mare, a sfiorargli la faccia, a pene-
trargli le narici. Ripensò a quando, da piccolo, si tuffava
dai grossi blocchi frangiflutti del lungomare, proprio sotto
la muraglia. Un tuffo, di testa, nell’acqua del mare di Bari.
Quanto sarà durata quell’immagine nei suoi occhi? Un at-
timo? Una vita intera? Un’altra coltellata penetrò la sua
carne, sotto la clavicola. Nuotava sott’acqua e poi riemer-
geva, assetato di aria, col sapore del sale nella bocca.

Udì la voce di sua sorella che lo chiamava, dall’alto del
fortino:

«Corri, Benedè! Corri! Vin a cas!».
Il sale gli pizzicava gli occhi. Si sforzò, ancora una volta,
di aprirli. L’ultima cosa che vide fu la sua città, bellissima
e bianca. Così bianca e splendente, sotto il sole, da costrin-
gerlo a chiudere le palpebre.

4. Antichissimo dolce natalizio, preparato con il vin cotto.

110

***

Quella mattina le possenti vibrazioni della sera prima scor-
revano così amplificate, che la città era gonfia di un’energia
mai vista. Un corteo imponente, un fiume di uomini e donne,
si era riversato nelle vie del centro. Io e Paola non riuscivamo
a parlare per tutto il chiasso e le urla ai megafoni. Molti pian-
gevano. Li ho visti io, con le lacrime agli occhi, le facce bagna-
te. Altri, i volti cerei, avevano un’espressione stupita, incredula.
Decine, centinaia di bandiere rosse sventolavano sulle teste dei
manifestanti. Non avevamo mai visto nulla di simile. BENNy
VIVE c’era scritto sugli striscioni, sui muri, sui manifesti. I ne-
gozianti abbassavano le saracinesche. Gruppi di persone guar-
davano il fiume possente che attraversava le strade, affacciati ai
balconi, alle finestre, attraverso le imposte spalancate. Un eser-
cito di occhi bassi. Di braccia conserte. Il volto di Benedetto
era ovunque. Aveva una fascia, attorno alla testa. I ricci lunghi
e ribelli. Il volto sorridente.

VENDETTA PROLETARIA stava scrivendo un ragazzo su un
muro, con una bomboletta spray. Un signore anziano che
portava una busta della spesa, si era fermato a guardarlo. Il
passo incerto. Lo sguardo attonito. Alla fine di corso Cavour
il corteo, come un lunghissimo serpente famelico, aveva svol-
tato all’angolo del palazzo della Motta, per immettersi in cor-
so Vittorio Emanuele. Io e Paola ci stringevamo la mano per
non perderci, per restare assieme. Ci fermavamo, di tanto in
tanto, addossandoci ai muri, a osservare il grosso serpente sci-
volare davanti a noi. Poi andavamo avanti, ancora un altro
pezzo, correndo sempre mano nella mano. Ci fermavamo di
nuovo, a guardare. All’altezza di via Cairoli c’era la fine del
mondo. Auto rovesciate per strada. Il fumo di una motoci-

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cletta in fiamme, denso e nero, saliva verso il cielo. Ragazzi
in corsa, con il volto coperto da sciarpe e passamontagna,
quasi ci travolsero. Urlavano. Abbiamo udito rumore di vetri
rotti, in lontananza. Anche la gente correva. Io e Paola, stret-
te l’una all’altra, le schiene schiacciate contro una saracinesca
abbassata, abbiamo visto un ragazzo col volto coperto che, da
un balcone, scagliava degli oggetti per strada. Rientrava e
usciva continuamente dal balcone. Prendeva dall’interno tut-
to quello che gli capitava e si riaffacciava per lanciarlo di sot-
to. Un attaccapanni. Un divano. Quaderni. Libri. Macchine
da scrivere. E ogni volta che gli oggetti si sfracellavano al suo-
lo, la folla e il gruppo di ragazzi col passamontagna, radunati
per strada, esultavano e battevano le mani. Macchine foto-
grafiche. Sedie. Addirittura una scrivania era volata dall’alto.
E ancora urla e applausi. C’era un’insegna sulla ringhiera del
balcone: CISNAL c’era scritto. Il ragazzo col volto coperto di-
strusse anche quella. Da piazza della Prefettura erano arrivati
una trentina di celerini, stringendo i manganelli tra le mani.
Ragazzi, anche loro. La folla correva, disperdendosi per le
strade attorno. Anche io e Paola, le mani sempre strette, cor-
revamo. E correvamo. E correvamo.

«Presto! Non ti fermare!» aveva gridato Paola.
Non ci siamo fermate fino a quando abbiamo raggiunto
il giardino di piazza Garibaldi. Non riuscivamo a parlare. Ci
siamo sedute su una panchina, a riprendere fiato. Non abbia-
mo parlato neanche lungo via Manzoni, tornando a casa.
«Ha sccìss nu casin josce!»5 stava dicendo mio padre a mia
madre, in cucina.
«Ti serve ancora la Gazzetta?» gli ho chiesto.
«Posso prenderla?».

5. È successo un casino oggi.

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«Prendi prendi» mi ha risposto.
Ho afferrato il giornale ripiegato sul frigorifero e un paio
di forbici dalla borsa a fiori in cui mia madre riponeva l’oc-
corrente da cucito. Sono andata in camera mia. Ho chiuso la
porta. Mi sono inginocchiata davanti all’armadio e ho aperto
il cassetto.
Carolina mi guardava con i suoi occhi strabici. Mi sem-
brava triste.
«E va bene» le ho detto.
«Stanotte ti faccio dormire insieme a me».

113

14

«Tu con quei due non devi parlare più. Mè! Mo’ avàst,
mo’!». Ora basta! disse mia madre a mio fratello, con un tono
che si sforzava di essere perentorio. Posò lo schiaccianoci sul
tavolo, in attesa di una sua reazione.

Saverio, a testa bassa, spostava pigramente con una for-
chetta i gusci di mandorle nel piatto. Indifferente.

I pranzi della domenica, a casa di nonna, erano ancora uno
dei pochi momenti in cui ci guardavamo tutti quanti in faccia.

«Perché? Che è successo?» chiese Enza, cercando di calma-
re il figlio che strillava tra le sue braccia.

«Tè, tè!» nonna aveva imbevuto il ciuccio dentro un barat-
tolo di miele e glielo aveva avvicinato alle labbra. Il piccolo si
azzittì.

«Hai visto… quei due… uno è il figlio di Colino Capa-
grossa, il contrabbandiere…» intervenne Gino.

«Ma chi, Antonio?» chiese di nuovo Enza, cullando vigo-
rosamente il bambino.

«Eh! Sì, Antonio! E quell’altro… che sta sempre con lui…
Ccudd ca ten un dent spezzat… Maurizio… Maurizio si chiama».

«Quei due vastasi!» confermò mia madre.
Guardavo di sottecchi Saverio. Era come se la cosa non lo
riguardasse affatto. Continuava a giocherellare con i gusci
delle mandorle. I capelli davanti alla fronte gli nascondevano
gli occhi.

114

«Dice che sono stati loro, ieri notte, a distruggere il nego-
zio del tedesco, quello della cartoleria» continuò Gino.

«Chi lo dice? Li hanno visti?» chiese ancora Enza.
«Dice… dice… che vuol dire dice? La gente lo dice…» si
alterò Gino.
Il bambino sputò il ciuccio dalla bocca e riprese a strillare.
«Dà. Dammìll a me» mia nonna prese il piccolo dalle
braccia di Enza e iniziò a camminare avanti e indietro per la
cucina, dondolandolo stretto ai suoi grossi seni e colpendolo
con delle leggere pacche sul sedere.
«E perché hanno distrutto il negozio del tedesco?» volle
sapere Enza.
«Prcè non volev pagà u pizz» intervenne mio padre, dopo
essersi pulito la bocca col tovagliolo.
Il bambino, che continuava a strillare, passò dalle braccia
di mia nonna a quelle di mia madre, che constatò:
«Tiene sonno, non riesce a dormire».
Spiai di nuovo Saverio. Fissava, senza espressione, il piatto
davanti a sé.
«Quelli entrano ed escono dalla galera! Sono due delin-
quenti, sono» incalzò ancora mia madre. Questa volta era lei
che dondolava il busto avanti e indietro. Il bambino non
smetteva di strillare.
Saverio si alzò da tavola.
«Addò va mo’?». Dove vai ora? gli chiese lei.
«Esco. Tengo delle cose da fare. Abbiamo finito di man-
giare, no?».
«E u cafè? Non lo vuoi il caffè?».
«No» disse Saverio e uscì di casa.
«Mè? E il caffè non lo fate?» domandò Gino.
Enza si alzò e preparò la caffettiera.

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Ero passata davanti alla cartoleria del tedesco quella mattina.
C’era un capannello di persone, là davanti. Mi ero avvicinata e
avevo visto la saracinesca scardinata. La vetrina completamente
in frantumi. Nella notte avevano dato fuoco al negozio. Qual-
cuno si era accorto dell’incendio e aveva chiamato i pompieri,
ma la cartoleria ormai era distrutta. Carbonizzata. Il tedesco era
al centro del capannello di persone. Gli avevano portato una se-
dia per farlo sedere, perché aveva avuto un mancamento. Palli-
do in volto, più pallido del suo solito pallore alemanno. Era se-
duto tutto proteso in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginoc-
chia, le dita di una mano tra i capelli fini e biondi.

«Io cià detto alla polizia qvesto» parlava e scuoteva la testa.
«Cià detto. Tante folte. E cosa essere successo? Niente. Solo qve-
sto. Tutto distrutto. Crazie. Crazie mille». Scuoteva la testa a
destra e a sinistra. Una donna gli aveva portato un bicchiere pie-
no di acqua zuccherata, ma il tedesco non voleva bere.

«E chi dice di aver visto quei due incendiare il negozio,
perché non ha fatto la denuncia?» chiesi, interrompendo
quell’attimo di silenzio in cui il bambino si era addormentato
e tutti sorseggiavano il caffè.

«Non si scherza con questi, Annì» mi rispose Gino, serio.
«Questa è gente che poi si vendica».
«Ma se nessuno parla, se nessuno fa niente, questi non
smettono. Anzi, diventano più forti!» sentivo le guance leg-
germente accalorate.
«Qua, se vuoi campare in pace, t’adda sta’ citt. Devi ab-
bassare la testa e fare finta che non hai visto niente».
«E allora a me fa schifo qua!» ribattei secca.
«Tu sei piccola ancora… non capisci» continuò Gino.
«Secondo te», aggiunse, «metti che l’avevo visti io a quelli,
secondo te, io, con una moglie, un figlio, dovevo andare a de-

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nunciarli? Questo dovevo fare? Questi si vendicano, stai sicura!
E perché devo mettere in pericolo mia moglie? O mio figlio? O
l’officina dove lavoro? Che ci guadagno? Devi stare attento e
farti i cavoli tuoi».

«Per questo si vive così male! La gente ha paura, però la pen-
sano tutti come voi!» questa volta avevo le guance in fiamme.

«Ehi! Avàst mo. Statt citt. Pinz a campà» intervenne mia ma-
dre. Basta ora. Stai zitta. Pensa a campare.

«È così, Anna! Fattìnne ’na ragione. È meglio che ti fai i
fatti tuoi» Gino prese una sigaretta e l’accese.

«Fin a quann non t’attocca a te...». Fin quando non tocca a te.
Questa fu l’unica cosa che disse nonna. Dopodiché si alzò
da tavola e iniziò a sparecchiare.

***

«Quando lei, Medusa, attraversava la valle», ci stava rac-
contando la professoressa di italiano, «era impossibile non gi-
rarsi a guardarla».

Amavo quei minuti sospesi fuori dal tempo, quando la
Ludovici parlava e nella classe non volava una mosca.

«Aveva quel suo modo sinuoso di camminare, che la face-
va fluttuare sull’erba. I capelli di seta, lunghi fino alle ginoc-
chia, quasi dotati di vita propria, sembravano giocare con le
farfalle e gli insetti che le volavano intorno».

Inspiravo e mi sembrava di sentire l’odore di lavanda e
menta dei capelli di Medusa e, non so perché, mi venisti in
mente tu Rosy, quando passeggiavi al mio fianco, avanti e in-
dietro, sul bagnasciuga della spiaggia di San Francesco.

«Poseidone la vide e col suo istinto da animale la trascinò
nel vicino tempio di Atena, per sedurla».

117

Atena. Ancora lei. Sempre lei.
«Atena profondamente irritata dal torto subito, vomitò la
sua ira sulla ragazza, come se il fatto di non aver avuto rispet-
to della sacralità del suo tempio, fosse colpa sua. Come se fos-
se stata lei a provocare quell’atto bestiale. Come se essere gio-
vane, e bella, e sinuosa, fosse una condanna».
Trovavo la cosa incredibile. Poseidone faceva violenza e
Medusa pagava.
«Tramutò la ragazza in un mostro, con i denti simili alle
zanne di un cinghiale, lo sguardo capace di trasformare in
pietra chiunque la guardasse negli occhi. Trasformò i suoi ca-
pelli di seta in viscidi serpenti. Medusa visse il resto della sua
giovinezza in una caverna buia, avendo orrore di sé stessa, co-
stantemente sull’orlo della pazzia, a causa degli orribili ser-
penti che si muovevano incessantemente sulla sua testa».
Ripensai alla pazzia di Aiace. Alla pazzia di Billy il balbu-
ziente, nel film che avevo visto al Jolly. Era tutto così mo-
struosamente ingiusto!
«Un giorno Perseo, figlio di Zeus, servendosi di uno scu-
do riflettente per non guardarla negli occhi, le decapitò la te-
sta con un falcetto e la donò ad Atena che, soddisfatta, inserì
la testa di Medusa nel suo scudo di pelle di capra. Nessuno si
era accorto che dal sangue rimasto per terra, vicino al collo
mozzato di Medusa, erano nati splendidi coralli rossi».
Ci fissò con i suoi occhietti lucidi e azzurri:
«Ogni volta che guardate la Gorgone mostruosa sullo scu-
do di Atena, pensate che quella, un tempo, era la sinuosa,
leggiadra Medusa».
La Ludovici smise di parlare. Nell’aula calò il silenzio più
totale. Il suono della campanella ci scosse, come una doccia
fredda.

118

15

Io me ne ero accorta subito, Rosy. Me ne ero accorta subi-
to che quelle volte che tu venivi a trovarmi, se Saverio tornava
dal lavoro e tu eri là, lui non usciva più di casa. Studiavamo
una di fronte all’altra, sedute alla mia scrivania. Avevo gli oc-
chi fissi sul libro aperto, ma le orecchie pronte a carpire la sua
presenza quando lo udivo aggirarsi circospetto tra la sua stan-
za e la cucina. Tra la sua stanza e il bagno. E poi di nuovo, tra
la sua stanza e la cucina. Il rumore leggero dei suoi passi fur-
tivi sul pavimento mi dava ai nervi. Faceva persino attenzione
a non calpestare le mattonelle sconnesse dell’ingresso, per non
farsi sentire. Ma io lo sentivo lo stesso. Lo immaginavo passa-
re e ripassare lungo il corridoio. Indugiare, a capo chino,
quando si avvicinava alla porta chiusa della mia camera, cer-
cando di afferrare le parole che ci dicevamo. Quando tu eri a
casa mia e capitava che ci fosse anche Saverio, mi sentivo co-
stantemente sulle spine. Quel suo essere là, era una nota sto-
nata. Mi metteva a disagio. Mi procurava un fastidioso, sgra-
devole stato di ansia. Tu, come al solito, eri ignara di tutto.
Non avvertivi quelle vibrazioni nervose da animale in gabbia.
Quel respiro corto da cacciatore acquattato, che aspetta pa-
ziente la sua preda. Quel fremito delle narici. Quel movimen-
to impercettibile delle orecchie del felino, pronto a balzare.
Tu, come al solito, sorridevi, e parlavi, e gesticolavi, come se
tutto il mondo che ti ruotava attorno non t’avrebbe mai scal-

119

fito, mai intralciato, mai toccato. Avrei voluto alzarmi di scat-
to, spalancare la porta, andare da lui, affrontarlo e chiedergli
a brutto muso: «come mai stai qua? com’è che oggi non esci?».

«Ti va un tè?» hai detto. Il tonfo del libro di grammatica
latina che hai chiuso all’improvviso, mi ha fatto sussultare.
Ho chiuso il libro anch’io. Saverio stava ripassando lungo il
corridoio, per l’ennesima volta, accostato alla parete, come
un ladro. Tu, come al solito, non ci hai fatto caso, ma io sì
Rosy. Io sì. In quell’attimo che tu l’hai guardato con i tuoi
occhi azzurro cielo, la belva si è trasformata in cucciolo man-
sueto. Il cacciatore è diventato preda. Il felino sicuro ha avuto
un attimo di smarrimento.

«Ciao Saverio» gli hai detto con quella tua limpidezza di-
sarmante, «vuoi anche tu un tè?».

Non avrei potuto giurarci, ma mi è sembrato che mio fra-
tello arrossisse.

L’ho fissato con aria di sfida. Saverio ha abbassato la testa,
i capelli gli coprivano gli occhi.

«No… grazie» ha detto come un bambino timido, e si è
diretto nella sua stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Grazie! Saverio aveva detto: No. Grazie!
Ho dovuto ricacciare nello stomaco un moto di rabbia
che voleva salire, invece. Salire fino alla gola, fino alla testa,
ed esplodere.
Abbiamo aspettato che l’acqua bollisse nel pentolino. Hai
notato il mio mutismo e col tuo solito candore mi hai chiesto:
«Che hai?».
«Niente ho. Ho mal di testa» ti ho risposto sgarbata.
Prima di andartene mi hai fatto una carezza. Quella carez-
za è rimasta lì, sulla mia faccia, anche quando sono tornata in
camera e mi sono sdraiata sul letto. La tua grazia ci imbaraz-

120

zava, Rosy. A me e a Saverio. Questa era la verità. Quando io
e mio fratello eravamo in casa, la tua eleganza risultava quasi
fastidiosa. La tua amabilità evidenziava inesorabilmente tutta
la nostra grettezza. La nostra grossolanità. La tua trasparenza
non mitigava affatto il nostro reciproco astio. Anzi. Quella
tua carezza pesava sulla mia guancia come un macigno.

Dopo qualche minuto anche Saverio è uscito. Ho sentito
la porta di casa chiudersi. Mi avevano privato di Enza e non
avrei sopportato che qualcuno mi privasse anche di te. Eri la
mia conquista meravigliosa e personale, da maneggiare con
cura, da accudire con pazienza. La mia Rosy delicata ed ete-
rea. La mia Rosy così pulita.

Un pomeriggio, poco prima di quel Natale del ’77, hai ci-
tofonato al portone di casa mia. Non mi avevi detto che avevi
intenzione di passare. Ero andata con Paola da Laterza. Aveva-
mo deciso di scambiarci un libro come regalo di Natale, però
ognuna avrebbe scelto il suo. E ci siamo messe così a ridere, io
e Paola, quando abbiamo scoperto di aver preso tutte e due Si-
mone de Beauvoir, di cui tanto ci aveva parlato sua sorella, la
femminista. Io Memorie di una ragazza per bene. Paola I man-
darini. Hai suonato un paio di volte, ma non c’era nessuno a
casa. Stavi andando via. Avevi raggiunto quasi l’angolo della
strada e ti sei sentita chiamare. Ti sei voltata. Era Saverio.

«Se vuoi, puoi venire su e aspettare Anna» ti ha detto.
Sicuramente ti avrà fatto passare per prima, nell’androne
buio e puzzolente. Sicuramente avrà posato gli occhi sulla
curva della tua schiena, mentre salivi le scale davanti a lui. E
poi sui tuoi capelli, così lunghi che ti toccavano i fianchi, e il
collo sottile, ogni volta che voltavi indietro la testa per par-
largli. Sicuramente ti avrà preso il cappello di lana quando te
lo sei levato, entrando, per posarlo sopra una sedia.

121

Non so di cosa avete parlato. Mi è difficile pensare a quali
argomenti potessero mai accomunarvi. Quando sono tornata
a casa, nel momento in cui aprivo la porta, ti ho sentito ride-
re. Mi sono fermata sotto le lucine del tabernacolo di san Ni-
cola per qualche istante. Incredula. Paralizzata. Saverio ti sta-
va raccontando qualcosa, non riuscivo bene a sentire. E tu ri-
devi divertita, Rosy.

«Eccola!» hai esclamato. Ti sei alzata all’improvviso quando
sono entrata in cucina, mentre cercavo di camuffare la mia sor-
presa. Saverio era in piedi, dall’altra parte del tavolo, con le ma-
ni poggiate sullo schienale di una sedia. Ha smesso di parlare.

«Che fine avevi fatto?» mi sei venuta incontro, sorridendo.
Sono rimasta impassibile. Ammutolita. Anche Saverio si è
raggelato.
«Non potevo aspettare! Non vedevo l’ora di dartelo.
Apri!» mi hai detto, porgendomi un pacchetto rivestito di
carta natalizia, decorato con rametti di agrifoglio dalle picco-
le bacche rosse.
Ho preso il pacchetto tra le mani e l’ho scartato come un
automa. Conteneva una cassetta a nastro. Sull’etichetta avevi
scritto: Ad Anna, con amore.
«Qui dentro ci sono io che suono il pianoforte». Mi hai
guardato, aspettando una mia reazione. Ma non c’è stata al-
cuna reazione da parte mia. Non riuscivo a parlare. Ho alzato
un attimo gli occhi su Saverio che era rimasto là, in piedi, ac-
canto alla sedia. Deve essersi sentito di troppo e infatti è usci-
to in silenzio dalla cucina, a capo chino.
«L’ho registrata da sola, sai? Quando a casa non c’era nes-
suno, così non ci sarebbero stati rumori di sottofondo. Ho
scelto i brani che mi piacciono di più, naturalmente. C’è
qualche errore, ogni tanto, ma roba di poco conto».

122

Continuavi a guardarmi con quell’azzurro spiazzante dei
tuoi occhi.

«Grazie» ti ho detto con freddezza. Non riuscivo a na-
scondere il mio sconcerto, il mio disappunto.

Ti ho accompagnato alla porta senza dire una parola. An-
che tu non hai più parlato. Eri perplessa. Ancora non sapevo
che un giorno avrei odiato me stessa con tutta l’anima per
non averti dato nessuna soddisfazione, per non averti detto
quanto apprezzavo quella cassetta che avevi registrato per me.
Nessuno, mai, mi aveva fatto un regalo così bello in tutta la
mia vita, eppure non te l’ho detto. E non me lo sarei mai più
perdonato.

***

L’ho ascoltata subito la cassetta, quella sera stessa. L’ho in-
filata nel registratore è ho schiacciato PLAy. Dopo qualche
istante di fruscio, attaccava la musica. Erano le tue mani, Rosy,
sui tasti del pianoforte. Per me. Le tue dita che si muovevano
da una parte all’altra, nervose e precise. Eri tu, seduta con la
schiena dritta, tutta sola nella tua grande casa vuota, con il re-
gistratore poggiato su uno sgabello, vicino al pianoforte. Ti ho
visto suonare, per me, con il volto serio, concentrato, quasi
trattenendo il respiro. La bella Rosy che suonava per la piccola
e insignificante Anna. Il primo brano era quel famoso valzer
che ti piaceva tanto, di quel musicista russo di cui non riuscivo
a pronunciare il nome. Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, avevi
scritto in bella grafia sulla copertina della cassetta. Lato A. Bra-
no 1: valzer n. 2. Bellissimo. Davvero. Era il regalo più bello
del mondo. Davvero. Così bello da sentirsi male. E io non so-
no più riuscita a trattenere le lacrime.

123

16

«Cosa vuole Saverio da te?».
«In che senso scusa?».
«Non capisci l’italiano? È difficile la domanda? Perché ti
parla, perché ti sorride, perché ti cerca?».
«Ma perché? C’è per forza un motivo se uno parla con
una persona? Davvero non capisco cosa stai dicendo».
«Tu gli piaci per caso? Lui piace a te?».
«Ma cosa c’entra questo!».
«Di che parlate quando io non ci sono?».
«Di quello che capita».
«Di cosa?».
«Ma che ne so! Io della scuola. Della musica. Del piano-
forte».
«E lui?».
«E lui mi parla del lavoro. Di quello che gli piacerebbe fare».
«Ah sì? E cosa gli piacerebbe fare?».
«Non lo sai cosa gli piacerebbe fare? È tuo fratello».
«No, non lo so».
«Gli piacerebbe partire, per esempio. Andarsene da qua.
Andare al Nord. O all’estero. Avere un’altra possibilità».
«Un’altra possibilità? E quale altra possibilità?».
«Trovare un lavoro migliore, farsi nuovi amici, rimettersi
a studiare…».
«Studiare?».

124

«Sì, studiare».
«Ma se non ha mai studiato in vita sua!».
«Proprio per questo. È come se si rendesse conto di aver
sprecato un’occasione».
«Ma per cortesia!».
«Davvero! Saverio dice che adesso prova soggezione con i
ragazzi della sua età. Li vede andare all’università, uscire con
ragazze istruite, li ascolta parlare di politica. E hanno sempre
un film da consigliare, o un libro da leggere, o un disco da
comprare…».
«E tu credi a tutto quello che ti dice?».
«Perché non dovrei credergli?».
«Perché lui è uno a cui non frega niente di niente, in re-
altà. Perché è sempre stato una persona chiusa, scontrosa. Un
violento. Un arrogante. Viziato dalla mattina alla sera da mia
madre. Uno che non sa cosa sia il rispetto degli altri».
«Io vedo una persona molto sola...».
«No. Stai tranquilla. Ce li ha i suoi amici. Sono anche dei
poco di buono. Dei delinquenti».
«Mi sembra quasi che non stiamo parlando della stessa
persona».
«Infatti. Pure a me. Ma se permetti, lo conosco un po’
meglio di te».
«Anna, guarda che con me si è sempre comportato be-
nissimo».
«Finge».
«Non ti credo. E perché dovrebbe fingere poi?».
«Perché vuole farti credere di essere quello che non è. Vuole
fare colpo. Vuole piacerti. Ma tu non gli devi credere, Rosy!
Non gli devi credere! Perché se tu cadi nella sua trappola, poi
si rivelerà per quello che è. Non ti devi fidare, Rosy».

125

«Non so perché mi stai dicendo queste cose. Io davvero
non capisco. Lui è gentile con me. L’altra sera l’ho incontrato
per la via, quando uscivo da casa tua. Mi ha accompagnato
per un pezzo di strada…».

«Ma possibile che non riesci mai a vedere le cose per come
sono? Possibile che non ti rendi conto di quello che la gente
vuole davvero? Sembra che tu viva in un altro mondo. Nel
mondo delle favole. Sono tutti buoni, per te. Tutti gentili.
Tutti generosi».

«Mi dispiace…ma continuo a non capire».
«Ma cosa c’è da capire?».
«Sei gelosa di tuo fratello, per caso?».
«Gelosa? Di Saverio?».
«Voglio dire… pensi che il fatto di scambiare due chiac-
chiere con lui mi possa allontanare da te? È questo quello che
pensi?».
«Penso che tu sia una persona ingenua, Rosy. Penso che
dovresti aprire gli occhi. Guardarti attorno».
«E io penso che tu sei paranoica, invece. Che vivi male,
che sei sempre sulla difensiva. Hai sempre paura che qualcu-
no ti freghi».
«Forse sono solo più sveglia di te».
«Davvero? Be’, buon per te allora. Non sapevo che mi ri-
tenessi una stupida».
«Non ho detto che sei stupida. Ho detto che sei ingenua».
«No guarda… lascia perdere…».
«Ti sei offesa adesso?».
«No. Non mi sono offesa. Ma non puoi decidere con chi
posso e con chi non posso parlare. Saverio non mi ha fatto nien-
te. Con me è sempre stato educato. Se a te dà fastidio che io ci
parli, questo è un problema tuo. Io non posso farci niente».

126

«Infatti, mi dà fastidio. Forse è meglio se non vieni a casa.
Forse è meglio se d’ora in poi ci vediamo da qualche altra
parte…».

***
Ho sbirciato tra le imposte accostate della mia finestra e ti
ho visto attraversare la strada, provando un senso di vuoto nel
cuore. Hai tirato fuori i lunghi capelli biondi dall’interno del
giaccone che ti eri infilato di corsa, poco prima di andare via.
Che belli i tuoi capelli, Rosy! Una cascata di seta dorata che si
sollevava piano ad ogni tuo passo, ad ogni soffio d’aria di quel
pomeriggio brumoso d’inverno. Proprio come i capelli di Me-
dusa. Come al solito c’erano quei due per la strada. Di fronte
al bar. Antonio. E Maurizio. Il primo ha fatto cenno al secon-
do, che era di spalle e non ti aveva visto. Ti hanno detto qual-
cosa che non sono riuscita a sentire. Sicuramente qualcosa di
sconcio. Che altro avrebbero potuto dirti due così? Li ho visti
ridere sguaiatamente. Hai abbassato la testa e hai affrettato il
passo. E poi sei scomparsa dietro l’angolo.

127

17

«Sono passati i cinque minuti?».
«Dammi qua, fammi vedere».
Mi sfilai il termometro da sotto il braccio, lo diedi a mia
madre e accesi la radio.
«Trentasette e sei» disse.
«Apri la bocca, fammi vedere la gola».
Aprii la bocca. Mi abbassò la lingua spingendola con un
cucchiaio. Ebbi un accenno di conato di vomito.
«Non è nudd!». Non è niente di grave.
«Oggi ti faccio il brodo di merluzzo e vedi che passa tutto».
Scosse con vigore il termometro. Io intanto giravo la mano-
pola della radio, cercando una stazione in cui trasmettessero
musica. Mia madre si infilò la giacca e aprì la porta di casa:
«Vado a fare la spesa, poi passo da Enza. Tu statti qua…
ti dovesse venire in mente di uscire… ca tu sì capace!».
Mi era dispiaciuto non essere andata a scuola quel giorno.
La Ludovici avrebbe sicuramente continuato il discorso su
Antigone, iniziato il giorno prima. Finalmente trovai una sta-
zione decente. Lucio Dalla cantava Come è profondo il mare.
Non c’è più lavoro / non c’è più decoro / Dio o chi per lui sta
cercando di dividerci / di farci del male / di farci annegare…
Ripensai al vecchio re di Tebe che per motivi politici non ave-
va concesso la sepoltura a Polinice, fratello di Antigone. Chiun-
que avesse violato il suo ordine sarebbe stato lapidato. E già gli

128

avvoltoi volavano bassi sul corpo rigido e senza vita del ragazzo.
Antigone spiava da lontano quel corpo adagiato sulla terra pol-
verosa, e nel suo cuore meditava. Gli avvoltoi roteavano sempre
più bassi. E Antigone, nel suo cuore, continuava a meditare. E
alla fine prese la decisione: nessuna legge scritta, nessuna regola
giuridica, avrebbero potuto mettere a tacere il suo amore di so-
rella, la pietà per suo fratello, la propria moralità, la propria liber-
tà di coscienza. La nobile e fiera Antigone violò l’ordine del re.

In quel momento alla Ludovici erano brillati i piccoli oc-
chi azzurri.

Frattanto i pesci / dai quali discendiamo tutti / assistettero
curiosi / al dramma collettivo / di questo mondo che a loro in-
dubbiamente / doveva sembrare cattivo…

La ragazza quindi diede sepoltura al corpo di Polinice e in
questo modo scatenò il conflitto.

La Ludovici si era interrotta. In classe era calato il silenzio
più assoluto.

«Quale conflitto?» aveva chiesto timidamente qualcuno
seduto dietro di me.

«Il conflitto tra uomini che comandano e donne che non
obbediscono» aveva continuato trionfante la Ludovici.

«Il conflitto tra vecchi potenti e giovani ribelli. Il conflitto
tra la rigida e impersonale burocrazia e la realtà realissima de-
gli individui in carne e ossa. Il conflitto tra esseri umani e di-
vinità. Il conflitto tra i diritti dei vivi e quelli dei morti…».

E quindi la nobile e fiera Antigone diede retta al suo cuo-
re, anche se aveva paura. Il vecchio re di Tebe non ebbe ne-
anche la soddisfazione di punirla, perché Antigone si impiccò
al ramo di una grande quercia. Immaginai il sovrano, ai piedi
dell’albero, che la guardava. Immaginai sulla bocca livida di
Antigone, l’accenno di un leggero, sarcastico sorriso.

129

La canzone alla radio fu troncata all’improvviso da una
voce d’uomo, concitata:

«Gentili ascoltatori, siete collegati con la redazione del GR2.
Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che
ha dell’incredibile e se anche non ha trovato finora una confer-
ma ufficiale, purtroppo sembra sia vera».

Alzai il volume.
«Il Presidente della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo
Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terro-
risti. L’incredibile episodio è avvenuto davanti all’abitazione del
parlamentare nella zona della Camilluccia. I terroristi avrebbe-
ro sparato contro la scorta che accompagnava il Presidente de-
mocristiano. Avrebbero poi caricato a viva forza l’onorevole Mo-
ro su una macchina e si sarebbero allontanati facendo perdere le
loro tracce. Non sappiamo altro per il momento. Ovviamente,
nel corso della mattinata, ci collegheremo altre volte, interrom-
peremo le trasmissioni… C’è da aggiungere che la scorta del-
l’onorevole Moro era composta da cinque agenti che sarebbero
tutti morti…».
Spensi la radio e corsi ad accendere il televisore. C’era
un’edizione straordinaria del Tg 1. Le telecamere erano arriva-
te sul posto dell’agguato, cercando di rubare le immagini stra-
zianti dei corpi massacrati degli uomini che facevano parte del-
la scorta di Moro. Corpi che la morte violenta aveva reso quasi
scomposti. Corpi che entrarono nell’intimo delle nostre case,
sconvolgendole. Immagini in bianco e nero, che per sempre sa-
rebbero rimaste in bianco e nero nella mia mente, disorientan-
dola, e nelle menti di chi, come me, era davanti al televisore.
Gli sportelli delle auto, spalancati, con i fori lasciati dai proiet-
tili. Le chiazze di sangue sul volto, sui vestiti. Gli schizzi do-
vunque. Sulle maniche delle giacche. Sugli orologi da polso.

130

Sui giornali spiegazzati. Sui sedili. I capi reclinati. Le torsioni
innaturali del busto. Le gambe piegate in posizione fetale. I ve-
tri dei finestrini frantumati. Il corpo di uno di loro, che indos-
sava un impermeabile chiaro, era riverso sull’asfalto della stra-
da, tra fogli di giornale svolazzanti. Gli occhi chiusi. Le braccia
aperte, come a voler contenere tutto quanto il cielo di quella
giornata di un marzo del 1978.

Bruno Vespa lesse in diretta:
«Le Brigate rosse hanno rivendicato poco fa il rapimento di
Moro. Hanno telefonato alle 10.10 alla redazione dell’Ansa:
Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Demo-
crazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo,
teste di cuoio di Cossiga. Firmato Brigate Rosse».
Mia madre rientrò in casa poco dopo, con l’aria trafelata.
«Gesù Cristo mio!» disse.
Aveva saputo la notizia per strada. Tutti sapevano ormai.
Si accasciò sulla sedia, senza levarsi la giacca. Senza neanche
posare la borsa. Rimanemmo incollate davanti al televisore
per tutta la mattinata. Si dimenticò anche di prepararmi il
brodo di merluzzo. Pranzammo con pane, olio e sale.

***

Due giorni dopo ero intenta a ritagliare con cura l’immagi-
ne di Moro. Era una foto che quelli delle Brigate rosse gli ave-
vano scattato con una Polaroid, e che avevano fatto ritrovare a
Roma, insieme al comunicato numero 1. Moro era in maniche
di camicia. Una camicia bianca, spiegazzata, con il colletto
aperto. Alle sue spalle era steso un grande telo, su cui c’era una
scritta a stampatello, in lettere maiuscole: BRIGATE ROSSE. Tra
la parola “BRIGATE” e la parola “ROSSE”, una stella a cinque

131

punte, all’interno di un cerchio. Ero turbata da quella fotogra-
fia. I capelli spettinati di quell’uomo e la sciatteria di quella ca-
micia che due giorni prima era stata indossata sicuramente con
una cravatta, e con una giacca, che doveva essere stata accura-
tamente stirata, col colletto perfettamente inamidato, nascon-
devano qualcosa di tragico. E il volto poi! Il volto aveva
un’espressione inquietante. Non avevo capito subito il perché.
Ero rimasta seduta a gambe incrociate davanti al cassetto aper-
to del mio armadio, per tanto tempo. A guardarlo bene quel
volto. A studiarlo nei minimi particolari. E poi, all’improvviso,
capii il motivo per cui l’avevo trovato così sconvolgente. Co-
prii con il palmo della mano la metà esatta della faccia di Mo-
ro. Ecco cos’era! Il lato sinistro del suo viso esprimeva un senso
di rassegnazione infinita. L’occhio fissava l’obiettivo della mac-
china fotografica. La guancia era solcata da una ruga profonda.
L’angolo della bocca rivolto verso l’alto, in segno di paziente,
docile rinuncia. Un sorriso terribile su quelle labbra, amaro,
pieno di acre arrendevolezza. Sollevai la mano. Coprii l’altro
lato della faccia. La parte destra del volto era completamente
diversa. Il sopracciglio pensieroso. Lo sguardo, in quell’occhio,
perso nel vuoto. La bocca rigida. Quel lato della faccia aveva
davanti tutto l’orrore. L’orrore visto due giorni prima, durante
l’agguato con la sparatoria e i morti dilaniati nelle auto, e l’or-
rore che sarebbe ancora arrivato.

Dopo aver ritagliato con cura la foto, la incollai su un gran-
de quadernone che avevo comprato apposta, tempo addietro,
per tenere in ordine tutti i miei ritagli di giornale, che ormai
erano diventati tantissimi. Li avevo sistemati in ordine cronolo-
gico. A cominciare dal massacro del Circeo, e poi l’assassinio di
Pasolini, continuando così, con stupri e rapine e morti ammaz-
zati, fino alla tragica fine di Benedetto Petrone. Era tutto lì, il

132

male del mondo in cui vivevo. Tutto meticolosamente attacca-
to ai fogli di un grosso quaderno a quadretti, perché io potessi
sfogliarlo ogni volta che volevo. Perché potessi ravvivare, con
uno sguardo, la violenza di quegli anni, il pericolo che si celava
dietro l’angolo, la paura che mi attanagliava l’anima.

Ripensai a te Rosy, al tuo candore leggero, alla tua inge-
nuità priva di scaltrezza. Prima o poi mi avresti dato ragione,
considerai tra me. Prima o poi avresti capito che le mie, non
erano paranoie.

***

«È il professor Franco Tritto?».
«Ma chi parla?».
«Lei è il professor Franco Tritto?».
«Sì, ma io voglio sapere con chi parlo».
Sospiro.
«Brigate Rosse».
«Ah. Va bene…».
Silenzio.
«Ha capito?».
«Sì».
«Ecco… non posso stare molto al telefono».
Pausa.
«Quindi dovrebbe dire questa cosa… dovrebbe andare per-
sonalmente… anche se il telefono ce l’ha sotto controllo, non fa
niente… dovrebbe andare personalmente e dire questo: adem-
piamo alle ultime volontà del Presidente, comunicando alla fa-
miglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro».
«Che cosa dovrei fare?».
«Mi sente?».

133

«No. Se può ripetere, per cortesia».
«No. Non posso ripetere guardi. Allora! Lei deve comunicare
alla famiglia…».
«Sì…».
«… che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro…».
«Sì…».
«… in via Cae-tani».
«Via?».
«Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Bot-
teghe Oscure…».
Silenzio.
«… va bene? Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di
targa sono N5…».
«Devo telefonare io… alla famiglia…».
«No, dovrebbe andare personalmente».
«E non posso…».
Piange.
«Non può?».
Piange.
«Dovrebbe, per forza».
«Per cortesia, no».
Piange.
«Mi dispiace...».
Piange.

***

Di nuovo il portabagagli di un’auto. Lo hanno ucciso: era
il titolo in prima pagina sull’edizione straordinaria della Gaz-
zetta del Mezzogiorno di maggio. Di nuovo un cadavere, nel
portabagagli di un’auto, a rivelare l’atroce realtà.

134

Lo hanno ucciso. La testa e le gambe innaturalmente pie-
gate. Vestito con l’abito che indossava cinquantacinque gior-
ni prima. La giacca scura. La cravatta ben annodata.

Lo hanno ucciso. Un mare di gente in via Caetani. Una
folla incredula attorno ad un corpo accasciato, con la mano
bianca poggiata mollemente sullo stomaco. Il prete che dà
l’assoluzione.

Lo hanno ucciso. Non avevo sentito il rumore della maniglia,
la porta che si apriva. Saverio era entrato nella mia stanza.

«Vieni al telefono» disse.
«È Rosy».

135

18

«Il giorno che la bella Euridice morì, Orfeo impazzì dal
dolore».

Passeggiavamo lente sul fortino della nostra città bianca,
io e te Rosy.

Il mare così azzurro da far male agli occhi.
«Quando non ebbe più fiato per disperarsi, né lacrime per
piangere, Orfeo afferrò la sua lira e scese nell’Ade».
I tuoi occhi così azzurri da far male al cuore.
«Con il suo canto soave convinse Caronte a trasportarlo
oltre il fiume infernale. Persino il cane Cerbero, reso mansue-
to dalla sua melodia, lo lasciò passare».
I monumentali lampioni di ghisa che scandivano il lungo-
mare, adagiati sugli alti basamenti di pietra bianca, così altez-
zosi e austeri, somigliavano a fedeli guardiani della costa.
«Orfeo giunse quindi al cospetto di Ade e Persefone. Can-
tò in maniera così sublime, che gli dei si commossero e gli
concessero di portare via Euridice, di farla tornare in vita, ma
ad una condizione: per niente al mondo si sarebbe dovuto
voltare a guardarla durante il tragitto. Non prima di essere
usciti dagli inferi maleodoranti».
Dall’alto della muraglia abbiamo visto un pescatore, a tor-
so nudo, con lo stomaco prominente, la pelle bruciata dal so-
le, che sbatteva un grosso polpo sugli scogli, fino a farlo
schiumare. Ci siamo fermate a guardarlo.

136

«E poi?» mi hai chiesto.
Mi piaceva quando eri totalmente presa dai miei racconti.
«Orfeo camminava davanti. Euridice lo seguiva, simile a
una sonnambula. Gli guardava le spalle. Forse pensava al gelo
di morte che lui aveva dovuto attraversare per raggiungerla, per
andare a riprenderla. Forse pensava che a lei, invece, quel gelo
era penetrato nel sangue ormai. Dentro le ossa. Euridice si rese
conto che niente sarebbe stato mai più come prima, perché
quel senso di morte avrebbe deturpato il loro amore. Neanche
il calore del sole sulla pelle o l’odore di brezza marina potevano
renderla l’Euridice che lui, un tempo, aveva amato».
Un ragazzo si tuffava da uno dei grandi blocchi di cemento
frangiflutti. I suoi vestiti erano posati su un angolo del blocco.
Scompariva sott’acqua. Riemergeva in superficie, più lontano.
Ritornava veloce indietro, a grandi bracciate. Risaliva sul bloc-
co di cemento, facendo leva sulle braccia muscolose. Quando
si rimetteva in piedi, l’acqua gli scivolava lungo il corpo snello.
La sua pelle bagnata brillava sotto il sole di giugno.
«E allora?» hai incalzato.
«Che fece Euridice?».
Distolsi lo sguardo dal ragazzo che nuotava e ripresi:
«In quel momento, capì che anche porre fine ad una storia,
è un atto d’amore. E di coraggio. Intravide da lontano il bar-
lume di luce che la riportava alla vita. Fu allora che prese la de-
cisione. Fissò per un’ultima volta le spalle di Orfeo che, come
un fantasma, camminava rigido davanti a lei. Lo chiamò: Or-
feo! Era sicura che si sarebbe voltato. E infatti Orfeo si voltò,
ma immediatamente i suoi occhi si riempirono di disperazio-
ne, perché si rese conto di quello che aveva appena fatto.
«“Ti amerò sempre come ti ho amato in vita” gli disse Euri-
dice, prima di scomparire di nuovo, per sempre, nelle tenebre».

137

«Conoscevo la storia di Orfeo e Euridice, ma non sotto que-
sta prospettiva» mi hai detto dopo qualche istante di silenzio.

«È merito della mia insegnante» mi sono affrettata a specifi-
care. «Lei dice sempre che ci sono tanti punti di vista nei raccon-
ti e la cosa più giusta da fare è cercare di comprenderli tutti».

«Anna, non sai quanto mi piacerebbe tornare a studiare
insieme a te quest’inverno. A casa tua».

Ti ho guardato in quegli occhi, azzurri più del mare che
avevamo di fronte. Quel mare. Davanti a quel mare, ci erava-
mo conosciute. Con quel mare come testimone, eravamo di-
ventate amiche. Affacciate adesso su quel mare, ci eravamo
rappacificate.

«Mi dispiace per quella volta, Rosy. Non volevo offenderti.
Probabilmente avevi ragione tu. Probabilmente ero gelosa di
mio fratello. Non siamo mai andati d’accordo io e Saverio».

«Forse è arrivato il tempo di conoscervi un po’ meglio».
Hai abbassato lo sguardo e poi di nuovo mi hai guardato.

«Con me parla, si confida. Ho telefonato più volte a casa
tua, ma tu non c’eri mai. Una volta mi ha risposto Saverio. Mi
ha detto che gli dispiaceva che io non venissi più a trovarti».

Hai scrutato l’espressione sul mio viso e poi hai continuato.
«Quella volta mi ha chiesto se potevamo vederci un pome-
riggio, io e lui. Ho detto di sì. Volevo chiedergli di te. Abbia-
mo passeggiato fino al cavalcavia di Corso Cavour. Ci siamo
fermati a guardare i treni di sotto, che passano vicini vicini alle
case».
Hai smesso di nuovo di parlare, quasi per darmi il tempo
di assimilare quello che mi stavi confidando.
«“Perché Anna ha reagito così?” gli ho chiesto».
Ti ho guardato con aria interrogativa, come per chiederti:
“E lui? Cosa ha risposto lui?”.

138

«Secondo Saverio tu hai sempre temuto, in qualche mo-
do, che lui avrebbe potuto farmi del male».

Incredibile! Mio fratello era riuscito a scovare dentro di
me qualcosa che neanche io avevo visto. Non ero sempli-
cemente gelosa di Saverio. No. Avevo paura che la violenza
che avevo conosciuto in lui, quella violenza che sapevo be-
ne, potesse anche solo sfiorare te. Era così. Aveva ragione.

«Mi ha detto di no, che naturalmente non avrebbe mai
potuto farmi del male. Mai. Che non avrebbe permesso a
nessuno di farmi del male».

Che buffo! Sia io che Saverio avevamo quel morboso
senso di protezione nei tuoi confronti.

«Sei innamorata di lui?» ti ho chiesto.
«Innamorata? No… ma mi fido di lui. Vorrei che ti fi-
dassi di lui anche tu».
Ho inspirato forte l’aria salmastra.
«Andiamo?» ti ho detto.
Abbiamo oltrepassato il fortino di sant’Antonio Abate.
Da lì la vista spazia da un lato all’altro della città, fin dove
è consentito, fino a rubarti il respiro. E sarà stata quella lu-
ce speciale che Bari, in certi giorni, sa regalarti. Saranno
state le onde leggere che increspavano la superficie, facen-
do danzare le barche dei pescatori, o il fruscio lieve della ri-
sacca che sbatteva piano sugli scogli. Sarà stato l’odore
pungente del porto, che arrivava dritto al cuore, sferzando-
lo. Mi sono sentita sollevata e leggera. Come una di quelle
barche che dondolavano nel porto vecchio e che a me, in
quel momento, sembrava quasi che ridessero. Che ridesse-
ro di me. Delle mie paure. Dei miei incubi.

139

***

Non sentii dolore. Solo l’urto del cofano dell’auto che mi
veniva addosso e poi più niente. Mi ritrovai per terra, sul-
l’asfalto della strada. Mi ricordo che Paola urlò:

«Anna!».
Però non sentii dolore. Un capannello di persone si formò
attorno a me. Vidi un pezzo di cielo rotondo tra tutte quelle
teste che mi guardavano in circolo, dall’alto.
«Anna, stai bene?» Paola tremava. Si inginocchiò, mi pre-
se la mano.
«Sì tutto bene» dissi. Provai ad alzarmi, ma non ci riuscivo.
Arrivò un’ambulanza, non so chi l’avesse chiamata, e mi
ritrovai al Policlinico.
Paola intanto era andata ad avvisare mia madre. Glielo
disse per citofono che ero stata investita e, per citofono, mia
madre urlò:
«Madòòò!» così forte che la sentirono per tutta la strada.
I miei genitori arrivarono all’ospedale proprio mentre un
dottore stava osservando la radiografia che mi avevano appe-
na fatto alla caviglia:
«Frattura scomposta del malleolo. C’è bisogno dell’inter-
vento».
«No! Non mi voglio operare! Non mi voglio operare!».
Piangevo disperata.
Anche mia madre piangeva. Mio padre guardava me e poi
mia madre. Mia madre e poi me.
«Ma ci cazz chiangite?» sbottò.
E quindi rimasi lì, al reparto di ortopedia, secondo piano,
in uno stanzone con altri cinque letti, oltre al mio. Tre da
una parte e tre dall’altra.

140

Più tardi arrivarono Enza e Gino e anche mia nonna, con
una busta di plastica piena di biscotti e succhi di frutta. Mi
fecero raccontare dell’incidente quasi una decina di volte.

Quando andarono via, ero spossata. Sollevai le lenzuola
del letto e mi tirai su con i gomiti. Vidi la mia caviglia gonfia
e completamente deformata. Era diventata di colore viola.
Non riuscivo neanche a spostarla perché muoverla, adesso,
mi procurava un dolore lancinante. Mi rimisi giù e piansi.
Piansi fino a che non mi addormentai.

141

19

Mi annoiavo moltissimo in ospedale. Per fortuna Paola
mi aveva portato una scorta di libri che divoravo uno dietro
l’altro. Non potevo muovermi, non potevo fare nient’altro
che leggere. Non c’era neanche il televisore. Fu Paola a farmi
sapere che l’8 luglio era stato eletto il nuovo Presidente della
Repubblica.

«Pertini!» mi disse, accalorata. «Lo sai? È stato persino un
partigiano!».

Anche tu, Rosy, sei venuta a trovarmi, incantando tutti i
pazienti che erano nello stanzone con me.

Eri seduta accanto al mio letto. Immaginavo il profumo
di salsedine tra i tuoi capelli:

«Mi annoio anche io, cosa credi?» mi hai detto a bassa voce.
«Passo tutto il tempo sotto l’ombrellone, insieme a mia
madre, lì alla spiaggia di San Francesco. Per fortuna all’ora di
pranzo arriva Saverio e chiacchiero un po’ con lui».
Già. Saverio. Ho avuto un fremito di gelosia, ma non l’ho
dato a vedere.
«Ha messo dei soldi da parte, vuole comprarsi un’auto usata.
Ha detto che io sarò la prima che porterà a fare un giro».
Ho avuto una fitta di invidia all’idea di Saverio che parla-
va con te in riva al mare, che rideva con te.
«Anzi, sai che facciamo quando guarirai?» hai continuato.
«Ci facciamo scarrozzare tutte e due con la sua macchina.

142

Andiamo ad Alberobello, o alle grotte di Castellana. Giriamo
tutta la Puglia, dalla cima, fino giù giù, alla punta».

Mia adorabile, tenera, candida Rosy!
«Senti, mi fai un favore?» ti ho chiesto, cercando di
cambiare discorso.
«Puoi prendere tutti questi biscotti? E questi succhi di
frutta? Mia nonna me ne porta una busta piena, ogni volta.
Non ce la faccio a mangiarli tutti».
Veniva spesso a trovarmi, nonna. A volte insieme a mia
madre e mio padre. Enza più raramente invece. Era di nuo-
vo incinta e diceva che la puzza dell’ospedale le dava allo
stomaco. Ma quelle volte che la vedevo arrivare, ero felice.
Si sedeva sul mio letto. Cercavo di stringermi, di farle più
spazio possibile, in modo che anche lei potesse sdraiarsi.
Era come tornare di nuovo bambina, quando andavo a in-
filarmi sotto le coperte accanto a lei e le chiedevo di rac-
contarmi una storia.
Rimani qui con me Enza! – pensavo, cercando, come
quando ero piccola, di esercitare un comando telepatico
sulla sua mente, con la sola forza del pensiero. – Non te ne
andare. Rimani qui con me. Posso sopportare qualsiasi co-
sa se tu rimani qui accanto a me. Anche la caviglia rotta.
Anche l’ospedale. Anche i lamenti di questi tizi, qua den-
tro, che non mi fanno dormire la notte.
E invece Enza a un certo punto si metteva a sedere e diceva:
«Questa puzza di ospedale mi fa venire da vomitare.
Anna, io vado. È tardi, devo pure preparare la cena!». Mi
dava un bacio e scompariva oltre la grande porta color ver-
de acqua dello stanzone, lasciandomi solo quella sua fra-
granza odorosa che tanto avevo amato, impregnata là, sul
lato del cuscino su cui poco prima aveva poggiato la testa.

143

***

L’intervento andò bene. Mi misero un chiodo per tene-
re unito il malleolo e mi ingessarono dalla punta del piede
fino al ginocchio. Durante l’anestesia sognai. Lo ricordo
benissimo. Sognai una grande ruota di legno con i raggi,
simile a quella delle carrozze attaccate ai cavalli che sosta-
vano la mattina presto, sotto la sopraelevata della ferrovia
Appulo-Lucana di Corso Italia. All’estremità di ogni rag-
gio c’era una testa umana, mozzata. Le teste somigliavano,
in maniere sorprendente, a quelle maschere rappresentate
sui mosaici degli antichi romani, che tante volte avevo vi-
sto sul libro di storia dell’arte. Le bocche aperte, gli occhi
inorriditi, persi nel vuoto. La ruota girava lenta e inesora-
bile. A turno ogni testa all’estremità del raggio, veniva
schiacciata sull’asfalto della strada. E più la ruota girava,
più le teste si lordavano di sangue.

«Anna… Anna…».
Feci fatica a svegliarmi dall’anestesia. Aprii gli occhi
con uno sforzo enorme. Mia madre era seduta accanto a
me. Avevo un ago infilato sul dorso della mano, collegato
ad un tubicino. Seguii il percorso che il tubicino faceva
verso l’alto. Partiva da una bottiglia rovesciata, con dentro
del liquido trasparente. Guardai in direzione del mio pie-
de, sollevato su un cuscino. Le dita erano sporche di tintu-
ra di iodio. Seminascosta dalle coperte sollevate, seduta in
fondo al letto, mi sembrò di scorgere Carolina, la mia
bambola. Sicuramente stavo ancora sognando sotto l’effet-
to dell’anestesia. Abbassai le palpebre, pesantissime, e mi
riaddormentai.

144

***

Invece Carolina non l’avevo sognata. Era davvero lì, seduta ai
miei piedi, con la schiena poggiata sulle sbarre di ferro del letto.

«Chi l’ha portata?» chiesi a mia madre.
«Saverio» mi rispose.
«Saverio?».
«Sì. Saverio. È venuto qua, prima. Tu dormivi».
Osservai la mia vecchia bambola. Non aveva più lo sguar-
do da strabica. Gli occhi azzurri erano al loro posto, i bulbi
oculari perfettamente incastonati all’interno delle palpebre.
Le pupille vivide e guizzanti come un tempo. Non potevo
crederci. Trovai la cosa straordinaria.
«Me l’avvicini?» dissi a mia madre.
La presi con il braccio libero dall’ago. Anche il collo era
stato riparato. Non aveva più quel foulard che le avevo mes-
so, cercando di reggere la testa al resto del corpo. Se non fosse
stato per l’arto mozzato, all’altezza della caviglia, nascosto da
un vecchio calzino, sarebbe sembrata come nuova.
Io e Carolina avevamo entrambe un problema con il no-
stro piede, adesso.
La porsi a mia madre, che la sistemò di nuovo in fondo
al letto.
Chiusi gli occhi e mi addormentai di nuovo, con un senso
di beata leggerezza nel cuore.

***

Venne a prendermi Saverio dall’ospedale, insieme a mio
padre. Arrivò con la Fiat 126 di seconda mano, appena com-
prata con i soldi guadagnati al cantiere. Mi portarono giù con

145

la sedia a rotelle. Il dottore aveva detto che non potevo rico-
minciare a camminare prima di un mese, perché l’osso doveva
calcificarsi per bene. Saverio mi aiutò ad entrare in macchina.
Fui costretta a mettergli il braccio attorno al collo e lui mi cin-
se la vita con il suo. Quello fu il primo contatto fisico, così
ravvicinato e prolungato, con mio fratello. Sentivo il muscolo
robusto del suo omero contrarsi sotto la mia mano. La punta
dei suoi capelli che mi solleticava le dita. La presa sicura del
suo braccio che mi stringeva. Per la prima volta nella mia esi-
stenza, mi accorsi di quanto fosse solido e stabile. Come una
roccia che mai avrebbe potuto cedere, o farmi cadere. Come
un gigante di cui potermi fidare ciecamente, perché anche se
in quel momento fossimo stati travolti dall’uragano più po-
tente del mondo, lui non mi avrebbe mollato.

«Chian! Chian!». Piano! Piano! gli stava dicendo mio padre.
Saverio si chinò dietro il sedile posteriore per farmi sedere.
Aveva delle piccole goccioline di sudore sulle tempie, per lo
sforzo e per il caldo. Quando sollevai il mio braccio dalle sue
spalle, i nostri sguardi si incrociarono per un istante. Come
per sbaglio. Di sfuggita.
Odorava di tabacco. Mi resi conto di avere le guance in
fiamme.

146

20

Quell’estate sembrava non dovesse finire mai. Si sussegui-
vano, i giorni, pigri e incerti come i miei passi sul pavimento,
tra la cucina e la mia stanza, la mia stanza e la cucina. Cam-
minavo con le stampelle, attenta a non poggiare il piede in-
gessato per terra. Il tempo era scandito dalle letture voraci dei
libri, dalle visite di Paola e dalle tue, Rosy, più saltuarie. Sa-
pevo che tu e Saverio vi vedevate ogni giorno, lì alla spiaggia
di San Francesco, durante la sua pausa di lavoro, perché ogni
giorno gli chiedevo di te. Parlavamo di te. Parlavamo grazie
a te. Tutti e due, in modi diversi, innamorati di te.

A fine agosto tornai in ospedale per togliere il gesso e il
chiodo. Avevo una cicatrice lunga dieci centimetri sulla cavi-
glia, di cui andavo fiera.

«Sei sicura che ti piace?» mi aveva chiesto Enza, incredula.
«Sì, mi piace molto» le avevo risposto, «sono sicura».
«E non ti scoccerà, quando diventerai più grande e vorrai
mettere i sandali con i tacchi, o lo smalto sulle unghie, andare
in giro con una cicatrice così grossa?» fece ancora mia sorella.
«No, affatto» la rassicurai.
Il periodo della riabilitazione coincise con l’inizio della
scuola. Non riuscivo a camminare, provavo dei dolori lanci-
nanti ogni volta che tentavo di spostare il peso del corpo sul
piede operato. Saverio mi accompagnava a scuola con la sua
126 usata. E poi mi veniva a riprendere. Ogni giorno.

147

Lo intravedevo tra le teste dei miei compagni, all’uscita,
mentre arrancavo con le stampelle. Mi aspettava in macchi-
na. Lo sguardo perso davanti a sé. La sigaretta tra le labbra.

La Ludovici, a lezione, mi aveva detto che dovevo fare co-
me Sisifo: portare quel dolore, quel peso, con dignità. Il tem-
po sarebbe passato più in fretta e presto sarei tornata a cam-
minare come prima.

«Perché? Cosa successe a Sisifo, professoressa?» le chiese
Paola.

E la Ludovici, con un guizzo negli occhi, ci raccontò che
Sisifo era uno che si faceva beffe degli dei. Un dissacratore.
Un burlone perenne. Quando Thanatos, la Morte, bussò alla
sua porta per portarlo via con sé, perché era arrivata la sua
ora, Sisifo lo fece ubriacare talmente tanto, che il vecchio dio
non riusciva più a stare in piedi. Gli legò poi le mani e le ca-
viglie con spesse catene, così che nessuno, da quel momento,
potesse più morire. Quando Zeus si accorse che durante le
battaglie i soldati non cadevano più sui campi, e le donne
non piangevano più i loro uomini, e le madri non urlavano
più il loro dolore al cielo, e venne a sapere di Thanatos, lega-
to come un salame nella casa di Sisifo, si infuriò come un leo-
ne in gabbia. Fece liberare Thanatos e condannò Sisifo ad
una punizione esemplare: doveva spingere un grosso masso
dai piedi alla cima di un monte ma, prima di raggiungere la
vetta, il masso doveva rotolare giù. Inesorabilmente. Ogni
giorno così. La condanna di Sisifo era quella di non raggiun-
gere mai la cima. Eppure Sisifo portava il masso sulle spalle
con orgoglio, con tenacia. Il sudore gli imperlava la fronte.
Tornava indietro, cadeva e si rialzava, senza perdere mai di
vista la vetta del monte, da lontano, fregandosene del fatto
che non l’avrebbe mai raggiunta.

148

«Sai cosa ha detto Albert Camus riguardo alla storia di Si-
sifo?» mi chiese la Ludovici, puntandomi addosso i suoi pic-
coli e appuntiti occhi azzurri.

«Ha detto che Zeus non lo sa, non lo potrà mai sapere,
ma anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un
uomo».

Ero estasiata dalle parole della Ludovici e anche da quelle
che aveva detto Camus.

«E quindi, Anna, portalo con orgoglio questo peso. Sii te-
nace più che puoi con questa tua fatica. Gli dei non sanno
che grandezza si cela dietro i nostri ordinari gesti quotidiani,
le nostre piccole gioie, le nostre consuete sofferenze».

Ogni pomeriggio, dopo i compiti, mi esercitavo a cammi-
nare facendo sempre un po’ più di forza sul piede.

«Prova senza stampelle» mi disse inaspettatamente Saverio
una sera, aprendo la porta di casa e trovandomi lì, nel corri-
doio buio.

«Non posso, non ci riesco» risposi.
«Appoggiati a me». Prese le stampelle e le accostò sulla
parete.
Mi cinse la vita col braccio e mise il mio braccio attorno
al suo collo.
Deglutii rumorosamente.
«Ho paura».
«Ti tengo. Non ti lascio».
Ad ogni passo mi appendevo al collo di Saverio, con tutto
il mio peso. Sentivo, ad ogni passo, il suo braccio fare pres-
sione sui miei fianchi. Un dolore lancinante, ad ogni passo,
mi risaliva su per la gamba. Lacrime come spilli, ad ogni pas-
so, mi pungevano gli occhi. Stille di sudore, ad ogni passo,
mi imperlavano la fronte.

149


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