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Published by Florio “SetiroN // Hypnotoad” Alagna, 2018-04-03 09:24:37

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

Percorremmo avanti e indietro il corridoio di casa, dalla
porta di ingresso, sotto il tabernacolo di san Nicola, fino alla
soglia della sua stanzetta. E poi di nuovo. Avanti e indietro,
avanti e indietro. Immaginavo che san Nicola, che mi guar-
dava dall’alto, con le tre palle d’oro in equilibrio sul palmo
della mano, fosse la cima irraggiungibile di una montagna.

«Pensa a Sisifo», mi dicevo, «pensa a Sisifo che sfida la vetta».
Fissavo san Nicola con rabbia, con orgoglio, ripetendo a
me stessa, come un mantra, le parole di Camus.

***

Un giorno, all’uscita di scuola, notai che in macchina con
Saverio c’erano altre due persone sedute sul sedile posteriore.
Camminavo più spedita adesso, con una sola stampella. Li ri-
conobbi subito: erano Antonio e quell’altro tipo con l’incisi-
vo spezzato, Maurizio. Ebbi un sussulto. Rallentai il passo.
Ricordo di avere anche pensato: Adesso faccio finta di non
averli visti e vado a piedi. Ma prima Saverio, e poi gli altri
due, voltarono la testa e mi videro. Proseguii con riluttanza
verso la macchina. Aprii lo sportello, presi posto sul sedile
anteriore e sistemai la stampella tra le gambe. Avvertivo lo
sguardo di quei due, dietro le spalle. Non dissi una parola e
neanche loro parlarono. Spiavo con la coda dell’occhio mio
fratello, per carpire la sua espressione, ma il mio sguardo co-
glieva appena i movimenti che la sua mano faceva sulla ma-
nopola del cambio. Invece di prendere la solita strada per ca-
sa, Saverio svoltò verso l’extramurale Capruzzi. Proseguì oltre
il ponte di Japigia, per poi sbucare sulla litoranea.

«Dove stiamo andando?» gli chiesi, con una leggera vibra-
zione di nervosismo nella voce.

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«Devo portare loro da una parte» mi rispose. «Ci mettia-
mo dieci minuti».

«Che hai paura che ti rapiamo?» disse Antonio, con un to-
no sarcastico.

Maurizio scoppiò a ridere. Immaginai il suo dente spezza-
to ed ebbi un brivido.

Non risposi. Neanche Saverio disse niente.
Lasciammo la città alle nostre spalle. Oltrepassammo il
Sacrario Militare, alla nostra destra. Il cielo era coperto di nu-
vole basse e il mare era agitato e aveva un colore grigio, sini-
stro. In mezzo alla terra arida, priva di alberi, completamente
incolta, sorgevano qua e là orribili case abusive, lasciate così,
incompiute, a metà della costruzione, simili ai rami spogli
degli alberi e, più di rado, anche dei grandi capannoni indu-
striali. Saverio accostò davanti ad uno di quei capannoni. Pri-
ma di scendere Antonio gli disse:
«Grazie uagliò! Ti dobbiamo un favore. Stai sicuro che
non me ne scordo».
Si allontanarono tutti e due a grandi passi, calpestando la
terra arida e pietrosa, dirigendosi verso una vecchia casa ab-
bandonata. Antonio aveva le mani infilate nel giubbotto di
pelle. Maurizio, una sigaretta tra le labbra. Oltrepassarono i
fichi d’India e scomparvero dietro il muro semidistrutto del
cortile. Le finestre erano state coperte con assi di legno e sul
tetto due antenne della televisione vibravano pericolosamen-
te al vento. Accatastate sul muro della facciata c’erano im-
mondizie, vecchi copertoni, bombole del gas arrugginite. Sa-
verio fece manovra con la macchina e tornammo indietro. Le
nuvole erano così basse che sembravano voler schiacciare il
tettuccio della 126. Le onde del mare schizzavano sulla costa
brulla, arrivando a bagnare il ciglio della strada. Avvertii una

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sensazione di sgradevole disagio salirmi su per lo stomaco.
Un insopportabile presagio di sventura e morte. Solo quando
scorsi nuovamente la sagoma grigia e sottile di Bari, stagliarsi
a ridosso del molo, come un fantasma in un sogno, e rico-
nobbi il campanile della cattedrale, trovai il coraggio di dire
a Saverio:

«Ancora frequenti quei due?».
Per un attimo pensai che si sarebbe infuriato, che avrebbe
avuto uno scatto d’ira memorabile, che mi avrebbe sbraitato
contro, come un tempo:
«Cosa cazzo te ne frega a te?».
Ero sicura che avrebbe spinto l’acceleratore in un moto di
rabbia repressa, facendo sgommare le ruote della 126 e che il
mio cuore sarebbe sobbalzato fino in gola.
E invece Saverio non disse niente. Non mi rispose. E gui-
dò con la stessa mite andatura, fino a casa.

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«Annuntio vobis gaudium magnum». La folla si scosse, pro-
ruppe in un urlo, accorse più vicino, spingendosi sotto la ba-
silica, per vedere meglio la fumata bianca sollevarsi dal sottile
comignolo della Cappella Sistina verso il cielo d’inchiostro
della sera.

«Habemus papam!». Tripudio della folla. Centinaia di faz-
zoletti svolazzanti sopra le teste. Flash lampeggianti nel buio.

«Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum…». Ova-
zione corale, lacrime di commozione. «…Dominum Carolum
Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Wojtyla!».

La folla esplose in un boato. Il 16 ottobre 1978 Giovanni
Paolo II, cardinale di Cracovia, primo Papa non italiano dopo
più di quattro secoli, si affacciò dall’imponente balconata su
piazza san Pietro, e sollevò le braccia in segno di saluto. La folla
tuonò con un muggito che fece tremare il colonnato circostante.

«Questo è giovane» disse mio padre, seduto davanti al te-
levisore. «Speriamo ca campa più di quell’altro…».

«Abbassate il volume! Sto studiando!» urlò Saverio dalla
sua stanzetta. Mi alzai e andai a regolare la manopola del te-
levisore.

Si era iscritto alla scuola serale. Aveva deciso di prenderlo,
alla fine, quel diploma di ragioneria.

«Sì, ma gli studi te li paghi da solo» lo aveva avvisato mio
padre.

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E così Saverio quando finiva il turno di lavoro al cantiere,
andava a scuola e dopo cena si metteva a studiare. Stava sui
libri un paio d’ore e poi usciva. Per rinfrescarsi le idee, così
diceva. Tornava tardi, come al solito. Io non lo sentivo mai
quando rientrava.

Ormai camminavo senza stampelle. Avevo ripreso ad an-
dare a scuola insieme a Paola, a piedi. La Ludovici aveva avu-
to ragione. Camminavo senza problemi, ormai. Mi ero scor-
data di tutto.

Quell’anno scolastico ’78-’79, fu proprio bello.
Scivolò via sereno, troppo velocemente. Ti ricordi Rosy?
Almeno una volta alla settimana, venivi da me. A volte capi-
tava anche Paola e più raramente c’era persino Saverio.
Quando eravamo tutti e quattro insieme, studiavamo seduti
alla mia vecchia scrivania, uno per lato, ciascuno concentrato
davanti ai propri libri. Avevate tutti gli occhi bassi, intenti a
leggere, a sottolineare qualcosa con la matita, a scrivere ap-
punti. Io vi guardavo, Rosy. A uno a uno. Le mie migliori
amiche erano lì, con me. E adesso avevo anche un fratello.
Per la prima volta in vita mia, avevo anche un fratello, ed era
una sensazione strana e meravigliosa. Era seduto lì, insieme a
noi, con le spalle larghe, le mani callose di chi fa i lavori pe-
santi, a sfogliare, completamente assorto, le pagine di un li-
bro. Era lì, con quel suo odore aspro di ragazzo grande. Mio
fratello. I capelli scuri che gli coprivano la fronte, il tremolio
continuo della gamba nervosa. Ed era mio fratello. Quella
stanza che, da quando Enza era andata via, non mi riusciva
più di amare, aveva adesso la familiarità e il calore di un posto
sicuro. Non aprivo neanche più il mio cassetto degli orrori,
in fondo all’armadio. Accadeva molto di rado ormai. Negli
ultimi tempi avevo incollato sul quaderno soltanto un artico-

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lo che parlava dell’evasione di Giovanni Ventura, imputato
per la strage di piazza Fontana, e poi vari assalti terroristici,
l’uccisione di un giudice, qualche rapimento.

Fu bello quell’anno scolastico.
Passò veloce come naviga una barchetta di carta su un rivolo
d’acqua sotto il bordo del marciapiede. Una barchetta delicata
e insicura che sfreccia pericolosamente sulla corrente. E noi era-
vamo i marinai di quell’imbarcazione traballante, scampata per
miracolo alle intemperie eppure, senza indugio, diretta in ma-
niera commovente alla meta, sfuggendo di continuo, per una
serie di casi straordinari, ai rischiosi gorghi d’acqua torbida.
C’era il cinema Jolly, ogni giovedì. Una volta andammo a
vedere, tutti e quattro, Cane di paglia, con Dustin Hoffman, e
Saverio ne rimase impressionato. La storia del professore ame-
ricano, che va ad abitare con la giovane moglie nella campagna
scozzese, dove lei era nata, lo aveva profondamente turbato. Nel
film è considerato un pavido, un cane di paglia appunto, ma
quando alcuni balordi, vecchi amici della ragazza, la violentano,
il professore ha una reazione di una brutalità inaudita. Compie
una strage. Massacra in un bagno di sangue, uno dopo l’altro, i
tizi che avevano preso d’assalto la sua casa.
«Avrei fatto anch’io la stessa cosa» disse Saverio all’uscita
dal cinema, rincarando la dose di sconcerto che a tutte e tre
ci pesava dentro, dopo aver visto il film.
«Quando è la violenza che comanda» continuò, accenden-
dosi una sigaretta, «ogni risposta che non è violenta a sua vol-
ta, non è mai completa. Non è mai sufficiente. E non è im-
portante se sei una persona buona o una persona cattiva».
Quelle strade non mi facevano più paura, quando mio
fratello era al mio fianco. Non avevo più bisogno di sviare di
continuo, per evitare situazioni imbarazzanti, o di pericolo.

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Non abbassavo più timidamente lo sguardo quando qualcu-
no mi fissava. E, d’altronde, nessuno osava fissarmi più del
dovuto, se Saverio era con me. Quando c’era Saverio, nessu-
no si permetteva di fare battute idiote o proposte oscene. A
nessuno sarebbe mai venuto in mente di fischiare, o di mole-
stare in qualsiasi modo. Se c’era mio fratello, nessuno fra
quelli che reputavano se stessi il massimo della mascolinità,
avrebbe sciorinato, imbattendosi in una ragazza sola, il con-
sueto, deprimente, aberrante repertorio, del tipo: ciao bella!
dove vai tutta sola? / ehi! ce l’hai il fidanzato? / vuoi venire con
me che ti faccio vedere una bella cosa? / di che colore hai le mu-
tande? / ma le porti le mutande? / non sai che ti farei…/ lo sai
fare un bocchino? eccetera, eccetera, eccetera.

Fu bello quell’anno scolastico.
In inverno era nato il secondo figlio di Enza e la sua casa,
in via Manzoni, odorava di bambini e di borotalco. Antonio
e Maurizio furono arrestati di nuovo, questa volta per spac-
cio di droga, anche se dopo quattro mesi erano già fuori.
C’erano i soliti pranzi della domenica, a casa di nonna. Lun-
ghi. Festosi. Chiassosi. C’erano i libri da leggere, i dischi da
ascoltare. C’erano i racconti della Ludovici e le notizie entu-
siasmanti di Paola, come quando a giugno del ’79, in preda
all’eccitazione, mi annunciò:
«Lo sai chi è il nuovo Presidente della Camera? Una don-
na! Nilde Iotti! Hai capito? Una donna! Per la prima volta!».
C’erano le nostre gite in primavera, a bordo della 126 di
Saverio. E io che non ti credevo, Rosy, quando dicevi che sa-
remmo andati tutti quanti insieme su e giù per la Puglia! Se
qualcuno me lo avesse preannunciato, soltanto un anno pri-
ma, sarei scoppiata in una risata fragorosa. E invece eravamo
in macchina, io, tu, Paola e Saverio. Le quattro persone che,

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insieme, formavano il gruppo più improbabile del pianeta.
Eccoci lì, a scorrazzare lungo la statale assolata, in mezzo agli
olivi e ai vigneti sconfinati. A ridere. E a cantare. A riempirci
gli occhi della bellezza esagerata della nostra terra.

Fu bello quell’anno scolastico.
Io e Paola completammo gli esami di scuola media con il
massimo dei voti. Ci saremmo iscritte entrambe al classico.
Avremmo continuato a vederci, anche con te Rosy, che già
frequentavi la stessa scuola.
Fu bello quell’anno scolastico.
Bello come una promessa tra innamorati. Avremmo potuto
godere della nostra adolescenza finalmente rappacificata, sbro-
gliata, una volta per tutte, dai nodi contorti del passato. Noi
tre. E Saverio. Avremmo potuto. E invece non andò così.

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Il nostro Liceo era così grande e austero che incuteva timore.
Dall’esterno appariva come un imponente quadrilatero, dalla
facciata maestosa. La larga scalinata che conduceva all’ingresso
principale, di fronte al mare, era affiancata da due enormi tor-
rioni semicircolari che davano all’edificio l’aspetto di una for-
tezza. Fu costruito in epoca fascista, secondo il progetto dell’ar-
chitetto Petrucci che, in omaggio al duce, gli aveva conferito la
particolarissima caratteristica di una pianta a forma di M. L’ori-
ginalità fu poi camuffata negli anni Sessanta, edificando una
nuova ala, dalla parte opposta all’ingresso che affacciava sul ma-
re. Sull’ampio cornicione bianco, che correva lungo tutto il suo
perimetro, erano sagomati dei grandi oblò, del tutto simili a
quelli di una nave. Quando suonava la campanella dell’ultima
ora, un fiume di studenti scivolava lento lungo la mastodontica
scalinata interna, diretto verso l’uscita. Dal secondo piano io e
Paola guardavamo il flusso vivo, sotto di noi, fatto di teste e
braccia e zaini e occhi e risate. A volte scorgevamo i tuoi lun-
ghissimi capelli biondi, Rosy. Ci aspettavi all’esterno, lungo via
Pizzoli, e facevamo un pezzo di strada a piedi.

«Allora? Come va?» ci chiedevi.
«Insomma. Oggi ci hanno spiegato il trocheo, il dattilo...
quella roba là» ti rispondevo.
«E avete capito?».
«Così così» diceva Paola.

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«E poi la differenza tra parole ossitone, parossitene, perispome-
ne, properispomene…un casino. Una noia mortale» aggiungevo.

«È il prezzo da pagare per poter leggere Saffo, Archiloco,
Omero. Tra un paio d’anni sarete contente di possedere gli
strumenti per comprendere la loro poesia». Ti portavi davanti i
capelli, tutti da un lato, con quel gesto vezzoso che ormai cono-
scevo così bene.

«E comunque, se non vi è chiaro qualcosa, ci sono sempre
io che posso darvi una mano».

Ci eravamo accordate per incontrarci a casa mia il giovedì
seguente, quando tu eri libera dalla lezione di pianoforte. Un
giovedì di ottobre del 1979.

Quel giovedì ti aspettavo seduta per terra, davanti al cassetto
del mio armadio. Era da tanto che non lo facevo. Stavo riguar-
dando l’articolo sul rapimento di Fabrizio De André e Dori
Ghezzi, accaduto due mesi prima, da parte dell’Anonima Sarda.

Teresa ha gli occhi secchi / guarda verso il mare / per lei figlia
di pirati / penso che sia normale… Ascoltavo continuamente il
disco Rimini in quel periodo e pensavo a Fabrizio De André e
alla sua compagna, nascosti chissà dove, prigionieri nella Sarde-
gna bellissima, arcaica e selvaggia.

Ore 17.00. Sei arrivata prima tu Rosy, puntuale come sem-
pre. Portavi dei jeans scuri e attorno al collo un foulard verde,
di seta indiana. Mentre aspettavamo Paola, abbiamo fatto il tè.
Ricordo che mi hai chiesto di Saverio. Ti ho detto che era a
scuola, che sarebbe arrivato più tardi. Volevi domandargli se la
domenica successiva ci avrebbe portato con la 126 ad Altamura,
a vedere il Pulo.

«E che cos’è il Pulo?» ti ho chiesto.
«È la più grande dolina carsica dell’Alta Murgia» mi hai ri-
sposto.

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«Ha la forma di un anfiteatro naturale, una specie di sco-
della solcata da due lame e le sue pareti sono ricche di grotte.
Ci abitavano gli ominidi, circa cinquemila anni fa. E poi c’è
un inghiottitoio, profondo trenta metri!». Hai spalancato gli
occhi mentre lo dicevi. Sì, certo. Avremmo aspettato Saverio
e gli avremmo proposto di andare ad Altamura.

Ore 17.25. È arrivata anche Paola. Ci siamo sedute alla
scrivania, abbiamo aperto i libri e ci hai spiegato l’accento
acuto, grave e circonflesso. E poi la differenza tra vocali lun-
ghe e vocali brevi. La legge del trisillabismo. La definizione
delle successioni sillabiche. Abbiamo ripetuto insieme a te, fi-
no alla nausea: sillaba lunga più sillaba breve uguale trocheo;
sillaba lunga più sillaba lunga uguale spondeo; sillaba lunga
più due sillabe brevi uguale dattilo. Siamo scoppiate a ridere.

Ore 18.07. Saverio era seduto al banco della scuola serale.
Quel pomeriggio era particolarmente stanco. Aveva dovuto tra-
sportare cinquanta sacchette di cemento in una scuola elemen-
tare, per il rifacimento dei bagni. A dire il vero aveva anche pen-
sato di lasciar perdere le lezioni quella sera e di tornare subito a
casa, ma cambiò idea e andò a scuola invece. L’insegnante, un
uomo dai capelli brizzolati, secco come un chiodo, spiegava il
metodo della partita doppia con un tono di voce monocorde e
annoiato, ma lui pensava a te Rosy, a quanto ti eri divertita quel
giorno che ti aveva fatto guidare la 126, per le strade ampie e
desolate che corrono attorno allo stadio della Vittoria.

L’auto aveva rinculato di colpo e il motore si era spento
all’improvviso.

«Più piano con la frizione! Non devi sollevare il piede di
scatto». Muoveva le mani ben tese davanti a sé, molto lenta-
mente, per simulare il movimento che i tuoi piedi avrebbero
dovuto fare su acceleratore e frizione.

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«Rimetti in moto» ti aveva detto.
«Metti la prima. Solleva la frizione. Ecco, schiaccia di nuovo
la frizione e metti la seconda. Adesso accelera leggermente. Pia-
no!... Di nuovo la frizione. Metti la terza. Piano con la frizio-
ne... brava. Così. Brava».
Guidavi concentrata. Saverio guardava il tuo profilo.
Ore 18.30 circa. Antonio e Maurizio sono arrivati al bar
dell’angolo, sotto casa mia, e si sono uniti al solito gruppetto di
ragazzi che bighellonavano là ogni santissimo pomeriggio, fino a
sera. Avranno bevuto un paio di birre a testa e avranno fumato
molto, come al solito. Avranno urlato e imprecato. Avranno li-
tigato e poi riso sguaiatamente. Come al solito.
Io e Paola ancora sedute alla scrivania ad ascoltarti, Rosy, men-
tre parlavi di contrazione di vocali e di dittonghi. Paola ha fatto
uno sbadiglio spropositato. Abbiamo dimenticato i libri e abbia-
mo fantasticato di nuovo sulla nostra gita al Pulo di Altamura.
Ore 19.00. Saverio ha raccolto i libri e si è alzato per tornare
a casa.
«Andiamo a bere qualcosa» gli ha detto Giovanni, l’idraulico
che frequentava la scuola serale insieme a lui.
«Sono stanchissimo, Giovà. Facciamo un’altra volta» ha ri-
sposto Saverio.
«E dai! Fammi compagnia».
E così Saverio e Giovanni hanno camminato per un po’, fi-
no a raggiungere la birreria dietro la stazione.
Paola si è alzata anche lei dalla scrivania.
«Vado a casa, si è fatto tardi. Ci vediamo domani. Grazie
per la spiegazione Rosy».
«Di nulla». Hai guardato l’orologio.
«Dovrei andare via pure io… Ma Saverio a che ora arriva?»
mi hai chiesto.

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Ho guardato l’orologio anch’io.
«Dovrebbe essere qui a momenti».
«Allora aspetto un altro pochino e poi scappo».
Ore 19.30. Probabilmente intorno a quell’ora sono arri-
vati i due tizi nella Fiat 128, color verde bottiglia. Hanno
parcheggiato davanti al bar dell’angolo, con il muso dell’auto
sul marciapiede. Cercavano Antonio e Maurizio. Li hanno ri-
conosciuti tra il gruppo di sfaccendati fuori dal bar e gli han-
no fatto cenno di avvicinarsi, senza scendere dalla macchina.
Quello che era alla guida, gli ha detto qualcosa attraverso il
finestrino abbassato.
«Ci vediamo domani Giovà» Saverio ha raccolto le sue co-
se, ha stretto la mano all’idraulico ed è uscito dalla birreria.
«È tardi, Anna. Devo proprio scappare. Glielo dici tu a
Saverio per domenica?».
Mi sono accorta, quando già eri per le scale, che avevi di-
menticato il tuo foulard verde di seta indiana. L’ho afferrato,
ho riaperto la porta di casa e ti ho chiamato. Sei tornata in-
dietro a riprenderlo. Lo hai avvolto attorno al collo.
«Grazie. Ciao Anna».
«Ciao Rosy».
Ore 19.35. Saverio era di ritorno a casa. Si è accorto di
aver finito le sigarette ed è entrato in una tabaccheria. Io ho
preparato lo zaino per la scuola. I due tizi nella 128 verde
bottiglia hanno salutato Antonio e Maurizio e poi il guidato-
re ha rimesso in moto.
In quel preciso momento Rosy, hai attraversato la strada.
Davanti alla 128. Davanti ai due tizi che, tu non lo sapevi, non
potevi saperlo, ma in realtà erano due orchi. E avevano fame.
Maledetti i tuoi capelli dorati, Rosy, che si sollevano ad
ogni tuo passo, come quelli di Medusa. Maledetti i tuoi fian-

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chi e le tue anche, che ondeggiano provocanti agli sguardi dei
lupi, senza l’intenzione di esserlo. Maledetta quella tua boc-
ca. Maledetti quei tuoi occhi. Maledetta quella tua lucentezza
che mi aveva così colpito, quando ti ho visto la prima volta
alla spiaggia di San Francesco. In quel lasso di tempo che tu
impiegavi per attraversare la strada, i due orchi ti hanno
mangiato con gli occhi, dalla cima dei capelli alla punta dei
piedi. Hanno scrutato attraverso i tuoi jeans, hanno immagi-
nato i tuoi seni sollevarsi ad ogni passo. Uno dei due si è
sporto dal finestrino e ti ha detto qualcosa. Anche Antonio e
Maurizio se ne sono accorti. Ti sei fermata proprio al centro
della strada, pensando che ti chiedessero un’informazione,
completamente illuminata dai fari, splendente nella tua vul-
nerabilità. Li hai guardati, cercando di capire chi fossero e co-
sa volessero. Quello che ti aveva appena apostrofato, poteva
avere circa venticinque anni. L’altro, il guidatore, una qua-
rantina. Erano ben vestiti. Molto abbronzati. Uno dei due
portava un orologio d’oro al polso. Devi aver capito che non
era un’informazione ciò che desideravano. Forse. O forse no.
Hai proseguito e hai svoltato all’angolo della strada. Anche la
128 verde bottiglia ha svoltato e ti ha seguito.

Ore 19.45. Saverio è arrivato a casa. Gli ho detto che lo
avevi aspettato fino a poco prima. Mentre gli raccontavo del
Pulo di Altamura, mi è sembrato di vederlo sorridere.

Dal momento in cui sia tu, Rosy, che la 128, siete scom-
parsi dietro l’angolo, nulla più mi è dato sapere.

Tutto quello che potevo fare, tutto quello che posso ancora
fare, è immaginare. L’unica cosa su cui mi sono sempre arrovel-
lata il cervello invece, centinaia di volte, senza mai trovare una
risposta plausibile, era come e perché, a un certo punto, tu fossi
capitata all’interno di quella dannata 128 verde bottiglia.

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Cosa ti hanno detto Rosy, per farti salire su quella mac-
china? Come ti hanno convinto? Possibile che tu sia stata così
ingenua? Ti hanno costretto? Ti hanno minacciato? E tu che
hai fatto durante il tragitto? Hai urlato? Hai pianto? Cosa hai
pensato Rosy? Cosa hai pensato quando la 128 si è lasciata la
nostra città bianca alla spalle?

Riesco a vederti, Rosy. Non so come, ma riesco a vederti.
La terra brulla e desolata, a destra. Il mare nero, come il cielo,
a sinistra. Si intuisce che è il mare solo per qualche onda
bianca e schiumosa che appare nel buio, qua e là. Solo per
l’odore acre di alghe marcite sulla rena. La 128 verde botti-
glia sfreccia davanti al Sacrario. Sfreccia sul grigio dell’asfalto
ed io mi sento morire. Riesco a vederti Rosy. La 128 rallenta
finalmente la sua corsa e accosta davanti a una casa semidi-
strutta, nei pressi di un vecchio capannone industriale. La ri-
conosco. È la stessa casa che avevo visto con Saverio quel
giorno che, all’uscita da scuola, vi accompagnò Antonio e
Maurizio. Riprovo la stessa sensazione di angoscia, lo stesso
presagio di morte che provai allora. Nell’oscurità la casa ab-
bandonata somiglia a un fantasma che era lì, silenzioso e
bianco, solo per aspettarti.

Ti fanno scendere dalla 128. Ti trascinano per le braccia.
Uno da un lato, uno dall’altro. Sei come Ifigenia, che si reca
all’altare del sacrificio. Ti agiti, ti dimeni, forse urli, ma non

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riesco a sentirti. Forse piangi. Volti la testa indietro per vede-
re se ci sia qualcuno cui chiedere aiuto. Non c’è nessuno. Il
tuo foulard verde di seta indiana ti scivola dal collo, volteggia
per qualche secondo nell’aria, sospeso dal vento leggero. Ma
i due pescecani non se ne accorgono. Continuano a stratto-
narti, costeggiando il muro diroccato del cortile. Inciampi su
qualche pietra che fuoriesce dal terreno. Osservo il tuo fou-
lard atterrare leggero in mezzo alle immondizie. C’è un in-
gresso anche sul retro della casa. Ti fanno entrare di là. Chiu-
dono la porta alle loro spalle.

Ti vedo Rosy. Continuo a vederti.
L’interno è freddo di spifferi, ci sono vetri rotti alle fine-
stre e le imposte di legno tarlato sono serrate. Una lampadina
da 40 watt, attaccata a un filo elettrico che penzola dal soffit-
to, illumina debolmente l’ambiente. C’è un vecchio tavolo di
legno accostato a una parete sporca. Quattro o cinque sedie
impagliate. Un armadio con le ante, tenute chiuse da una ca-
tena col lucchetto. Due materassi buttati per terra.
Ti vedo Rosy. Ti vedo.
Ti scaraventano su uno dei materassi. Si avventano su di
te, come due rapaci. Come due belve feroci e affamate. Fan-
no fatica a levarti la giacca. Tu scalci, ti dimeni. Inarchi la
schiena in uno spasmo disperato. Urli. So che urli, anche se
io non riesco a sentirti. I mostri si irritano. Uno dei due,
quello sulla quarantina, si mette a cavalcioni su di te. Ha la
bava alla bocca. Ti blocca le braccia, serrandole tra le sue ma-
ni. Sembri un Cristo sulla croce. Cerchi di divincolarti.
Scuoti la testa da una parte all’altra. I capelli ti si appiccicano
sulla faccia, si bagnano di lacrime.
Urli. Non ti sento, ma ti vedo Rosy. Ho gli occhi fissi su
di te. Non voglio guardare, eppure non riesco a distogliere lo

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sguardo. Apri gli occhi! Apri gli occhi! Apri gli occhi! Mi
sembra di impazzire.

Il più giovane si è alzato, sta togliendo il lucchetto alla ca-
tena che tiene chiuso l’armadio. Prende qualcosa dall’interno
e la posa sul tavolo. Sta preparando una siringa. Senti il peso
di quell’altro sullo stomaco, fai fatica a respirare. Scalci con
le gambe, scuoti la testa. A destra, a sinistra, a destra, a sini-
stra. Urli e ti disperi. Il più giovane si avvicina al materasso
su cui sei sdraiata, ha la siringa sollevata in una mano. Si in-
ginocchia e, con la mano libera, ti solleva con rabbia la ma-
nica della camicia. Infila l’ago nell’incavo del tuo braccio, ti
inietta qualcosa. Tu spalanchi la bocca. Riesco a vedere le ve-
ne che premono sulla superficie del tuo collo steso all’indie-
tro. Stai urlando, ma non ti sento.

L’avvoltoio che ti sta addosso ti lascia andare le braccia e
ti apre con forza la camicia, strappando i piccoli bottoni di
madreperla che rotolano sul pavimento. Indossi un reggiseno
bianco, di cotone.

Riesci a stento a sollevarti con il busto. Agiti le braccia, al-
lontani con le mani la faccia della bestia che ti sta ancora ad-
dosso, in un disperato tentativo di difenderti. Il più giovane
allora ti prende per i capelli, da dietro, e ti tira giù.

Non voglio guardare. Apri gli occhi! Apri gli occhi!
Quello sulla quarantina ti dà una sberla. La tua testa vira
di colpo dall’altra parte. Ti blocca di nuovo le braccia sul
materasso, tenendole ferme con le mani. Urli, piangi. Ed io
non ti sento. Ti dibatti, ti contorci ancora. Urli. Il più gio-
vane si rialza. Va verso il tavolo e prepara la siringa per la se-
conda volta. Per la seconda volta, ti infila l’ago nel braccio.
Hai smesso di urlare adesso, ma cerchi ancora di divincolarti.
Ancora per qualche minuto. Poi rallenti i movimenti. Ti fer-

166

mi, spossata. La bestia sopra di te lascia andare di nuovo le
tue braccia. Questa volta rimani così, immobile, con le brac-
cia spalancate, senza opporre più alcuna resistenza. Il tuo
sguardo è fisso sulla lampadina da 40 watt. La bestia ti leva i
pantaloni. Anche le tue mutande sono bianche. Tutto il tuo
corpo è bianco, come quello di un cigno. Mi ricordi Andro-
meda, in un racconto della Ludovici. Andromeda dalla bel-
lezza inaudita, nata con un destino di merce di scambio ap-
piccicato addosso. Capro espiatorio, invidia delle donne e
oggetto di desiderio degli uomini. Agnello sacrificale, legato
a una roccia a strapiombo sul mare. Il trofeo glorioso di cui
vantarsi davanti agli amici ubriachi. Il pasto alla portata del
mostro. Il mostro ti sfila le mutande. Tu sei impassibile. Le
braccia aperte. Lo sguardo perso sulla lampadina. Il mostro
ti apre le gambe. Le sue mani impure sulle tue gambe bian-
che. Tu non reagisci più. Si inginocchia davanti a te, si ab-
bassa la cerniera dei pantaloni. È molto eccitato. È eccitato e
arrabbiato. Entra dentro di te con violenza. Un dolore lanci-
nante ti squarcia la carne. Un dolore che ti taglia e che arriva
fino al cervello. Emetti un gemito, simile al guaito di un ca-
ne. Ma non reagisci. L’orco più giovane è seduto su una se-
dia e guarda. L’orco più anziano spinge, e ansima, e spinge,
e la collana d’oro appesa al suo collo, ad ogni spinta, gli sob-
balza sul petto peloso. Chiude gli occhi e poi si ferma. Il suo
godimento è quanto di più disonesto e immondo ci sia sulla
faccia della terra. Si alza, tira su la cerniera dei pantaloni e si
allontana. Si accende una sigaretta.

Tu non ti muovi. Rimani con le braccia e le gambe aper-
te. C’è del sangue sul materasso. Tocca all’altro, che si ingi-
nocchia a sua volta. Il tuo corpo sobbalza inerme, ad ogni
colpo. Inerme come quello di un morto. Prima che l’orco più

167

anziano finisca la sua sigaretta, quello tra le tue gambe ti gira
con forza. Sembri una bambola di pezza. Un cencio di stoffa
raggrinzito. Adesso sei distesa sulla pancia, la tua testa ciondola
al bordo del materasso. La bestia ti prende da dietro. Hai le
labbra schiuse, le palpebre degli occhi leggermente abbassate e
mi stai guardando. I tuoi occhi sono puntati su di me.

«Rosy…» sussurro, ma la mia voce, tremante, mi risuona
nelle orecchie come quella di un estraneo. È come se prove-
nisse da un altro mondo.

Centinaia di immagini mi bombardano la testa, si accen-
dono e si spengono come flash intermittenti. Penso a san Ni-
cola, che porta le tre palle dorate sul palmo della mano. I
flash sono accecanti. Apri gli occhi! Io e te tra le onde del ma-
re della spiaggia di San Francesco. La 127 bianca nel mio in-
cubo di bambina. Donatella Colasanti allunga il braccio in-
sanguinato verso di me. Apri gli occhi! I fotogrammi scorro-
no nel mio cervello a una velocità impressionante. Tu fai un
pallone enorme con la Big Babol che hai in bocca. Saverio
con una rabbia inaudita sbatte la testa di Carolina sul muro.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Sono seduta davanti al
cassetto aperto del mio armadio. Ritaglio fogli di giornale.
Apri gli occhi, diamine! Apri gli occhi! Enza col pancione.
Nonna sgrana un rosario e mormora le sue preghiere. Il cuo-
re di Cristo, nell’immagine appesa alla parete, con la piccola
croce conficcata nell’aorta. Dafne che si trasforma in albero
di alloro. Apri gli occhi! Bari, in lontananza, è solo una stri-
scia bianca e sottile che si protende sull’azzurro del mare. Az-
zurro come i tuoi occhi spenti, che continuano a fissarmi,
mentre sei riversa su quel materasso sporco. Apri gli occhi!

Mi sveglio all’improvviso. Mi ritrovo seduta sul letto, al
buio, sudata, tra le lenzuola stropicciate. Sto ansimando. Mi

168

metto la mano sul petto e avverto i battiti impazziti del mio
cuore. Sussurro il tuo nome tra i singhiozzi: Rosy! Rosy!

Saverio deve avermi sentito mentre mi agitavo e mi lamen-
tavo nel sonno. Odo i suoi passi leggeri. Entra nella mia stanza,
si siede sul mio letto e mi abbraccia forte. Scoppio a piangere
sulla spalla di mio fratello. Non riesco più a fermarmi.

***

I carabinieri ti hanno trovato un paio d’ore dopo, nei
pressi del porto nuovo, dall’altra parte della città. Circa
un’ora prima tua madre aveva telefonato a casa mia, chieden-
do tue notizie.

«Sta arrivando signora, non si preoccupi. Avrà incontrato
qualche amico per strada. Si sarà fermata a chiacchierare».

Ti hanno trovato che giacevi sdraiata nei pressi del faro di
San Cataldo, accanto a un cassonetto dell’immondizia. Il fa-
scio di luce del faro sferzava il cielo nero, a intermittenza.
Fwomm! Fwomm! Illuminava i palazzi nuovi in costruzione,
alti e solitari, come spettri in mezzo al nulla. Fwomm!
Fwomm! La sirena di una nave che annunciava il suo arrivo
nel porto, squarciava, a tratti, il silenzio della sera. Sembrava
il ruggito di un leone impazzito.

169

24

«Ma o sa lei di chi parlamo? O sa sì? Perché quello è mi’ fi-
jo, se no sa quanto me ne fregava a me! Lo sa, lei? E non ha
fatto niente di male. Non l’ha ammazzata ’sta ragazza. S’è
annato a diverti’. Certo che je piaceva pure a lei andare a di-
vertisse, se no non c’annava co’ mi’ fijo, che mio figlio c’aveva
moglie e un figlio».

C’è un gruppo di donne per strada. Sono agitate, gridano.
Si trovano davanti all’ingresso del tribunale in cui si terrà il
processo per stupro di una ragazza, Fiorella, violentata da
quattro uomini.

Quella sera Saverio non uscì di casa, dopo cena, e io non
andai a rintanarmi nella mia stanza. Subito dopo il telegior-
nale, Rai 2 mandò in onda il filmato di un processo per vio-
lenza sessuale. Una cosa del genere non era mai accaduta pri-
ma. Quella sola parola, stupro, mi metteva i brividi, non riu-
scivo neanche a pronunciarla, ma non potevo non restare lì,
davanti al televisore, ad ascoltare. Saverio quindi non si alzò
da tavola. E io nemmeno. Sono sicura che se mio fratello non
ci fosse stato, io non avrei avuto il coraggio di guardare.

«Se lui aveva una moglie e un figlio perché ci andava?» chiede
la giornalista, quasi timorosa, alla donna che ha parlato.

«E perché tutti lo fanno! Che è il primo che lo fa? Suo mari-
to… se c’ha…», fa un movimento con la mano, quasi a sot-
tintendere qualcosa che non si può dire, «… non lo fa?».

170

Oh! Le nostre meravigliose madri, protettive fino all’inve-
rosimile! Le nostre meravigliose madri, chiocce fino all’esa-
sperazione!

«Tutti i mariti lo fanno!» interviene un’altra signora del
gruppo, più anziana.

«So’ le donne oggi che fanno schifo! Oggi so’ le donne che se
buttano addosso agli uomini, perché ne vedo tante io, ne vedo».
Lo dice con tale veemenza che qualcuno, nel gruppo, ridac-
chia divertito.

«’Sta cosa qua dobbiamo vedere?» chiese all’improvviso
mia madre, alzandosi da tavola.

«Non c’è niente sull’altro canale?» incalzò, dirigendosi
verso il televisore.

«Lascia. Non cambiare» disse Saverio con un tono che
non ammetteva repliche.

Guardai mio fratello. Aveva il volto impassibile, come
quello di una statua di cera.

Nell’aula del tribunale i violentatori appaiono tranquilli.
Sono seduti uno accanto all’altro. Masticano una gomma
americana. La telecamera inquadra uno degli avvocati difen-
sori. Anche lui ha una gomma americana in bocca.

La giornalista chiede qualcosa agli accusati. Uno di loro,
ciancicando la gomma a bocca aperta, quasi seccato, risponde:

«Nun c’è niente. Ce sta a rovina’ e basta. Non capisco nean-
che il motivo, insomma».

La giornalista continua:
«Sono venute a trovarvi le vostre mogli, in prigione?». Nes-
suno risponde. La giornalista sposta il microfono dalla bocca
ruminante del primo, a quella ruminante del secondo, a
quella ruminante del terzo… mutismo. Fino a quando uno
sbotta:

171

«Noi stamo già tanto avvelenati, stamo! Perché ce sta a da’
fastidio co’ ’sta cosa? Ci lasci in pace!».

Li guardavo quei tizi, e pensavo a quanto mi facessero ri-
brezzo. E le loro mogli? Anche le loro mogli provavano ri-
brezzo? O li difendevano, come le loro madri?

Fiorella è un pulcino spaventato. Indossa una camicia
bianca, larga, abbottonata fin sotto al collo. Ha i capelli rac-
colti in una coda di cavallo, che le arriva appena dietro la nu-
ca. È lei, da sola, con la sua piccola coda di cavallo, la sua ca-
micia abbottonata fino al collo, in mezzo a una folla di avvol-
toi e curiosi.

«Il primo con il quale avete avuto un rapporto… chi è stato?»
chiede il giudice. La sua voce quasi metallica, cupa, tipica di
chi fuma tante sigarette, rimbomba nell’aula.

Tutti hanno gli occhi puntati su Fiorella. La guardano i
carabinieri dai grossi baffi neri, a braccia incrociate. La guar-
dano le bestie, con le mascelle in movimento. La guardano
gli avvocati difensori che confabulano, parlottandosi nelle
orecchie.

Uno di loro si alza e con affettazione, molto lentamente,
scandendo le parole, chiede:

«Vogliamo sapere se la testimone ha praticato la fellatio, chi
l’ha praticata e se qualcuno ha avuto fellatio-cum-eiaculatio-
ne-in-ore». Un impercettibile, leggero, sadico sorriso si di-
pinge sulle labbra sottili dell’avvocato, mentre pronuncia di-
stintamente eiaculatione-in-ore. Le sue sopracciglia taglienti
hanno un guizzo verso l’alto. La sua fronte si corruga.

Non riuscivo a guardare in faccia i miei genitori. Ero con-
tenta che non capissero il latino.

Saverio si accese una sigaretta. Dava boccate avide e ner-
vose, ingoiava il fumo e lo faceva uscire dal naso.

172

Testimonia anche la mamma di Fiorella. Le chiedono
stupiti come mai la figlia va a un appuntamento con un uo-
mo che lei non conosce. Testimoniano anche gli amici degli
imputati, che dichiarano che la ragazza, malgrado sia fidan-
zata, s’intrattiene senza problemi con altri uomini.

L’aula è stracolma di gente. C’è gente in piedi, dapper-
tutto. L’avvocato di Fiorella è una donna. Si chiama Tina
Lagostena Bassi. È pazzesco, ma sembra quasi che l’imputa-
ta sia la sua cliente, Fiorella. L’avvocato infatti dice qualco-
sa che ricorderò sempre. Dice:

«Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’ac-
cusatore di un certo modo di fare processi per violenza». E c’è
dignità nella sua voce, nonostante trapeli un velo di nervo-
sismo. C’è tanto coraggio negli occhi fermi di quella donna
in toga, mentre si rivolge ai giudici. Gli occhi di chi crede
nella giustizia. Di chi ha fiducia nella giustizia.

«Bah! qui si stanno rovesciando i termini» interviene l’av-
vocato di prima, quello della fellatio-cum-eiaculatione-in-
ore.

«Qua ci violentano, signori, se non stiamo attenti!». Ride di-
vertito. Gli avvocati accanto a lui ridono. Ridono in tanti.

Pensavo a te Rosy quando, giorni addietro, io e Saverio
siamo venuti a trovarti a casa tua. Tua madre ci ha aperto
la porta ed è scoppiata a piangere. Ha nascosto il viso tra le
mani aperte. Il pianto scuoteva le sue spalle. Mi è sembrata
piccola, incurvata. Avrei voluto abbracciarla, accarezzarla,
consolarla. Ci ha fatto entrare in camera tua. Mi batteva
forte il cuore. Eri seduta di fronte alla finestra, dandoci le
spalle. Sull’altro lato della parete ho visto il tuo pianoforte,
con uno spartito aperto, posato sul leggio. Io e Saverio ci
siamo avvicinati, in punta di piedi.

173

Indossavi i pantaloni di un pigiama scuro, di maglina, e
un giacchetto di lana. Avevi delle pantofole ai piedi. Tua ma-
dre ti aveva legato i capelli in una treccia lenta.

«Rosy…» ho sussurrato, piegandomi verso di te.
Non ti sei voltata.
«Signori!», continua l’avvocato dalle labbra sottili, «Una
violenza carnale con fellatio può essere interrotta… con un
morsetto. Passa immediatamente la voglia a chiunque, di con-
tinuare. E l’atto quindi mal si coniuga con l’ipotesi della vio-
lenza, anzi è incompatibile con l’ipotesi della violenza. Tutti
e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca
della loro vittima il membro, parte che, per antonomasia, vie-
ne definita “delicata”, dell’uomo. E su cui, mi si consenta… il
coito orale si compie con una prestazione che è “tecnicamente
qualificata”. E che esprime una serie di atti voluti. Perché non
c’è attività tecnica se non c’è volontà. Eh sì, mi posso abban-
donare, ma io lì non mi abbandono. Sono io attiva! Sono io
che posseggo! Ecco: il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui
maschi! Dalla femmina sui maschi! È lei che prende! È lei la
parte attiva! Sono loro i passivi! Inermi, abbandonati nelle
fauci avide di costei!».
Gli avvocati difensori ascoltano il loro collega, continuan-
do a masticare la gomma americana.
Anche i violentatori guardano e ascoltano, a braccia incro-
ciate, le bocche sempre in movimento.
Avvertivo un moto di rabbia nello stomaco, una specie di
morsa tagliente che mi stringeva le budella. Saverio aveva le
labbra chiuse. Dalla contrazione della sua mascella capivo
che serrava i denti. Si accese un’altra sigaretta.
«Rosy…» ti ho chiamato di nuovo. Di nuovo non ti sei
voltata. Eri seduta di fronte alla finestra, lo sguardo fisso da

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qualche parte, fuori. Le tue braccia erano posate sulle gambe,
con i palmi rivolti verso l’alto. Respiravi piano. Non hai cam-
biato posizione per tutto il tempo che io e Saverio siamo ri-
masti lì. Non hai mai voltato la testa. Non hai mai distolto
lo sguardo. Mi sono chinata e ti ho preso la mano, ma non
me l’hai stretta. Non hai reagito. L’ho lasciata andare e il tuo
braccio è scivolato inerme, lungo il tuo fianco.

«Signor Presidende» un altro avvocato difensore, dal forte
accento meridionale, prende la parola.

«Signor Presidende, la violenza purtroppo c’è sempre stata.
La violenza la subiscono gli uomini e la subiscono le donne. È
di pochi giorni la notizia di un uomo che è stato violendato a
Napoli da due donne, dopo che l’hanno drogato. Dovremmo
insorgere?».

Brevissima pausa.
«Dovremmo insorgere?» ripete, alzando la voce.
«E sapete con che violenza è stato lui violendato? Lo hanno por-
tato nella bella pineta di Caserta, lo hanno drogato, lo hanno tro-
vato esamine con il membro sempre in una certa posizione, con il
membro sempre eretto. Erano due allupate».
Saverio non riusciva a tenere la gamba ferma. La muoveva
con uno spasmo continuo del muscolo, come quando studiava-
mo insieme, io, lui, Rosy e Paola, e faceva tremare la scrivania.
«Hanno voluto questo! Purtroppo il mondo è così. È bello per-
ché è vario. E quindi non facciamo… non cominciamo col dire…
le violenze le subiscono tutti! Non le subiamo noi? Non le subiamo
anche da parte delle nostri mogli? E come, non le subiamo? Io oggi
per andare fuori ho dovuto portare due testi con me, l’avvocato
Mazzuca e l’avvocato Sarandrea, testimoni che andavo a pranzo
con loro, se no non uscivo di casa! Non è una violenza psichica
quella? Eppure mia moglie mica mi mena. È vero che siete testimo-

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ni?». Apostrofa gli avvocati Mazzuca e Sarandrea, che annuisco-
no e ridono. Ridono tanto.

«Siete testi?» ribadisce, per avere conferma. Mazzuca e Saran-
drea, divertiti, annuiscono ancora. E ridono. Dio quanto ridono!

«E allora, signor Presidende, che cosa abbiamo voluto? Cosa
avete voluto?» si rivolge alle numerose donne che sono in fon-
do all’aula.

«La parità di diritti? Avete cominciato a scimmiottare l’uomo!
Voi portavate la veste! Perché avete voluto mettere i pantaloni?
Avevate cominciato con il dire: “Avevamo parità di diritto”…
Avevate cominciato con il dire: “Perché io alle nove di sera devo
stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio fratello,
mio nonno, il mio bisnonno vanno in giro?”. Vi siete messe voi in
questa situazione! Non l’abbiamo chiesto noi questo! E allora pur-
troppo ognuno raccoglie i frutti che ha seminato! Se questa ragazza
si fosse stata a casa…».

L’avvocato Tina Lagostena Bassi chiude le palpebre. Sem-
bra sopraffatta dallo sconforto.

«… l’avessero tenuta presso il caminetto…».
L’avvocato Tina Lagostena Bassi si copre gli occhi con la
mano.
«… non si sarebbe verificato niente!».
L’avvocato Tina Lagostena Bassi china la testa.
Un forte brusio proviene dal gruppo di donne in fondo
all’aula.
«E no, signore! È una realtà questa! È una realtà che non può
essere obliterata! A me fa tanta pena, è una svendurata, è una
vittima dei nostri tembi!».
Era come se il tuo corpo fosse lì, seduto di fronte alla fine-
stra, ma tu, Rosy, fossi altrove. Un dolore più grande di me mi
ha assalito e sono crollata. Ti ho stretto tra le braccia, scossa dai

176

singhiozzi, scuotendo anche te. Le mie lacrime sono cadute sui
tuoi capelli. Ancora una volta non hai reagito. La mano di Sa-
verio si è posata sulla mia spalla, ma io non volevo lasciarti. Sa-
verio allora mi ha preso per le braccia e mi ha tirato indietro.

«Signora», ha detto Saverio a tua madre davanti alla porta
di casa, prima che uscissimo, «deve fare la denuncia».

Tua madre ha ripreso a piangere e a singhiozzare. Ha
scosso vigorosamente la testa.

«No», ha risposto, «no…».
«La prego signora, deve farlo» ha continuato Saverio.
«E a che servirebbe? Lei ormai è rovinata per sempre. La
sua vita è rovinata per sempre. E anche la nostra».
Aveva la faccia arrossata, come quella di una persona feb-
bricitante. Le lacrime le cadevano copiose sulle guance, sul
seno prosperoso, bagnandole la maglia. Ha preso un fazzolet-
to dall’interno della manica e si è soffiata il naso.
La corte rientra in aula. Le toghe nere svolazzano come lu-
cide ali di corvi. Il giudice si toglie gli occhiali e legge, in piedi:
«In nome del popolo italiano, il tribunale, visti gli articoli
483, 488, 489 del codice di procedura penale dichiara gli im-
putati colpevoli dei reati loro ascritti… dichiarata congrua la
somma di lire due milioni offerta a titolo di risarcimento di
danno dai suddetti alla parte civile… condanna gli imputati al-
la pena di anni uno e di mesi otto di reclusione…».
Gli imputati, le manette ai polsi, si agitano, si voltano,
guardano negli occhi i loro difensori. Capiscono che la situa-
zione volge al meglio, per loro.
Il giudice dalla voce metallica continua:
«Concede agli imputati il beneficio della libertà provvisoria
e ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra
causa. L’udienza è tolta».

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I violentatori esultano, si danno gomitate di soddisfazio-
ne. Respirano di sollievo. Sorridono.

Gli avvocati, dalle toghe nere e svolazzanti, si scambiano
pacche sulle spalle. E sorridono.

Le mamme degli imputati si abbracciano, rincuorate. Sor-
ridono anche loro.

Saverio si alzò da tavola, il volto cereo come quello di un
morto. Uscì di casa sbattendo la porta. La casa tremò.

178

25

Ho ascoltato la cassetta che mi avevi regalato quel Natale
di due anni prima. Decine, centinaia di volte.

«Qui dentro ci sono io che suono il pianoforte» mi avevi
detto.

Quanto amore! Quanto amore per me, in quelle tue dita
lunghe e bianche che battevano sui tasti.

Chi, e perché, aveva voluto punirti, Rosy? Per cosa, poi? Di
quale dio malvagio dell’Olimpo avevi suscitato la gelosia? Sare-
sti tornata quella di prima? O avresti fatto come la bella Euridi-
ce, quando decise che nessun sole mai, di nessun giorno mai,
sarebbe riuscito a scaldare ancora il suo cuore, dopo che la Mor-
te gelida lo aveva tenuto tra le sue orride mani? Saresti tornata
quella che eri? Lo avresti fatto, almeno per me, o per Saverio?

***

Saverio…
Saverio aveva lasciato la scuola serale, da un giorno all’al-
tro, e si era rinchiuso nel suo mutismo. So che una sera An-
tonio e Maurizio lo fermarono per strada, vicino al bar del-
l’angolo. Antonio tirò fuori qualcosa dalla tasca della sua
giacca di pelle. Sembrava una stoffa stropicciata, e invece no,
era un foulard. Un foulard verde di seta indiana e lo porse a
Saverio. So che lo avevano trovato tra le immondizie, in quel

179

vecchio rudere abbandonato fuori città. Lo stesso dove quel
giorno, all’uscita da scuola, Saverio li aveva accompagnati
con la sua 126 usata. Lo stesso dove ti avevano portato i due
orchi, Rosy. So solo che Saverio disse ad Antonio:

«Mi devi un favore, ricordi?».
Questo è tutto ciò che so.

***

Lasciò la macchina in fondo a una strada sterrata, dietro
un muretto ricoperto da un enorme fico d’India. Era una se-
rata fredda di metà dicembre, ma priva di vento. Il cielo era
pieno di stelle lucenti e il riflesso della luna quasi piena ri-
schiarava la terra. Si sollevò il bavero del giubbotto di jeans
imbottito e raggiunse, a grandi falcate, la strada principale. Si
fermò un attimo di fronte al mare che lambiva la costa, acca-
rezzandola con onde leggere. Respirò a fondo l’aria salmastra
e poi si accese una sigaretta. La fiamma dell’accendino illu-
minò per qualche secondo il suo bel volto, semicoperto dai
capelli che gli coprivano la fronte, fino agli occhi. Aveva le
fattezze di un uomo ormai. Era sereno, come chi sa esatta-
mente quello che deve fare. Guardò Bari in lontananza: una
striscia illuminata che si protendeva nel buio tra mare e cielo,
più illuminata del solito per via delle luci natalizie che ad-
dobbavano la città. Finì di fumare e spense il mozzicone sot-
to la suola della sua scarpa un po’ sformata. Si incamminò di
nuovo, rimanendo il più possibile sul ciglio della strada asfal-
tata. Di tanto in tanto un’auto gli sfrecciava vicino, sollevan-
do un soffio d’aria fredda che gli gelava le gambe. Era sereno
quindi, si sentiva bene. Arrivò alla vecchia casa abbandonata,
costeggiò il muretto diroccato fino a raggiungere il retro, do-

180

ve c’era l’altro ingresso. Guardò intorno con circospezione,
per cercare la postazione migliore. Si acquattò dietro un cu-
mulo di calcinacci e immondizie, e aspettò. Era sereno. Così
sereno che gli venne da sorridere. Quella sera Antonio e
Maurizio dovevano vedersi con i due orchi proprio là, alla
vecchia casa abbandonata, come facevano sempre quando
dovevano spartirsi il denaro della droga venduta. Ma Anto-
nio e Maurizio, quella sera, non sarebbero mai arrivati. Do-
vevano un favore a Saverio. Non se n’erano dimenticati. Por-
tò la mano all’altezza dell’ampia tasca interna del giubbotto.
La P38 che gli avevano procurato un paio di giorni prima, fe-
ce pressione sul petto, tra il palmo della sua mano e il cuore.
Ebbe la sensazione del freddo spietato del sottile fusto d’ac-
ciaio dell’arma, nonostante lo strato del maglione di lana. Era
sereno, come è sereno chi ha una mente lucidissima.

«Ci andremo alla gravina di Altamura, Rosy» gli scappò di
bocca.

«Dovessero pure passare cento anni. Fosse pure l’ultima
cosa che farò in vita mia».

Era sereno, sereno come un eroe solitario che ha appena
deciso quale sarà il suo destino e, docile, vi si abbandona. Co-
me Prometeo, che serenamente scelse di rubare il fuoco agli
dei per regalarlo agli uomini, con la consapevolezza che sareb-
be stato punito. Sereno come Icaro, quando decise di volare
più vicino possibile al Sole, bruciandosi le ali. Con la stessa se-
renità che doveva aver avuto Sisifo, condannato a trasportare
il masso sulle spalle fino alla cima del monte, pur sapendo che
non l’avrebbe mai raggiunta. Come Aiace che sulla spiaggia,
alle prime luci dell’alba, si lanciò sulla lama tagliente della spa-
da, perché il suo onore era più importante della sua stessa vita.
Anche Aiace doveva essere stato sereno e lucido.

181

L’umidità della terra gli aveva bagnato i jeans all’altezza
delle ginocchia. All’improvviso sentì il motore di una mac-
china che rallentava, vide il muretto del cortile diroccato il-
luminarsi con la luce dei fari e il muso della 128 verde botti-
glia fare capolino come un’enorme tartaruga e fermarsi pro-
prio là davanti, a pochi metri da dove si era rintanato.

Trattenne il respiro per paura che lo sentissero, ma era se-
reno. Non era mai stato così sereno in vita sua. Aspettò che i
due orchi scendessero dalla macchina e si avvicinassero al suo
nascondiglio, nei pressi dell’ingresso secondario.

«Non ancora. Non ancora…» disse a se stesso, sfilando si-
lenziosamente la P38 dalla tasca interna del giubbotto.

Il cuore continuava a battergli a intervalli regolari, senza
accelerazioni. Il chiarore della luna gli permetteva di vedere
ogni cosa, distintamente. I due orchi fumavano. Uno portava
una pesante collana d’oro al collo.

«Non ancora…» pensò, mentre i due si avvicinavano alla
porta d’ingresso.

E poi tutto si svolse in una sequenza perfetta e prevedibi-
le, lenta come in un film alla moviola. Balzò in piedi divari-
cando leggermente le gambe. Portò avanti entrambe le brac-
cia, tenendo ferma la pistola. Era calmo. Sereno. Premette il
grilletto e il più giovane dei due cadde a terra. Morto. L’altro
ebbe un sussulto. Si girò di scatto, disorientato. Saverio sparò
ancora, colpendolo al braccio destro. L’orco lanciò un urlo di
dolore e rabbia. Sollevò l’altro braccio cercando di afferrare
qualcosa dall’interno della giacca, ma i suoi movimenti erano
troppo lenti. Una scarica di proiettili lo colpì su un fianco.
Sulle gambe. Sul petto. Sulla faccia. Stramazzò a terra.

Saverio abbassò lentamente le braccia e fece un respiro
profondo. Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans il foulard

182

verde di seta indiana e vi avvolse la pistola. Posò l’involucro
per terra, tra le macerie. Fece qualche passo e si sedette sul
cofano della 128. Accese una sigaretta e fumò, dando boccate
avide, espirando il fumo verso il cielo. Col cuore sereno. Se-
reno come quella notte fredda e stellata di metà dicembre.
Quando ebbe finito di fumare, tornò senza fretta alla 126 che
aveva lasciato nascosta più avanti, all’interno della strada ster-
rata. Era tranquillo. Mise in moto e partì, diretto verso la
Questura. Docile, incontro al suo destino.

***

La notte tra il 31 dicembre 1979 e il 1° gennaio 1980 tra-
volse Bari con un’enorme mareggiata. La pioggia aveva inizia-
to a cadere incessantemente già dal primo pomeriggio del 31.
Grossi fiotti d’acqua scorrevano sotto i marciapiedi e il vento
forte rivoltava gli ombrelli dei passanti. Eravamo andati a tra-
scorrere l’ultimo dell’anno a casa di Enza, in modo che i suoi
due figli piccoli non uscissero e non prendessero freddo. E an-
che per Enza, di nuovo incinta, era meglio stare al riparo.
Nonna aveva preparato i panzerotti e il calzone di cipolla, ma
fu una cena di fine anno triste. Senza gli schiamazzi dei due
bambini, il silenzio sarebbe risultato insopportabile. Di tanto
in tanto sorprendevo mia madre a fissare un punto nel vuoto.
Le si riempivano gli occhi di lacrime e doveva soffiarsi il naso.
Tornammo a casa subito dopo la mezzanotte. Non c’erano
stati neanche tanti botti di fine anno, per via della pioggia bat-
tente. Il vento era violentissimo, eravamo costretti a cammi-
nare a capo chino e con gli ombrelli chiusi perché era impos-
sibile tenerli aperti. Quando arrivammo a casa, era andata via
la corrente. Mi infilai sotto le coperte nel buio più totale. Sen-

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za le lucine giallognole del tabernacolo di san Nicola, con quel
loro leggerissimo chiarore che dava familiarità alla notte, mi
sentii assalire da un’angoscia profonda. Ero sicura che se mi
fossi addormentata, tutti i miei incubi, questa volta, mi avreb-
bero travolto. Erano lì vicino e sarebbero piombati fuori dal
cassetto in fondo all’armadio. Aspettavano solo che chiudessi
gli occhi per balzarmi addosso. Per tutti quegli anni avevo cre-
duto di tenerli a bada, come una sciocca, pensando che bastas-
se appiccicare quelle foto, quegli articoli di giornale, su un
grande quadernone a quadretti, ma così non era stato. I miei
incubi erano solo sopiti, e adesso che il male aveva preso la te-
sta di Rosy, lasciando soltanto il suo corpo indifeso, adesso
che il male era entrato nella nostra casa, portandosi via Save-
rio, che in quel momento giaceva sdraiato sul letto in una cel-
la del carcere di corso Alcide de Gasperi, adesso i miei incubi
sarebbero saltati fuori dal cassetto e mi avrebbero aggredito,
tutti insieme.

Apri gli occhi! Non dormire!
Il vento ululava, fuori, come qualcosa di vivo e minaccio-
so. Sbatteva imposte e vetri.
Negli ultimi tempi avevo ripreso a camminare per le stra-
de con la stessa paura di un tempo, zigzagando da un marcia-
piede all’altro, fiutando il pericolo, sentendolo presente die-
tro ogni angolo, pronto a ghermirmi.
«Mica si può vivere col terrore» mi avevi detto tu, Rosy,
tanto tempo fa, tanti secoli fa, alla spiaggia di San Francesco.
Ma cosa si fa davanti al male? Qual è il modo giusto di
reagire, di fronte al male?
Avendone terrore, come facevo io? Ignorandolo, come fa-
cevi tu, Rosy? O rispondendo al male con altro male, come
ha fatto mio fratello?

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Non sarebbe meglio cercare di estirparlo alla radice, il ma-
le, prima che nasca, prima che porti violenza e dolore e mor-
te? Cercare di arginarlo, imbrigliarlo, domarlo prima che si
espanda e cresca come un cancro distruttore?

Ritornò la corrente. Le lucine soffuse del tabernacolo
nell’ingresso misero un freno ai miei incubi, che avevano
continuato a incalzare e a scalciare nel cassetto dell’armadio,
impazienti di uscire. Presi la decisione: dovevo sbarazzarmi di
loro, una volta per tutte. Carolina mi fissava, seduta ai piedi
del mio letto.

Finalmente riuscii a prendere sonno.

***

«Anna! Scendi!». Paola aveva squillato insistentemente il
citofono, quella mattina del 1° gennaio 1980.

«Vieni a vedere cosa è successo al lungomare!». La sua vo-
ce era concitata, come sempre, quando doveva darmi una no-
tizia strabiliante.

Mi vestii in fretta, ma prima di uscire presi il quaderno
degli orrori. Esitai un attimo. Lo sfogliai velocemente tra le
dita. Il Circeo, Pasolini, le bombe, il sangue, Giorgiana Masi,
i manganelli, le teste spaccate, le barricate, le rapine, Moro,
la scorta trucidata, Benny Petrone, i rapimenti, i morti… lo
infilai nella mia borsa, senza più pensarci.

La mareggiata aveva devastato il lungomare. Io e Paola lo
percorremmo, attonite, fino ad oltrepassare il palazzo della
Provincia, sollevando i baveri delle nostre giacche per il fred-
do e il vento. La violenza delle raffiche aveva divelto, in alcu-
ni punti, le grosse ringhiere scure, distruggendo i muretti del
parapetto. Tra un lampione di ghisa e l’altro la furia delle on-

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de aveva scaraventato i blocchi di pietra bianca, ammuc-
chiandoli disordinatamente, come fossero stati carta straccia.
Un lampione, con tutto il suo basamento, era stato spostato
al centro del marciapiede. L’asfalto della strada era dissemi-
nato di pesci morti, alghe e immondizie.

«È impressionante vero?» mi chiese Paola.
Annuii con la testa.
Il mare era grigio e agitato, ancora non aveva completa-
mento esaurito la sua ira furibonda. Ci fermammo a guardar-
lo, minaccioso com’era.
«Adesso bisognerà rimettere tutto a posto qua. Bisognerà
ripulire e ricostruire. Ci sarà da rimboccarsi le maniche» con-
statò Paola.
Si incamminò, con l’intenzione di voler tornare indietro:
«Andiamo?» mi fece, notando che io ero ancora ferma.
«Solo un attimo» risposi.
Aprii la borsa e afferrai il quaderno degli orrori. Paola mi
guardò con aria interrogativa ma non mi chiese nulla. Il ven-
to si intrufolò con forza tra le pagine, scompigliandole, agi-
tandole. Lanciai il quaderno in acqua, tra i flutti, con tutta la
forza che avevo. Lo vedemmo galleggiare qualche istante, poi
un’onda grigia lo sommerse. Sparì subito dopo dalla nostra
vista, inghiottito dal mare.

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