1 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA ALFONSO MEROLA RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI ACQUERELLI CAPOSELESI
ACQUERELLI CAPOSELESI Alfonso Merola è nato a Caposele nel 1951. Ha conseguito nel 1969 il diploma magistrale. Nel 1970 viene dichiarato vincitore di cattedra. Nel 1992 consegue la specializzazione all’insegnamento della lingua inglese. Per ben due volte è stato scelto dalla comunità caposelese come Sindaco, in un periodo difficile e delicato quale quello relativo alla ricostruzione. E’ stato vice presidente presso la Comunità Montana Alto e Medio Sele e consigliere di amministrazione prima dell’ente Acquedotto Pugliese e poi dell’ATO Calore. Ha scritto diversi saggi letterari e di politica, diverse poesie in dialetto e racconti che lui ama chiamare”Acquerelli Caposelesi”. E’ autore di ricerche storiche sui cognomi e sui nomi delle strade di Caposele. In collaborazione con Nicola Conforti ha scritto il libro “Caposele, una città di Sorgente”, che tuttora rimane una delle poche storie attualmente edite di Caposele.
3 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA ALFONSO MEROLA RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI ACQUERELLI CAPOSELESI RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI EDIZIONI 2014 SOMMARIO pag.6 I rintocchi del tempo pag.11 La Sanità pag.16 La fine della guerra pag.26 San Vito pag.32 La cantina di Sichetto pag.35 Botteghe oscure pag.44 Il mio Natale pag.51 Il cielo era tappezato di stelle pag.61 Tutti li Santi - La prucissiona pag.84 Non si vende, non si vende! pag.97 La serenata pag.10 Pellegrini a Materdomini pag.104 La purga pag.115 Leo pag.122 L’ultimo racconto edizione per e-book - dicembre 2014
4 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI Prefazione “ I rintocchi del tempo” è una raccolta di racconti, “nati per caso”, nel senso che è il frutto di una lunga e costante collaborazione di Alfonso Merola alla rivista caposelese de “La Sorgente”. Questi racconti, fedeli alla linea editoriale del Direttore del giornale, non si allontanano di un solo centimetro dalla terra natia, nell’intento di catturare immagini, eventi, tradizioni e quant’altro hanno modellato nel tempo la piccola comunità locale. L’autore, in fondo, registrando microstorie, ha cercato di percorrere, ora con sfumature autobiografiche, ora con riflessioni storico-sociali, un passato che cattura vizi e virtù di un paese dell’Appennino Meridionale aperto alle contaminazioni positive dell’esterno ma, nello stesso tempo, geloso della sua “Seletudine”. Apparentemente non traspare nei racconti una fiducia nel domani ma, a ben rileggerli, si coglie un messaggio tutt’altro che negativo: “Non c’è speranza nel futuro, se il presente non si fa carico di un passato in cui errori e lanci di riscatto hanno un valore pedagogico”. Nicola Conforti
5 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Dedico questo libro a Donato Conforti il quale fortemente volle che questi racconti fossero raccolti in volume.
6 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA I RINTOCCHI DEL TEMPO “Mannaggia chi lu sona matutinu li pozza carè ‘ncapu lu battagliu” Era il rintocco solido e cadenzato del bronzo del “Mattutino” che risvegliava alle prime luci dell’alba Caposele. In fondo un invito ad apprestarsi per dare inizio alla giornata lavorativa. Ancor buio pesto d ‘inverno s ‘accendevano a catena lumi qua e là, a mo’ di presepe. Il forno, già in piena attività, in attesa di massaie per la prima cottura; battere di porte e cigolii di chiavistelli. E lungo la strada, lastricata di pietre, i colpi secchi e ritmati degli zoccoli degli asini portati alla briglia dai contadini che chiacchieravano a bassa voce, l’ abbaiare di qualche cane che spingeva la capra dietro il padrone. Mattutino, segno sacro e civile in un tempo stesso. C’era già chi aspettava i rintocchi della prima messa: persone anziane e devote, già pronte a sentire il Verbo alle sei del mattino. V’era qualcosa di impietoso a trascinare nella gelida Chiesa di S. Lorenzo bambini ancora sonnolenti o infreddoliti, affidati in custodia dai genitori già impegnati nel lavoro. Non accorrere alle campane della seconda messa, alle ore sette, se era un oltraggio al Signore , quantomeno era un sentirsi incapaci di rinunzie e di sacrifici. La seconda messa, quella della Congrega, per lo più era riservata a “famiglie d’artisti’ “ commercianti e artigiani che, frettolosamente, consumavano quell’ora prima d’aprire i battenti delle loro botteghe. Era pure l’occasio-
7 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA ne, complici di sguardi fugaci tra giovanette e i loro spasimanti. Non era un caso che quell’ ora era scelta spesso per la fuga degli innamorati, cui seguiva il matrimonio riparatore. Un terzo dell’anno, registrano le cronache, le mattinate, e non solo le mattinate, erano rattristate dai lugubri suoni dell’ Agonia: era l’ appello cristiano dell’ Arciprete rivolto ai fedeli pietosi ad accorrere in chiesa per portare il viatico; qualcuno stava morendo e consuetudine voleva che ci si dovesse recare per amministrare il Sacramento dell ‘Estrema Unzione”. Era un momento corale per salutare mestamente il trapasso. Più tardi le campane, che spandevano il loro suono in lontananza, avrebbero rivelato a chi ascoltava le condizioni sociali del defunto i rintocchi brevi o prolungati, a seconda dell’obolo versato dai parenti del deceduto. Era il penultimo segno, seppure cristiano, per ricordare la divisione in questo mondo tra benestanti ed indigenti. “L’ora di scuola” era, poi inconfondibile: era lo scampanìo solito delle messe susseguito da pulsazioni più rapide e acute. Le strade si inondavano di bambini e ragazzi in corsa verso il Castello; qua e là bambini s’attardavano a fare gli ultimi compiti sui muretti e parapetti che fungevano da leggii. Alle nove le strade diventavano un deserto. Alle undici suonava “il Segno”, una sorta di preavviso del mezzodì. I rintocchi di Mezzogiorno, eguali a quelli del “Mattutino”, erano forse i più attesi: essi segnavano una breve pausa pei contadini impegnati nei campi, invitavano a tavola i caposelesi che lavoravano in paese e rammentavano a scolari e insegnanti che entro un’ ora sarebbero finite le lezioni. Di tanto in tanto al Piano si scorgeva qualche alunno venuto a controllare l’orario e a stamparsi nella mente i numeri indicati dalle sfere dell’ orologio comunale per poi correre in classe e riferire all’insegnante ansiosa. Le ore tredici non erano battute se non dalla campanella della scuola, puntualmente azionata’ da Franciscu” il campanaro, quasi a significare la scarsa rilevanza esterna di quel momento in cui gli scolari in ordine sparso e senza trepidazione correvano a casa ove li attendeva un piatto e conservato al tepore della’ ‘fornacella”, sottratto alla “buffetta” del mezzogiorno.
8 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA ‘’A Ventun’ ora la panza fa rumore” dicevano i contadini sentendo i rintocchi delle quindici per ricordare a se stessi che al massimo avrebbero lavorato ancora alcune ore e poi sarebbero tornati a casa a mangiare. A ‘ventun’ ora” le donne si affrettavano a ritornare dalla campagna: non era un privilegio per loro, ma l’obbligo imperioso di preparare la cena per “gli uomini”. Ventun’ ora perchè mai se poi erano solo le quindici? Un errore antico, lì a testimoniare che il calcolo italico del tempo mediante la meridiana si effettuava dalla sola alba al tramonto e a ricordare che la notte è senza tempo e senza confini. Ventun’ ora! Antico modo di dire, che costò cara ad un contadino locale, accusato di infanticidio per un alibi che non reggeva, a dire di un mare piemontese, il quale evidentemente per le sue ascendenze francesi sapeva che il il giorno era di ventiquattro ore e che puntualmente non si curò di capire che Nord e Sud erano divisi pure sul conteggio “ popolare” del tempo. Una campanella dal suono insistente, poco dopo le quindici, chiamava ragazzi e ragazze alla “Cronella”. Era l’ora del Catechismo e della preparazione alla Comunione, quasi un rito. A quell’ ora usciva sul sagrato il Prete per accogliere in portamento solenne i comunicandi che si rincorrevano qua e là per il Piano e il Piazzino. Si sedevano composti ai primi banchi della navata centrale a discutere di “cose di Dio” e a rispondere meccanicamente a domande di fede. Un battito di mani atteso scioglieva, poi l’assemblea e tutti in piazza a consumare in giochi le ultime ore del giorno. Là, sul sagrato, sostavano già donne anziane in attesa dell’ “Ora di Chiesa” che di lì a poco sarebbe suonata. Memoria antica, medioevale, dell’ ora collettiva di
9 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA preghiera che i frati antoniani dedicavano al Santo in quel luogo ch’era antica sede di convento; pratica religiosa trasmessa in eredità alla chiesa di S. Lorenzo. Erano lunghe, cantilenanti litanie recitate in un latino storpiato da un italiano incerto; una sorta di summa cristiana concentrata nel tempo di un’ora, sotto la distratta vigilanza del prete intento a seguire con lo sguardo il lavoro del sagrestano che si trascinava tra i colonnati a rimuovere la polvere e a riordinare gli altarini gentilizi. Il buio che iniziava a piombare dai finestroni, dando vigore alla fioca luce delle candele sull’ altare maggiore, segnava l’improvvisa interruzione delle preghiere: era, a quel punto, sufficiente che la madre superiora delle suore si levasse dall’inginocchiatoio perchè tutte le presenti, dopo un convinto segno di croce, si riversassero nella navata centrale per guadagnare l’uscita. Le strade, frattanto, si ripopolavano prima che giungesse il buio; persone affollavano i negozi e nelle cantine iniziava a levarsi il fumo salato del baccalà fritto e l’odore aspro del vino aglianico in attesa degli abituali avventori notturni. Il caffè Romualdo accoglieva l’ elite del tempo: lì, discussioni interminabili fra una partita e l ‘altra. A quell’ ora aveva inizio una cadenzata processione di contadini che ritornavano dalle campagne col loro pesante fardello. Asini caricati all’inverosimile e anziani che si lasciavano trascinare attaccati con le mani alla coda delle loro giumente lungo la salita lastricata di Via Imbriani che scintillava, talvolta, per lo scivolare degli zoccoli ferrati. Il rintocco delle ventiquattro ore coglieva questa gente in mezzo alla strada e in questi locali abituali, invitandoli ad un rapido ritorno a casa. Alle sei rintoccava “Ventiquattore”, a rammentare che il giorno e la luce s’erano spenti e che a breve la porta di casa andava sbarrata. Invero la vita continuava nell’intimità della famiglia e della casa, accanto alla tavola e al fuoco. Si riassumevano allora il senso e il valore di una giornata, i fatti accaduti e le cose da farsi nel giorno a venire. “L’ora di notte” sarebbe stata battuta di lì a poco: e allora tutti a letto, innanzitutto i bambini. L’ora r’ nott’ l’angiulu a la porta Maria a la casa
10 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA lu bruttu ess ‘ e lu bbuonu tras ‘! Un tempo scandito dal bronzo sacro al quale la società civile s’uniformava e che, talvolta, contrastava. Uno strumento formidabile che dava il senso cronologico, giusto per quanto serviva all’uomo umile, goccia per goccia, a dettare un ritmo di vita fatta di fatica, sudore e preghiera. In fondo l’orologio era privilegio di pochi: serviva alle notti insonni di chi si consumava nell’ozio e confondeva la notte e il giorno, usando la notte per capitalizzare il giorno! (Nun dorm’ la nott’ p ‘ bb ‘rè cumm’à dd’àfott’ lu iuornu). Tempo scandito da altri, il giorno; tempo indistinto e negato, la notte. In ogni caso tempo imposto per regnare sul popolo. La divisione del tempo-giorno era funzionale e congeniale ad un concetto di lavoro programmato per la massima produttività, per molti aspetti non differente da quell’ orario legale che puntualmente ci propinano durante la stagione estiva.
11 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Si passava le giornate, a ragionare di niente, sotto gli ombrosi lecci carichi di anni. Quel luogo ai margini del paese serbava una sacralità a molti ignota. E così in quel crocevia della Storia si irrobustivano i ricordi. Il mutare delle stagioni, l’ alternarsi del giorno e della notte non vietavano la quotidiana passeggiata e la prolungata sosta in quel sito. A questa piazza sembrava mancare qualcosa; la sua quiete era irreale eppure ogni sua pietra appariva rispondere ad un’ armonia che non contrastava con la natura, disse Gerardo a se stesso. Gli altri continuavano a parlare di niente ... Gli tornavano alla mente le sensazioni degli undici anni, la scoperta di un mondo che travalicava quella piazza, di un mondo oltre le aspre coste di S. Lucia, oltre le pendici verdi del Paflagone oltre le sinuose colline di Materdomini e le azzurre montagne di Laviano. Esplorava al di là di questa valle, con l’ aiuto incessante della fantasia che solo a quell’ età si possiede. Immaginava, allora, di seguire, a volo, quella traccia di un fiume antico ora ridotto a sola testimonianza. Gerardo scoprì lì il concetto di orizzonte e il senso dell’ infinito che il suo maestro si affannava a spiegare in classe e che gli era incomprensibile. In classe spalancava gli occhi a seguire l’ agitarsi delle mani del maestro mentre puntava il dito a monte, a valle, o verso il soffitto e la cosa si complicava sempre di più. E ancora di più si arrabbiava il povero maestro che pretendeva d’ integrare in quelle quattro mura percezioni di un universo infinito. Su quella panchina, invece, era tutto più chiaro e risultava più nitida la paura dell’ ignoto. Un vento costante spazzava la polvere nell’ aria assieme alle foglie rinsecchite e divelte dagli alberi, trascinate lontano oltre il La Sanità
12 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA muretto di mattoni rossi. E poi, quel cielo sgombro che forava il cosmo; una finestra mai minacciosa sia quando si vestiva di un azzurro pulito che la notte incupiva e trapuntava di stelle, sia quando il grigio plumbeo ed uniforme se ne impadroniva, avvolgendo il paese sotto la sua umidità. Sì, l’ umidità di quel sito, orfano di una madre che aveva nutrito una civiltà e che ora era dirottata per dare sollievo altrove, era il segno di una forza imprigionata nelle viscere di quella montagna incombente. La sua primitiva culla rigogliante, oggi era la sua bara, seppure celata sotto la coltre erbosa di un finto piano inondato di margherite, d’origano e verde mentuccia profumata che disperatamente trasmetteva intorno il messaggio di libertà lanciato da quell’ospite sotterraneo ivi costretto suo malgrado. E quel frammento di cantico di Francesco d’ Assisi assomigliava tanto ad una lapide in un cimitero di campagna incisa per celebrare la trasmigrazione di un’ anima nobile ed umile. A rivederla in vita l’acqua del Sele era uno spettacolo d’altri tempi. Una corona di casupole incastonate nella roccia come gemme impure premevano da ambo i lati su una chiesa da cui spiccava un campanile, come dito puntato verso il cielo. Il tempio della Sanità, antica sede di un culto e di una devozione ad una ninfa chiamata Salute, presiedeva quella preziosità quasi a ricordare agli uomini che le polle sorgentizie ai suoi piedi erano una ricchezza terrena piovuta dal cielo. Di lì si partivano le italiche migrazioni della Primavera con lo stesso stato d’animo degli emigranti del primo secolo convenuti a giurare un improbabile ritorno e a specchiarsi per l’ultima volta in quelle quiete, umili, limpide e pure acque. Partivano con gli occhi lacrimanti e al tempo stesso ghiacciati dall’ algore delle fonti . Partivano e portavano nei loro occhi spenti il verde lussuoso e vellutato di Paflagone, l’ assordante scroscio del Sele e di quel laborioso formicaio di Capodifiume e di Catapano. Non tornarono più dalle loro primavere: vi avrebbero trovato un deserto che la ragione non avrebbe potuto spiegare. Gerardo immaginava, allora, di stare lì assieme a loro a parlare di un vedovo campanile cui era stata strappata, a picconate, la sua anima gemella e poi di un tempio riedificato altrove e imbottito di pietre e fron-
13 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA doni antichi, di affreschi deportati ed incastrati, di una chiesa che s’era venduta l’anima ad un diavolo in cambio di un calco, perfetto quanto si vuole, ma sempre e comunque una copia. E poi, ancora, gli raccontava di un alveo, ricettacolo di rifiuti; sì, un letto arido dove un tempo scorreva prepotente uno spumeggiante e vorticoso fiume che, precipitando a valle, assediava il borgo antico. Rivedeva i salici piangenti stretti tra i flutti e le fontanelle; quei salici dai lunghi’ rami a tentacoli che si facevano frustare dall ‘acqua e dal vento e che ora si spandevano verso il cielo a cercare luce e acqua assieme alle acacie chiazzate di bianchi fiori profumati. Alberi enormi lì nati per caso a proiettare ombra e riparo su donne che sciacquavano e risciacquavano i panni alle fontane e che si attardavano a discutere per ore ed ore, come in un salotto. “No, caro caposelese che ritorni, non è più Capodifiume; questa è ora semplicemente una piazza”. Fingeva di dirgli. “Questo è il Pantheon dei nostri ricordi qui stipati l’uno accanto all’altro a sovrapporsi come le sedimentazioni della storia, ad ingarbugliarsi in un ingorgo di memorie.” Ripartiva mesto l’immaginario visitatore e Gerardo ritomava al suo zibaldone di pensieri. L’occhio cadeva, allora, sul Milite di bronzo, un pugno nello stomaco in quel luogo di pace, un milite pur esso proteso verso i nembi. “E’ ridicolo celebrare la propria apoteosi col sangue altrui, mentre ti gridano aiuto i figli di quei morti condannati a dannarsi in Africa e Russia” pensava dentro sè. E non vale a ravvivarli nemmeno quella corona di lecci che legano a sè, uno accanto all ‘ altro, nomi da non estinguere. Quei lecci tremavano di paura al solo pensare che avrebbero potuto fare compagnia ad altri virgulti da piantare per quietare in qualche modo le coscienze dei guerrafondai. Quei lecci crescevano di più e più rigogliosi quando avvolgevano nella loro affidabile ombra coppie di giovani amanti al loro primo incontro, sottratte allo sguardo dei passanti da luci pubbliche volutamente spente osservate solo da frotte di terribili ragazzi che correvano da un robusto ramo all ‘ altro della corona di lecci, come gatti selvatici .....I ragazzi si arrampicavano anche di giorno su quegli alberi che flettevano paurosamente sotto il peso: quelle loro inconsuete corse tra rami incrociati come braccia stanche rabbrividivano le allodole e i passeri che lì malaugurata-
14 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA mente avevano nidificato e il frullare di ali impaurite nell’atto di abbandonare i nidi indifesi al loro destino era il premio di quel giudizio di Dio. Ci si lanciava giù non appena spuntava in curva, dietro la muraglia della foresteria, qualche ragazzo col pallone in braccio. E allora la Sanità si trasformava in Piazza del Campo. Intorno al ragazzo del pallone accorrevano tutti come gatti alla ciotola. I più prepotenti, assicurando garanzia al solo possessore del pallone, sceglievano le squadre: tutti gli altri in riserva e se si protestava nemmeno quello. In quello spazio ovale, sistemate quattro pietre a fissare “le porte” iniziava la pomeridiana partita sotto un sole cocente. E la partita non terminava se non quando il buio della sera non si impadroniva della luce. A quell’ ora, spossati come guerrieri dopo la battaglia, si stendevano a terra. Non c’era partita che non era accompagnata da grida e imprecazioni, da parolacce che rimbombavano nella navata della prospiciente chiesa da cui spuntava puntualmente il prete minaccioso a calmare i bollori e gli eccessi. Si era fortunati, poi, se almeno una volta si riusciva a sottrarsi alle grinfie della guardia campestre appostata dietro un albero ad afferrare il pallone e a sequestrarlo in nome di una norma violata che suonava astruseria e che sarebbe costata un ceffone al padrone del pallone, se solo si fosse fatto avanti per richiederne la restituzione. Ceffoni, calci e pugni, poi, volavano tra gli stessi agonisti ed erano inevitabilmente propedeutici alle penalità che si autoinfliggevano avendo ritenuto, a monte, superfluo affidare a qualcuno il ruolo di arbitro. I giocatori di pallone si ritiravano, infine, in ordine sparso verso il paese e la piazza ritornava alla quiete, pronta a ricevere il rientro dei contadini dalle campagne. Erano volti esausti, provati dalla fatica; tenevano in mano i loro cappelli quasi in segno di riverenza per un luogo che avvertivano degno di rispetto e calcavano la terra in punta di piedi per contenere il rumore di bullette delle loro scarpe in un incedere felpato e riservato per sottrarsi quasi all’ impatto cittadino. Le loro donne procedevano con passo veloce e si disperdevano nei vicoli al riparo da sguardi indiscreti che le avrebbero colte stanche ed immiserite. Gerardo si impuntava a guardare i ragazzi che chiudevano quella
15 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA schiera. Nei loro occhi vi leggeva rancore e rabbia nel sentirsi esclusi da un paese che pulsava, nonostante la loro assenza. Gerardo vi decifrava la voglia di andare a scuola, che altri ritenevano superfluo, vi coglieva l’assurdità di essere ritenuti adulti anzi tempo. Un mondo sezionato in classi incomunicabili, il cui ruolo era preordinato, subìto ed accettato senza emozione. Gerardo fu preso da un senso di vergogna; si alzò dalla panchina e, dopo un ultimo sguardo alla piazza, che sembrava immensa, si avviò verso la Via Zampari. Ogni tanto si voltava indietro ad osservare il campanile col suo penacchio di ginestre, un campanile che assomigliava sempre più ad un obelisco egiziano infisso nella volta celeste.
16 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA La fine della guerra Nel caffè di Romualdo cessava ogni discussione, non appena il notiziario radio aggiornava il bollettino di guerra. Zia Caterina bloccava addirittura la macchina del caffè e nel locale calava il silenzio. Dopo lo stanco radiogiornale del Regime, letto con poca convinzione dallo speaker di turno, si cambiava stazione per ascoltare la voce degli alleati, dal tono trionfalistico e rassicurante. Si era agli ultimi mesi di guerra; in altri tempi ascoltare gli americani sarebbe stato considerato tradimento e disfattismo, ma ormai tutto era tollerato. Di certo erano diametralmente divergenti le notizie: il primo dava gli americani a circa 400 Km da Caposele, l’altro a 200 circa. “ In media stat virtus” sentenziò l’Arciprete “Saranno verso Cosenza -In pochi giorni aniveranno in queste zone “Che Dio ce la mandi buona!” Riprendeva la discussione e qualcuno, a quel punto, si premurava di aggiornare con precisione prussiana la mappa ingiallita dell’Italia fissata su una parete. Così Caposele si apprestava alla guerra imminente: non perchè non avesse tributato, fino ad allora, sacrifici a quella pazza avventura. Le donne vestite a nero e le nere mostrine cucite sulle giacche degli anziani erano lì a testimoniare il sangue versato per il sogno della potenza imperiale italiana. Era, però, la prima volta che su quelle terre si sarebbe abbattuta la violenza di una guerra disastrosa. C’era da preoccuparsi a detta di alcuni anziani cui era stato raccontato del passaggio dei garibaldini. “Furono peggio delle cavallette”, ricordò qualcuno. Rubarono maiali, galline, grano e tutto quello che potevano arraffare Speriamo che ci vada meglio con questi americani” .
17 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ormai un pò tutti erano convinti che si era giunti all’ epilogo e preoccupava non poco il fatto che Caposele poteva essere un obiettivo militare molto importante per la presenza delle Sorgenti del Sele e dell’ acquedotto che, se distrutto, avrebbe mandato in crisi l’intera regione pugliese. Si era pure coscienti che chi si ritira diventa feroce come belva ferita e chi avanza è baldanzoso e incurante di ciò che ha davanti. I tedeschi accampati a Petazze, incominciavano a smontare qualche tenda, a caricare gli automezzi di taniche di benzina. Era un andirivieni di camion e di soldati innervositi da un ambiente che percepivano appena appena ostile. La loro assidua presenza quotidiana nel cimitero militare di Duomo, rassomigliava tanto a quelle visite intense prima della partenza. D’altra parte gli ufficiali di stanza alla Foresteria lo avevano fatto capire senza mezzi termini a qualche conoscente che erano li in attesa di disposizioni per la ritirata, assicurando che mai e poi mai awebbero lasciato un brutto ricordo in paese. Innervosiva, e non poco, il fatto che i fascisti locali, così entusiasti in passato degli alleati tedeschi, avessero preso, per così dire, le distanze, ma la cosa era interpretata come difficoltà generale di un partito allo sbando che in fondo, in fondo non aveva quelle radici popolari che propagandava. Dal loro canto, le autorità locali si arrabbattavano alla meglio, invero più creando allarme che emanando disposizioni rassicuranti a tutela e protezione della cittadinanza. Si era, frattanto, provveduto a fasciare con ginestre il campanile della Sanità, le opere di captazione idriche dell ‘EAAP e quant’ altro fosse utile per mimetizzare una zona delicatissima. Le postazioni antiaeree su Avigliano, rette dalla milizia locale, erano, più un’esercitazione bucolica che una prevenzione bellica: si andava li a gozzovigliare tra un gregge e l’altro con buona pace di chi si aspettava un allertamento. La popolazione, invero, si era preparata a quell’ appuntamento. Se non fosse stato per le scuole che funzionavano regolarmente e per quei pochi negozi che continuavano nelle loro attività mercantili, tutto il resto aveva subìto cambiamenti radicali. La vita era pressocchè concentrata nelle campagne. Infatti i contadini
18 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA già da tempo si erano rifugiati stabilmente nelle campagne e lì avevano trasferito ogni loro avere. Sarebbero stati raggiunti più tardi nei giorni cruciali, dai proprietari dei fondi che evidentemente non se la sentivano di rinunciare fino all’ultimo alle comodità della vita “urbana”. C’era anche chi, non avendo poderi in cui ritirarsi s’era rassegnato a vivere in paese in attesa di quel momento fatale. L’arrivo degli Alleati era colto dalla popolazione con sentimenti contrastanti. Era una vera liberazione per madri e padri che avevano figli in età di militare; induceva all’ ansia e alla trepidazione, poi, quanti aspettavano il ritorno di parenti dalla guerra e dalla prigionia. Chi era, invece, vedova o orfano piombava in una muta rabbia e in un ragionato disinteresse verso quanto poteva accadere da un momento all’altro. Le giovani, invece, sembravano pervase da una gioia particolare, pensando al ritorno di tanti giovani divenuti uomini in un paese popolato prevalentemente da loro, da bambini ed anziani. Dei “bei tempi fascisti” nemmeno l’ombra: erano muti e pensosi gli avanguardisti della prima ora, preoccupati i mediatori del consenso politico, incazzati e schifati tutti quelli che, pur non essendo irregimentati, non comprendevano il senso del tradimento dei tedeschi. Non v’era, però, un’aria da resa dei conti, quanto piuttosto un’ atmosfera da “ si salvi chi può” in un paese che aveva accettato e accolto scientemente il Regime o per raziocinio o per inerzia. Un pò tutti erano stati balilla, figli della lupa, veterani o conniventi: il che li faceva sentire a dir poco compromessi. Era l’otto settembre. A Materdomini c’era la consueta fiera della Madonna e lì erano affluiti un pò tutti i paesi vicini. Il borgo brulicava di persone ed animali; la chiesa era stracolma fin dalla prima messa. Verso le nove il cielo fu solcato in volo basso da alcuni aerei che
19 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA iniziarono a mitragliare, senza provocare vittime. Chissà cosa dovette sembrare Materdomini dall’ alto a quell’ ora così gremita di gente, a quattro passi dall’ accampamento tedesco. Quelle mitragliate crearono tanto panico e, poco dopo, il deserto attorno al Santuario. Fu un fuggi fuggi in tutte le direzioni. Caposele stesso era in subbuglio; la gente si riversò negli orti e nelle campagne circostanti e in quei luoghi trascorsero il più della giornata. Il terrore prese in modo particolare gli abitanti di Capo di Fiume, che si sentivano come topi in trappola, vicini com’erano al temuto bersaglio. Fu una lotta contro il tempo l’allontanarsi dalle Sorgenti della Sanità, ritenendo che da un momento all’altro potessero iniziare bombardamenti a tappeto dell’ Acquedotto e del Cantiere. Verso le undici accadde il fatto più preoccupante: una bomba venne sganciata nell’ orto di Don Renato e vi perse la vita una donna: il fragore terrorizzò un pò tutti e così quei pochi che ancora s’erano attardati nel paese, si decisero di darsi alla fuga. Questa volta non più verso i campi aperti e gli orti, ma verso le cantine, luoghi sufficientemente mimetizzati tra gli alberi e i roccioni del contrafforte del Paflagone. Fu chiaro allora che la tragedia stava tutta lì: scampare tra due fuochi, quelli alleati e quelli tedeschi, tra due eserciti che legittimamente potevano considerarli nemici. Passò ancora qualche ora e si udì uno scoppio tremendo nell’ orto Cozzarelli: una deflagrazione possente che fece tremare le case e i ricoveri di fortuna in cui i caposelesi si erano rifugiati. Caposele era ormai un deserto: vi circolava solo qualche cane e qualche gatto, pure essi sbandati da quegli scoppi assordanti e inusuali. A quell’ora un pò tutti si convinsero che ritornare alle case era un azzardo e tutti si predisposero a trascorrere la notte all’ addiaccio o, comunque, lontano dalle proprie abitazioni. Una notte, dice chi ha vissuto quell’ esperienza, non facilmente archiviabile. Il buio copriva il centro abitato e si stava attenti a vigilare affinchè nessuno per errore accendesse lumi o candele, per evitare d’offiirsi bersaglio agli aerei impegnati in voli di ricognizione. Dai Casali si dominava la valle nel suo insieme indistinto che confondeva cielo e terra; solo un’ accennata linea di contorno a mala pena evidenziava la collina di Materdomini.
20 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Nella rassicurante penombra delle cantine ci si muoveva come nel “gioco della mosca cieca” urtando vicino a botti e tini. A ricordare la eccezionalità del luogo ci pensava l’aspro e pungente odore dell’ aceto frammisto a quello dello zolfo e di tanto in tanto a quello dei cachi, delle mele e delle pere sistemate su spessi tavolati incastrati tra gli archi ricavati nei muri. S’udiva il tintinnio, talvolta, di bicchieri trangugiati a lenti sorsi dagli uomini ricacciatisi in fondo alla cantina. La nonna, invece, s’era posta su una sedia impagliata sull’uscio a vietare e scongiurare che qualche bambino sgusciasse fuori. Verso mezzanotte il cielo s’illuminò a giorno e il piccolo Rocco battè le mani pensando che’fossero i fuochi d’artificio di S. Gerardo, quelli che davano il segnale sulla fine della festa. Fu subito trattenuto e riportato alla realtà dalla madre e più ancora dallo sganciamento di un grappolo di granate che esplosero a corona nella valle. La curiosità e forse la paura spingevano un pò tutti ad ammassarsi sulla porta per osservare quell’inconsueto paesaggio abbagliato dai razzi. Un paesaggio mai visto seppure tanto simile a quello diurno; eppure c’era qualcosa che lo differenziava dal giorno. ‘State tranquilli” disse Matuccetto, memore della sua esperienza sul Carso, , “Stanotte ci rispanmeranno -Sono impegnati oltre Laviano, verso la Sella di Conza. Domani, comunque, dovremo sloggiare, questo posto non è sicuro”. Si trascorse il resto della notte nella più assoluta calma: notte insonne per i grandi che narravano fatti di guerra, mentre trattenevano tra le braccia i figli dormienti. Appena fu l’alba sulla valle si proiettò il grigiore di un cielo cupo di nuvole e la fitta nebbia iniziò a risalire a banchi verso il Vallo Antico per unirsi con quella bianca coltre che proveniva da Lioni. Iniziò a piovere. “Siamo fortunati”, disse il solito esperto di guerra, “Affrettiamoci a raggiungere Avigliano, perchè fin quando il cielo
21 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA sarà coperto difficilmente riprenderanno a bombardare”. Le donne annuirono, chiedendo, però, un pò di tempo, giusto per scendere giù in paese a prendere cibo, pentolame, vestiti, materassi e ogni altra cosa utile per traslocare in campagna. Caricati gli asini di some che non erano abituati a sopportare in salita e postesi loro stesse sul capo ceste e canestri si avviarono verso Avigliano. I bambini e i ragazzi erano spinti avanti come gregge; in retroguardia avanzavano gli uomini che, frattanto, avevano ripreso le loro discussioni notturne. La stradina che si inerpicava verso Serretiello per poi ridiscendere a picco verso la Cupa, era, a quell’ ora, percorsa da parecchie frotte familiari, che si sorpassavano a vicenda, a seconda del ritmo di marcia imposto dal capofamiglia. Le salite provocavano affanno soprattutto agli anziani, i quali, però, rifiutavano di sostare pur di raggiungere in fretta la meta. I ragazzi si spingevano, come capre spericolate, lungo viottoli e scorciatoie e correvano a più non posso per poi buttarsi a terra sudati negli incroci ad attendere i grandi: strappavano, così, quel minuto di riposo dopo essersi spossati all’inverosimile. Giunsero, infine, ad Avigliano. Scaricarono e misero in libertà gli asini schiumanti di bava. La nonna si sedette su una pietra, disfacendosi i capelli e poi riannodandoli, e da quello scanno impartiva ordini alle nuore, alle figlie e alle nipoti. Alcune stesero, dopo aver spazzato alla meglio, i materassi di lana e di brattee (pannocchie) su un lastrico interamente trasformato in letto; altre sistemarono le vettovaglie in una vecchia credenza, poi accesero il fuoco apprestandosi a cucinare. I ragazzi andavano per legna assieme al nonno che perlustrava i campi per farsi un’idea dei frutti autunnali che la campagna riservava. La vita, così, riprendeva. Ci volle poco per abituarsi a quel ritmo cui si era costretti e che in fondo non dispiaceva, pensando che altri erano obbligati a sacrifici e privazioni, soprattutto alla fame che pativano in tanti. “Chissà che fine ha fatto il Prof. Maurano?” si chiese Gerardo. “E’ dai Cozzarelli!” rispose Alfonso, “Non morirà di fame”. Quel professore, così distinto, così discreto, che aveva abbandonato con la sua famiglia Napoli e la sua casa per fame e che a Caposele aveva trovato una dignitosa
22 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA sistemazione. Aveva patito la guerra ed ora era costretto a vivere d’aiuto altrui che, nonostante la discrezione e la prodigalità dei suoi ospiti, sentiva come elemosina. A ben pensare, allora, Avigliano non era una reggia ma di sicuro era un privilegio e una fortuna. Passarono lì alcune settimane e visto che quei brutti giorni erano solo un ricordo, si decise di ritornare al paese. E quello fu un giorno di festa, anche se il loro ritorno prevedeva il ristabilirsi su alle cantine. La presenza in zona dei tedeschi non incoraggiava nessuno a rientrare nelle case, soprattutto quando si sparse la voce di possibili deportazioni dei meno anziani in Germania. In fondo, abitare ai Casali significava avere due piedi in una scarpa: vivere in paese ed essere pronti a scappare in montagna, se necessario. Era accaduto in quei giorni un fatto che allarmò: una ragazza era stata adocchiata ed importunata da alcuni tedeschi e se l’era cavata per un pelo. Si parlava, di ponti e strade minate, vere o false che fossero le notizie, c’era da stare poco tranquilli: meno ci si faceva vedere al Piano e meglio era. Il paese, però, aveva riacquistato una certa vitalità: era stata riaperta qualche bottega, e qualche cantina. Il caffè di Romualdo, seppure non affollato come ai bei tempi, riprendeva l’attività. Gli “sfollati” erano ritornati nei loro alloggi e c’era già chi pensava di riaprire le scuole, tra le proteste di qualche insegnante. Si vedeva, pò qualche sbandato dell’ esercito italiano, ormai in rotta, che vinta la prima paura e sopraffatto piegato dalla fame s’era finalmente deciso
23 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA a circolare a Caposele, una volta accertatosi dell’ assenza di tedeschi in zona. D’altra parte la milizia locale s’era squagliata, anche se alcuni che ne facevano parte indossavano ancora indumenti militari. Si avvertiva l’aria della vigilia: gli americani e i loro alleati sarebbero a giorni arrivati. L’atmosfera, allora, di attesa era tutta protesa a fare pulizia e a rimuovere i segni di un passato che solo qualche giorno prima era stato ritenuto glorioso. Lavoro immane soprattutto per gli imbianchini impegnati a cancellare dai muri esterni di edifici scritte ipocrite inneggianti al regime e venivano un pò dovunque rimossi quadri e foto che un anno prima erano idolatrati come sacre effigi: i più li bruciavano addirittura come per rimuovere prove di un’antica colpa; alcuni, i più audaci li celavano sotto lenzuola e coperte in bauli ben serrati. Qualche ragazzo ignaro, che si permetteva ancora di fischiettare “Faccetta nera” riceveva un sonoro ceffone senza che ne seguisse alcuna spiegazione. Regnava un clima di autopurificazione quasi da venerdi santo, ammesso che l’arrivo degli alleati fosse percepito davvero come una Pasqua. Preoccupava non poco, però, certa baldanza che montava nel ceto popolare e tra quelli che a modo loro non si sentivano compromessi col regime. Qualcuno diede filo da torcere in quelle ore, minacciando di spifferare tutto agli americani non appena arrivati, promettendo a destra e a manca vendette e regolamenti di conti. Si era addirittura sparsa la voce del ritorno di Don Pasquale Ilaria, il “cattocomunista”, visto dai “ vertici locali” come il fumo negli occhi. Certi personaggi, tra l’altro, si facevano vedere poco in giro. La guerra, per loro, non era finita. Forse perchè dotato di una tempra particolare, sorridente come sempre, v’era solo Don Ciccio di buon’ora al suo posto di lavoro. Taciturno, come non mai ma sereno: la sua esperienza gli diceva che un fascismo all’acqua di rose, come quello caposelese, non poteva produrre effetti devastanti, anche se fossero piombati i sovietici. “ ll peggio verrà dopo”, diceva sorridendo. All’ arciprete, invece, e non solo a lui, dava fastidio che qualche contadino inneggiasse al comunismo e festeggiasse per l’avanzata dei
24 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Russi sognando poderi da strappare ai possidenti, inclusa la chiesa, e da dare ai senzaterra. “L’americani sò a Rena Ianga” gridò in piazza Lorenzo Ceres, proprio allora rientrato in paese con la sua Balilla. Riprese la corsa verso i Casali, a Pianello, a Serretiello, questa volta non per scampare ad un pericolo ma per seguire con lo sguardo la marcia degli alleati verso Caposele. Lunghe ed interminabili file di camion grigio-verde , di camionette, di carri armati che si snodavano verso Occhiaro e Temete, sbucando dalla Bisciglieta. Avanzavano lenti, senza fretta; si sentivano in lontananza canti e motivi ignoti ed indecifrabili. In un batter d’occhio erano già alla londa i primi e non cessava la processione da Rena Bianca. Eccoli a Santa Caterina, alle Gallerie il rumore assordante di motori montava sempre più e sempre più netto s’elevava un canto corale dai ritmi martellanti. Non erano i suoni secchi e netti delle note wagneriane, nè quelli più rassicuranti, ma sobri di verdiana memoria. Note ritmate, lunghe ed improvvisamente brevi in cui si coglieva un non so chè di afro sopraffatto dall’americano; lo chiamavano “jazz”, “Blues”, “Boogie boogie”. Musiche astruse, ma che non incutevano paura. Pulsazioni festose che solo chi esterna sentimenti dipace, può emettere. Fu un sospiro di sollievo! La colonna degli automezzi era giunta al Ponte e di lì risaliva lungo il Fiume Sele verso l’orto di Don Renato. Erano soldati dalla pelle bianca, erano neri, mulatti. Salutavano sorridenti lanciando caramelle e cioccolate. Facevano montare sui carri bambini e ragazzi, tra madri in lacrime, preoccupate per quell’ingenuo e amichevole ratto. S’udì uno scampanìo a festa e qualcuno stese copriletti al davanzale come al Corpus Domini. Era fatta! Non c’era nulla da temere da quegli uomini, nonostante la paura avuta durante quelle nottate di bombardamenti. Ecco gli autocarri alla curva del Piano e poi ancora avanzare lungo Via Zampari, facendo tremare col loro peso le case a schiera.
25 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Raggiunsero Piazza Sanità e lì si femarono, sistemando alla meglio le colonne lungo le anguste strade. Presero possesso degli impianti acquedottistici. Scappavano i ragazzi a vedere i soldati negri. “Sono dell’ Abissinia”, si azzardò a dire una donna, facendo malamente ricorso alle misere conoscenze geografiche che le avevano inculcato. Un gruppo di ufficiali in auto raggiunse il Piano, chiese del Podestà e fu accompagnato in Municipio. Vi fu un incontro cordiale e franco che rassicurò un pò tutti, in modo particolare chi quelle notti aveva trascorso insonne. Quella sera ci si ritirò tardi. Sembrava una festa paesana, impegnati come si era a familiarizzare con i nuovi venuti e a scrutare quei soldati che il terrore aveva dipinto come mostri e come nemici da rifuggire.
26 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ogni 15 giugno ci si alzava presto nonostante fosse una festa a tutti gli effetti. Il giorno di S.Vito era un’ esclusiva per la valle e i Caposelesi ne andavano fieri: raggiungere di buon’ ora la Pietra di Boiara, oltre ad essere un atto di devozione al Santo siculo era pure un piacere elettrizzante pensando a come sarebbe trascorsa l’ intera giornata. Le donne, invero, si attardavano a casa, anche se erano in piedi dalle sei, impegnate a preparare ogni ben di Dio che più tardi avrebbero sistemato nei canestri. Mio padre, dopo aver caricato la bisaccia col vino sulle spalle e messo a tracolla il vecchio fucile a pallettoni, mi prendeva per mano e ci si dirigeva verso La Sanità. Il nonno ci aspettava in piazza con la sua muta di cani guidati da Argo che non appena ci intravvide corse verso di noi. Imboccammo la strada ghiaiosa che conduceva verso Tredogge e ci inerpicammo su per la via Piani. Le siepi lungo il sentiero polveroso erano cariche di more rossicce che si confondevano con le bacche pur’ esse rubiconde. I campi iniziavano a imbiondire e i ciliegi si flettevano al peso dei loro frutti maturi già in corso di raccolta. Quella salita ti bloccava all ‘improvviso le ginocchia ma la fatica dell ‘ ascesa sembrava sopportabile, sapendo che la meta non era lontana. Il venticello piacevole di giugno ti rinfrescava di tanto in tanto il viso accalorato e ti asciugava rivoli di sudore. Se ti capitava di sfuggire al controllo del nonno, riuscivi a bere di nascosto alla fonte di acqua che sgorgava sotto una grande e nodosa quercia: un ruscello insignificante ch’ era in grado di ristorarti più del ghiaccio. Mi innervosivo, però, per quell ‘ incedere lento e sereno di mio padre e di mio San Vito
27 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA nonno, che ragionavano con calma e spesso si fermavano a osservare in lungo e in largo un paesaggio per altro a loro molto noto. E mi arrabbiavo addirittura, quando gruppi di persone dopo averci salutato, ci sorpassavano. Arrivare secondi o in ritardo a S. Vito mi sembrava quasi come rinunciare ad un premio o a una scommessa. L’ ultima fermata era al “casino” di La Manna, una tappa obbligatoria e inevitabile: il pianoro erboso di S. Vito e la sua roccia erano oltre quei campi di granoturco. Non ho mai saputo se il vecchio padrone di casa fosse il sagrestano o il custode della piccola chiesa sulla pietra; di certo egli sedeva sull’uscio di casa sua a ricevere col sorriso sulle labbra la gente che sostava. Si capiva che il “mastro della festa” era lui: e lui il regista di ogni parte di quella giornata; lo stesso arciprete si sentiva ospite celebrante tenuto a dire messa in una cerimonia che, comunque, si sarebbe svolta indipendentemente dalla sua volontà e dalla sua autorità. Accanto al vecchio La Manna v’era un’enorme cesta di vimini ricolma di piccoli pani appena sfornati: ogni passante, sotto l’occhio vigile del padrone, si curvava per prenderne uno. Casa La Manna non era una dimora di campagna come tutte le altre e ai miei occhi sembrava sontuosa, nonostante l’abbandono avanzasse inesorabimente. Una struttura armonica e regolare, un arco a volta centrale, una larga loggia, scale simmetriche laterali, trasmettevano la nobiltà di un tempo. Era stata forse la villa di campagna di un signore, la residenza fortunata del fattore dei Rota, padroni incontrastati della terra di Boiara, della Difesa e di tutti quei pascoli collinari appartenuti da sempre a chi s’era fregiato del titolo di principe di Caposele .... Pochi passi ancora e si giungeva sotto l’enorme masso di S. Vito che sembrava in bilico sulla valle. Mio padre sistemò le bisacce del vino in una rudimentale vasca scavata nella pietra viva che riceveva un filo di acqua dal profondo di un terreno. A quel punto si scioglieva quel sodalizio, dopo esserci raccomandati a vicenda di ritrovarci a mezzogiorno in punto sotto un noce che da anni ospitava i nostri pranzi nel giorno di S. Vito. Come primo atto abitudinario correvo sul cocuzzolo roccioso dirimpetto alla Pietra e mi sedevo su quell’ avamposto ad osservare. Si apriva
28 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA sotto di me la parte più alta della Valle del Sele: ecco Caposele disteso sulle pendici del Paflagone come un cane dormiente e più in là Calabritto e Quaglietta così nitide in quell ‘ azzurro di giugno. E sullo sfondo s’èrgevano in tinte chiare fino a confondersi col cielo i monti degli Alburni che proprio bianchi ai miei occhi non sembravano. Tutt’ intorno, invece, si stendevano gli arsi campi pronti per la mietitura e qua e là, affogati in quel giallo, alberi da frutta, non troppo alti e nemmeno frondosi: una vegetazione compressa nella crescita da un vento continuo che la frustava in tutte le stagioni. Ho rivisto qualcosa di simile nel paesaggio senese qualche anno fa, un paesaggio cui, però, mancavano i costoni rocciosi coperti di muschio e fessurati da robuste ginestre. Lo sguardo in ultimo si soffermava sulla Pietra di S. Vito. Un’ antica e devota penitenza costringeva donne e bambini lungo un tortuoso percorso attorno al masso, un saliscendi tra dirupi che la tradizione voleva fosse affrontato per ben tre volte; li chiamavano turni. Alle undici la campanella ci chiamava a Messa. Si saliva la stretta scalinata ricavata nella roccia e si raggiungeva il primo pianerottolo. Lì si vedevano ancora i resti di antiche mura: si diceva fossero i ruderi d’una fortezza, l’ avvistamento da cui si segnalavano i pericoli al castello di Caposele e di qui a quello di Quaglietta, tutti e tre in linea lungo la Valle. Erano sicuramente ruderi di qualcosa importante, e questo ce lo ricordava lo stemma dei Rota che insisteva sulla porta ad arco attraverso la quale si accedeva in un cortile interno. Anche lì i resti di fondamenta, casupole rase al suolo, pensai, e più in alto, su un piano, la cappella. Era davvero piccola ma stipata di banchi e inginocchiatoi, quasi fin sotto il povero e disadorno altare che accoglieva la statua in legno laccato di S. Vito. Raffigurava in panni e tunica rosso-verde il martire siciliano che aveva trovato la morte a capo del fiume Sele, dicono le agiografie romane. Ai suoi piedi un nero cagnolino volpino col muso rivolto verso il volto del Santo. La cappella era stracolma di gente; molta era rimasta nel cortile a sentire la messa. I più piccoli raramente entravano in Chiesa: a loro piaceva restare fuori in attesa della benedizione dei piccoli pani che di lì a poco sarebbero stati lanciati a quella moltitudine di cani che si aggiravano un pò dovunque e
29 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA che il familiare fischio del padrone avrebbe in un batter d’occhio subito radunati. I pastori, frattanto, nel momento dell’ Offertorio si sarebbero fatti strada tra la folla per consegnare la “quagliata” di quel giorno. Aveva, poi, inizio la processione del Santo e una folla compatta seguiva la barcollante statua giù per quel sentiero pericoloso. Il corteo si snodava per tre volte attorno alla Pietra e alla fine la statua veniva riaccompagnata in cappella. Mi avvicinai dove gareggiavano al bersaglio. Almeno una trentina di cacciatori dalle nove del mattino avevano iniziato il tiro coi loro fucili garibaldini. S’erano sistemati in una piccola macchia di querce che avevano in parte sfrondata per liberarsi la vista di un campo pianeggiante in fondo al quale erano stati infissi i bersagli. La posta in gioco era un agnello, ma l’accanimento era grande almeno quanto il vociare, quanto gli scherni e gli insulti che si scambiavano a vicenda. Il nonno, guardia campestre, stazionava lì a vigilare che non si eccedesse e ad intervenire nel caso in cui la situazione precipitasse. Non era, poi, solo; poco distante c’erano anche i carabinieri nelle loro divise festive e l’ordine era assicurato. I partecipanti alla gara non avrebbero smesso di sparare se non quando il sole si fosse coricato dietro il Bosco della Difesa. A mezzogiorno ci ritrovammo sotto il noce: era stata stesa già una bianca tovaglia e le donne rovistavano nei canestri tirando fuori posate e vivande. Ci sedevamo a terra in cerchio e consumavamo il nostro pasto. Gli adulti erano gli ultimi ad alzarsi. Noi, invece, nonostante la calura, correvamo sul pianoro erboso dove il venditore di noccioline americane aveva già piantato la sua baracca di telo bianco e al suo fianco s’era piazzato il venditore di lupini. In mezzo al prato un vecchio aveva scavato un piccolo fosso per seppellirvi un gallo dalle penne variopinte e lucenti, avendo cura di lasciare fuori lì a terra la sola testa rossa per la grossa cresta e per i bargigli penzolanti. lo non gradivo troppo quel gioco cui alcuni si accanivano: colpire con un grosso bastone, sebbene con gli occhi bendati, la testa di quell’ indifeso animale mi sembrava una barbarie ingiustificata in un giorno di festa. Mi colpivano quegli occhi minuscoli del gallo, spaventati e nello
30 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA stesso tempo accorti a scansare ogni colpo che quando andava a vuoto sollevava tutt’intorno una densa polvere. Quando, poi, qualcuno assestava in pieno il colpo fatale e il gallo piegava la testa insanguinata tra gli applausi degli astanti e la soddisfazione boriosa del battitore, allora mi allontanavo, mortificato e nauseato. Mi rinfrancava di più il gioco innocente del tiro alle pignate dove la sorte poteva riservare qualche imprevisto e brutto scherzo ai partecipanti. Da una lunga fune, le cui estremità erano annodate a due pali infissi in terra, penzolavano una decina di pignate ermeticamente chiuse che luccicavano al sole. La gente si assiepava lungo la fune, guidando il giocatore bendato verso una posizione comoda e agevole per il tiro. E l’abilità nel colpire il recipiente di creta non sempre era premiata dal contenuto del recipiente. Mi incollavo a quello spettacolo per ore. Non appena il sole abbandonava quel sito si facevano avanti i pastori coi loro organetti e davano inizio alle loro tarantelle ritmate. Maneggiavano l’ organetto con padronanza e disinvoltura, spingendolo da una mano all ‘ altra, dal basso verso l’ alto e viceversa e spandendo nell’aria musiche antiche ossessivamente ripetitive, ma pur sempre piacevoli ed attraenti. Accorrevano d’ogni parte giovani ed anziani e si lanciavano in una danza sfrenata che si snodava in figurazioni diversificate sotto la regia di una voce accorta che “ comandava” i movimenti. Roteavano abbracciate le coppie, poi si disgiungevano, si davano lamano, si disponevano in fila, arcuavano le braccia, s’ intrecciavano in catene di strette di mano e al grido di “contrè” invertivano la marcia per poi riabbracciarsi e stringersi in un giro di tarantella. Erano capaci di andare avanti per ore intere in quei vorticosi giri che toglievano il respiro; le coppie spossate che si tiravano fuori erano subito rimpiazzate da nuovi e freschi ballerini. E la danza non finiva mai. Erano le anziane le danzatrici più resistenti, composte ed equilibrate nei loro movimenti. Il loro modo di danzare, tutto sincronizzato sui ritmi di quelle note primitive, ti richiamava alla mente la gestualità teatrale della drammaturgia greca, segno indelebile di un passato che lasciava traccia e che si tramandava generazione dopo generazione come un’ arte raffinata.
31 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Si ballava fino a quando l’ultima luce del giorno non fosse stata sopraffatta dalla sera e l’aria non si popolasse di migliaia di lucciole. In quel magico momento in cui la notte sembrava impadronirsi di quel luogo sacro, velocemente mi inerpicavo ancora una volta per la scalinata che conduceva alla Pietra e davo un ultimo sguardo alla Valle disseminata di una miriade di luci minuscole che vagamente brillavano come riflessi delle stelle di giugno. Si stagliavano sulle dorsali collinari arrampicate sulle pendici dei monti, i borghi antichi dell’Alto Sele. Umili custodi d’una storia ignota ai più che pure ha lasciato tracce e segni significativi nei dintorni. Mi avviavo, a quel punto, verso il mio paese stretto tra il monte e il fiume, correvo in discesa per raggiungere i miei già sulla strada del ritorno. E ogni tanto mi voltavo indietro a guardare la Pietra che incombeva e mi appariva come un gigante a guardia della Valle, del suo fiume e dei suoi abitanti.
32 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Avevano da poco consumato la frugale cena e le donne erano tutte intente a sparecchiare la tavola: Maria ripiegava la tovaglia riponendola in un cassetto della cristalliera a muro; toccava quella sera a Graziuccia lavare quelle poche posate d’alluminio e la “spasetta” lucida ancora d’olio, nonostante fosse stata pulita da quell ‘ultima mollica buttata giu’ in un boccone con avidità dalla madre. I piccoli erano stati allontanati nella stanza accanto, obbligati a giocare a nascondino fintanto che non si fosse spazzato per bene il lastrico il padre, con un gomito appoggiato sulla fornacella, s’arrotolava il trinciato forte in una cartina ruvida, poi prendeva con le pinze un carbone ardente e accendeva la sigaretta. Dirimpetto a lui, sua moglie su uno scanno senza schienale, li’ seduta come una matrona a vigilare in silenzio sul lavoro domestico delle figlie e ad intervenire con decisione a correggere ogni minimo errore e a zittirle, se necessario. Ad un certo punto l’uomo anziano, stiracchiandosi sul “vango” s’alzava dal focolare e si dirigeva verso la porta. Sostava per qualche minuto sulla “loggetta” e poi giu’ per le scale a imboccare il vicolo illuminato dal chiarore di una luna che di tanto in tanto si celava diero qualche nuvola. Ancora quattro passi e si era in via Bovio sotto i lampioni da poco accesi dall ‘instancabile’ ‘Francisco” . Un altro pezzo di strada al buio, la cappella di S.Lucia, il tepore di un forno chiuso. Una breve fermata e poi a passo svelto, l’uomo avvolto nel mantello a ruota guadagnava velocemente l’ultimo pezzo di strada per entrare nella cantina di Sichetto. Con quella fuga finale non si voleva sottrarsi allo sguarLa cantina di Sichetto
33 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA do indiscreto della gente, dal momento che le strade erano a quell’ ora pressocche’ deserte; piu’ semplicemente era il tentativo di esporsi il meno possibile a quella corrente tagliente d’aria umida proveniente da Capodifiume e dalle sue sorgenti. Contrastavano quell’ aria gelida i vetri appannati della cantina riscaldata da una minuscola stufa di latta e piu’ ancora dall’affollamento del locale. La sua entrata dal vinaio era salutata, come l’arrivo di un capo, con tanto di alzata di bicchieri. Egli non si scomodava piu’ di tanto e con passo fermo si dirigeva verso il suo tavolino abituale, dove l’aspettavano i suoi compagni. Di li’ a poco il cantiniere, benche’ non chiamato, avrebbe portato “l’arzulo” di aglianico. Era solenne il portamento del cantiniere, soprattutto quando si trincerava dietro il massiccio bancone tra caraffe, brocche e bicchieri, tra piatti di acciughe salate, tra vasetti di olive all’ acqua e fusine di peperoni “alla composta”. Sembrava quasi un prete celebrante sull’ altare in mezzo a nere botti di rovere e lunghe file di bicchieri accannati alla parete sopra un acquaio livido di vino. L’ambiente non era dei piu’ accoglienti: seggiole di legno massiccio come quello dei tavoli, qualche specchio ingiallito piu’ dal fumo che dal tempo ed una stampa lyberty raffigurante una prosperosa donna con una bottiglia di verdolino in mano. Risultava illuminata da una lampada a “scisto” la sola parte del locale occupata dal bancone, il resto era nella penombra, tra l’altro gradita ai clienti tutti ricurvi sui bicchieri, impegnati com’ erano a discutere ed a bere. Una nebbia di fumo acre proveniente dalla stufa, dai sigari, da pipe e sigarette accese, si stipava nell’ aria, sospinta .. verso il soffitto incartato e chiazzato qua e là da macchie di umidità. In un angolo si giocava alla morra scandendo numeri e levando dita in aria, piu’ in qua ad un tavolo cinque o sei bevitori si cimentavano nel gioco nuovo del “padrone e sotto” inchiodando lo sguardo su diaboliche carte unte. La serata scorreva calma: a quell’ora non era scoppiata nessuna rissa e non era volato nessun ceffone. Buon segno ... Però, quel tavolo in fondo preoccupava non poco il cantiniere: si levava infatti un canto appreso
34 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA nelle trincee della grande guerra e questo era il segno premonitore di un’ atmosfera che si stava deteriorando. “E’ ora! Si chiude! A chi l’ultimo boccale?” L’ultima corsa al bancone e poi ad uno ad uno, come complici che abbandonano la scena del delitto, ecco i clienti dirigersi verso la porta. Si riprendeva la strada del ritorno a casa: un sorta di stazioni della via Crucis. Il nostro uomo risaliva la stradina, barcollando a destra e a sinistra e gli apparivano sussultanti gli stessi tetti delle casupole a schiera. Istintivamente portava una mano alla testa e l’altra contro il muro quasi nel timore che esso, rovinando, lo travolgesse. Era atto abituale, quasi dovuto, cogliere nel silenzio anche il piu’ impercettibile rumore umano di qualcuno che si celasse dietro le impostedelle finestre a spiare. Un volta percepito il consueto abbaiare dei cani, il fruscìo dell’ acqua corrente della fontanina pubblica ed il sibilare del vento notturno, accelerava il passo malfermo e, ansimante ed imboccava il vicolo buio. La luna s’era seduta sulla casa rischiarando il solo tetto. Risaliva la scalinata, aggrappandosi al muretto e poi di nuovo sostava sulla loggetta. Uno sguardo al cielo scuro sgombro di nuvole e trapuntato di bianco. “Buon segno!“ pensava tra sé; poi spingeva la porta socchiusa e correva a sedersi sulla sua panca. Lì, di fronte, lo attendeva pazientemente e muta la sua donna che d’un colpo s’alzava, sbarrava l’uscio e poi si dirigeva a lume di candela nella stanza da letto. Di lì a poco sarebbe stata raggiunta dal suo uomo che ancora s’attardava a scrutare tra la cenere qualche carbone che a poco a poco si spegneva.
35 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Chiamavano con sarcasmo “Botteghe Oscure” quella vecchia sezione del P.C.I. che si spingeva come una prua su Via Roma, a pochi passi dalla piazza dei comizi infocati. Erano due stanze, consunte da un’assidua presenza di compagni anziani che lì erano soliti trascorrere le ore serali e quelle presenze, assunte quasi come un obbligo, conferivano a quel luogo una sobria atmosfera di laboratorio politico. Non era ovviamente un laboratorio politico, quantunque nella stanza in fondo gli incartapecoriti ritratti dei padri del Socialismo italiano e sovietico stessero lì a vigilare e a ricordare che i sogni, i desideri e gli ideali della giustizia non potevano attendere il Cielo, lì a rammentare che la rossa bandiera prima o poi avrebbe trionfato. S’ avvertivano, però, la compostezza e la disciplina di un sodalizio che si era dato regole non scritte alle quali non intendeva sottrarsi. Era una specie di comunità stoica che non si curava del trascorrere inesorabile del tempo, che non sobbalzava più di tanto di fronte all ‘accumularsi delle ingiustizie patite. Si era ciechi all’ obbedienza, docili ai comandi romani e sempre pronti nel difendere l’errore che altrove commettevano e che ricadeva su di loro come il peccato originale. Era l’atteggiamento difensivo proprio delle comunità contadine votate a scegliere la vita in trincea come una risposta possibile. Così, in un ambiente paesano poco propenso a farsi contaminare dall’esterno, i caparbi comunisti di Caposele, un esercito senza generali, riuscivano a difendersi e ad avanzare e questa tattica a riccio scompaginava tutte le strategie degli avversari e tutte le furbizie di certi alleati. Negli anni 50 il duro scontro coi demoscristiani li aveva plasmati al più rigido senso di opposizione a quanti sapevano vivere solo all’ombra dello Stato. Ne avevano subito di angherie .. ! E se le portavano dentro come medaglie al valore e alla resistenza. Botteghe oscure
36 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Parlavano di pacchi UNRRA, di farina e maccheroni a loro negati e del loro orgoglio di mangiare cicorie. Ricordavano quando ai loro figli erano rifiutati i visti di espatrio verso le Americhe; quando partivano, come siluri, soffiate per impedire l’arruolamento nei Carabinieri.Allora zappare il terreno più duro, oltre che una necessità per campare, diveniva risposta rabbiosa e di classe a chi si riempiva la bocca di cristianesimo e di democrazia e un’ ora di comizio di Vuotto, di Grifone e di Amendola, dava sollievo a quel popolo muto che si stipava in Piazza Dante. Quei comizi erano una liberazione e davano la carica e la forza di tirare avanti per mesi nella durezza della vita quotidiana. Rinfacciare le bravate o i soprusi di certi signori, rammentare al parroco ch’ era un abuso pretendere censi feudali cancellati fin dai tempi di Crispi, dava tanta soddisfazione e valeva più di una messa cantata. Quelle voci tuonanti tramortivano i Don Rodrigo del tempo e i loro stupidi famigli e al tempo stesso tenevano accesa una speranza e il desiderio di una lotta antica come il mondo. Diventavano sopportabili, come inevitabile tributo da pagare, anche le espulsioni dall’Azione Cattolica delle figliè di comunisti e socialisti, allontanate alla stregua di appestate. Qualche volta, però, l’arciprete non se l’era cavata proprio bene. Sti comunisti, poi, non è vero che porgevano sempre l’altra guancia ... Era morto un vecchio compagno che era stato una colonna del partito, un esempio di vita e di militanza e i comunisti vollero ricordarlo alla grande, con la loro bandiera abbrunata e con una corona di fiori vermigli. A quella bandiera e a quei fiori fu ceduto’ il posto di riguardo accanto alla bara. Voci insistenti davano per certo che l’arciprete avrebbe sbarrato l’accesso in chiesa a quell’insolito corteo funebre. La cosa non preoccupò più di tanto il segretario di sezione e i familiari del defunto, anzi amplificò di più la notizia tanto da far accorrere moltissima gente dalle campagne. Infastidiva, invero, il pensare che si potesse vietare l’ingresso in chiesa di una bandiera, fosse pure rossa, quando, in occasioni pure recenti, bandiere candide, sempre e comunque di un partito politico, avevano ricevuto altro trattamento. Quando il corteo funebre giunse sul sagrato, fatto inusuale ma premo-
37 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA nitore, l’arciprete era lì sulla soglia, sotto l’alto portale di eietra, con le braccia allargate nella sua tonaca nera, a bloccare quella marea wnana. La piazza, dopo un brusìo, piombò in un silenzio; un uomo mosse verso il parroco. I due parlarono concitatamente ma senza che nessuno potesse cogliere nemmeno una parola del loro dialogo. Subito l’uomo si diresse verso i familiari del morto. Dopo un brevissimo scambio di parole, si levò nell’ aria la voce netta di una donna anziana vestita a lutto: “Al Cimitero!” Senza alcuna incertezza il corteo virò a destra giù per via Imbriani, snodandosi verso Corso Garibaldi. Un passo lento, fermo e convinto; s’avvertiva in quel corteo il dolore, la rabbia e l’orgoglio in un tempo: i sentimenti più contrastanti erano riusciti a trovare un difficile equilibrio e avevano saputo riempire un vuoto attraverso un atto che tutti assaporavano come segno di un superbo e paziente civismo. Eppure quei comunisti non avevano letto, nè saputo mai di Gandhi e della disubbidienza civile, di Lemn e della pazienza rivoluzionaria. La storia, le ideologie e le teorie le avevano vissute sulla loro pelle e la loro lettura del mondo era istintivamente effettuale ... Questi erano i comunisti di cui mi parlava mio padre. Mio padre era un socialista e io non capivo la sua ammirazione per i comunisti. Non era solo la malattia del frontismo a spingerlo a tanto; di certo lui, che si sentiva di appartenere ad una sorta di elite artigiana, riusciva a parlare bene più del P.C.I. che del suo stesso partito. “Vedi, mi diceva, io sono un socialista che non ha mai fatto tanta differenza tra P.S.I e P.C.I., perchè qui a Caposele siamo sempre vissuti come in una sola famiglia. semmai mi dà fastidio quest’imbroglio che chiamano centro-sinistra e che serve a dividerci e a fare il gioco dei democristiani. E poi, se proprio devo andare alla D. C. non c’è bisogno che ci portino gli altri”. E se tentavo di fargli rilevare la sua contraddizione sbottava: “Tutte balle! I comunisti sanno quello che vogliono e io voglio la stessa cosa e se il P.S.J. non cambia strada, la cambio io: Voto falce e martello, tanto prima o dopo nascerà pure il partito delle sinistre, dopo che la D. C. avrà distrutto il partito di Nenni”.
38 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Avevo su per giù sedici anni quando conobbi un vero comunista. Si chiamava Peppe e di tanto in tanto veniva a casa e si tratteneva con noi accanto al fuoco per ore ed ore. Inondava la cucina dì un acre fumo di pipa e parlava, parlava senza scomporsi, con una calma indescrivibìle. Raccontava di notti trascorse ad ascoltare Radio Praga, dell’ attentato ad un segretario di nome Togliatti e dello scatto d’orgog1io che pervase i comunisti d’ogni dove, pronti a scendere immediatamente in piazza. Parlava di un tradimento di Togliatti ch’aveva bloccato una rivoluzione possibile. Parlava della C.G.I.L. di Di Vittorio, di scioperi e di manifestazioni ad Avellino, di dirigenti provinciali che raggiungevano Caposele a piedi per metter su la Federterra. Quando, però, era colto in fallo, non rispondeva, ma si chiudeva in un mutismo che camuffava con un colpo di sonno. Non si arrabbiava nemmeno quando parlava delle angherie subite dai suoi, a causa della sua caparbia scelta di essere comunista, dei suoi figli sparsi in ogni angolo d’Italia in cerca di lavoro. Ritornava ad inorgoglirsi solo quando diceva che le pensioni, la scuola pubblica, l’assistenza medica erano una conquista del P.C.I. e non una concessione ... “Vedi”, mi diceva e io facevo finta di non capire, “io ho imparato a leggere e a scrivere in quelle poche ore di lezioni serali alle quali mi mandava mio padre. Ho strappato coi denti questo mio leggere sillabato alla scuola rurale di Palmenta, messa su più per pagare lo stipendio a qualche nobildonna decaduta che per insegnare a gente come me. Vedo ancora quegli occhi di vetro che sprizzavano disprezzo e mi bruciano ancor di più quelle bacchettate cariche di odio. E da ignorante, sono divenuto maestro tra gli ignoranti, insegnando a tanti compagni a scarabocchiare le loro firme, a copiare numeri, a distinguere figure e simboli, a calcare segni di croce utili nelle elezioni. Se non ci fossimo stati noi, dubito che oggi studieresti alle magistrali: il socialismo della falce e martello e libro per come sa lottare, e lo scudo crociato, per come vuole governare, al massimo t’avrebbero permesso di fare il fabbro come tuo padre. Noi Comunisti potremo pure non entrare nella stanza dei bottoni, ma sappiamo strappare conquiste anche stando all’opposizione; e questo basta”.
39 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Mio padre non parlava, ma gli si leggeva in viso la soddisfazione. Sentivo per la prima volta che quella umiltà e quella dignità sapevano farsi rispettare ed ammirare e che avevano forza più dell’ideologia stessa ... La prima volta che salii le scale della sezione P.C.I., assieme ad altri compagni fuoriusciti dal P.S.I., lo feci con riverente timore, pensando all ‘idea che mi ero fatto dei comunisti di Caposele. Ero curioso. Avevamo chiesto un incontro al segretario del P.C.I. e questo ci era stato concesso subito, alla grande, con una convocazione straordinaria del Comitato Direttivo. Nella prima stanza, dov’era sistemato il televisore, c’erano allineate alcune panche senza schienale e, in un angolo, una ingiallita poltrona di vimini stile coloniale. Era la poltrona di Angelo Raffaele, un non comunista che ogni sera era lì a guardare la televisione. Qua e là erano sedute una decina di persone, tra cui un paio di donne e alla nostra irruzione non si scomposero per niente. Dal buio di quella stanza ci trasferimmo nella seconda camera e lì ci trovammo improvvisamente in mezzo a una ventina di persone, per lo più anziane, pure esse s.edute su panche accostate lungo le pareti. Il segretario era seduto dietro un piccolo tavolo di noce addossato ad uno scaffale carico di libri polverosi: al suo fianco c’era il tesoriere. Non appena entrammo molti si alzarono in piedi a salutarci; solo qualcuno rimase seduto e scuro in viso: la sua recente iscrizione al P.C.I. e il ricoprire cariche amministrative gli conferivano uno status che gli permetteva di essere superiore ad ogni convenevole. In tutti quei vecchi compagni si leggeva la gioia e i loro occhi trasmettevano una commozione, quasi che si stesse avverando un evento atteso da tempo. In quel preciso attimo, stampati nella mente quei volti, capii che la nostra visita lì sarebbe stata una strada senza ritorno. Fummo fatti accomodare e, senza ulteriori preamboli, fu data la parola ad uno di noi. Gerardo, se non erro, parlò a lungo della nostra storia politica, dei nostri anni nel P. S.I., di quella prepotente voglia di fare, dei nostri venti anni che offrivamo ad un partito che avremmo voluto avere amico ed alleato. “Ma noi non abbiamo bisogno di alleati, disse il segretario freddan-
40 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA doci tutti. Noi abbiamo bisogno di persone che prendano in mano da comunisti questa sezione comunista, che è la più forte della provincia. Noi abbiamo bisogno di leve fresche che vogliano lavorare in questa organizzazione costruita con tanta fatica e tanta pazienza. Noi vi saremo vicini: tutto sta a voi!” Ci guardammo in faccia, un pò imbarazzati per un copione che avevamo previsto ed immaginato in modo differente; avemmo a mala pena la forza di dire che dovevamo consultare alcuni compagni assenti e che a breve ci saremmo rivisti. E così mi ritrovai nel P.C.I.; è proprio vero che comunisti si diventa, e io aggiungo, quasi per caso. Quel mondo fino ad allora non conosciuto si apriva a noi nella sua schiettezza e nella sua umiltà. Era un partito che da sempre governava il Comune, ma non praticava il potere, fino a delegare ad altri il gusto del comando; era un partito al quale addirittura dava fastidio ricordare che essere forza di maggioranza quasi assoluta imponeva ruoli più decisi e coraggiosi nel governo del paese. Come guidati da un’ arcana saggezza, sembrava che si muovessero secondo una regola per cui la loro forza elettorale locale doveva essere necessariamente e inversamente proporzionale alla capacità di condizionare l’Amministrazione: e i voti politici, tantissimi, erano più importanti di cariche sindacali ed assessoriali, perchè congeniali ad un disegno nazionale utile alla lontana Roma e all’alquanto distante Avellino. E, allora, le candidature provinciali e nazionali erano cose di scarso interesse. Colpiva, ancora, quell’ ossessione dell’ assistere chi avesse bisogno, quel lavorìo incessante di formiche nelle ore serali, quella prodigalità nel mettere se stessi al servizio di quanti lo richiedessero. “E’ questa una delle ragioni della nostra forza: un funzionario del P. C.I, della Federterra, della C. G.I..L. vale, dicevano, se riesce a rendersi utile a quanti chiedono un aiuto che altri concedono solo a costo di una umiliante soggezione. Servire prima i cittadini e poi i compagni, obbliga chiunque a prendere atto della nostra diversità e a far comprendere che non siamo quei mostri che ci dipingono e che non meritiamo discriminazione nè a Caposele, nè a Roma” . Quelle serate di “acclimatamento” alla sezione comunista si rivelavano una miniera di conoscenze e, scavando scavando, venivano alla luce
41 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA le storie individuali di ciascun compagno. Capivi che si diventa comunisti più per necessità che per raziocinio e avvertivi, pure, come i percorsi personali e familiari di ognuno fossero forgiati dalle ingiustizie subite in una società che non sapeva dare speranze. Ecco, allora, Rocco Iannuzzi con le sue esperienze di rivoltoso antifascista per quella dannata difesa delle acque che ogni vero caposelese ha nel sangue; la sua lezione a non fidarsi di nessuno e il suo appello per un lavoro rigoroso nel partito. “Bisogna fare il soldato, prima di fare il generale!” ci diceva bonariamente ma fermamente ogni qualvolta volevamo forzare la mano e i tempi per imporre i nostri punti di vista. “Abbiamo allevato questo partito con il latte degli uccelli” ci rammentava Tore Viscido, quando avvertiva che l’unità della sezione era in pericolo e che tutto potesse sfasciarsi da un momento all’altro. “ Ci vuole tanta pazienza” diceva Antonio Merola, vecchio partigiano titoista, quando voleva convincerci sul fatto che oltre la ragione e le idee, serviva anche la capacità di persuadere la maggioranza. E Raffaele Cibellis, sornione, taciturno, avvolto nel fumo della sua pipa, sempre lì pronto a sferzarci ad un lavoro umile prima di fantasticare su tattiche e strategie. E le certezze di Peppe Cifrodelli davano coraggio a chi era sul punto di stancarsi e lanciavano l’allarme affinchè non si tornasse indietro. Lo ricordo alternarsi nel racconto a Gelsomino Cuozzo e parlarci delle affollate assemblee con Pietro Amendola o di Pietro Grifone che si spingeva tra i casolari più sperduti, di un mitico milanese di nome Luciano, del compagno Vuotto. Parlavano di un giovane compagno di nome Stefano, meticoloso e puntuale nel suo lavoro come un orologio, e delle sue serate all’ Albergo “La Rosa” trascorse a ragionare di politica con Amerigo Del Tufo, Caprio e altri ancora. Si discuteva delle novità del momento, delle difficoltà e dei pericoli in agguato, della necessità di resistere in trincea in un’Irpinia condannata ad essere democristiana. E allora Caposele appariva, nei loro .ragionamenti, un’isola felice, un’oasi della sinistra. Quando s’accendevano quei ricordi, i narratori ci sembravano testimoni di una storia straordinaria e di un partito che non aveva eguali. E, allora, la nostra breve militanza nel P.S.I. appariva poca cosa e non poco condizionò i rapporti coi nuovi compagni.
42 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Erano state aperte a noi tutte le porte possibili, però quel passato, nei momenti di aspro scontro, ci veniva puntualmente rinfacciato. Certo, perduto il pelo, non perdemmo l’antico vizio socialista e, insieme alla voglia di cambiare tutto e subito, introducemmo il principio della differenziazione come metodo di lotta politica in un partito che non consentiva che fosse infranta l’unità. E fummo più di una volta salvati da quei panzer della Federazione cresciuti attorno ad Antonio Bassolino. Da D’Ambrosio, Fierro, Simeone, Enrica Rocco imparammo che la stagione più esaltante del P. C.I. irpino doveva smuovere pazientemente le acque, ma mai scatenare pericolose tempeste utili alla potente D. C. avellinese. Ricordo le battaglie referendarie, le provinciali del ‘74, le amministrative del 1975. Alcuni di noi vissero l’esperienza consiliare per un quinquennio. Anni di scontro dialettico mai condotto oltre i limiti e le regole della politica. E in quegli anni scoprimmo, dopo averlo aspramente combattuto, il Sindaco galantuomo, che altri ci avevano insegnato a demonizzare, e di cui apprezzammo l’intelligenza, la dedizione, il vincolo all’onestà e la forza formidabile di saper assumere ogni responsabilità, personale o morale che fosse. Crescemmo politicamente in quegli anni, sotto l’occhio vigile e discreto di quella sezione e di quei compagni. E vivemmo, con quei compagni, l’amara sconfitta del nostro partito nel 1980. Furono mesi terribili che consumammo in un indescrivibile silenzio assieme a quei compagni che non avevano mai conosciuto sconfitte domestiche. Poi, il terremoto ... quasi a marcare la chiusura di un’epoca.Un sussulto tremendo di un minuto e mezzo sbriciolò in un batter d’occhio l’antica prua su Via Roma. Fu un’ ecatombe, di quelle che capitano a chi caparbiamente vuol tenere aperta la sezione ogni sera, di quelle che capitano a chi crede che nonostante tutto i partiti siano importanti. Non c’erano, quella sera, gli ammiragli: una riunione di direttivo rinviata all’ultimo momento, li aveva trattenuti altrove. C’erano solo i soliti marinai a discutere del più e del meno. Si disse che scavarono con le mani tra quei cumuli di pietre e calcinacci, inseguendo voci doloranti di compagni che abbracciavano i corpi esanimi di compagni ch’ avevano accanto.
43 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Il mattino seguente mi spinsi verso quel sito: i marciapiedi ospitavano, come un sacrario, otto corpi dal volto intriso di sangue e di polvere, mentre alcuni giovani inchiodavano rapidamente delle tavole a mò di bara. Di buon’ ora era stato visto lì aggirarsi, in una commozione indicibile, un giovane di nome Bassolino: s’era chinato e aveva raccolto tra le macerie brandelli d’una rossa bandiera ricamata in oro e alcuni quaderni contenenti verbali di direttivo. Chiedeva a dei passanti di noi e del suo partito, di soccorsi non ancora giunti, della necessità di rimboccarsi le maniche di fronte ad uno Stato che aveva fallito. Preannunciava l’arrivo di centinaia di volontari ... Spuntavano tra quelle macerie i legni squarciati dello scaffale e della scrivania, la vecchia poltrona di vimini, qualche panca, pezzi di soffitto tessuto di canne. Le vecchie bandiere rosse accuratamente riposte nello stipo a muro, erano ora infisse qua e là e si srotolavano al vento. Quel luogo era vissuto con la devozione di un santuario, mentre i vigili del fuoco erano intenti nel loro lavoro. Un luogo da rispettare per i comunisti. E lì si fermò con orgoglio il compagno Fernando Di Giulio; lì si attardò silenzioso il compagno La Torre con lo sguardo inchiodato a quel disastro e con la mente volta al Belice. Lì, infine, volle trattenersi Berlinguer in un assolato pomeriggio di febbraio, accolto da una folla enorme, mentre col cuore in gola Donato Mazzariello gli porgeva il suo saluto a nome di quei formidabili, vecchi compagni di Caposele.
44 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Già ai primi di dicembre cominciava il conto alla rovescia dei giorni che mancavano al Natale. E così rimanevi, per ore ed ore, con lo sguardo incollato al calendario che penzolava alla parete dell’aula, dietro alla cattedra. Misuravi l’appropinguarsi dell’evento dal crescendo di decorazioni che inghirlandavano ed impreziosivano quello stanzone. Era lungo e faticoso quel rito che si ripeteva anno dopo anno e spesso ti chiedevi a cosa servisse quel puntiglioso indaffararsi, se poi la scuola sarebbe rimasta chiusa per una quindicina di giorni. Era, invece, certo e scontato che alla ripresa delle lezioni, tutti quei ghirigori di carta velina, quei nastri colorati e il presepe affondato in un muschio ammuffito, ti avrebbe addirittura infastidito. Il piacere dei ricordi non è mai intenso e gradito quanto quello dell’attesa di una ricorrenza. Nel chiuso dell’aula si lavorava alacremente per almeno quindici giorni a rimpinzarsi di nenie e filastrocche, di amene poesiole zeppe di zampogne e di angioletti. Che fatica! E tutto in attesa di una improbabile visita del Direttore. Ricordo che un anno il maestro si spinse un pò oltre, per dare un tocco di novità e originalità, con il Natale di Ungaretti che ci lasciò un pò d’amaro in bocca, pensando che avremmo dovuto spiattellarla a tavola nel giorno del Natale. Ma subito si corse ai ripari con la solita Milly Dandolo... A quei tempi dicembre non scherzava, era serio e in linea con le previsioni di Barbanera; freddo secco, vento gelido di montagna e neve, a giorni alterni, ad imbacuccare i cocuzzoli circostanti. Il mio Natale
45 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA A pensarci bene la neve, però, era un chiodo fisso specialmente negli ultimi giorni di vacanza; in fondo si sperava di rimanere a casa anche dopo l’Epifania... ma questo non accadeva quasi mai. Accadeva sempre, invece, che il 23 dicembre era una giornata scolastica tutta dedicata ai commiati e agli assegni di compiti. C’era un gusto inconfessato di tortura in quella montagna di compiti che puntualmente non erano del tutto svolti e che, al rientro, puntualmente non erano corretti: essi servivano solo a conquistarsi “sul campo” qualche scappellotto per avere infranto un ordine tassativo, ma a nient’altro. Il ventitrè aveva un fascino particolare; di certo era più bello, per sensazione, della stessa giornata di Natale, tanto erano le attese accumulate. Il Natale a Caposele, a quei tempi, non aveva bisogno di marcati segni esteriori per caratterizzarsi. L’albero, ad esempio, era una stravaganza urbana bella e buona, di cui si sentiva parlare confusamente: una stupida usanza di chi distruggeva piante per il solo gusto di distruggerle rinunciando ad un’utilità futura nota solo a chi consumava quintali e quintali di legna durante il rigido inverno. E meno che mai si sapeva che cosa fossero i festoni, le stelle filanti e le palline di vetro. Eppure il Natale lo avvertivi nell’aria; ti si appiccicava addosso coi suoi profumi, i suoi aromi inconfondibili, i suoi odori naturali, i suoi colori stagionali. A me piaceva affacciarmi di tanto in tanto nella bottega-emporio di Titina per dare un’occhiata alle statuine di terracotta. Erano statuine molto approssimative ed incerte nel modellaggio, dai colori opachi, spenti e stemperati. Erano messe lì, alla rinfusa, accatastate tra casette di cartone in una scansìa di legno, tutta sgangherata e stretta tra sacchi di fave secche e sacchi di zolfo. In quel disordine, però, riuscivi ad abbozzare con la fantasia l’idea minima di presepio che ti saresti potuto permettere. Di tutt’altro aspetto e fascino ti appariva quello allestito nella Chiesa Madre... ricordo... esso occupava l’intero angolo della navata laterale a destra dell’Altare Maggiore. Il suo valore scenografico era pressocchè irrilevante per il sovraccarico di cartone, muschio, licheni, pungitopo e vischio e per quell’abbondare di paglia, stoppie e brecciolino. Non reggeva minimamente al paragone di quello allestito dai Liguorini di Materdomini.
46 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA A Materdomini c’era la mano esperta e paziente, una visione artistica di quei cieli trapuntati di stelle, del gioco di albe e tramonti... i mulini ad acqua, le cascatelle, fiume e mare luccicanti e tremolanti; i tanti pastori in movimento e gli angeli di cartapesta librarsi misteriosamente in aria su una capanna attraversata da una luce soffusa... No, quello di Caposele risentiva della mano inesperta e pesante del vecchio sacrestano al quale, anno dopo anno, per inerzia e consuetudine, era delegata la improcrastinabile incombenza. Quei materiali poveri, assurdamente anonimi ed infantili, quasi da paesaggio irreale della pittura fiamminga del fine 500, se colti nella loro globalità finivano per esaltare e dare una ragione di esistenza alle numerose statuine del settecento napoletano che affollavano la scena. Le ho tutte stampate nella mente, una per una. Quello sì che è un Natale che mi manca; chissà in quale casa esse ornano vetrine di salotti perbene. Chi dimentica i loro volti scavati nella terracotta, i sottili crini di seta celati sotto raffinati copricapi, le mani e i piedi minuti, quei corpicini imbottiti di paglia, stretti in ricchi broccati e cuciti con fili d’argento e d’oro, i velluti, le camiciole di lino e di canapa... Mancava loro solo la parola: gli occhietti lucidi, le rughe e i larghi sorrisi davano voce al loro silenzio. Qualche volta mi capitava di immaginare che, di notte, nel chiuso della chiesa, quando le porte erano sprangate, esse, come i soldatini di Andersen, ritornassero a vivere, si muovessero, ragionando tra loro e gioissero per quel ritorno sulla scena seppure per qualche settimana... I l segno del Natale imminente mi era dato dal verificarsi di due puntuali eventi. Verso il 15 arrivava la lettera dello zio d’America con dentro un pò di dollari per tutti. La mamma, subito, la sequestrava, rimandandone la lettura alla sera: solo allora avrei saputo quanti dollari mi aveva mandato lo zio, ma, come una sorta di cambio fisso, a me toccavano quasi sempre mille lire. Ma ancora di più mi convincevo che la festa era alle porte, quando lo zio di Eboli mandava cassette di arance e mandarini, bottiglie di liquori e pacchi di spaghetti e vermicelli. Facevo a gara con i miei cugini a scovare in quelle cassette le arance maltesi.
47 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Era, inoltre, divenuto un rituale consolidato negli anni, la raccolta delle olive che, pur essendo un’attività tutt’altro che legata al Natale, coincidendo con quel periodo finiva per esserne parte integrante. Ogni sera, per circa un mese, i coloni trasportavano nei sacchi tomoli e tomoli di olive che, riversate sul lastrico, venivano voltate e rivoltate fino al giorno della spremitura. Montagne di olive lucide e gonfie nell’umido della cantina spandevano nell’aria un aspro odore. Era un lungo mese di agonia per quegli umili frutti, perchè era consolidata la convinzione che quel lungo compostaggio fino all’infradiciamento fosse utile ad una completa maturazione di quel prodotto e ad una migliore e maggiore resa d’olio. S’andava al “trappeto”, anche questa era un’abitudine, sempre tra Natale e Capodanno, quasi a propiziare l’abbondanza del raccolto e la soddisfazione per un lavoro ch’era stato duramente ricompensato. In quei giorni s’era tutti un pò più buoni e allora era forte l’augurio che il prezzo dell’olio che si formava “alla voce” fosse soddisfacente e remunerativo.In quell’olio c’erano riposte le speranze di tanti contadini i quali confidavano nel ristorare le loro magre finanze. Leggevi spesso nei loro sorrisi “tirati” i sentimenti di rabbia e di amarezza repressi dentro e t’era chiaro dai loro sguardi che il Natale lacerava le coscienze e depauperava gli animi dal senso di serenità e di pace di cui, a parole, tutti s’ubriacavano. Toccavi, allora, con mano la tensione di chi vi aveva consumato fino allo stremo ogni energia e di chi si faceva scudo dell’incontestabile diritto di proprietà. L’olio era un pò per tutti virtuale moneta di scambio in un’epoca in cui non si conoscevano pensioni, stipendi, salari e tredicesime. Quell’olio non si sperperava nè si disperdeva nei molli meandri di un consumismo allora ignoto: il suo ricavo era l’entrata certa di un lucido piano di economia domestica che, nelle sue uscite fisse, preventivava somme per pagare focatico, contributi agricoli, casse mutue. Altro che abbigliamenti e trasgressioni alimentari per celebrare una ricorrenza!... Il Natale aveva regole ferree tutte ancorate in una sorta di autarchismo che non ammetteva spese e acquisti, tutto doveva muoversi nell’ambito delle quattro mura e delle provviste di casa...
48 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA La grande cerimoniera del Natale era ovviamente la nonna; era lei e solo lei il punto di riferimento di ogni componente familiare, a lei ci si rapportava per ogni decisione e per ogni azione quotidiana. La settimana precedente il Natale era un via vai di amici, parenti e conoscenti che portavano in segno d’augurio i doni più disparati. Tra i doni di Natale erano i polli, le galline e i capponi a farla da padrone; qualche agnello e tante uova. Era sempre la nonna a decidere quali di questi animali andavano dirottati nel pollaio e quali trattenuti insieme allo sfortunato agnello per il pranzo del 25. Stessa sorte toccava alle uova: una certa quantità veniva conservata nella calce, il resto destinato ai dolci. Quando venivano tirati fuori dalla dispensa barattoli di miele, la cannella, i chiodi di garofano, era chiaro che l’intera giornata sarebbe stata impegnata a fare dolci e biscotti. Come in una catena di montaggio, ora dopo ora si susseguivano i vari impasti: prima i taralli, poi i “pezzetti”, gli amaretti e via di seguito; infine le zeppole e gli struffoli, fritti e riposti in ampi piatti piani su cui si versava un odoroso miele biondo. Si era, ormai, alla vigilia ed il grosso delle fatiche era fatto. Lavorava, invece, fino a mezzanotte ed oltre la fornaia di via Santorelli in quel terraneo infuocato come l’inferno; infornava e sfornava montagne di dolci, pizze alle acciughe e ancora taralli. Era sfinita e grondava di sudore il suo viso arrossato e quasi lesso. Il suo lavoro in quelle ore non conosceva soste e il suo stomaco vuoto non sentiva la fame. Il suo unico sollievo era sedersi per qualche minuto sullo scalino esterno ed asciugarsi quei rivoli che le rigavano il volto: non avvertiva per niente la sferza del vento gelido che veniva giù per il vicolo come torrente in piena. Quel tagliente refrigerio le faceva dimenticare per qualche istante lo stanzone nero di fuligine che luccicava alle fiammate che di tanto in tanto fuoriuscivano dalle bocche del forno. Le campane di mezzanotte l’avrebbero colta spossata e priva di emozioni e solo desiderosa di andarsene a letto e appagarsi in sogno al pensiero che i guadagni di quei giorni avrebbero dato di che sfamare la numerosa famiglia. Si accomiatava, però, solo dopo aver caricato di pane e di dolci i poveri vagabondi che l’attendevano in atto di elemosina sull’uscio del forno: il suo discreto atto di generosità, testimone la luna, avrebbe dato un senso a quell’umile Natale degli indigenti.
49 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Noi, intanto, fin dalle sette di sera eravamo già a tavola: si era almeno in venti. C’eravamo tutti e il primo pensiero andava a chi era nelle lontane Americhe. Poi, quella mensa, per un lunghissimo minuto era la tavola eucaristica che rinnovava la memoria di tempi più felici e che s’immaginava la presenza invisibile di chi non c’era più e che avremmo voluto accanto a noi. I grandi prendevano posto attorno al tavolo ovale, stipati come sardine, e i piccoli si sedevano intorno alla “buffetta” su degli scanni bassissimi. La tavola si arricchiva, minuto dopo minuto, delle portate: vermicelli al capitone, spaghetti alle alici, baccalà fritto, trote, peperoni all’aceto, frittelle di pasta lievitata (le chiamavamo rospi) e per finire struffoli, taralli da inzuppare nel vino bianco, frutta secca, castagne infornate, lupini. Ci si tratteneva fino a tarda sera a discutere, a raccontare, a ridere e scherzare. “E ora giochiamo a tombola”! Era il segnale per sparecchiare in tutta fretta la tavola e per lavare pentole e piatti. Tutto avveniva in un baleno. A quel punto gli uomini con le fiaschette di vino si ritraevano accanto al focolare e le donne e bambini si incollavano al tombolone, cartelle e mucchi di fagioli. Si stava sempre con l’occhio vigile per pescare qualcuno che barasse e con l’orecchio teso e attento al primo rintocco di campana che chiamava alla messa di mezzanotte. A quei rintocchi non c’era verso per trattenere le donne che frettolose si stringevano nei loro scialli; dopo aver affidato i bambini alla nonna, si riversavano in strada, nella speranza di giungere per prime in chiesa e guadagnare le panche migliori, quelle al riparo dalla fredda corrente notturna. Quell’ora era attesa da noi bambini come una liberazione. Si correva nelle stanze da letto e al buio si giocava a nascondino: la nonna non ci avrebbe mai sgridato o tentato di fermarci. I nostri nascondigli preferiti erano l’armadio a muro, il letto, la cuccia del cane. In pochi minuti si metteva tutto sottosopra. Non rinunciavamo mai a quel gioco, anche se sapevamo che al rientro delle nostre madri, tutto si sarebbe risolto in sonori ceffoni per i primi malcapitati.
50 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Arrivava, poi, l’ora della stanchezza e ci si addormentava sui sofà, sui cassoni e sui caldi scalini di legno... In fondo era questo il mio Natale ed il Natale di tanti altri come me. Esso nasceva e spirava in quelle poche ore, precedute dalle fatiche di quasi un mese. La giornata del 25 non ci interessava tanto; a ben ricordare era noiosa con tutti quei convenevoli, quelle strette di mano e quegli abbracci. No, era il 24 il vero Natale, con le attese e le speranze, la gioia di riuscire a colmare i vuoti, tutta quell’atmosfera semplice, irripetibile, quel mondo rurale di favola, quell’intrecciarsi di discorsi e ragionamenti. Il Natale era nel senso sociale della famiglia che quella notte rinnovava i vincoli di affetto e di serenità, bandendo tristezze, livori, cattiverie e spavalderie. Era un Natale di favola che esaltava il valore dell’umiltà in un’umanità che non voleva perdere le sue radici e che per una notte si riprometteva di non ascoltare le modernità che si facevano strada. Caposele ti sembrava bella dal di dentro, come sa esserlo un’anima incontaminata in un corpo indiscutibilmente affascinante. Natale era un focolare acceso e un mandarino asprigno, leccarsi le dita intinte nel miele o correre all’impazzata per un lunghissimo minuto con un “frùulo” che sprizzava tante scintille bianche.