51 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA “Entri, entri, Don Fedele e si accomodi!” L’arcivescovo pronunciò queste parole con un tono grave, ma incerto, quasi a tradire il disagio per l’ufficio al quale era chiamato. Egli, poco meno che settantenne, avrebbe di certo dovuto richiamare e bollare un ultraottuagenario per un comportamento che aveva ferito la Chiesa. Era giunto in paese ben presto di mattina, accompagnato da un suo collaboratore che fungeva da segretario. Dopo qualche convenevole scambiato in canonica con l’arciprete, s’era installato nel salone e quasi a cadenza di un’ora aveva ricevuto ed ascoltato il clero locale, incluso l’arciprete, ovviamente. Le audizioni erano interrotte dall’irruzione nel salone della sorella dell’arciprete, una sorta di maitresse che di tanto in tanto si introduceva lì con caffè, biscottini, bottiglie d’acqua o di liquore, sbirciava intorno, folgorava con sguardi penetranti i convocati e poi riguadagnava frettolosamente l’uscita. La cosa incominciava ad infastidire il prelato per cui, fu inevitabile che egli, prima ancora che Don Fedele entrasse, esigesse di non essere disturbato per nessuna ragione, come dire che cessassero quegli andirivieni esplorativi. “Si accomodi, Don Fedele, si accomodi!” ripeté l’arcivescovo. Il vecchietto, dalla sagoma minuta, ricurvo sotto il peso degli anni e dei tanti acciacchi, si sedette, scrutando la volta e le pareti del salone con la curiosità di chi non fosse stato mai avvezzo a frequentare quell’ambiente che pure avrebbe dovuto essere a lui familiare per avervi trascorso in un modo o l’altro parte significativa della sua esistenza. “Bel tempo, Don Fedele! In questi principi di maggio la primavera è esplosa in tutto il suo splendore e così ci ha fatto dimenticare la durezza d’un inverno che sembrava non finire più. Come si fa a non dire che in quest’ordine non ci sia la mano previdente del nostro Dio Padre che organizza tutto in una successione a lui solo nota e che noi percepiamo ed apprezziamo solo negli effetti...”Mentre l’arcivescovo si crogiolava in Il cielo era tappezzato di stelle
52 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA queste riflessioni, Don Fedele navigava col pensiero altrove, attendendo prima o dopo di approdare al dunque. “Che mi dice, Don Fedele? Non è d’accordo?” proruppe il prelato. “E come non potrei non essere d’accordo? Dall’alto dei miei 86 anni queste considerazioni hanno ricevuto conferma anche dall’esperienza e su un punto sono più d’accordo che su altri: la Provvidenza divina disegna i percorsi degli uomini e delle cose con una finalità che non può essere che positiva ed accettabile in quanto proviene da Dio...” disse don Fedele. “Ma veniamo a noi...” disse l’arcivescovo “Come ella ben sa, noi ci siamo recati qui di buon’ora per adempiere ad un compito increscioso ed in parte doloroso, il quale esula dalle normali incombenze delle visite pastorali, alle quali un rappresentante di Cristo sulla terra ambirebbe essere chiamato. Noi non siamo qui per visitare il generoso e amatissimo gregge caposelese, della cui cura noi siamo sempre in fiduciosa apprensione, ma per visitare una volta tanto, i suoi pastori, i custodi del gregge e per verificare la loro tenuta, la loro dedizione, il loro impegno, le loro solide convinzioni. Noi crediamo che non si tratta tanto di capire quanto piuttosto di impartire inequivocabili direttive chiamando tutti ad osservarle e a praticarle, dopo i fatti incresciosi verificatisi; ... Come ella ben sa, la Chiesa di Caposele ha subito un oltraggio, o se vuole, un’offesa ed un torto gratuito. E quello che è più grave quest’oltraggio, per una sorta di fenomeno di risonanza, s’è riversato sull’intera Chiesa cattolica, apostolica e romana, minandone la sua rocciosa credibilità e offuscandone l’immagine in tempi di per sé già difficili ed incerti. L’Ecclesia romana ha la sua essenza nella parola di Cristo che deve essere tutelata in ogni tempo e in ogni luogo, affinché non ne sia indebolito il suo messaggio e la sua forza di penetrazione. Questo patrimonio immenso di cui non tutta l’umanità ne apprezza il valore, ci è stato detto, deve essere difeso sempre e sempre attestato sul principio di autorità conferito dal Figlio dell’Uomo ai suoi apostoli di ieri e di oggi. Tu es Petrus... Ricorda? Attaccare questo principio basilare, strutturale significa minare il fondamento su cui è edificato il tempio di Dio, sapendo che il fine del Demonio è fiaccare i pilastri di questa organizzazione, affinché essa rovini sui suoi ministri e li elimini, inaugurando una stagione di proselitismo all’insegna dell’antievangelizzazione. I nostri sono tempi duri in cui l’ateismo si combina con le più varie forme di razionalismo,
53 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA di storicismo, perfino di spiritualismo spericolato e inietta veleno e dubbi in quel gregge senza del quale noi non saremmo pastori... Sarebbe la fine, don Fedele, se noi con i nostri atteggiamenti, con i nostri comportamenti, con la nostra liberalità ci prestassimo ad essere strumenti inconsapevoli di un disegno demoniaco... Vede, ad esempio, con quanta superficialità e, direi, malignità un pretore scagiona dei facinorosi che hanno trasformato una processione in una rivolta tumultuosa, facendo pagare il prezzo di una tale ignominia ad un ministro di Cristo, il nostro e vostro beneamato arciprete? Noi non vogliamo capire il come, il quando o il perché, quello che oggi è sotto i nostri occhi è la devastazione d’immagine che la Chiesa riceve da una sentenza che è causa di odio e di pregiudizio anticlericale. Questo Stato italiano ne ha fatti di passi avanti per reprimere le pericolose devianze affacciatesi all’inizio di questo secolo, ma non ha ancora sufficiente coraggio nel liberarsi di questi cancri interni al suo corpo che lo aggrediscono e lo distolgono dalla sua difficile ma non impossibile opera. Abbiamo l’impressione che il Fascismo non si sia liberato del tutto di certi vizi liberaleggianti che veicolano attraverso il laicismo pericolose teorie solo apparentemente innocue. Non sono solo il Socialismo e l’Ebraismo i mali da estirpare in questa Italia, ce ne sono alcuni più sottili ed impercettibili, spesso solitari che infestano il corpo sano della Nazione e che ostacolano la purificazione”. Don Fedele, con lo sguardo fisso a lui, ma assente, era, per così dire, impietrito. Non lo sconvolgeva tanto la scoperta di un pensiero prevalente che, per anni, s’era immaginato ed aveva colto per intuizione, quanto piuttosto quella notificazione in forma diretta ed immediata che costituiva di per sé già una sentenza di condanna. E pensava tra sé e sé: “Come si fa a dire che la giustizia umana sia sommaria ed incerta, se questa pronunciata dai ministri di Dio sulla terra, non ammette nemmeno atti istruttori? Qual è il senso di una punizione o di un pentimento, se la benedizione e il perdono, sono atti dovuti che prescindono da qualsiasi considerazione utile a capire i percorsi della mente umana e la sua materializzazione in atti e comportamenti?” Gli si pararono innanzi agli occhi, come un film, i fotogrammi della sua vita, i suoi dubbi, le sue incertezze, la sua benevola attitudine a comprendere le ragioni altrui. E si scandivano, a ritmi serrati, i tempi di una
54 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA un’intera esistenza consumata ad interpretare i valori di un Vangelo in cui Cristo era innanzitutto Amore, e Perdono... Pensò per un istante: “Dio mio, ho sbagliato tutto. Non ho capito niente. Si può essere eretici essendo atei e atei essendo credenti! Ma che gli dico a questo? Mi batto le mani sul petto. Faccio atto di contrizione, gli prometto di starmene buono, buono per quest’altri anni che mi restano e poi corro ad abbracciarlo in lacrime? Cristo, perdonami; chi avrebbe mai immaginato che alla soglia della morte, mi sarei beccato questa predica, sotto gli occhi di quello sbarbatello che scrive, scrive, scrive. Ma che scriverà se io non ho detto una sola parola?” Gli frullavano nella testa tutti questi pensieri ed altri che si accendevano e spegnevano come lampi, il cuore sembrava esplodergli e assieme al cuore la testa. Sentiva che i suoi occhietti neri roteavano come biglie. Ma non gli usciva una sola parola. Lo assaliva uno stato d’impotenza e di paralisi, si sentiva quasi inchiodato su quella poltrona. Una benedetta processione aveva scatenato un cataclisma e quel suo fottutissimo vizio di ricercare in ogni cosa una ragione lo aveva cacciato in un vicolo cieco che non s’era mai immaginato di imboccare. Vedi quanto costava difendere quattro squinternati contro un arciprete che si inebriava spesso delle sue funzioni, senza mai affidarsi al buonsenso e alla pazienza? “Don Fedele, Don Fedele, ci scusi, ma noi la vediamo assente. Non vorremmo pensare che abbiamo fatto tanti chilometri per nulla? Le dobbiamo confessare che, salvo la puntuale e puntigliosa relazione dell’arciprete, gli altri membri del clero caposelese non si sono spesi in lunghe elucubrazioni, ma quantomeno, ci hanno assicurato di condividere le nostre preoccupazioni, i nostri punti di vista, le nostre esortazioni... Ma lei sembra, per così dire, ammutolito, chiuso in un silenzio impenetrabile che non tradisce né atti di contrizione, né difesa dei suoi comportamenti... Noi non posiamo rimanere più qui in paziente attesa per molto altro tempo...” “Eccellenza amatissima, vi chiedo scusa”, esordì Don Fedele, “ma io ho una certa difficoltà a seguirvi nei ragionamenti, perché, vi sembrerà strano, mami sono ignoti gli atti di riparazione ai quali mi chiamate, ammesso che io debba riparare a qualche torto commesso. Io non so a questo punto nemmeno se mi chiediate che io esponga i fatti per come li ho vissuti e percepiti nella loro dinamica; non so nemmeno se è utile ed
55 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA opportuna l’esposizione al punto in cui siamo arrivati e per come voi avete già anticipato il vostro giudizio sul fatto. Di una cosa sono certo: io non ho arrecato alcun nocumento alla Chiesa che ho sempre servito con dedizione, per tanti, troppi anni. E alla mia veneranda età credo d’avere chiari sia gli insegnamenti della Chiesa sia il senso dell’obbedienza all’autorità e alla verità. Come in ogni processo che si rispetti, Eccellenza, una difesa eventuale deve essere anticipata da una contestazione, perché, voi me lo insegnate, non usciremmo da alcun equivoco se, fosse pure formalmente, non rispettiamo un canone... Vedete, Eccellenza, anche la tanto vituperata giustizia laica dello Stato italiano, almeno nelle procedure è impeccabile, sugli esiti e sulla sostanzeapotremmo anche non essere d’accordo ma, le ripeto, la forma qualche volta è sostanza. Non ricordo chi lo ha detto, ma se non mi sbaglio è roba nostra.” L’arcivescovo strinse vistosamente i denti, incrociò nervosamente le dita e alzandosi in piedi proruppe: “Veda, Don Fedele, noi siamo più che rispettosi della sua veneranda età, la Chiesa è stata sempre comprensibilmente generosa verso i suoi figli che hanno speso una vita al suo servizio, ma, mi creda, la nostra non è una società tribale che affida il giudizio e il senno ai soli anziani. Noi abbiamo una struttura piramidale in cui autorità ed obbedienza si combinano in un rapporto di subordinazione della seconda alla prima. Noi non abbiamo inteso chiederle e non le chiederemo cosa sia accaduto nel giorno del Venerdì Santo, perché cosa è accaduto è a noi noto, per i canali che riteniamo più opportuni. Quello che preme a noi sapere è se ella condivide o meno il principio del rispetto e dell’obbedienza ai propri superiori che è cosa differente dal giudicare fatti accaduti che noi, per puro spirito di adesione a quella che ella chiama contestazione di addebito, le esporremo, affinché ella non si faccia un’idea sbagliata della nostra missione. Lo scorso Venerdì Santo, come di consueto, le funzioni religiose sarebbero dovute culminare con la processione della Vergine Addolorata e del Cristo deposto dalla croce, statue bellissime, caro Don Fedele! Quel Cristo con gli occhi sbarrati nell’attimo successivo all’esalazione dell’ultimo respiro, tutto adagiato in bianchi lenzuoli-... E poi quella Madonna così espressiva stretta nelle sue vesti a lutto ricamate in oro, trafitta da spade e pugnali, con i suoi occhi grondanti di lacrime e dolore rivolti al cielo ...
56 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Che suggestione unica. Capisco l’emozione e l’attesa dei Caposelesi di unirsi in fiumana umana appresso a quelle statue e poi il lento procedere ritmato dai colpi dei “tocchi” e dall’alternarsi di voci femminili e maschili che gareggiano nel canto mesto che si confa a quelle occasioni. E poi le luci suggestive dei lampioncini che proiettano le loro lunghe ombre nei vicoli strettissimi del paesino, in questo presepe divorato da frane e circondato in ogni dove da rivoli d’acqua, un paese che sa essere anche Calvario... Si, questo è i1 coro classico in cui la processione è essenzialmente preghiera e pentimento, depurato dalle gioie e dall’ilarità di altre feste ove è facile debordare dalla devozione verso un irriverente atteggiamento paganeggiante. Capisco tutto questo, ma il caso ha voluto che quel Venerdì Santo è stato particolarmente piovoso, qui come in tutta l’Irpinia, e che la sera, seppure a sprazzi si squarciasse il cielo con pezzi di sereno, le nuvole non mancavano, nuvole cupe, cariche di altra acqua, nubi che non lasciavano ben sperare sebbene il vento della valle promettesse che il peggio era passato. In questo le concediamo che i contadini sono dei bravi metereologi. Avrete pure notato dopo la messa, le consultazioni frenetiche dell’arciprete che chiedeva che fare agli altri sacerdoti, quell’andirivieni sul sagrato a scrutare il cielo, quelle capannelle col popolo minuto, tutt’altro che concorde sull’evoluzione del tempo... Stiamo dicendo la verità, Don Fedele? L’ora avanzava e nulla si decideva... E’ vero che i Caposelesi sono abituati ad orari assurdi nelle loro processioni, ma è pure vero che oltre un certo limite è conveniente, comunque, non andare, caro Don Fedele. Come sempre accade, quando si deve decidere si è soli e allora è accaduto che l’arciprete ha deciso e nessuno del capitolo ha battuto ciglio, eccetto lei che ha rimuginato qualcosa, pare, di non troppo comprensibile. E l’arciprete ha deciso che non ci sarebbe stata processione. Dopo un’apparente calma che è stata interpretata come accettazione corale della decisione, è iniziato il mugugno, poi la protesta, le grida, le contestazioni, qualche parola fuori posto. Mi si è riferito che è volato anche qualche apprezzamento pesante sul clero locale, di cui ella è parte. Che cosa avrebbe dovuto fare Don..Donato ? Cedere alle pressioni scomposte di un volgo palesemente preso più dagli aspetti scenografici della cerimonia che dall’intima natura della funzione religiosa? Avrebbe
57 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA dovuto consentire che quattro perditempo, come novelli untori infuocassero quella plebe, la aizzassero, la ... ? Noi crediamo che l’arciprete ha fatto quello che era giusto fare invitando alla preghiera, all’interno della Chiesa, quanti, a torto o a ragione, si sentivano presi dalla sacralità del Venerdì Santo. E’ stato, forse, encomiabile ed edificante che degli sconsiderati si impadronissero della croce addobbata a lutto e, in assenza del clero, dessero avvio, ad un corteo dissacrante, di un pecorume che con le sacre processioni ha ben poco a che vedere? Lei se la immagina l’umiliazione alla quale è stato sottoposto il clero, lo schiaffo subìto, il pugno nello stomaco inferto? Un gregge senza pastore è un branco, caro Don Fedele! E’ una muta rabbiosa che si nutre di orgoglio, di superbia e di autosufficienza. E’ un pericoloso ritorno ad un passato scomposto e sconveniente in cui, grazie all’ausilio di Dio, si è messo ordine di tempo! Che cosa avrebbe dovuto fare il suo arciprete? Tollerare quella circostanza! Ha fatto bene a chiamare i carabinieri; avrebbero dovuto farlo altri, quelli che ella chiama Stato Italiano, le sue rappresentanze locali. Altro che denuncia di poveri cittadini! E se sono seguiti tafferugli e quei tafferugli hanno causato il ferimento di qualche povero malcapitato, non bisogna ricercare cause lontane, al di fuori dell’accadimento criminoso. La Chiesa è parte lesa in questi fatti e non l’attore di crimini! Ah! Questa giustizia italiana imbevuta di modernismi pericolosi che vuole scavare nelle menti umane per ricercare ragioni ed attenuanti e che riduce i fatti a semplici apparenze, a fenomeni soggettivì! Lei mi dirà, sono seguiti degli arresti: dei poveri padri di famiglia e qualche giovinastro sono stati sbattuti in gattabuia, a causa della denuncia dell’arciprete. Ma lei crede che questi padri di famiglia e questi giovinastri ubriachi di chissà quali idee e di quale credo, abbiano avuto un comportamento corretto? Quale pietà si può avere di loro? Quale rimorso dobbiamo sentire? Quali attenuanti dobbiamo riconoscere? No, Don Fedele, il perdono cristiano è qualcosa da non tirare in ballo su questi episodi.
58 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Il perdono cristiano è un atto unilaterale e misericordioso che concediamo noi e solo noi, previo confessione di un peccato, previo riconoscimento di un’offesa recata che serve per ricondurre l’uomo al giudizio finale di Dio, ma che non assolve da colpe umane tra l’altro perseguite da altri ministri differenti da noi! Il perdono è un’indulgenza temporanea e gratuita che serve per non incattivire gli animi, per dare loro la speranza e la forza di ripartire. La Chiesa è tempio della certezza di fede, dell’obbedienza e delle autorità, non è una casa di beneficenza che “regala” il perdono. Ma, poi, le chiedo e termino... La folla può pure impazzire per un momento, perdere i lumi della ragione, eccitarsi come nei baccanali oltraggiando la forma e la sostanza della processione. La folla può anche parteggiare in una corte di giustizia per i suoi simili o presunti tali... Ma quale ragione può ispirare e guidare un prete a rendersi strumento di un complotto ordito e perpetrato contro un altro suo fratello al servizio di Cristo, almeno quanto lui? Lei ben comprende, Don Fedele, che la sua testimonianza in quel processo, tirata in ballo da non so chi, è stata decisiva per sentenziare nel modo vergognoso che ella sa... "Il cie-lo e-ra tap-pez-zato di stel-le!” Per assurdo vorremmo anche ammettere che il cielo quella sera fosse come la notte di S. Lorenzo, vogliamo pure riconoscere, come riconosciamo che durante e dopo quello scimmiottamento di processione, non piovve, non cadde nemmeno una goccia dal cielo. Ma mi dica! C’era veramente bisogno che quelle parole, così lapidarie da non prestarsi a nessun equivoco ed incomprensione, dovessero essere pronunciate da lei per essere rovinate addosso ad un suo fratello, oserei dire, ad un suo compagno di percorso che avrebbe dovuto difendere con affetto paterno... Si trattava in fondo, di declinare l’invito ad essere sentiti, se proprio non se la sentiva di scegliere tra fedeli riottosi che s’appellavano al tempo e un prete perbene che aveva adempiuto ad un dovere, non sorretto dal potere dell’infallibilità. Lei potrà dire: ma in gioco c’era il carcere per quei malcapitati e non il carcere per il nostro arciprete...
59 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA E’ vero, caro Don Fedele, è vero, ma qualche volta, quando sono in gioco i principi a fondamento di un’istituzione un poco di mesi di carcere a qualcheduno, fosse pure un innocente, non dovrebbero né sconvolgere coscienze né minare le ragioni di una giustizia che resta sempre terrena. La storia della nostra amata Chiesa è costellata di esempi ben più dolorosi che non hanno dato a papi e cardinali sponda di dubbio nell’agire. La verità umana rispetto a quella divina, spesso è pura verosimiglianza, anche quando essa nei suoi segmenti, nelle sue tessere di mosaico, nelle sue fragranze, è incontestabile. Noi serviamo una verità che sfugge alle leggi della logica, a quelle dell’evidenza, alle causalità ed effettualità, a tutte le contorsioni della ragione e del sentimento. Noi siamo sulla terra con poteri terribili ed illimitati che ci fanno essere e sentire superiori agli altri. Noi non siamo giudicabili nelle nostre azioni quotidiane, spesso sconvenienti, debordanti dalla etica comune. A noi è riconosciuto, seppure non proclamato, il diritto all’irresponsabilità umana, purché al servizio di un disegno divino. lo so a cosa lei sta pensando, Don Fedele: lei pensa alla vita privata di tanti preti che hanno giurato fedeltà a Dio, lei pensa ai loro arrabattarsi in attività negoziali, mercantili, al loro vivere che in qualche caso non è proprio sbarcare il lunario, lei pensa alla loro prassi, esterna al loro uffizio, che è distante anni luce dal Verbo che devono predicare e far avanzare nelle coscienze... Ci pensiamo, anche noi, che puri come vorremmo non siamo e non troviamo risposte adatte. Noi tolleriamo, tolleriamo, come altri tollerano noi, ma a noi non è dato il potere di scalfire nemmeno minimamente le fondamenta di questa Chiesa costruita in due millenni perché sia eterna e duri su questa terra almeno quanto durerà la terra stessa. Noi non siamo ossessionati dal Tempo degli uomini perché crediamo, dobbiamo credere in un tempo senza tempo, in una giustizia fuori dalla giustizia, in un Verbo, oltre il Verbo. Noi dobbiamo difendere e difenderci, perché senza di noi non c’è né futuro, né convivenza.
60 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Noi sappiamo di non essere giudici nemmeno di noi stessi e quindi di non poterlo essere degli altri. Ma sappiamo pure che tutte le nostre ottime ragioni e la nostra umanità devono tacere quando in gioco non siamo noi, ma la nostra storia millenaria che, glielo ripeto, Don Fedele, dovrà durare almeno quanto la vita su questo pianeta. L’arcivescovo si fermò di botto, a questo punto, e si sedette. Con piglio deciso si rivolse al suo segretario che da tempo aveva smesso di scrivere ed annotare, e gli chiese l’ora. Seguì un lungo silenzio, di quelli eucaristici, nessuno aveva voglia di alzare gli occhi da terra. Meno di tutti Don Fedele che aveva riacquistato il respiro, si sentiva sollevato, capì in quell’istante quanto pesante ed ingiusto fosse il fardello di un vescovo e quanto poco opportuno quel suo navigare a vista sul mare tempestoso della verità umana. Si riaccese in lui quel film che a flashes aveva divorato in un vortice di sequenze atemporali. In un attimo la sua mente si rimise al lavoro, montando e smontando pezzi di un pensiero che gli scorreva dentro come la corrente di un fiume poc’anzi in piena e ora quasi immobile. Ora egli era in grado di riselezionare e affastellare ricordi ed emozioni, avvenimenti ed episodi di 80 anni. Si sentiva più sicuro, lui che, qualche ora prima, sembrava pervaso da una cinési da novizio. Si alzò e si diresse verso l’arcivescovo; questi era già in piedi ed in piedi era pure il suo collaboratore. Seguì un abbraccio in silenzio; nessuno tradì emozione. Don Fedele, dopo un accennato inchino, si rivolse verso la porta. E in quel breve tragitto, pensando alla Chiesa, ritornò nella sua mente l’immagine familiare ed abusata, del fiume Sele coi suoi vortici e mulinelli che travolgono persone e cose, che frustrano la vegetazione abbarbicata tutt’intorno, che spazzano il prato, come una massaia nel dì di festa ramazza il lastrico. Tutto ad un tratto quel fiume ch’aveva superato gole e precipizi, ridivenne oleoso e calmo, lento nell’incedere spazioso di pianura, non più schiumoso, ma limpido e trasparente al punto di rifrangere sul pelo dell’acqua il suo sottofondo incastonato degli oggetti più disparati, lì sedimentati e custoditi come cimeli museali da sottrarre alla curiosità di visitatori attenti.
61 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Premessa Nella notte tra il 31 ottobre ed il primo novembre negli U.S.A. impazza la Festa di Halloween: gli Statunitensi non vi hanno rinunciato neanche quando erano tangibilmente scossi, dopo quel tragico Undici Settembre. Vero è che Halloween ormai dilaga anche nel Vecchio Continente e a nulla valgono le proteste della Chiesa Cattolica puntualmente impegnata ad arginare questo fenomeno di massa immediatamente a ridosso di Ognissanti e del Giorno dei Morti. La Chiesa, in tutta evidenza, sa che non si tratta di “un nuovo arrivo”, bensì di un indesiderato ritorno e questo ha preoccupato non poco, in un’epoca in cui il Consumismo sa fare di tutta l’erba un fascio. Pochi, infatti, sanno che Halloween affonda le sue radici proprio in Europa ed in un’epoca in cui il Cristianesimo non era nemmeno nato e se esso ritorna stravolto ed irriconoscibile questo, in fondo, è dovuto ad un districarsi della Storia tutt’altro che lineare. Quando le Religioni si muovono come carri armati per affermare la loro egemonia “storica”, distruggendo il passato appartenuto ad altri, finiscono anche per far piazza pulita delle sensibilità altrui, senza garantirsi, spesso, di colmare i vuoti. La storia di Halloween, da questo punto di vista, è emblematica e ripercorrere i passi, a ritroso, è utile a ricostruire identità disperse: nessuno, però, deve dolersi se in questo viaggio verso le origini dell’uomo, ci si imbatte in comportamenti “storici” poco esemplari. Tutti li Santi
62 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Al contrario, tutti devono rendersi conto di un fatto: le presunte superiorità di Civiltà non esistono, se si fa strage di quelle altrui, che se uccise, possono ritornare sotto forma di fantasmi, come nel caso di Halloween. Introduzione I versi che seguono, tentano, senza alcuna pretesa letteraria, di ripercorrere i rituali di una credenza locale che ormai è ad un passo dall’estinzione: la Processione dei Morti (31 ottobre). La meticolosa descrizione dello snodarsi di questa processione è stata attinta dal racconto di un’ottuagenaria, ormai passata a miglior vita. Il suo racconto, io ricordo, era nervoso e reticente, gravato da una sorta di interdizione “confessionale” in quanto disdicevole per una persona che dichiarava di essere una credente. Mi chiese (e le promisi) di non rivelare mai le sue generalità e a tanto mi attengo. Eppure non c’è niente di sconveniente in quel passare in rivista una serie di “anime” che si sgranano in una sequenza in cui i comportamenti in vita, per contrappasso, determinano l’esatta posizione nel cerimoniale descritto. Sicuramente lo scorrere di uomini e donne per schiere cela una voglia di giustizia terrena e svela la presunta preferenza di Dio verso le sue creature: in ciò, forse c’è un chiaro invito ai vivi a condurre un’esistenza rispettosa del consorzio umano. In tutta evidenza, poi, i dialoghi che seguono e la categorizzazione quasi dantesca dei morti, sono puro frutto della fantasia dello scrivente. Si cerca di far rivivere racconti e storie, ascoltate tantissimi anni fa e tramandate oralmente.
63 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Sono storie umane che non hanno alcuna attinenza con la cronaca, ridotta all’osso, fino a farle diventare degli stereotipi. Nel loro insieme, esse ci tramandano la percezione di singoli eroi ed antieroi da parte di un ceto popolare, il quale doveva sicuramente condurre una vita grama e su cui collassavano angherie e sopraffazioni. Dovevano essere sicuramente ricorrenti le azioni di ingiustizia perpetrate ai danni dei più deboli se questi ultimi si vedevano costretti a generalizzare e a categorizzare. Forte doveva essere la consapevolezza che la miseria, spesso, era alla base di tanti crimini e violenze commesse dallo stesso popolo “minuto” . Colpisce, infine, l’idea di giustizia popolare che traspare, soprattutto nella processione. In tempi in cui le impiccagioni erano all’ordine del giorno, metabolizzata la sacralità della Vita, seppure utilitaristicamente, la gente comune parteggiava contro la pena di morte. Infatti, era comune convinzione che il nodo scorsoio funzionasse solo con delinquenti di basso rango e la cosa non poteva essere digerita. Allora inserire nella processione “anime buone ed anime dannate” diventava utile per lanciare un messaggio disperato affinché i timorati di Dio non si macchiassero di un delitto-pena aborrito dallo stesso Padreterno. E qui la forzatura era evidente, atteso che la Chiesa nella sua versione temporale, non aveva mai escluso il ricorso alla pena di morte… L’autore, però, ancorché si vincola ad offrire uno spaccato storico, sociologico e psicologico, sente prioritario un altro compito, potremo dire, di tipo metalinguistico. Egli imprigiona i pensieri nel dialetto con la preoccupazione di preservarlo dall’inesorabile estinzione alla quale sono condannati gli idiomi “parlati”. E’ il caso di dire che la sostanza, questa volta, è data dalla forma e che i significati sono utilizzati per salvare i significanti. Chi vuol combattere, oggi, l’avanzata d’un pensiero unico che si muove come un bulldozer, allo stato attuale ha una sola arma: la resistenza passiva. Resistenza passiva significa difendere e garantire la sopravvivenza di tutto ciò che l’Uomo ha prodotto nei secoli soprattutto a livello immateriale. I prodotti immateriali, però, quando non transitano in una cultura predominante (che li codifica) rischiano inesorabilmente di scomparire. E’ il
64 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA caso della tradizione popolare e con essa dei dialetti. E’ stato dimostrato che nel mondo, tra lingue (e dialetti) marginali, calcolate nell’ordine di 5500, ogni anno ne scompaiono almeno un centinaio. Questa estinzione di sistemi grammatico-lessicali molto complessi si abbatte inesorabilmente anche sulle stesse tradizioni popolari di cui gli idiomi erano (e sono) la chiave di lettura. Lo stato di fatto attuale ovviamente non è casuale, ma è il risultato storico di un marcato esercizio di potere consolidatosi attraverso conflitti, invasioni, migrazioni e dominazioni di tipo coloniale. Si è verificato, così, che economia ed ideologia, di pari passo, dovendo imporre la circolazione dei “loro” beni materiali ed immateriali, hanno finito per distruggere le tantissime specificità periferiche fino a rendere vacua la stessa nozione bipolare di lingua e territorio (soprattutto là dove lingua e tradizione erano (e sono) affidate alla trasmissione orale. Questo lavoro, senza pretese, è appunto funzionale a questa lotta di resistenza passiva, affinché nessun patrimonio linguistico e culturale, per quanto insignificante, si disperda. E’ forte la convinzione che dialetti e tradizioni, infatti, preservano le origini di un’Umanità che si è sempre espressa esaltando le diversità. A ben scandagliarli nella loro potenza evocativa, mitica e metaforica si può riscoprire un’identità perduta o seppellita dalla cultura dei vincitori. Nei dialetti, ad esempio, si sente l’eco lontano di “comunità di destino che percepivano la natura come patria e bene indivisibile, irrinunciabile ed intangibile al pari di una divinità. Una natura non creata ma che crea (natura naturans), disse qualcuno rimettendoci la testa sul patibolo, in epoca in cui l’Uomo si eresse a suo padrone declassandola a bottino di guerra. Sentirsi padrone, forse, fu quello il vero peccato d’orgoglio che lo rese mortale agli occhi di Dio. Come si è detto, le comunità primitive avevano compreso il senso della complessità di un mondo che nei suoi cicli dinamici rifiuta la pietrificazione delle Verità, affidandosi ad un’evoluzione naturale e progressiva.
65 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA L’Uomo primitivo non sradica chi gli dà sostentamento ma lascia che il nuovo albero cresca accanto al vecchio dando vita a processi di rimescolamento; egli non ha paura del meticciato anzi lo saluta come il benvenuto perché gli garantisce comunicazione, comunità e comunione. Egli sente che tutti hanno una missione nella Natura di cui è parte e questo gli consente di stare coi piedi a terra e di non guardare esclusivamente al Cielo. Se questa concezione della Natura fu considerata un’eresia, l’unico modo per ucciderla stava nel condannare i suoi veicoli che nella fattispecie erano le tradizioni popolari ed i dialetti. La festa del Samhain Di Halloween si sa tutto o quasi, grazie ad un’esagerata “anglofilia” che ormai sembra aver conquistato, in modo sbagliato la Scuola italiana. Allora basta solo precisare che “All Hallows Day era l’antica denominazione dell’ “All Saints Day”. E’ risaputo: le antiche popolazioni erano solite prepararsi alla festa fin dalla vigilia (questo ce lo ha insegnato magistralmente Giacomo Leopardi), Quindi Halloween altro non è che l’Hallows’eve (la vigilia di Ognissanti). Tutto sommato, siamo ancora nella tradizione cristiana antica. Si dà, però, il caso, che presso i Celti (ma anche presso moltissime popolazioni del Mediterraneo) nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre ricorreva il “Samhain” meglio conosciuto come Capodanno. Il Capodanno, quindi, è una ricorrenza pervenuta ai Cristiani. Ma che cos’era il Samhain? Il Samhain era il momento più solenne dell’anno druidico, in un’epoca nella quale il tempo era calcolato sul ciclo della natura, di cui l’Uomo era parte e non signore; e alla natura apparteneva pure il firmamento (Sole, luna, stelle, ecc.). Il Samhain era quell’esatto momento (proclamato dai sacerdoti) in cui si presumeva che l’Estate morisse e nascesse l’Inverno; si festeggiavano gli ultimi raccolti auspicando un buon riposo della Terra (Tellus parit gravidaturque). I popoli antichi, meglio che altri, colsero il mistero della morte e della vita in una concatenata sequenzialità naturale e ciclica.
66 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA I popoli antichi avevano, per così dire, appreso, senza scomodare entità superiori ed estranee, un’unità esistenziale tra una Morte che contiene in sé i germi della Vita ed una Vita destinata a sciogliersi e a non finire. Gli studiosi oggi parlebbero di neotenia empatica. In questa logica, Samhain, divinità delle Tenebre, non incuteva paura anche quando nella notte a lei dedicata, richiamava a sé tutti gli spiriti dei morti ,senza eccezione alcuna. Le suddivisioni in buoni e cattivi non avevano senso,dal momento che quelle anime, avendo esaurito la loro missione in vita erano allertate dopo la morte, a riprendere il loro cammino nelle tenebre per ridare vita alla Natura. In tutta evidenza gli Antichi erano approdati a ciò che altri, più tardi definiranno reincarnazione o metempsicosi. Tutte le popolazioni dedite all’agricoltura e alla pastorizia (e non ancora conquistate alla lotta dell’Uomo contro l’Uomo per conquistare la Natura) ben sapevano quanto fosse radicale il passaggio dall’Estate all’Inverno, ma sapevano pure che ciò che nella buona stagione giungeva a compimento (i frutti), le avrebbe fatto sopravvivere nella brutta stagione. La cerimonia del Samhain doveva essere molto suggestiva per i suoi simboli liturgici. Intanto, era credenza che solo in quella notte le leggi del Tempo e dello Spazio fossero sospese (siste, Natura!) e fuori dal Tempo e dallo Spazio le anime (il vento che dà la vita) fossero autorizzate a ritornare sulla terra in processione per mostrarsi e comunicare ai viventi l’inizio della vita. Molti studiosi vi leggono un invito alla fecondazione: non è un caso che nella civiltà contadina l’inverno era suggerito per le gravidanze sicure e per le nascite nel periodo estivo. La liturgia del Samhain prevedeva che a mezzanotte il Vecchio Fuoco Sacro fosse spento e che, immediatamente dopo, fosse acceso un Nuovo Fuoco Sacro. Era quello il momento in cui erano “offerti” sacrifici alla divinità; poi si sarebbe danzato e cantato per tutta la notte e all’alba si sarebbe rincasati con torce accese al Nuovo Fuoco. Solo l’accensione del fuoco domestico, accompagnata dall’ulteriore offerta di cibo ed acqua, avrebbe guidato le anime verso l’aldilà.
67 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Quando i Romani raggiunsero le terre lontane del Nord, rimasero colpiti da quei riti, non tanto per la loro imponenza, quanto piuttosto perché, anche in Roma, e per un retaggio antico, nello stesso giorno più o meno ricorreva una festività identica dedicata a Pomona, dea dei frutti. Quello era, infatti, il giorno del Capodanno Romano, almeno fino a quando l’anno era suddiviso in dieci mesi. Dovettero intendersi subito Celti e Romani e così non ci fu motivo di contrastarsi: la festa di Samhair/Pomona si radicò nell’Impero e perdurò nei secoli successivi. L’avvento del Cristianesimo non lo scalfì affatto e meno che mai i tentativi di cristianizzare il paganesimo che pure furono numerosi fin da quando il Cristianesimo divenne religione di Stato. Il risultato fu che per molti secoli due “Capodanni” (quello cristiano il primo gennaio, l’altro celtico il primo novembre) furono costretti a convivere. Ciò si protasse per buona parte del Medioevo, complice, il Sacro Romano Impero, monopolizzato da dinastie franco-tedesche. Com’era prevedibile, il Samhain andava sempre più perdendo le sue caratteristiche di festa sacra con grande confusione tra i ceti più popolari che spesso finirono per impastare mito, religione, pratiche magiche ed esoteriche. Si pose per le gerarchie ecclesiastiche il problema non facile di ricondurre, senza forzature, il Samhain nell’alveo del Cattolicesimo. Così, Papa Gregorio II, nell’anno 835 posticipò la festa di “Tutti i Santi” già prevista per il 31 maggio per sradicare la romana Ludus Honoris et Virtutum “, al 1° novembre. Il tentativo, però, si rivelò, almeno per il Nord Europa inutile e così nel 998 giusto due anni prima di una
68 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA tanto attesa e tenuta Fine del Mondo, Odile, Abate di Cluny, aggiunse al Calendario Cristiano la Commemorazione dei Defunti per il 2 novembre. Anche in questo secondo caso le cose non andarono bene. La situazione fu presa di petto dai Papi Gregorio IV e Sisto V che imposero le due festività cristiane in tutta le Chiesa d’Occidente (1475 d.c.) (Erano tempi di roghi e streghe, non si scherzava con il fuoco!). Il Samhain scomparve in quasi tutta l’Europa, sopravvivendo , sub judice, solo nella Gran Bretagna che a partire da quegli anni, era impegnata in un’aperta contestazione della Chiesa Romana che di lì a poco avrebbe dato vita all’Anglicanesimo. E in chiave anticattolica il Samhain/Halloween approdò nelle Americhe grazie ai Protestanti inglesi. Così il cerchio si chiude almeno con gli U.S.A. Nell’Europa continentale, almeno in quella parte che rimane fedele al Cattolicesimo, vinta la battaglia, la Chiesa tollerò fusioni di antiche e nuove tradizioni, ma solo a condizione che “tutto rientrasse in canoni riverenti” verso la Fede Cristiana. Accadde che il compromesso produsse nuove manifestazioni in linea con i dettami della Chiesa. La fantasia popolare, come si sa, non ha limiti e così fu gioco forza che su una nottata (31 ottobre) si andò ad innestare una festa di Santi (1 novembre) ed una dei Morti (2 novembre). Così, su un’antica trama si mossero “nuovi attori” con i riti del fuoco, processioni, visite domestiche, offerte di libagioni e tutto il resto. In Italia, ad esempio, da Nord a Sud, fino a mezzo secolo fa era diffusa la credenza che nella notte compresa tra il 31 e il 1° novembre i Morti ritornassero sulla Terra in processione, visitassero le loro case e si trattenessero, non visti, con i vivi intenti a parlare dei loro defunti. Nel pomeriggio di Ognissanti, si celebrava, poi l’ufficio dei Defunti e poi una processione dei fedeli, partendo dalla Chiesa, avrebbe raggiunto il cimitero. Qui si sostava fino al crepuscolo accanto alla tomba per rincasare e recitare il Rosario accanto al fuoco. Solo dopo si sarebbe cenato con fave, lupini, castagne, rape, polenta, bevendo il vino novello. Era consuetudine lasciare la tavola apparecchiata con cibo, un secchio d’acqua ed una candela accesa alla finestra. Questo rituale avrebbe age-
69 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA volato l’accoglienza del parente deceduto, il quale si sarebbe trattenuto lì per tutta la nottata. Il giorno seguente ci si alzava prestissimo per andare a messa, non senza aver rifatto il letto per l’ospite invisibile che in tal modo avrebbe potuto riposare per qualche ora.Tutto ciò avveniva in quei giorni e secondo i canoni “tollerati”di una Chiesa che allertava parroci e vescovi affinché i rituali non risconfinassero verso il Samhain. Oggi è molto labile il ricordo di quelle tradizioni “negoziate” e si potrebbe dire che la Chiesa, la quale non conta il tempo in anni ma in secoli, ha avuto la meglio. Ciò è vero solo in parte. Più che la Chiesa, ha vinto un secolarismo post-moderno che nel suo tritacarne riduce a poltiglia tutto in una logica funzionale al solo consumismo. Il consumismo, piaccia o non piaccia alla Chiesa, ci ha riconsegnato il Samhain, non nella sua versione mitica e spirituale ma nel surrogato pericoloso di Halloween. Come a dire che non si deve mai gioire della Morte di religioni ed ideologie le quali caricano nei fardelli valori collettivi, se poi si resta solo in balìa di un’altra religione alquanto più pericolosa. La Religione del Mercato, ammette anch’essa la Fede e la Ragione ma solo nel senso che la prima sia un obbligo tout court e la seconda un arbitrio istintivo.
70 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA La prugission’ Appiccia na cannela a la f’’nesta Alluma casa toja cumm’a festa Oi ca eja la nott’ r’ tutti li santi Èss’n’ li muorti a ‘bbìa tutti quanti. A mezzanott’ fann’ la prugission’ R’an’m’ brutte ‘nziemu a quer’ bbon’: Vol’ne v’rè r’ case loru allumate R’ànme Sante cu r’àn’me rannate. Si mett’n nfila a lu Cammusandu Quiri r’abbaddi cu quiri r’ammondu Lu Patraternu a unu a unu s’ r’ conda E roppu r’ sbéja ‘mbieri a pp’ la Jonda. Annandi ‘ngi so tutti li criaturi Muorti ind’ a li fasciaturi Appriessu ‘ngi so li quatrarieddi ‘nziem’ a cummare e a cumparieddi. Ven’ne roppu uaglioni e uagliunastri ‘nziemu a uagliotte e a z’t’llastre E r’ femm’n scacate e li ziti Ven’ne prima r’ mamme e mariti. R’ bbecchie e li vecchi stann’ a la cora E si strascin’n’ ‘nnanzi sora sora E a la fina cumm’ tant’argianisi ‘ngi so tutti quanti li muorti accisi. Puru qua li ‘mbisi e li sciancati So tutti in fila cu li stinginati E li cristiani ca so muorti ‘nnucendi Fuje’n’ nnanzi a trar’turi e f’tiendi.
71 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Na vota a l’annu torn’ne’ a r’ case Vann’ a bb’rè chi ess’ e chi trase Vol’ne send’ a la lor’ memoria Nu requiameternu roppu nu gloria. Si la casa eia ra la cannela allumata Rìci n’ “Casa mia bella furtunata” E si la casa eia totta totta stutata Rìcen’ “Mal’retta casa uscurata”. Appiccela na cannela a p’ li Muorti E nun barà si er’n’ justi o stuorti Ca quannu puru tu si gghiutu ddà Si ra qua passi nun ‘zai cch’ pisci piglià A la Jonda “Rati sulu n’ucchiata a r’ cas’ vost’ Ra Capriumi finu abbaddi a la Costa! E roppu lest’ lest’e mogge-mogge Venitavenn’ totte a la T’’rroggia. Azzucculati ammondu, a p’ li Chiani: Chi è sturt’catu si ress’ manu a li sani. Quann’ siti a la curva r’ Santurielli Salutati r’ mon’che e li fratielli. Roppu a pieri cucchi e panz’ abbuttate M’pieri a p’ lu lazzarettu vi m’nati: Chi ten’ seta, na vepp’ta a ru M’nutu E trescass’ indu ra addunn’ è assutu. Ogn’an’ma si pigliass’ r’ quatt’osse E cittu cittu zumpass’ ind’ à la fossa”
72 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Riss’ lu Patraternu a tutti quanti A brutti e rannati e a bbuoni e santi. “Iati a lu iazzu mpanza a la Ionda! Nunn’è cchiù tiempu r’ fa la ronda!” Alluccau lu uardianu r’ li muorti A li pierilieggi e a li anghistuorti. La str’ppegna r’ l’uommini A lu Cammusantu s’er’n’ tutti arricittati Indu a fuossi e a cappelle s’er’ne nz’rrati, Quannu cumm’ a na pap’ra r’acqua salu A lu Patraternu assì nnanzi Pascalu. “E tu cch’ngi fai indu a sta ‘ngattinata Si l’an’ma toia è n’gora ngurpurata? Pascà, ra st’ parti nun gì so taverne, Cummiti, f’stini, mùcculi e linterne Puru si a stà festa t’n’vieni mmutatu A ccù nu palu app’zzutu si cacciatu. Statti addù si nnatu e si pasciutu E bbieni qua quannu lu tiempu è cungh’iutu Risse lu Patraternu cu tantu r’ pacienza. Rispunnìu Pascalu, senza ralli aurienza: “Ru sacciu cà l’ora mia nunn’è sunata E aggia ancora sbarcà jornu e nuttata. Si mi trovu qua, Patrusantu, Domineddìu E pp’sapè cch’ fina pozzu ffà iu. Indu a la pruggissiona nunn’era chiaru P’cchè lu bbuonu a cu lu tristu è paru E a pparta tutti quiri criaturi nnucienti
73 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA P’cchè tanta genta unesta è accù li f’tiendi”? “Ti cr’nzavi, Pascà, ch’er’ne ggent’ bbone Ma er’ne cumm’ noci quannu ‘ndona: Bella ra fora, pulita e stralucenta, Fracita ra indu, neura e puzzulenta. A stu munnu qua nun si fott’ lu zanzanu: Ru ruttu si pa’a p’ruttu e ru sanu p’sanu. Pascalu bbellu, chi a quiru munnu ha spurpatu Christu Qua r’adda cacà e s’adda rannà s’è statu tristu. Qua nun serv’ne nè v’lanze, nè v’lanzuni Qua abbasta cumm’ bascuglia, sulu n’upinione Pascà, crir’mi, iu r’ ppesu a uocchi e croci E nun mi ncant’ne nè r’ facci, nè r’ voci….. N’annu combinate r’ cotte e r’ crure Criature r’Ddiu? Ch’ bbelle figure! Chi m’rù feci fa a aità sti zaccuali Era meglio ca r’ lassava cumm’ annimali Quannu p’na mela rosa e nu mbustone r’ vacca Na mezza cirfosa a nu bbabbeu abblacca, Cch’ti puoi asp’ttà ra la sterpegna loru Cà s’apr’nu lu piettu e ti rannu lu coru? A quisti tu puoi fa tuttu queru ca vuoi, Sembr’ne palomme ma so’ gruoi Tali li carp’ni e tali so li vuscigli Tali so li patri e tali so li figli. Indu a la streppegna r’ Abelu e Cainu Adda t’nè peru lu lundanu e lu vicinu I’ la canoscu tutta ssà compagnia P’cchè so tutti piri r’ la vigna mia.
74 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ah, quiru figliu miu,si m’ avess’ ratu aurienza Si sparagnava quera bbella spartenza! Ma lu figliu ten’ semp’ la capa tosta, Cchiù lu cunzigli e cchiù li pieri mbosta. S’è fattu accire cumm’a n’ainieddu Ma mancu l’ha cangiatu lu luparieddu: Si stann’ scavann’ la fossa a ccù r’ man lor’ E queru ch’aggiu criatu a picca, a picca mor’. Lu munnu l’annu pigliatu p’munnuzzaru E scar’chene purcaria puru a lu maru, Tagliene e ranne fuocu a voschi e chiande Sorchiane pòvela, fumu e aria vumm’cande Iumi, vadduni e varricieddi, cch’ vr’ogna, So dd’v’ntati peggiu r’ na fogna S’accir’ne tra loru p’unu o rui ruppiuni E zuch’ne sangu a la genda cumm’ spurtigliuni La terra p’ loru è sulu na chianga: So vivi loru e nuns’ n’ fott’ne r’ chi manga. Si la trippa e la panza loru è abbuttata Nun li cale si quera r’ lati è arripicchiata. Rìcen’ cà lu munnu è r’ nisciuni E accussì li muorti r’ fama so miliuni. Rorm’ne schandati p’ tutt’ r nuttat’ P’paura r’ ess’ pigliati a mazzate…. P’cchè si si ruveglia chi è zamb’riatu Hanna iastumà lu iuornu ca so nati E nun mi sfuttessere quannu vene quer’ora, Nun mi pr’gasser’ cumm’ bon pastore: Si r’ pecur’ r’ Ddiu r’annu n’frest’cute’
75 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Eia corpa loru si roppu si fann’ lupn’ Ru peggiu adda venè a lu maluvarcu: Iu aspettu quiru iuornu… e nun sò parcu. E mi lassass’re stà cu frane e t’rramoti: Cu chiene, uerre, malatie e mar’moti Cchi si fotte farina e lassa a l’ati caniglia Queru ca à lassatu ddà, qua queru si piglia. Caru Pascalu, a quisti nun serv’ne lizzione: Nun serve a lu ciucciu lavarsi a ccù ru sapone Nu ru capiscen’ ca so m’bonda a nu palu? Vuddess’re indu a la vrora loru, senza salu! Parlammu nu zicu r’ quere bamb’nedde V’stute r’ jancu e ccu ddoie janch’ascedde; L’Angiulicchi So angiulicchi r’ Ddiu quiri criaturi E m’r’ pigliai cumm rose e fiuri. Cch’ ngi avienna fa indu a nu munnu stuortu Addu lu cchiù vivu, nun sape ch’è già muortu: Lu chiurnicchiu r’ Ddiu segli p’iddu lu bbuonu E lassa cà li f’tienti r’accir’ lu truonu. E nun mi rici ca so n’assassinu, Nun t’ la piglià mancu accù lu d’stinu. P’tutti quiri muorti n’gimma a la terra Lu Cielu nun c’entra, è la vita ch’è na’uerra. N’gè chi cumbatte cumm’a lu surdatu E chi s’ la piglia a ccu lu risgraziatu. Quera ddà, l’accirìu na vampa r’ fuocu
76 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ment’ la mamma zappava indu a nu luocu. E quiru criaturu ddà, ca chiangi e si lamenda T’lu stiniicchiau l’attanu accu na salumenda Quistu è muortu r’ fama, era nuru e diunu E p’ lu tata e lu tatonu era figliu r’ nisciunu. Laurienzu te l’à linziatu nu canu Ca li strunzilià facci, vrazze e manu Giseppu fu ghittatu indu a nu puzzu Quannu nascìu scartellatu e cu nu vuozzu Si tu vuò ca ti sfilu tutta la crona, La notta nun m’abbasta p’sta pricissiona Nu cuntu t’aggia rici e tu lu r’ dicu: Chi mi iastema, cerca nu n’micu P’cummiglià tutti li tuorti sui Vai a caccia a griddi e si trova li gruoi Pascà, iu tiempu ra perde cchiù nunn’ tengu Ma si vuò send’angora, iu t’accundendu, Ma roppu ca t’aggiu accuntantatu Iu ti salutu e tu t’ n’ vai bellu e rassignatu Lu preutu Lu viri ddà lu preutu r’ santu Laurienzu; Li piacienn crapietti, aini, uogliu e ngienzu: Facìa schamà mon’che, parzunali e sacrastani E r’ trattava juornu e nott’ cumm cani. Cch’ bbella lepp’la a pr’rr’cà lu Vangelu! Iddu strafucava melu e lati lu felu Chi si sposa la Ghiesa, adda t’nè crianza,
77 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Nunn’à ddà p’nzà a ru grassu e a la panza Nisciunu l’à urdinatu preutu p’ casticu R’rienti e r’ parienti adda esse nemicu Li luochi à la Ghiesa nisciunu rà strumendati P’enghie r’ gorge r’frati ziti o r’ n’zurati. L’argientu e l’oru r’ tutti li Santi Nun s’adda spatrià a n’puti sgargianti Certu li Santi nunn’ sann’ cch’ s’ n’ fa’ Ma chi r’à datu a la ghiesa, lu vole v’rè str’lluci ddà Mancu li maggi camulati, ngià lassatu: P’ quatt’ sordi r’à v’nnuti e mpaccuttati E p’accuità la genda e p’ mi fa fessu A’ mistu indu a lu pr’sebbiu quiri r’ gessu Pascà, p’cchè mi guardi e mi tarmienti Si zi preutu lu viri a miezzu a li f’tiendi? Certi prieuti s’ re ruma San Franciscu E creru ca lu Paravisu lu verenu accù lu sciscu! Li puliticanti e cumpagnia bella… Si roppu parlammu r’ li politicanti Si r’ ssigli nun ti spandi: manìi la seta o usi lu chiurnicchiu. Si furtunatu si n’salvi nu scachicchiu. Quannu ànna acchianà a la Cangillaria Prumett’ne ca ti schian’ne la via, Ma lu iurnu appriessu cà r’anne vutati Penzene a loru e nò a r’gorge r’ lati.
78 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Quannu è lu tiempu re l’elezziuni Salut’ne cani, atte e puru li chianguni; Quannu è passatu lu Santu e passa la festa, Si vot’ne r’ quartu cumme si teness’mu la pesta Quiri ddà canoscene sulu nu pattu: Chi oi mi aita, rimani lecca lu piattu. Tu ru ssai; r’aggiu rittu e rannu scrittu: La porta ru lu Cielu p’loru è nu culu r’acu strittu! P’ nun parlà r’ quer’ata bella compagnia Ch’anna stà luntanu nu migliu ra casa mia; Ricene cà ven’ne tutti ra famiglia bbone, Ma p’ li disgraziati so’ na malerizzione. Us’ne cilurvieddu, penna, carta e parlantina: P’enghi la sacca loru, quera r’ lati s’affina N’facci a loru si leggi nu cumandamentu scrittu: “Ngimma a li fessi, campa semp’ lu r’rittu!,, Ma iu p’ loru aggiu cunzatu nu bbellu iazzu, R’ mettu n’fila e cumm’ ièrmiti r’ ammazzu, R’ammanzu cu na vignastra o accù na corda è E v’rimu si lu voscu è salvu, quannu la crapa è vorda. La Putiara Passamu mo a Pascalina la putiara. Accattava a curmu e v’nnìa a vara, Maniava li pisi e li v’lanzuni, E mbarcava farr’tielli n’zemu a piscuni. Ma l’arta soia era la cr’renza: Ngasava la manu a cumpiacenza, T’accattavi nu chilu r’ maccaruni
79 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Tutti pirciati ra viermi e fruugliuni. Roppu nu mesu, quannu ivi a pà’à N’ truvavi cinga-sei ra scangillà: Scangillava e signava ndà la libbretta Facìa e sfacìa cumma na zannetta. Quannu a V’ntunora s’ntìa lu nduonu, Cumm’a lu lampu nzerta lu truonu, Si mp’zzecava n’facci a lu confessiunilu E vumm’cava p’ccati a filu a filu. Roppu ca s’avìa sciuppatu n’assuluziona. Sanda e virginella, si facìa la cumm’niona. Ssà genda tantu timurata r’ Ddiu Fa bbresca lò, ma no a l’uortu miu Si p’ lu Paravisu, abbastasse na conf’ssiona Addù m’ttesse tutta la genda bbona C’ha patutu p’quere facci r’ mpigna C‘hannu spurpatu tutti cumm’a na tigna. Lu Paravisu nun po’esse lu iazzu p’ tutti: Qua tenene liettu quiri ca so stati distrutti Ai voglia r’ fa nuvene, rusari e giaculatorie, Vatascia quant’anni c’hanna stà a lu Pr’atoriu E a lu Pr’atoriu lu tiempu lu contu iu, P’questu so Patraternu e p’ questo sò Ddiu. La v’lanza r’stu patronu tene pisi gravi: La paglia pesa p’ paglia e li travi p’ travi. P’tte lu munnu è niuru e tristu Nun’ ti vai bbuonu mancu Gesù Christu! Sbuttà Pascalu tuttu m’prissiunatu: “Megliu si n’derra nisciunu fosse natu!”
80 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Gesu’ Christu Rissu lu Signoru sore sore rittu rittu Roppu s’azz’zzau e si sti cittu Ohi, Patraternu, bbellu e b’n’rittu Tu viri tutti stuorti e mancu nu r’rittu Sbummà lu Patraternu tomu tomu: « Laviti la vocca ccu quiru nomu ! » Piezzu r’ fauzonu e r’ risgraziatu, v’lu mannai e vui m’ l’aviti macillatu. Vui nun gi l’aviti fatta bbona mancu a Christu, E quann l’ànnu accisu, nisciunu s’è bbistu Quannu pr’rr’cava, r’parole soie e’r’ne melu E quannu muria r’ seta, n’già viti ratu acitu e felu Cch’facci r’ cuornu li figli c’aggiu criatu, Lu gigliu cchiù bbellu m’ l’annu sp’tazzatu! Iu n’gi ru dicìa a lu figliu miu r’oru: Statti qua e lass’re coci indu a quiru broru M’ n’annu cumbinatu cientu e na sporta Lass’re perde, a te cch’ t’ n’ mporta? Ma li cunzigli ca nun sò pagati Sò semp’ cunzigli mai rati. Puru ‘mParavisu li figli sò capatosta E pp’ ffa bbene, accussì si feci arrosta. “Patru miu”, iddu scunzulatu subb’tu mi risse” Tu m’è mparatu a t’nè semp’ nu chiuvu fissu. L’aita s’adda rà semp a tutti quanti Senza barà si sò cifri o si sò santi. Ti faci lu coru ra qua r’ r’mirà dà mbieri
81 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Quiri si scann’ne tra r’ loru, nu ru vviri? Iu nun creru ca roppu ch’à re criati R’ putimu lassà suli tutti stì risgraziati. Ru sacciu cà Musè nun già cria pututu E ca mancu l’ati prufeti so stati sentuti P’ capisci r’ leggi scritte, tantu tiempu n’gi vole, Mo n’ge la cantu a voci la capisciola. Mannìmi nderra, iu ngi vogliu ricità Nun creru probbiu ca mi vol’ne caccià. Ci vogliu iè ra omm’nu e no rà Ddiu E p’ tuttu lu riestu è sulu p’nzieru miu. Rammi na mamma, rammi puru n’attanu E fammi cresci cu loru chianu chianu Rammi tiempu r’addunà r’ pecure spatriate E t’add’rizzu chi è a la smersa e sturt’cate “Figliu, li ricietti” iu t’accuntentu Ma so sicuru ca vai a pr’rr’cà a lu vientu Li bbuoni pr’ cuozi nun ponne mai abbastà Si quiri ddà mpieri, nun gi mett’ne vuluntà “Vai figliu miu e fa tuttu a tuu piacimientu Fa loru puru miraculi a duzzine e a cientu Ma quannu mi spacienziu e ti sona l’ora Tu tuorni qua, puru si vuò rumanè angora” Figliu, li cunti anna f’là cumma l’uogliu E iu pp’tte aggià cumbina nu ngravuogliu T’aggia truvà p’mamma na virginella, Aggià spusà a nu viecchiu quera stella
82 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Sinò, chi re sente a tutti quiri r’moni Ricine ca Maria ha fattu rui matrimoni. A quera ggenta li piaci n’zuppà ru panu E vere zuoppu puru chi è r’rittu e sanu. Ma nu cuntu t’aggia rici e mi esse ra lu coru: Tu a quera santa femm’na li rai ruloru; Na mamma ca tarmenta lu figliu n’groci la fai murè cu tuttè, r’ lacrime e senza voci. Cch’è succiessu roppu, ru ssai a memoria … Caru Pascalu nu figliu accisu funutu n’gloria E mò ca qua m’ponta figliumu è turnatu Ra sulu s’ la v’resse chi nderra è r’statu! Tu vai ricenn’ ca iu tengu nu coru r’ preta N’gi pierdi salu e uogliu accù la genta r’creta La via p’ nu sgarrà Ma si ten’nu nu ciuluvrieddu ca è na meraviglia E’ corpa loru si l’annu intu r’ caniglia La vuluntà cha aggiu ratu loru è nu bastonu E iu l’aggiu rata a lu tristu e a lu bbuonu. La pirocc’la l’aggiu rata p’ si appuggià P’cchè mò la us’ne p’ si strafaccià? Ru sacciu ca pàa puru lu justu p’ lu p’ccatoru, Lu v’tieddu e la jenga cu la vacca e lu toru. Ma eia lu munnu ca mete a tresca e a casacciu: Quannu li m’tuti venene qua, iu mica r’arracciu. R’ segliu cumm’ fasuli a unu a unu E n’ fazzu ddui bbelli muntuni: Li bbuoni r’arricettu ngimma a nu supranu E li tristi r’agghiazzu mpieri a nu suttanu.
83 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Vattenn’, Pascà, ca mò si faci juornu E nun ti vogliu v’rè cchiù rà qua ‘ttuornu Queru ca t’avia rici, t’ l’aggiu rittu E chi sape leggi, rù trova puru scrittu. A lu juornu r’ tutti li Santi V’nitavenn’ puru a lu cammusantu M’niti puru lu iuornu r’ li Muorti M’niti a pr’à p’ r‘riritti e stuorti Nun serv’ne fiuri indu a st’uortu Nun sap’ cch’ s’ n’ fa chi è già muortu Nun serv’n mucculi e cannele P’cchè qua nisciunu tesse filu o tele Nun serve mancu tuttu quissu lussu: Qua si bara a la porpa e no a l’uossu. E nun serv’ne mancu tanta pr’iere Si roppu oi siti cifri cumm’a ieri Quiri ca stann’ qua nun vol’ne smargiassate Vulessere sulu ca r’paccìe foss’re passate. Indu a stu puntonu r’ luocu franusu Nun serv’ne lamienti a cchi è indù a lu p’rtusu Chi sotta a la terra è cuntentu o si ranna A chi è bivu nu cunzigliu sulu li manna: Si mi vò bbene e mi vuò t’nè mmemoria Nun fa mal’azziuni e recitimi quacche gloria Na bbon’azziona vale cchiù r’ cientu rucati P’tutti quiri ca la sorta ha cundannati S’adda capisci ca cu la Morta cangi. E chi nderra ha rurutu, qua adda chiangi.
84 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Non s’erano mai viste dispiegate tante forze dell’ordine a Caposele, nemmeno nel giorno in cui il Principe ereditario s’era recato a visitare il Santuario di Materdomini. Il paese era sott’assedio; non era difficile bloccare gli accessi al borgo costruito nel budello di una valle stretta tra il fiume e il monte. Erano state sbarrate con veri e propri posti di blocco anche tutte le stradine rurali che, a ragnatela, stringevano il centro fino a qualche giorno prima sonnacchioso ed indifferente. Quel che più si temeva era un’improbabile calata di contadini dalle campagne circostanti e dai paesi viciniori. Sfuggiva alle autorità il fatto che il problema dell’acqua era avvertito dai soli abitanti del capoluogo, ove essa sgorgava un tempo copiosa. Certo la notizia s’era sparsa un po’ dovunque e tutti, nei dintorni, erano incuriositi dall’epilogo di una vicenda che diventava di giorno in giorno più preoccupante e che avrebbe potuto avere anche sbocchi drammatici. S’era in pieno periodo fascista e in quel lembo d’Irpinia, come d’altro canto in quasi tutta l’Italia meridionale, il regime era percepito come governo amico e prodigo verso regioni che avevano atteso invano da troppo tempo il loro riscatto e la loro rinascita. Nessuno avrebbe mai osato immaginare che il Duce e il suo apparato avrebbero usato la mano forte verso un paese generoso che aveva già rinunciato a gran parte del suo futuro e che, in fondo, difendeva il suo diritto alla sopravvivenza. Certo, anche lì giungeva l’eco di episodi di violenza scatenati nel Nord Italia, ma, per atto di fede, ogni azione di repressione era giustificata come Non si vende, non si vende
85 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA risposta inevitabile contro comunisti e socialisti sabotatori di una nuova Era che s’apprestava a costruire un futuro radioso per tutti gli italiani. La stessa avventura bellica, in cui si stava cacciando l’Italia, nonostante non fosse stato dimenticato il tributo di sangue pagato alla IV guerra d’Indipendenza, era vissuta enfaticamente come coraggiosa ed orgogliosa ribellione di una Nazione che chiedeva un giusto riconoscimento nel panorama politico internazionale. E allora la fiducia nell’imparzialità fascista, piuttosto che spegnere gli ardori, finiva per dare esca alla protesta. Non appena, un giorno d’aprile, era circolata la notizia che l’Acquedotto Pugliese s’apprestava a captare le ultime acque del Sele già destinate agli usi civici, il paese sembrò ribollire e ritrovare un’unità d’intenti e di vedute sconosciuta in passato. A nulla erano valse le rassicurazioni del Podestà e del segretario del Fascio e il loro invito alla calma. Tutti, o quasi, ritenevano che l’ulteriore captazione fosse l’atto finale di resa ai Pugliesi. L’atteggiamento di cautela delle autorità locali era bollato come ambiguo e fuorviante, stanti le circostanze che le trattative andavano avanti in gran segreto da qualche mese e che nessuno aveva avuto il coraggio di renderle pubbliche in tutti i dettagli. Invero, almeno il Podestà, persona affabile e cortese, celava i propositi del Regime per sola prudenza, attento e preoccupato a non provocare incidenti irreparabili, facilmente strumentalizzabili dai grossi calibri che ormai erano scesi in campo. Qualche settimana prima s’era visto convocare a Roma da Storace, lui, un Podestà di uno sconosciuto comunello irpino. Storace era stato categorico: Caposele avrebbe dovuto cedere le acque residuali alla Puglia senza battere ciglio e tutti i passaggi burocratici erano delegati al Prefetto di Avellino. A nulla erano valsi i dubbi e le rispettose osservazioni esternate dal Podestà, al quale si ricordava che gli interessi della comunità locale erano cura esclusiva dello Stato Fascista e non di altri, tenuti semplicemente ad obbedire. I primi contatti con la Prefettura, seguiti all’incontro romano, non avevano smosso le posizioni divaricate, fino al punto che il Podestà era addirittura apostrofato come un silenzioso sabotatore di un accordo che stava molto a cuore a Roma.
86 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Il fatto, poi, che si parlasse di lauti indennizzi per quell’ulteriore prelievo, non faceva altro che confermare i timori dei più pessimisti, memori di altre vicende poco chiare in cui i comportamenti di passate amministrazioni non avevano certo brillato per trasparenza. “La storia si ripete” andava dicendo in giro Don Pasquale Ilaria, “e gli attori sono sempre gli stessi. Spero che questa volta almeno i Caposelesi abbiano sangue nelle vene e non acqua. Se è necessario, come credo sia necessario, questa volta tutta Caposele deve scendere in piazza ed insorgere, bloccando questa operazione vergognosa con la quale si decreta la morte di Caposele”. Il monito dell’ufficiale dell’Esercito Italiano, però, non raccoglieva grandi consensi. Per il fatto che fosse l’unico antifascista dichiarato e che le sue idee erano vagamente comuniste, Don Pasquale veniva accusato d’essere un pericoloso agitatore visionario. E, come tutte le Cassandre, finiva per non essere creduto. Era facile, infatti, per il solito stuolo di benpensanti, creargli tutt’intorno il vuoto. E collaborava ad isolarlo la locale stazione dei Carabinieri che puntualmente lo convocava in Caserma per trattenerlo qualche ora e poi rimandarlo a casa, ogni qualvolta che si riscaldava in strada. Ma Don Pasquale non si scoraggiava più di tanto: non appena metteva piede fuori dalla Caserma, riprendeva la sua predicazione apostolare soprattutto coi tanti giovani che sembravano interessati a capire cosa stesse succedendo. “Io parlo soprattutto per voi, era solito dire, perché i vostri padri e i vostri nonni non v’hanno raccontato o non hanno voluto raccontarvi cos’era questo paese. E non l’hanno fatto perché oggi si sentono responsabili per il coraggio che non hanno avuto ieri, perché sanno e non osano confessarvi che furono strumentalizzati… Caposele era un paese di favola e unico in Italia Meridionale, aveva una ricchezza incommensurabile. Non esiste paese al mondo, infatti, un solo paese che navighi sull’acqua e che non sia al tempo stesso ricco ed industrioso, Voi l’avete studiato a scuola; la civiltà ha camminato sull’acqua e sull’acqua ha camminato anche il progresso. Per il controllo di queste sorgenti ci sono state guerre nell’antichità, ma in un modo o nell’altro le popolazioni sono sopravvissute. Anche quella parte del Nord Italia ricchissima deve le sue fortune alle acque… Qui, invece, la storia si è fermata.
87 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Vi dicevo Caposele era un paese di favola: industrie, molini, gualchiere, tintorie, opifici… tutta un’economia costruita sull’acqua e grazie all’acqua. Qui affluivano da tanti paesi dell’Irpinia, del Salernitano, del Potentino, aree in cui la natura era stata un pò matrigna. Pensate ancora alla pesca e a tutta una serie di attività mercantili nate per soddisfare il bisogno dei forestieri che venivano qua per molire le olive, per macinare il grano, per battere i tessuti, per tingerli. Era un paese industrioso che piano piano avrebbe costruito la sua fortuna su un bene che gli apparteneva per legge, essendo assegnato dalla legge alle disponibilità di un Comune. Ma quando si hanno amministratori poco accorti e poco lungimiranti, può accadere che anche un bene si trasformi in un male. E noi avemmo, alla fine dello scorso secolo, amministratori sciagurati che, abbacinati dal soldo dell’oggi, si vendettero la ricchezza del domani. Pensavano, all’epoca, di aver fatto un affare vendendo le Sorgenti della Sanità al primo avventuriero che si presentò, e oggi ci ritroviamo con un rigagnolo che del fiume ha solo il ricordo nelle carte geografiche. Divennero tutti buoni, in quei giorni, tutti più cristiani: dar da bere agli assetati, dare l’acqua alla sitibonda Puglia! Facevano a gara, ma nessuno si chiedeva perché altri paesi più accorti sbattevano la porta in faccia a quei mercanti. Vendettero Caposele per 30 denari e non ci fu verso di farli ragionare; isolarono i più avveduti, promettevano la luna nel pozzo, fecero addirittura festa il giorno in cui fu firmato l’atto di vendita delle acque. A chi contestava quella scelta sciagurata, ricordavano che il Comune s’era riservato i diritti sulle acque residue necessarie alla cittadinanza e che far scorrere tanta acqua gratuitamente non aveva senso. E quest’ubriacatura non passò subito; durò fino almeno a quando non terminarono il lavori della galleria di valico. Furono anni di piena occupazione: servivano muratori, operai, manovali, donne e bambini che trasportavano pietre e mattoni. Sembrò una stagione indimenticabile, salvo che, finiti i lavori, Caposele piombò in una crisi pesantissima dalla quale non è uscita più. Si presero tutte, o quasi, le acque e ci lasciarono solo le frane che oggi divorano il paese e tutte le campagne circostanti. Quella è una pagina vergognosa ed oscura della storia di Caposele, mai chiarita del tutto in cui se hanno guadagnato i Pugliesi e qualche nostro innominato da un lato, sicuramente chi ci ha rimesso è Caposele…
88 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ora quella storia si potrebbe ripetere… Attenti, Caposelesi, questa volta ci giochiamo il poco che ci resta…” Non aveva bisogno d’andare oltre, Don Pasquale, e gli animi si infiammavano al punto da dimenticare d’essere in un periodo in cui certe escandescenze non erano tollerate. Un risultato s’era raggiunto in quei giorni e non per merito di Don Pasquale: le autorità locali, sebbene con gran fatica e a malincuore, davanti al diktat di federali e prefetti si erano impaludate nell’indecisione erano sbrindellate e strattonate a destra e a manca da una cerchia ristretta di borghesucci interessati in vario modo alla vicenda, certamente non per spirito di equanimità e di giustizia sociale. Questo sodalizio, ufficialmente prono all’apoteosi del Fascismo e ai suoi desiderata, non usciva mai allo scoperto, ma attraverso canali sotterranei era impegnato a lavorare su un duplice fronte: bloccare ogni decisione amministrativa in sede locale e nel contempo alimentare nella discrezione e nell’anonimato il malcontento popolare, almeno fino a quando la trattativa in corso non avesse avuto uno sbocco ad esso favorevole. Questi abili burattinai che si fregiavano di una dubbia nobiltà per dei non ben precisati meriti, questa volta rischiavano d’essere intaccati pesantemente nei loro interessi. Non di meno, per aver sperimentato in passato la convenienza di cambiare casacca e bandiera, non osavano esporsi. Erano mimetizzati tra proprietari di molini, oleifici, e per lo più tra i titolari di una serie di attività mercantili il cui fulcro era l’acqua e la cui sottrazione avrebbe determinato l’affossamento dei loro negozi e dei loro profitti. Per dirla in breve: sarebbe stata una vera sciagura chiudere bottega e ritornare alla sola speculazione agraria. Davano, allora, in pasto alla gente comune la loro rassegnazione di dover tutto d’un colpo soccombere a ragioni superiori il cui costo sarebbe consistito nel chiudere i battenti di mulini, gualchiere, tintorie e “trappeti” con grave danno per i poveri Caposelesi che sarebbero dovuti emigrare altrove per attendere alle loro necessità. Ma questo atteggiamento di rinuncia finiva per essere percepito dai malpensanti come un ennesimo affare sottobanco di questi signorotti e da molti ingenui contadini come la riprova che solo una forte agitazione di piazza avrebbe scongiurato una iattura per la maggior parte della popolazione.
89 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Il loro fatalismo era, quindi, una ragione in più per ascoltare i moniti del visionario Don Pasquale e di ciò s’era convinto anche quel piccolo stuolo di frequentatori di casa Sturchio, del salotto bene, che tutti i pomeriggi si riuniva da Don Camillo e Donn’Ersilia. Era gente perbene questo drappello di galantuomini e gentildonne che amava serrarsi nel salotto che s’affacciava sulla piazzetta principale del borgo e che da quella torre d’avvistamento scrutava lo scorrere lento e quasi impercettibile della vita caposelese con civetteria, talvolta, ma anche con tanta bonomìa. Esso era, forse, l’ultimo fortino romantico-risorgimentale di una piccola borghesia che registrava stagioni e fortune politiche, rifiutando, però, di contaminarsi. Erano imbevuti di un cattolicesimo neutralista, ligio ad un ossequio clericale che li voleva lontani dal frastuono della politica e dell’affarismo post-unitario, tutti tesi a difendere un’idea di popolo militante e praticante assediato da un modernismo pericoloso. Essi esercitavano per lo più la loro egemonia sociale nelle scuole comunali e sentivano l’insegnamento come missione, come avanguardia delle coscienze contro pericoli passati e futuri che avrebbero potuto minacciare la comunità locale. Lì, più che altrove, era confermata l’ipotesi che il prelievo provvisorio delle acque residuali altro non era che una manovra dell’Acquedotto Pugliese e dei potenti parlamentari ed agrari di quella regione per depredare definitivamente Caposele. Quel pericolo incombente riapriva in loro vecchie ferite e dischiudeva antiche certezze: i Pugliesi, con le solite complicità locali, stavano per regolare definitivamente i conti con Caposele. Nel chiuso di quel salotto e al riparo da orecchie indiscrete si riesaminava, tassello dopo tassello, il mosaico bizantino di una vicenda durata almeno sessant’anni. Ercole Antico, Zampari, il Consorzio delle Province Pugliesi, la sarabanda di imprese settentrionali e il loro intreccio con parlamentari irpini e pugliesi, i foraggiamenti locali per comprare il silenzio e le complicità. Qualcuno si spingeva a far notare come le fortune di talune famiglie fossero improvvisamente mutate in meglio dopo la firma del famigerato contratto… Altri facevano, poi, notare come certi personaggi si ergessero pregiudizialmente a difensori unilaterali della regione pugliese, accreditando addi-
90 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA rittura la legittimazione e la convinzione, di fatto, che Caposele fosse una sorta di “enclave” della Capitanata. Su tutti dominava forte il pensiero di Don Camillo al quale, da fine lettore dei fatti, erano lasciate le conclusioni. “Don Pasquale sarà un visionario, un anarchico o un comunistoide, ma questa volta delle verità le dice ed è stupido contrastarlo nella sua generosa foga oratoria, perché quella che i più chiamano pazzia, oggi è utile. Egli oggi è l’unico che, pur sapendo a cosa si espone, dice cose che molti di noi pensano ma non hanno il coraggio di dire in pubblico. E allora, io credo che non dobbiamo contraddirlo con quanti ci chiedono una nostra opinione in merito. Vedete, sarà molto difficile che Caposele la spunterà questa volta. Noi possiamo avere dalla nostra parte leggi e ragione, ma, almeno qui possiamo dircelo, il Fascismo non sa che farsene di leggi e ragioni. Ognuno resti della sua convinzione sul Duce e sulla sua storica missione, ma questo regime non scherza, non ammette discussioni, esso chiede solo d’essere ascoltato ed ubbidito, tutto il resto non conta. L’atto di forza popolare è l’unica via d’uscita, non ci sono alternative. Noi dobbiamo sapere che dopo di esso, vada bene o vada male, il peggio non è finito… Se i Caposelesi subiranno questa prepotenza senza battere ciglio, non meravigliamoci, poi, se i Pugliesi oseranno oltre. E tutti noi sappiamo che cosa hanno in testa quelli lì… Un paese che naviga sulle acque è un intoppo alla captazione di tutte le sorgenti che sgorgano a Caposele. Vi ricordate di discorsi più o meno bisbigliati circa il trasferimento totale del centro abitato, a causa di frane che, a loro dire, non sono risanabili e di come l’Acquedotto si sia offerto in passato di ricostruire una nuova Caposele verso Palmenta… Vi ricorderete, pure, come con la complicità del Genio Civile e della Prefettura essi scoraggino ogni nuova edificazione e perfino la riparazione di case malandate… E poi la sufficienza e il disprezzo, il fastidio con cui essi guardano al nostro paese… un paese che ha rinunciato al meglio che aveva, a loro favore; trattato, se non proprio come un nemico, come un fastidioso ospite in casa propria. Noi dobbiamo assecondare il malcontento che serpeggia oggi e che ha antiche radici e ciascuno, per quello che può, deve alimentare la protesta che cova sotto la cenere. Ora, o mai più, Caposele potrà rialzare la testa…” Donn’Ersilia annuiva e confermava la sua identità di veduta col marito.
91 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Quella donna mite e timorata di Dio, dalla voce dolce ma ferma e persuasiva… aveva già da qualche tempo interpretato il pensiero dominante e non lasciava cadere occasione nel parlare a tante altre donne del pericolo incombente. Le sue parole, alle ricorrenti motivazioni, aggiungevano anche la ferma convinzione di non lasciare soli gli uomini in quella difficile battaglia, consapevole del fatto che solo le donne, con la loro irruenza, avrebbero potuto evitare di esporre i mariti e i figli in una vicenda rischiosa. Ella era solita ricordare che le rivolte e le proteste condotte dai soli uomini in passato avevano sempre avuto esiti disastrosi: la legge sapeva essere dura e poco conciliante con gli uomini e sbandava quando a scendere in campo erano le donne. Coltivava in sé, inoltre, la speranza che la proverbiale combattività delle donne di Caposele, già messa alla prova in più di un’occasione, anche questa volta sarebbe stata utile e decisiva. E, così, auspicava che fossero le donne innanzitutto a scendere in prima linea e in forma massiccia infischiandosene delle intimidazioni delle forze dell’ordine, del fatalismo di certi benpensanti e delle tiepidezze del clero locale. Quel giorno d’aprile era atteso l’arrivo del prefetto Tamburrini. Quella venuta era vissuta e sentita come la presa di posizione finale dello Stato, che di fronte al tentennamento delle autorità locali, assumeva ufficialmente la decisione di sostenere le ragioni dell’Acquedotto Pugliese. Un vero e proprio atto di pressione avrebbe dovuto piegare le ultime resistenze. Piazza Plebiscito, già dalle prime ore del mattino, andava affollandosi. Ai primi capannelli di anziani che si assiepavano lungo le mura della Chiesa Madre, man mano si univano tanti giovani. Apparentemente dominava la calma e le discussioni di tanto in tanto erano smorzate dall’intervento dei carabinieri della locale stazione, capeggiati dal brigadiere Pappacena. Nel frattempo si riversavano in piazza e nei vicoli circostanti altri carabinieri spediti dalle stazioni viciniori e tra loro spiccava la presenza di agenti in borghese. Verso le 9.30 scesero in piazza Don Camillo, Donn’Ersilia, Antonio Farina, Rocco Iannuzzi e dopo di loro alcuni contadini combattivi… Come se si fossero dati appuntamento, ecco verso le 10.00, schiere di donne giungere da ogni dove; venivano da Capodifiume, dal Castello, dai Casali, dalla Portella. Sembravano assediare una piazza già carica di
92 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA nervosismo e di tensione, il loro vociare insistente ormai surclassava tutti gli altri convenuti. La piazza, verso le 11.00, era ormai stipata e surriscaldata all’inverosimile: bastava l’arrivo di qualche sconosciuto dal fare sospetto che si levavano, ad ondate, mugugni e grida. Fino a quell’ora Don Pasquale non s’era visto in piazza; furono alcune donne combattive ad accorgersi della sua assenza e si precipitarono per invitarlo a salire in piazza con loro. Egli, dopo qualche attimo di esitazione, le seguì, noncurante del divieto notificatogli dai Carabinieri di non farsi vedere in giro quella mattina. Non appena su via Zampari apparve la sagoma nera di una “Balilla” scortata da camionette dei carabinieri, la piazza sembrò infiammarsi ed esplodere. Le forze dell’ordine presenti cominciarono a constatare la loro impotenza e a convincersi della sottovalutazione di una sommossa che si sarebbe potuta sollevare ad ogni minimo atto di provocazione. Si trattava, allora, di scegliere tra la vigilanza attiva in mezzo alla gente per scoraggiare intemperanze e tra la tutela delle autorità provinciali ormai giunte al Piano. Si scelse, allora, di aprire un varco tra la folla mediante un servizio d’ordine a catena per garantire al prefetto un sicuro accesso verso via Caprio. Non si poteva sperare, d’altra parte, in un intervento collaborativo degli squadroni dei giovani fascisti Caposelesi, schierati lungo via Zampari in atteggiamento più caricaturale che intimidatorio. Il Prefetto, con passo deciso, si fece strada tra la gente, imperscrutabile e alquanto sprezzante delle proteste verbali che si irrobustivano attorno a lui. Raggiungere la casa comunale, dopo aver dato ordine al suo segretario di trattenersi in piazza per decifrare i motivi di un’ostilità ad una proposta, a suo dire, onorevole e ragionevole. La riunione breve che seguì nel gabinetto del Podestà, fu probabilmente drammatica e sbrigativa: si sentiva dal salone un battere di pugni e qualche imperiosa minaccia tra l’ammutolire degli astanti. Pare che il Podestà, in totale solitudine, fu costretto a fronteggiare alla meglio un Prefetto alquanto nervoso ed imperioso. “Eccellenza,” esortò il Podestà, ”Ella ha voluto venire a Caposele, ma come ricorderà io glie lo caldamente sconsigliato. Oggi, quindi, tocca con mano il livello di tensione cui si è giunti. In nessun modo può chiedermi di aderire a qualsiasi proposta che danneggi i miei amministrati e non
93 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA credo che sia un buon affare per il Regime essere sordi alle buone ragioni dei Caposelesi…” Non andò oltre, perché fu letteralmente sopraffatto dalla voce del Prefetto che, tranciando l’esordio, proruppe: “Signor Podestà, io non accetto consigli da nessuno, se non da chi mi ha incaricato di questa incombenza… e la mia venuta qui è più utile di quanto Ella creda. Questa mattina io vedo qui confermata la sua cocciutaggine nell’ingigantire ragioni fino a sfiorare il fanatismo e fino ad immiserire le ragioni dello stato fascista al quale Ella deve, dico deve, tutto. Dubito, a questo punto, anzi sono certo che Ella non abbia fatto nulla per convincere tutta quella gente che gremisce la piazza, sono addirittura legittimato a credere che Ella, insieme ad altri, abbia alimentato questo malcontento immotivato. Io la ritengo responsabile di quanto potrà accadere d’ora innanzi e, in ogni caso, si ritenga sollevato da qualsiasi incarico”. Poi, con determinazione, il Prefetto si diresse verso il balcone che si affacciava sulla piazza rumorosa e, senza perdersi in convenevoli proruppe: “E’ di tutta evidenza che se sono qui, questo lo dovete ad una manifesta incapacità di chi vi governa a spiegarvi il senso di una proposta in linea con lo sforzo del governo nazionale, impegnato a riscattare la miseria di questa terre, per troppo tempo ignorate e che oggi hanno un’occasione unica. E allora sia chiaro che l’Acquedotto pugliese non sta tramando nulla alle vostre spalle, semmai, obbedendo al punto di vista del Duce, subisce questo accordo che noi siamo qui ad auspicare e a garantire. Non date, quindi, ascolto a tutti quegli untori che strumentalmente vi aizzano contro il Fascismo, interessati come sono a scavare tra noi e voi un fossato. Noi siamo intimamente convinti , interpretando l’ansia e la preoccupazione del Duce, che queste zone hanno un futuro solido se sono in grado di mettere in piedi nuove occasioni di lavoro attorno all’unica ricchezza che questa terra può dare: il legno. E la produzione del legno va incrementata non solo perché serve all’Italia intera, ma anche perché essa è fonte di ricchezza per le popolazioni montane. Questo ce l’hanno insegnato il Friuli e il Trentino e non comprendiamo perché quelle zone una volta indigenti come questo territorio, debbano approfittare di questa novità e da queste parti si debba solo piangersi addosso. Queste sono zone in cui il faggio attecchisce meravigliosamente e voi tutti sapete quanto sia
94 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA utile e richiesta questa pianta. Immaginiamo, allora, che tutti i comuni del bacino del Sele si stringano in consorzio e diano concretezza ad un piano nazionale di rimboschimento e di piantumazione del faggio, non è un’utopia e soprattutto non è un’operazione fallimentare. Quanti di voi che oggi curvate la schiena a dissodare una terra ingrata potranno trovare lavoro retribuito. Pensate, a quante braccia servono per questo piano di sviluppo, al taglio degli alberi maturi, alla lavorazione del legno, alla sua commercializzazione… E’ un’occasione unica da non far cadere. Molti comuni viciniori sono entusiasti e pronti a scommettere: sono comuni i cui demani danno già grandi profitti e sono disponibili a reinvestire in questa impresa… Non comprendiamo perché Caposele debba chiamarsi fuori. Ecco allora che la vendita delle acque residuali non è un puntiglio dell’EAAP, ma una necessità per un comune povero come il vostro, per garantirsi capitali indispensabili per mettere in campo un’iniziativa così superba e produttiva. Voi non potete pretendere che altri investano capitali e Caposele si limiti solo a raccogliere i frutti… Se, quindi, l’unico bene che avete è l’acqua, non c’è da perdersi in inutili contorsioni, bisogna vendere l’acqua…, seppure…” Il Prefetto non aveva terminato di esporre il suo piano nei particolari, quando fu improvvisamente interrotto da una voce ferma: “Questa volta non si vende. Non si vende, non si vende!”… Di quello slogan, profferito da un assatanato tra la folla, in un baleno s’impadronì tutta la piazza, fino ad allora attenta e muta. Le donne, in particolare, sembrarono scatenarsi propagando agitazione in un luogo gremitoche, attimo dopo attimo, si gonfiava nella protesta. Il Prefetto, invano, tentava, gridando, di sedare e zittire quelle voci sempre più assordanti, e si convinse a troncare il suo discorso, in attesa che le forze dell’ordine sparpagliate tra la gente, bloccassero chi aveva acceso la miccia. Istintivamente una decina di carabinieri, capitanati dal brigadiere Pappacena si volse verso don Pasquale per stringere attorno a lui una cintura che lo isolasse dal resto della piazza, nella speranza che la rivolta ormai incipiente, fosse spenta sul nascere… Fu allora che, almeno una trentina di donne, si diedero all’unisono l’intesa di proteggere don Pasquale, scagliandosi con tutte le loro forze contro i carabinieri accerchiandoli, prendendoli a calci, sbrindellandoli di qua e di là. Fu Pappacena in modo particolare ad essere il bersaglio della
95 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA rabbia e i suoi sottoposti, colti dalla sorpresa e dalla rapidità di reazione di tante madri di famiglia, rimasero frastornati, impotenti ed ignari sul da farsi. Lo spettacolo preoccupante e il possibile epilogo drammatico consigliò allora al Prefetto di ritirarsi dal balcone. Mentre agenti in borghese frettolosamente preparavano la ritirata, egli sbeffeggiò le autorità locali, intimando loro di recarsi ad Avellino ad horas. In men che si pensi, la Balilla nera ripartì, scivolando giù per via Zampari. Le schiere dei giovani fascisti avevano rotto i ranghi, i carabinieri si raccolsero attorno al loro comandante acciaccato. La piazza si svuotò. Ritornò la calma e, a freddo, nel chiuso delle case, si rifletteva sulle reazioni e sulle contromisure che sarebbero susseguite. Nelle settimane successive, nonostante la Pasqua fosse alle porte, su tutti incombeva il presagio d’una tempesta che s’attendeva da un momento all’altro. Qualcuno riferì che di quelle sommosse, aveva parlato Radio Londra, esaltandone la portata ed enfatizzandola come la prima rivolta del Sud contro il Fascismo, foriera di un crollo, più o meno prossimo, del Regime. Questa notizia non inorgogliva i Caposelesi più accorti, ma addirittura li infastidiva, essendo coscienti che essa sarebbe stata utilizzata per scatenare una dura ed impietosa repressione. Trascorrevano le settimane e nulla accadde, ad eccezione del commissariamento del Comune; e questo trascorrere tedioso dei giorni finiva per pesare ancor più di una condanna… L’Italia, era in guerra ormai: giungevano notizie dell’invasione dell’Albania e della sospensione di una serie di misure “costituzionali”. Si riparlava già ai primi di luglio di prosciugare il corso superiore del Sele, perché i riflessi delle acque avrebbero potuto facilmente far individuare le strategiche opere di captazione dell’E.A.A.P. durante le ricognizioni notturne di aerei nemici.
96 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA La notizia questa volta non infiammò più nessuno: a tutti non sfuggiva che il periodo di guerra, le ragioni di Stato non necessitavano di giustificazioni. Il giorno in cui d’autorità le acque residuali del Sele furono prelevate dall’E.A.A.P., coincise con una serie di dure misure d’ordine pubblico. Accadde così che, lontano dagli occhi indiscreti dei Caposelesi, don Pasquale, il Podestà ed altri ancora convenuti in un ristorante di Materdomini , non si sa se per caso fortuito o per qualche stratagemma, furono arrestati e senza troppi convenevoli tradotti in carcere. La notizia raggelò Caposele aprendo ferite non facilmente rimarginabili. Don Pasquale Ilaria fu confinato alle isole Tremiti, Don Camillo trasferito a Montefalcione, Donn’Ersilia e altre due donne furono trattenute per alcune ore in caserma, Antonio Farina e un altro nutrito gruppo di uomini furono sbattuti in carcere per qualche settimana. E numerosi altri cittadini furono diffidati dalla Polizia. Pare che la notizia, non fu nemmeno riportata dai giornali dell’epoca. Al contrario sui quotidiani di regime si lesse che per motivi bellici dovuti all’approvvigionamento idrico delle navi attraccate nei porti pugliesi, l’E.A.A.P. era autorizzata a captare altri 360 litri al secondo da quel che rimaneva del fiume Sele. L’accorto regime dava in pasto all’opinione pubblica una verità più credibile: infatti, invocare i motivi bellici, come riportato dai quotidiani, era più convincente e più comodo del propinare a degli sprovveduti che “i riflessi d’argento del Sele avrebbero potuto causare il bombardamento di un acquedotto e delle numerose casupole che lo circondavano”. Vero è che quelle acque residuali non rividero più abitualmente l’antico letto di un fiume che solo a parole sfocia ancora nel Tirreno.
97 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA “Allora, ci rivedremo alle dieci, minuto più, minuto meno, in via Bovio, ci siamo intesi? “ Date le ultime istruzioni ai suonatori di mandolino, il giovanotto li salutò e sparì. Lo sparuto gruppo d’amici, rimuginando tutte le perplessità, rimasero ancora seduti, gambe a penzoloni, sul muraglione che s’affacciava su via S.Gerardo. C’era da essere perplessi e preoccupati: essi certamente erano in grado di strimpellare quattro note su mandolini e chitarre, ma cimentarsi col violino proprio non era arte loro. Quella lì era roba da Conservatorio, non cosa da maneggioni e da apprendisti autodidatti che suonavano ad orecchio vecchie melodie nel tardo pomeriggio, dopo avere concluso il faticoso lavoro di manovali e muratori. Poi, avere a che fare con quello lì, era proprio una bella rogna: non avrebbero mai voluto essere suoi garzoni per la sua ossessiva meticolosità che non ammetteva inesattezze e imperfezioni. Quel piccolo strumento a corde così acuto nei suoni, chiave di sol, primo e secondo violino, violino di spalla e di fila, tutte queste astruserie a loro erano incomprensibili ed indecifrabili apparivano agli stessi tutte le raccomandazioni e i suggerimenti dispensati dal loro amico che s’era incaponito nel pretendere una serenata coi violini, anziché con i familiari mandolini. Ma ormai la cosa era andata e discuterne era acqua santa persa. E poi, ormai, i violini erano lì, giunti freschi freschi da Napoli e ad un prezzo di fitto alquanto salato. Il giovanotto si era rinchiuso per quasi tutto il pomeriggio nella camera da letto, tutto preso ad esercitare le sue doti canore e a ripassare a memoria il ben scarno repertorio musicale. Non serviva un vero e proprio canzoniere: se tutto andava come previsto la serenata si sarebbe risolta in non più di mezz’ora. L’uomo, invero, fidandosi un po’ troppo delle sue lusinghiere capacità baritonali, ormai s’attardava davanti all’enorme specchio dell’armadio a muro a misurare gesti, espressioni e movimenti, pensando al palcoscenico che l’attendeva e all’unica spettatrice che gli stava a cuore. La madre, incuriosita dal suo inusuale rintanarsi nella stanza, di tanto in tanto si affacciava a sbirciare, ma non era riuscita a cogliere nessun elemento che la illuminasse; infatti, La serenata
98 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA al suo felpato apparire sulla soglia della porta egli, d’un colpo, ammutoliva e si irrigidiva come una statua di sale. Le prove duravano da qualche ora, quando egli si decise a cambiare l’abito. Se si eccettua la rinuncia al bagno profumato nella solita tinozza, per il resto tutto si sgranò come un vero e proprio rito domenicale della vestizione: indumenti intimi e calzini puliti e all’odore di lavanda, camicia inamidata, farfallino “à pois” e gessato blu notte delle grandi occasioni. Poi si impomatò di brillantina, come una foca, e infilò le scarpe nere a punta, pure esse tirate a lucido come non mai. Ritornò al solito specchio per curare gli ultimi dettagli e si sedette sul letto, dando un’occhiata al suo orologio da taschino. Erano le nove e mezzo; guadagnò furtivamente l’uscita, non visto dalla madre, e si ritrovò in strada. Si era in ottobre, in una di quelle serate ancora in bilico tra l’estate e l’autunno. Il cielo era terso, ma non stellato e la luna con la sua gobba crescente pareva seduta sui sambuchi. Nonostante fosse buio si riuscivano, tuttavia, a distinguere le sfumature di una vegetazione che si ribellava al giallo e al rosso ormai incombenti. A pensarci bene, che si fosse in autunno lo lasciava presagire il fruscìo di seta delle foglie sugli alberi e quel primo venticello che scendeva giù dalle montagne in direzione della valle. La strada, a quell’ora, era deserta e le faceva compagnia solo qualche fioco lampione che proiettava dritta la sua ombra sul selciato; per il resto le solite minuscole luci dietro i vetri delle finestre. Il nostro uomo, quasi imbarazzato per la sua eleganza sgargiante che faceva a cazzotti con lo scenario scarno del Corso, evitò di percorrere Via Zampari e preferì dirigersi per viottoli e vicoli lungo Capodifiume per poi scalare tutte d’un colpo le Lavanghe e buttarsi in Via Bovio. Ritrovatosi in quella stradina stretta tra case a torrione, il giovane tirò un sospiro di sollievo; non si era imbattuto in anima viva, tutto era andato come previsto e il più era fatto. Via Bovio gli dava un senso di sicurezza: una strada trafficata di giorno, a quell’ora era più silenziosa e riservata di un cimitero. Gli ritornava nella mente la discussione fattagli dalla madre. Quella, era una strada in cui appena calato il buio si dorme; gente seria e laboriosa che non poteva
99 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA concedere molto tempo a chiacchiere e discussioni, né troppo fuoco al focolare... Via Bovio; per dirla in breve era stipata ai pianterreni di botteghe artigianali o commerciali. Non c’era porta che non fosse spalancata di giorno ed uscio che non fosse opportunamente sprangato di notte. I piani interrati, o quasi, erano adibiti a stalle per asini e muli o a depositi per derrate, i piani terranei ospitavano botteghe e laboratori dai quali si accedeva ai piani “soprani” destinati a cucine e ripostigli e, su quest’ultimi, sobrie camere da letto. Caratteristica fondamentale di questa viuzza che scivolava sinuosa su un discreto pendio, era la forte concentrazione di barilai, per lo più appartenenti allo stesso ceppo familiare, la cui arte era riconosciuta ed apprezzata, in buona parte del territorio irpino, lucano e salernitano. Lavoro redditizio, quello dei barilai, ma anche molto duro che non conosceva posa durante tutto l’anno. V’era un tempo per l’acquisto, il taglio e la stagionatura del legname, un altro per la lavorazione delle doghe, un altro per la curvatura e l’assemblaggio. I mesi di settembre e ottobre, poi, erano veramente estenuanti. Ci si alzava prima dell’alba, si caricavano botti e tini su asini, muli e carretti e via verso fiere e mercati per vendere quei prodotti artigianali... La sera si ritornava stanchi morti sebbene con un bel gruzzolo di denaro. Gli improvvisati suonatori di violino, come stabilito, erano già allo slargo di piazza Tedesco, quando furono raggiunti dal trepidante innamorato. La loro chiassosa presenza fu subito censurata dal nuovo arrivato. Per loro era un modo come un altro per trascorrere qualche ora da buontemponi, per il nostro eroe, invece, era l’occasione decisiva per esternare i suoi sentimenti all’amata la quale, all’ora stabilita, si presumeva che fosse al buio col naso schiacciato sul vetro della finestra che non avrebbe osato spalancare. L’uomo aveva preteso che i suoi accompagnatori avessero accordato gli strumenti già nelle loro case, perché non avrebbero potuto permettersi il lusso di concedere nemmeno un minuto a lamentosi stridori e pizzichi sulle corde musicali. Tutto doveva funzionare alla perfezione come un orologio. Scelto un angolo non troppo distante, ma al riparo da una vista immediata, i violinisti si disposero a corona intorno al novello cantante in attesa che egli desse il via con un cenno.
100 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA La cosa non era delle più facili: il copione prevedeva che fossero i violini a principiare per qualche manciata di secondi, prima di cedere il passo ad un acuto fermo e virile che scuotesse l’aria. Era comprensibile, quindi, il nervosismo che pervadeva il gruppo; non c’era stato verso di convincere l’amico a cambiare programma e strumenti musicali: la cosa doveva andare avanti in quel modo e basta! Quando il silenzio fu assoluto, l’uomo si decise a dare il tanto atteso cenno e i violinisti, quasi all’unisono, partirono. Era trascorso solo qualche secondo e si scatenò un putiferio. Dalle stalle, come se si fossero data l’intesa, uno dopo l’altro, dei somari cominciarono a ragliare: i ragli erano tanto forti da far temere che si svegliasse di soprassalto l’intero vicinato. Il suono dei violini, ovviamente, fu come subissato dai ragli così decisi di animali che nella letteratura corrente passavano per creature miti e temperanti. Certamente chi si svegliò, avendo un sonno leggero, non potè fare a meno di pensare al terremoto: era arcinoto e sperimentato che gli animali avvertissero anzitempo le catastrofi sismiche. Il nostro eroe, però, fu bravo e non si perse d’animo: con un cenno rapido e secco diede l’alt ai suoi compagni, supplicandoli con gli occhi di non ridere e di non parlare. L’incidente era serio, ma andava superato con freddezza e decisione, anche perché ormai in qualche casa s’era accesa qua e là una luce. Poteva anche capitare d’essere scambiati per ladri e, nottetempo, a quell’epoca non si andava tanto per il sottile coi malandrini... Dopo che fu superato il trambusto tra i convenuti e ristabilita la primitiva quiete notturna, il cantante, senza scomporsi, ridiede l’ordine di cominciare. Questa volta i violini esordirono in perfetta armonia ed erano sul punto di affidare il seguito alla voce umana quando gli asini trafissero l’aria con ragli più robusti e più prolungati, tali da gelare i presenti. S’erano proprio imbizzarriti quegli animali; chissà che cosa passava loro per la testa, quale percezione avevano di quei lunghi, appassionati ed intensi suoni che scorrevano tra corde e... Ormai s’agitavano e scalpitavano come ossessi, sferrando calci all’impazzata contro lastrici e tavolati. La quiete e il sonno erano rotti e del tutto compromessi. S’accesero, una dopo l’altra, le luci ai vari piani, rumori d’imposte e di finestre; qualcuna avventatamente si spinse a gridare a squarciagola “Al ladro! Al ladro”. In meno che si pensi s’era seminato uno scompiglio in via Bovio.