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Alfonso Merola Aquerelli caposelesi

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Published by Seleteca Caposele, 2024-01-20 12:09:48

Rintocchi del tempo

Alfonso Merola Aquerelli caposelesi

101 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ora il pericolo era reale e c’era da attendersi anche qualche schioppettata. I suonatori di violino, questa volta, non attesero altri ordini e se la diedero a gambe disperdendosi nei vicoli. Lo sfortunato avrebbe voluto bloccarli e farli ragionare, ma non ci fu verso; rimase solo lui lì, piantato come un albero ed imbacuccato a festa nel suo abito scuro come il suo volto. S’era appena ripreso dallo sconforto, quando sentì il rumore di qualche grimaldello e allora, radendo il muro, a passo svelto, s’inerpicò su per via Pietraquaresima. Ora era veramente sconsolato e ridotto ad uno straccio: si sentiva ridicolo in quegli indumenti da gran gala. Giunse, infine, sulle scalinate di Piedigrotta e si fermò. Si vergognava per il fatto che una serata che doveva essere indimenticabile, si fosse tramutata in una situazione tragicomica. Non erano serviti a nulla tutti quei dettagli studiati fino all’ossessione, se degli imprevisti ed imprevedibili somari erano stati capaci di far crollare tutto in un batter d’occhio! Che cosa avrebbe pensato di lui la sua adorata amata? E tutto questo per colpa della sua maledetta cocciutaggine di complicare cose semplici, di enfatizzare e drammatizzare sentimenti genuini... Si pentì di non aver scelto vie maestre: sarebbe bastato fermarla per strada, parlarle, dichiararsi quando i loro occhi si incrociavano... E invece no, egli era veramente un artista nell’ingarbugliare ed aggrovigliare le cose. Avrebbe avuto il coraggio di guardarla in faccia l’indomani? E poi, i suoi compagni di ventura avrebbero tenuto il becco chiuso sull’accaduto o l’avrebbero ridotto a zimbello del paese? La vita di paese, è risaputo, scorre con monotonia, non si nutre di grandi avvenimenti, è il susseguirsi di atti quasi abitudinari a scandire il suo tempo, a meno che qualche fatto che vada oltre la calma piatta non la scuota nel bene o nel male. E allora la notiziola inizia a circolare, a irrobustirsi, a fare il giro delle case, ad arricchirsi di dettagli veri o verosimili, di congetture e supposizioni. A quel punto sul malcapitato se ne sentono di cotte e di crude e non resta che serrarsi in casa ed aspettare che ritorni la calma. Stremato dal turbinìo intermittente di questi pensieri, finì, senza accorgersene, per ritrovarsi seduto su un masso, muto ed assorto a guardare quella marea di tetti neri sottostanti agli orti padronali della Pietra dell’Orco.


102 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Com’era mutato il paesaggio a quell’ora! Le nubi avevano fatto la loro comparsa in cielo e s’ammassavano attorno alla luna quasi a soffocarla: quest’ultima, a sua volta, sembrava intrufolarsi nei nembi col suo chiarore fosforescente per screziarli e liberarsene. I noci avevano perduto buona parte del fogliame e coi loro rami scheletrici ricamavano il cielo. S’avvertiva l’odore grasso e umido d’una putrescenza in atto delle foglie cadute, un odore costante che di tanto in tanto era sopraffatto dall’acre esalazione di mosti e vini novelli, proveniente dalle cantine. Non c’era proprio da dubitare, a quel punto: s’era in pieno autunno. Si sentivano in lontananza cani abbaiare, ma questa volta non gli incutevano paura: forse, a dire il vero, manco li sentiva i loro latrati perché era preso da tutt’altri pensieri. Udiva, però, netto il vociare in via Bovio che s’era risvegliata a notte fonda e non s’addormentava più. Solo quei maledetti somari ora s’erano acquietati e non ragliavano. Ritornava alla mente la sagoma d’una donna minuta, immobile e scolpita sui vetri d’una finestra; chiudeva gli occhi, li stropicciava ed ella svaniva. Compariva e scompariva dalla scena, come una comparsa, lei che ignara era la prima attrice. Se la vedeva parare innanzi agli occhi, ora stizzita ed offesa per un appuntamento mancato, ora calma e serena, quasi statuaria, ad attendere un evento che non si sarebbe verificato. Avrebbe mai saputo che cosa era realmente accaduto quella notte? Avrebbe creduto alla storia verosimile di ladri che avevano scombinato i piani d’una serenata dedicata solo a lei? Chissà! I rintocchi dell’orologio di piazza Masi suonavano la mezzanotte; la donna non avrebbe indugiato oltre a quel davanzale. Il giorno dopo non avrebbe avuto nulla da raccontare alle sue compagne nell’ora di ricamo se non che niente era accaduto e che quell’uomo era bugiardo e traditore come lo sono in genere gli uomini. Il giovane uomo si rialzò di scatto e per viottoli a lui noti raggiunse la casa scavalcando la siepe dell’orto. Aveva lasciato di pomeriggio la finestra socchiusa e spinse dolcemente per aprirla. Al buio, senza fare il benché minimo rumore che avrebbe certamente svegliato la madre, si svestì, ripose ordinatamente ogni cosa in armadio e comò, spinse le scarpe nuove sotto una sedia e, messo il pigiama, si infilò sotto le coperte. Almeno lì tutto era andato alla meglio.


103 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA S’era risparmiato i soliti rimproveri di una madre in camicia da notte che era capace di andare avanti anche per qualche ora. Si girava e rigirava nel letto: l’insonnia non l’aiutava a trovare una posizione comoda. Non era vero che il buio conciliava sempre il sonno. Certe volte il buio è popolato fino all’eccesso e toglie perfino il respiro. Quel buio, poi, era assordato da un silenzio di quelli che frastornano e preannunziano una notte senza sogni.


104 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Non era ancora la mezzanotte, che avrebbe annunciato la prima domenica di un settembre caldo, e la Via del Santuario già da qualche ora brulicava di pellegrini spossati da un lungo cammino. Erano partiti alle prime luci dell’alba dai loro paesi incastonati sui fianchi brulli di un’avara Lucania, terra che avcva dato i natali al Santo, e si spingevano fin sulla collina di Duomo con i sentimenti contrastanti d‘orgoglio e rabbia. Pensieri sacri e profani ad un tempo: sentirsi padri e figli di tanta spiritualità c patrigni e figliastri per un affetto mal coltivato. Erano persone umili quelle che risalendo e discendendo monti e valli si recavano a Materdomini. Queste schiere, mosse da una pietà popolare, raramente organizzate dalle parrocchie, incontravano lungo il loro percorso altri gruppi, parimenti numerosi, ma ci tenevano tanto a distinguersi gli uni dagli altri, come se non volessero confondere la loro intensità di devozione, le loro richieste di grazie e di miracoli, come se temessero, in fondo, di caricare il Santo di troppe pretese, Egli medesimo avrebbe potuto spazientirsi e non ascoltare. Questi gruppi vestiti alla meglio, per lo più scalzi in segno di penitenza, si snodavano per viottoli e tratturi, intersecavano frettolosamente strade rotabili scarsamente trafficate e poi imboccavano la via provinciale per Caposele. Giunti al ponte sul Se1e si inerpicavano per la stradina ciottolosa che mena ancora oggi a Materdomini e che incombe con i suoi stretti tornanti sul fiume affogato tra i sambuchi e le acacie. Ecco, ad un certo punto, svettare dal pianoro di Duomo la bianca basilica col suo campanile squadrato. Si fermavano dapprima alla fontana poligonale nella cui acqua si specchiava la marmorea statua di Gerardo. Si fermavano a bagnarsi i polsi, a dissetarsi, a tirarsi in sesto, a rifocillarsi alla meglio, prima di entrare in chiesa. Una donna, deposta la cinta di candele inghirlandata di fiori e di nastriPellegrini a Materdomini


105 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA ni colorati, era tutta intenta a recuperare l’effigie del Santo intrappolata nel castelletto di cera. Nonostante l’ora tarda, la Basilica era aperta ai fedeli , per permettere l’accesso ai pellegrini carichi di doni votivi. Era difficile trovare un posto a sedere sulle panche; i più si affollavano sotto il palchetto rivestito di organza celeste che sorreggeva la statua di S. Gerardo; stridevano le transenne di legno al premere di quella calca. Quell’approccio al Santo rinnovava una suggestione e una sensazionedi appagamento a chi ogni anno si recava a Materdomini e suscitava un’ esaltante tensione in chi per la prima volta catturava lo sguardo penetrante di quella statua. La maschera cerulea d’un rosa appena accennato, gli zigomi calcati, il sorriso trattenuto e poi quegli occhi dritti al cielo e al tempo stesso fraternamente rivolti sugli astanti, quel collo sottile che si confonde con un bianco colletto sotto la nera tunica liguorina, la quale si muove al primo alito di vento o al primo brusco movimento e, infine, quelle mani ossute e nervose che non vogliono abbandonare, che non intendono separarsi da un crocifisso d’ argento. Chissà quante preghiere avrà ascoltato, quanti dolori lenito, quante speranze avrà suscitato ... Nelle tiepide navate, illuminate da candele che spandevano un grasso odore di cera, si aggiravano tutte queste persone intente a leggere lapidi, ad ammirare volte e pareti affrescate, a fissare gli stucchi dorati che luccicavano al bagliore dei lumi, a decifrare le vetrate colorate che la luna piena, coricata sul Paflagone, proiettava sui pavimenti. Si andava, poi, a dormire sul sagrato, nel cortile, in vecchi casolari e pagliai abbandonati. E chi non aveva sonno riposava il suo sguardo vagando in quel gioco di ombre e di penombre che si rincorrevano, orna-


106 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA te qua e là di luccichìi, di puntini luminosi come nei cieli di cartapesta dei presepi napoletani. Sì, era proprio un presepio di quelli che, ricordo, i Padri Redentoristi allestivano ogni Natale, che mettevano su con l’occhio rivolto a queste terre e con il cuore e la mente immersi nei gomitoli di stradine vesuviane, tra gente che si industriava per tirare avanti la giornata, tra vicoli e palazzi rovinanti di una Napoli viva. Ecco la pietra di S. Vito, la sua nitida sagoma scivolare sulla dorsale di Palmenta per poi precipitare a Tredogge. E lì, sotto Paflagone, un ammasso di casupole, strette tra il fiume e il monte e, più distante, Pianello, Genzano, Persano, la conica altura della montagna di Calabritto e, in fondo, una valle che si slarga verso Quaglietta, i bianchi Alburni sinuosi disperdersi tra cielo e mare. Non si dormiva molto quella notte e non cessavano i cortei di pellegrini. La luce del giorno coglieva un villaggio già sveglio da qualche ora tra un trafficare di ambulanti alla ricerca di un posto dove piazzare la loro bancarella. Era pure iniziata la processione di contadini che spingevano i loro animali alla fiera, di donne con enormi ceste sulla testa cariche di prodotti della terra anch’essi destinati alla vendita. Sotto bianchi tendoni sostenuti da lunghe pertiche, i banchi del torronaio Stracolmi di “coperte”, di nocciole abbrustolite, di castagne infornate e ancora carrube e noccioline americane. Penzolavano ai bordi esterni lampade ad acetilene, a “carburo” si diceva. Poco distante dagli archi della Foresteria una baracca malandata dove una donna friggeva pezzi di baccalà indorati in farina di granturco, che porgeva ai clienti avvolti in fogli di carta oleata; sul banco vasetti con alici in salamoia, peperoni sottaceto e, per i più esigenti, polli rosolati, soffritto di maiale accanto a caraffe di vino invecchiato. Era una sciccheria sorbire una tazza di buon caffè nel bar lindo e moderno, per quell’epoca, di Antonio Zarra immerso tra le macchine fumanti e montagne di coni per il gelato ... Il barista sempre sorridente talora si portava sulla strada, dietro un bancone poggiato sul marciapiede, accanto ai venditori ambulanti di Ospedaletto. Ecco la calca, fiume umano che saliva e scendeva lungo la via del


107 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Santuario. In quel trambusto spesso avevano la meglio borsaioli e ladruncoli, zingare che ti costringevano alla lettura della mano,giocolieri di strada e venditori di illusioni. Era veramente simpatico un vecchio fotografo pugliese col suo cavalluccio di cartapesta e ancor di più il venditore di fortune con il suo pappagallino giallo in gabbia che, a comando, metteva fuori la testa beccando foglietti colorati da uno scatolino e regalando un quarto d’ora di speranza. E poi la corte dei miracoli, quei mendicanti veri o falsi con le loro stampelle, con le loro grigie bende sull’occhio ... una corte dei miracoli senza età: bimbi pallidi sollevati fra le braccia come agnelli sacrificati per smuovere pietà, anziane avvolte nei loro cenci con un sorriso appena stampato, con le mani aperte e abbandonate in grembo, rannicchiate sotto le arcate. Sembrava che molti stessero lì a ricordare a chi si accingeva a chiedere grazie un loro diritto di precedenza nel miracolo. S’apriva improvviso un solco tra quella folla, quando spuntava, scortato da gendarmi, il porporato di turno col suo seguito; era atteso lungo il percorso da quei pochi padri redentoristi non ancora indaffarati in altri uffici, i quali si univano a lui che era intento a dispensare benedizioni a gente distratta. Nella sala cinematografica, come in una catena di montaggio, si proiettava un filmato sulla vita del Maiella e il locale non appena si svuotava subito si riempiva di nuova gente. Si ergeva su tutte le case, come una persona non invitata ad una festa, stridente con tutto il resto, la Casa del Pellegrino nel suo stile prefettizio di Palazzo di Governo. Era mastodontica, ma assente e distratta da tutto quello che le avveniva intorno. Quella moltitudine, però, non sembrava preoccuparsi per niente della sacralità di quel luogo. Una gestualità eccessivamente ostentata e quasi teatrale aveva il sopravvento sul villaggio. Ecco, allora, dietro a delle donne scalze che strisciavano sulle ginoc-


108 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA chia con le mani levate al cielo e coi capelli sciolti sulle spalle, scivolare popolane discinte nell’ abbigliamento che danzavano al ritmo di tamburelli. Non lontano dalla via del Santuario, su una collina incolta, si teneva frattanto la consueta fiera; tutto intorno, a corona del sito, una sterminata baraccopoli di mercanzie varie, lì esposte per l’annuale spesa dei contadini. Era un interessante emporio che richiamava tante persone, lì accalcate a discutere animatamente di prezzi e qualità, a tirare e a mollare merce, ad allontanarsi, a riavvicinarsi. Ma il pianoro era soprattutto invaso da ogni genere di animali, lì trascinati in malo modo per essere venduti. Era una nostrana arca di Noè: scrofe con i loro maialini, mucche e vitelli, cavalli, asini, muli e puledri, stie piene di conigli, polli e tacchini. Era cura delle contadine impegnarsi a selezionare per l’acquisto i maialini da ingrasso, il cui prezzo sarebbe stato a breve contrattato dai mariti: concluso l’affare le donne li avrebbero presi in braccio e portati velocemente a casa. La visita alla fiera degli animali era in genere l’ultima tappa; poi si sarebbe ritornati al proprio paese. Si spopolava, a quel punto, Materdomini, ritornava dovunque la calma in attesa della processione che verso le quattro si sarebbe mossa verso Caposele. E, puntuale come un orologio, ecco il Santo, portato a spalla, comparire solto le arcate del sagrato anticipato dai Padri redentoristi disposti in doppia fila che si facevano strada tra una folla di nuovo accorsa che si assiepava sul piazzale. La processione imboccava la ripida stradina ghiaiosa e tortuosa che da Materdomini conduce ancora oggi al ponte sul Sele. Si snodava lungo i tornanti tra giovani querceti abbarbicati sui pendii franosi. E la statua del Santo sussultava ad ogni brusco movimento, pareva quasi che inciampasse e in quel momento era forte l’apprensione e poi, ancora, il sollievo per un pericolo scampato. Era un’avventura quella discesa che toglieva il respiro, ma quello sforzo era ripagato da una Caposele trepidante che, in preghiera, attendeva giù sul ponte l’ arrivo di Gerardo. E non appena la statua raggiungeva il paese, un applauso scrosciante rimbombava nella valle; l’arciprete salutava il rettore del santuario e la


109 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA banda musicale intonava un inno di devozione al Santo. Dopo quella sosta la processione riprendeva il suo cammino lungo la strada che porta ancora il nome del giovane di Muro Lucano. Lo spettacolo era dei più rari e commoventi: una fiumana di uomini e donne, vecchi e bambini, tutti a cantare e insieme a loro i tanti forestieri che nell’ultimo segno di devozione erano scesi a Caposele. Alla nera tunica del Santo penzolava moneta cartacea e, per grazie ricevute, tutte intorno a Lui, decine e decine di donne che s’erano “imposte” sul capo mezzetti pieni di grano, donne vestite del nero abitino redentorista in segno di ringraziamento. La processione raggiungeva via Caprio, via Zampari, piazza Sanità e poi ridiscendeva le strade del paese per una breve sosta in piazza Masi e via, di nuovo, al Ponte. E lì si ripeteva come in un rito un ‘emozione antica, un ‘emozione collettiva che suscitava un sentimento di compiacimento per tanta visita ricevuta, ma suscitava anche il desiderio di non separarsi dal Santo di Caposele. Un applauso finale coglieva S.Gerardo mentre riguadagnava il cammino verso Materdomini, seguito dai suoi più tenaci devoti. Intanto i pellegrini, anch’essi scesi a Caposele, di lì partivano per ritornare nelle terre lucane, con la rabbia nel cuore di chi si divide da un figlio trattenuto altrove, con la gioia di chi sa di poterlo raggiungere anno dopo anno e godere della sua benevolenza. Si chiudeva, così, una giornata faticosa che non produceva disagio e di cui si sarebbe parlato per qualche settimana. E Gerardo ritornava alla sua casa austera che l’aveva visto umile servo e che ora lo serbava gelosamente nella sua angusta ma ricca cappelletta come rara pietra preziosa in cassaforte.


110 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA “Nonostante le continue assicurazioni in merito a una vitalità del movimento fascista nel suo comune, apprendiamo da segnalazioni riservate pervenuteci una inquietitudine e una strisciante critica verso il Regime. Le continue manifestazioni di dissenso, peraltro riportate dalla stampa locale in difesa delle acque residuali del Sele oggi necessarie per motivi bellici, conferma la incapacità o la scarsa volontà a domare una vicenda che può celare opposizione politica. Si registra, infine, del caso Caposele, che ad oggi non ha comunicato alcun caso di contestazione del Regime, la qual cosa appare strana e non interpretabile come consenso plebiscitario al lavoro che S.E. Mussolini sta conducendo nell’intera Nazione. Si chiede di voler gentilmente controdedurre in merito. F.to Il Segretario Federale. La nota fu letta con stile notarile dal Segretario del Fascio alle nove persone convocate in via riservata quella sera. La porta della sezione era stata sprangata dall’ interno, fatto questo inconsueto che dava preoccupazione ai convenuti. D’altra parte, il carattere gioviale del Segretario, repentinamente tramutatosi in serio e cupo, costituiva un ulteriore elemento di allarme, era in genere così sciolto e prolisso nel parlare, ma quella sera la sua voce era tremolante, incerta ed essenziale. “Ve lo avevo detto “, sbottò, “che qui vogliamo scherzare col fuoco. Il Fascismo, cari camerati, è una cosa seria e qui lo applichiamo all ‘acqua di rose! Voi mi avete voluto Segretario e ora voi mi cacciate da questo imbroglio. Voi lo sapevate che non volevo accettare la carica di Segretario ... E ora che si fa? Vedete, io ho famiglia, sono sempre stato un buon fascista, ma a dirigere il Fascio, lo sapete, non è cosa mia”. Un pò tutti si guardarono in faccia, qualcuno si stiracchiò sulla sedia, un altro tossì, altri ancora si misero a scrutare le pareti come se fossero coperte da quadri d’autore. La riunione piombò in un silenzio. Dopo qualche minuto l’istruttore militare, in genere sempre baldanLa purga


111 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA zoso nell‘ impartire comandi durante i sabati nelle esercitazioni della gioventù fascista, si alzò di scatto dalla sedia e ruppe il ghiaccio a modo suo. “Prima di parlare di lettere e di risposte, noi dobbiamo chiarire una questione per sapere se siamo uomini oppure no, ma soprattutto per sapere se ci possiamo fidare tra noi, perchè in caso contrario io non parlo. Vedete, la lettera del Federale è chiara: qui c’è qualcuno che fa il doppio gioco: nelle riunioni non dice nulla e poi si mette a fare lo spione. A questo punto si levarono proteste e contestazioni e a mala pena il Segretario riuscì a sedare la riunione, ricordando che fuori c’era gente e che non era conveniente trasferire all’esterno l’agitazione dei loro animi . Chiese, a quel punto, la parola il Segretario Comunale per registrare che la reazione dei presenti confermava la loro estraneità alla delazione e che eventuali responsabili andavano cercati altrove. Buttò acqua sul fuoco, riferendosi alla nota del Federale rassicurando che nei giorni successivi avrebbe chiesto chiarimenti ad Avellino. “E’ stato l’arciprele”, borbottò il notaio “quello non ci può vedere e non per simpatie democratiche! Sti preti dopo il Concordato pensano di comandare loro! Bisogna dargli una lezione”. “Calma, calma”, disse il farmacista,”Il Federale ci chiede di dare una lezione agli antifascisti e non ai camerati. Qui rischiamo di cadere dalla padella nella brace. Lasciamo perdere la caccia alle streghe e vediamo cosa bisogna fare”. La riunione ripiombò nel silenzio. Il Segretario nervosamente rivolse lo sguardo a quella muta compagnia, interrogandola con gli occhi. C’era già chi guardava l’ora, chi indossava il soprabito, la riunione rischiava di finire lì. Per la verità, il locale non era dei più invitanti e piacevoli, pieno di polvere e cartacce com’era. Né gli dava un‘atmosfera di sobrietà e di austerità quella serie di foto appiccicate sui muri, di slogan stampigliati in nero sulla parete frontale. Poi, quei labari funesti ricamati in oro che affogavano il focolare in un angolo, pur esso tetro, davano il senso della “vitalità” di quel luogo. Il medico, a quel punto, prima che il Segretario invitasse responsabilmente a restare, lanciò un’idea. “Vedete, disse, si è fatto tardi e francamente non ce lo faccio a restare più qui. Oltre tutto, per quanto sprema la materia grigia, di idee non me ne vengono più. Perchè non aggiorniamo la riunione a dopo cena? Può darsi che le calorie ci portino pure una buona idea per una via


112 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA d’uscita. Allora. che ne dite di rivederci verso le otto a casa mia?”. Inchiodati da quella proposta sparata all’improvviso, tutti si dissero d’accordo. Alla chetichella uscirono dal fascio, salutaronofrettolosamente quel gruppo di aficionados che sostava lì davanti, e via per le loro strade. Verso l’ora stabilita, i nove si rividero davanti al caminetto, Quattro sedettero attorno al tavolo di noce e cinque su comode poltrone di velluto. Si tagliò corto con i convenevoli e subito la riunione riprese. Chiese subito la parola il Podestà, che fino a quel punto aveva taciuto assieme al responsabile della milizia. “La situazione” diventa sempre più delicata, disse. Il sostegno leale al Duce comincia a scricchiolare e non è da escludere che ci sia chi trama a Roma e nella provincia per mettere in discussione le conquiste e le scelte del fascismo. Il silenzio, allora, può diventare pericoloso perché frainteso e contrabbandato come mancato sostegno a Mussolini. E allora sarebbe un passo falso rispondere al Federale che qui tutto va bene. Potrebbe essere interpretato come una conversione democratica e questo, oltre a non essere vero, è preoccupante. Noi dobbiamo, almeno tra noi, essere sinceri. Qui a Caposele il fascismo è sorto più come fenomeno di regime che d‘avanguardia. Siamo stati addirittura tiepidi anche quando c‘è stata la sommossa per l‘acqua e non abbiamo sostenuto il Partito nemmeno quando chiedeva misure esemplari contro quei quattro pazzi che pensavano che con la loro sommossa di piazza la spuntavano contro i pugliesi. Io credo, allora, che sia legittimo da parte di “chi sta in alto pensare che qui stia succedendo qualcosa di strano. E allora, ci piace o non ci piace noi qualche azione dimostrativa pure dobbiamo darla. All’Arciprete? Manco a dirlo: qui scateniamo un putiferio con la Curia. A Donna Ersilia? E che ce ‘la prendiamo con le donne? Don Pasquale? Mah: c’è qualcuno che è d’accordo a creare qualche eroe? A qualche nostro parente? Io non me la sento veramente non so che pesci pigliare. Qualcosa, certo, dobbiamo fare”. “La purga! disse, scattando dalla sedia, l’istruttore militare. “non siamo stati “cazzi” di dare una purga dopo venti anni. Ma che fascisti siamo?’ “La purga vabbè “, interruppe lo speziale, “ con una purga mica vogliamo mandare qualcuno al bagno penale!


113 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Va bene la purga, istruttò, ma a chi? Qui serve un nome, non non una filosofia!” “Calma, calma,” disse l’istruttore, ”fatemi parlare: io il nome ce l’ho e so convinto che siete tutti d’accordo! Na bella purga, poi lo comunichiamo ad Avellino e qualche giorno dopo rispondiamo al Federale, che ne dite?” “Caccia sto’ nome, Salvatò”. “ ... FI.Pi .... “ chi è?” chiesero in coro gli altri . “Franc‘tiell,,” . “E che c’entra quel povero cristo? chiese il Segretario comunale. “ Non c’entra niente ma, proprio un santo non è. Mi hanno riferito che questo Franc’tiellu puntualmente, ogni sera, nonostante abbia una famiglia da sfamare, si permette il lusso di sbarcare da una cantina all’altra. Si ubriaca in un modo indecente. Non si cura di coprifuochi, di ordinanze, protesta sempre contro tutti,· schiamazza e si rifiuta di iscriversi al Partito con la scusa che non tiene soldi! Vi piace o non vi piace, quello è un antifascista. Mi hanno addirittura riferito che una notte, a voce stesa, cantava bandiera rossa”. “In vino veritas” sentenziò il padrone di casa. “Scusate, disse l’istruttore, se ci facciamo scappare questa occasione e facciamo tanti scrupoli, l’antifascista ve lo sognate; Non perdete tempo allora e rispondete al Federale”. “Ma non scherziamo, disse il Segretario del Fascio, che figura ci facciamo quando si saprà che abbiamo purgato un ubriaco! “Un momento, un momento” disse il comandante della milizia,”e chi l’ha detto che ad Avellino dobbiamo comunicare che trattasi di un ubriaco?” Si guardarono tutti in faccia. Qualcuno storse la bocca, ma alla fine sembrarono tutti concordare. Della cosa si interessò l’addetto alla milizia, dopo aver fornito la guardia di una buona dose di purgativo. L’ azione dimostrativa avvenne alla solita ora di notte, testimoni alcuni avventori della cantina. La notizia si sparse il giorno dopo come un baleno, i più la interpretarono come una punizione per chi abusa di alcool e tra i più molti condivisero la misura. Il Segretario del Fascio, invece, si premurò, il giorno dopo, di inviare al Federale una nota:


114 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA AI Segr. Federale del P.N.F. AVELLINO Camerata Segretario. ti comunico che ieri la Milizia ha colto il sig. P.I.P.I. in spregevole atteggiamento di sfida al Regime Fascista. Infatti. come si evince dal verbale che si allega, con fare baldanzoso, alla presenza di morigerati militanti fascisti cantava la vituperata “Bandiera Rossa “. Si è, pertanto proceduto a punire il suindicato con una dose adeguata di purga, per scoraggiare il medesimo da future sfide e per offrire fermo esempio di lealtà al Duce. Viva il Duce Il Segretario del fascio di Caposele


115 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Sedeva immobile su una panca di marmo dietro una vetrata fumé, quasi a confondersi all’interno di quel luogo in penombra anche a mezzogiorno. Se avesse potuto, avrebbe spento anche quei lumini sospesi nell‘aria, che di bagliori proprio non ne emanavano. Quei lumi, racchiusi in un cristallo spesso, dovevano restare lì come tarli della memoria che le rodevano dentro e le davano la forza di vivere. Quelle fiammelle stanche, consumando la cera, le segnavano lo scorrere del tempo e le rammentavano, ove fosse stato necessario, che lì erano stipati, tutti i suoi affetti. Una donna minuta, invecchiata prima del tempo, nonostante i suoi cinquant‘anni, un viso scavato come l’alveo di un torrente, occhi di ghiaccio, volutamente spenti, capelli bianchi e composti come marmo statuario. La sua testa era pressoché piegata in avanti e il suo mento affondava sul nero del suo vestito su cui si stagliavano le sole mani abbandonate nervosamente in atteggiamento di preghiera nel suo grembo, sulle nere scarpe uno schizzo qua e là di fango. Si levava dal letto alle sette e trenta in punto. Rassettava velocemente il suo angusto prefabbricato e con una puntualità ossessiva si presentava all’albergo; qui c’era sempre qualcuno che, non appena la vedeva in un angolo della hall, subito si precipitava ad accompagnarla in macchina verso l’unico posto che avrebbe voluto raggiungere. Alle dodici in punto qualcuno l’avrebbe riportata a casa e poi di nuovo lì per tutto il pomeriggio, fino all’ ultima luce del giorno. Consumava, cosi, le sue giornate senza emozioni. Eppure si sentiva esplodere dentro un vulcano che a fatica tratteneva: una forza distruttiva che ella accaniva contro di lei e che non voleva esternare perché rifiutava di sentirsi oggetto di pietà. Le pesava non poco quella solidarietà e quell‘affetto, seppure sincero, che la circondavano. Quel dolore era tutto suo e non intendeva dividerlo con nessuno, nemmeno con sua madre. Il suo dolore era incommensurabile e la sua situazione, frutto di una Leo


116 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA molteplicità di coincidenze, ormai catalogata come orchestrata congiura di un mondo a lei ostile. Sembrava assopita su quello scanno di marmo; invece arrovellava la sua mente a ricostruire la sua tragedia, ad imprigionarla in una trama perfetta al di sopra di ogni ragionevole confutazione. Quelle ore solitarie trascorrevano, giorno dopo giorno, anno dopo anno, come repliche di drammi teatrali in cui l’autore e l’attore ad ogni spettacolo di successivo affinavano la loro monotonia tematica e artistica. E, allora le appariva Leo che era sul ballatoio a guardare quel cielo rossastro di novembre, mentre calava il sole. Era stata una giornata particolarmente calda, tutt‘ altro che autunnale. La piazza era ancora affollata dalla gente riversatasi a passeggiare. Ella era in cucina a preparare le ultime cose per la cena. Guardava nervosamente l’orologio, pensando che il marito, a breve, le avrebbe formalmente chiesto perché mai Enzo non fosse ancora ritornato da Lioni. Non passò qualche minuto che suo marito, sbottò chiedendo qualcosa che già sapeva. Fu un ‘autentica fatica esigere che le figlie si mettessero in macchina e raggiungessero il fratello a Lioni. La grande era rassegnata a non discutere l’ordine e sapeva che erano inutili le proteste della sorella che voleva trattenersi con le compagne a Caposele In quella serata calda e piacevole. Carmela sapeva che mai e poi mai le sarebbe stato consentito viaggiare da sola. Infastidiva, però, il fatto che sua sorella fosse stata costretta ad un ruolo che disdegnava e che, comunque, avrebbe dovuto recitare. Quella sera, poi, era andata oltre il dovuto: era stata capace, lei che non discuteva mai gli ordini del padre, di dire no, e no per poi soccombere in lacrime ed obbedire. Se solo avesse avuto la forza di resistere! Partite, infine, ritornò la calma. E con la calma, l’ansia di un‘attesa, le continue occhiate all’orologio, uno sguardo oltre il muro di cinta ad ogni rombo di motore. Per un momento tutto sembrò fermarsi; l’aria diventò pesante. Ad un certo punto si levò un vento caldo e polveroso e s’avvertì un senso di leggerezza. Poi, un boato, quello cupo e assordante di un treno in galleria. La terra si mise a tremare, a roteare, a sussultare, a ondeggiare. Si sentivano i rumori più disparati in lontananza: grida, lamenti, scrosci.


117 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Era il terremoto. Distruzioni dovunque. La gente si precipitò nel Cantiere, lontano da case squarciate e da muri pericolanti. La terra continuava a tremare e ad ogni sussulto pianti e clamori. Leo e sua moglie, nonostante fossero stati assaliti da tutta quella gente, s’erano isolati in loro stessi, ammutoliti e inebetiti dall’assenza dei loro figli. S’erano fermati sul muro che fa angolo colla via di Diomartino e di lì controllavano le confluenze stradali che sfociavano in piazza. Era decisamente un’impresa distinguere al solo chiarore della luna le figure frettolose che s’avvicendavano in quei luoghi. Erano degli sbandati che vagavano senza meta alla ricerca di questo o quel parente e che nel momento in cui si ritrovavano si avvinghiavano in segno di gioia e di soddisfazione, come se quello fosse un incontro festoso, incontro stridente con tutto quel trascinare in quel trambusto corpi sanguinanti o senza vita, quei corpi che si superava a fatica saltando o inciampando. Tutto ciò sembrava non interessarli più e più passavano le ore, più i loro sguardi s’impietrivano e a nulla valevano notizie inventate là per là su Lioni risparmiata dal terremoto. “La mala nova la porta lu viendu” si sentì di dire da una donna nel tentativo di rincuorarli. Avvertivano, all‘unisono, che s’era consumata una tragedia, quei figli che amavano fino all’ossessione, che avrebbero strettamente protetti fino a soffocarli, non sarebbero più ritornati vivi a Caposele. Era un segno poco incoraggiante il fatto che da Diomartino non una macchina scendesse verso Caposele: tutto faceva presagire che Lioni fosse un ‘immensa rovina. Già si organizzavano i primi soccorsi, si componevano i morti alla meglio e si dava assistenza ai bambini e agli anziani, intirizziti da brividi di paura, più che dalla umidità che saliva dal fiume ingrossato e spremuto dalle sue viscere benchè non fosse piovuto. Un fiume fangoso e minaccioso che strideva con quell‘aria calda e calma. C’era chi, vinta la paura, si offriva volontario per raggiungere il più vicino ospedale a trasportarvi i feriti gravi. L’ incolonnamento di macchine verso la Valle del Sele faceva presagire che quest‘ultimo lembo d’Irpinia aveva reciso ogni contatto con la Valle


118 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA dell’Ofanto. Risultavano percorribili le strade per Materdomini e quella lungo il fiume che si collegava con la statale. Tutte le altre erano un enorme ammasso di macerie che celavano nel loro ventre cadaveri o corpi che ancora si dibattevano. Don Amerigo, coadiuvato da alcuni giovani improvvisatisi infermieri e più in là il dottor Melillo visitavano alla svelta i feriti a loro sottoposti e con una rapidità eccezionale imposta dalla necessità del momento, come Minosse nel girone dantesco, allontanavano i meno bisognosi di cure, trattenendo i casi più preoccupanti cui era assicurata una cura immediata per poi affidarli a qualche volenteroso che li dirottasse in ospedale. Si ricomponevano, frattanto, le famiglie, gli amici, i conoscenti: più passava il tempo e più si assottigliavano le file di coloro che disperatamente ricercavano i propri cari. Meno erano questi sfortunati, più acuti erano i lamenti che lanciavano alla luna, sentendosi esclusi da quella gioia di ritrovarsi che pervadeva la maggior parte dei presenti. Non tardò molto ed ecco arrivare un giovane da Lioni , e dopo qualche minuto altri ancora furono letteralmente assaltati perché raccontassero di Lioni. Si riuscì ad avere solo la notizia che lì era stato un disastro, un massacro, soprattutto dove le case erano più recenti. Fu questo il secondo colpo mortale per quei due disgraziati dai cui occhi non scorreva una lacrima. Chissà se addirittura comprendevano il senso di quel racconto terribile. Non ci fu verso di convincerli a rientrare nel cantiere. Solo all’una di notte, quando la terra riprese a tremare, si avviarono istintivamente verso casa.Suo marito avanti e lei qualche passo indietro, muti ed assenti, l’uno estraneo all‘altra, tra l’ assordante vociare di quella notte in cui nessuno avrebbe dormito o riposato. Non una volta si sentì pronunciare il nome dei figli, quei nomi rimbombavano dentro e li distruggevano , attimo dopo attimo un rimorso che non sentivano di confessarsi. Si faceva strada nella loro disperazione l’idea di aver mandato al macello due figli, di averli uniti al tragico destino dell’altro. Avevano sacrificato ed immolato la loro ragione di esistere. Com’era devastante la parabola del buon pastore che lascia l’ovile per andare alla ricerca della pecorella smarrita.


119 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Passò la notte. La radio già dava notizie del disastro in Irpinia e Lucania:‘ elencava i comuni , parlava di una chiesa lucana che aveva seppellito una comunità, di un palazzo popolare a Napoli e poi di Lioni, S Angelo, Laviano, già erette a capitali -simbolo di un terremoto. Parlava di migliaia di morti e di tantissimi feriti. Il sole non sorse quella mattina: dalla notte si passò ad un giorno plumbeo. Un cielo giallastro come il fiume limaccioso. Una fastidiosa pioggerella che impastava la polvere sul volto degli scampati. Le ispezioni ufficiali delle autorità del luogo incominciavano a dare le prime direttive di organizzazione di una vita collettiva che sarebbe durata per qualche tempo. Sembravano sparite le divisioni e i rancori di un tempo, in tutti o quasi si rafforzava l’idea che solo se uniti si sarebbe superata ogni difficoltà. Tra quelle rovine si faceva largo la l’idea di una città del sole che qualche settimana più tardi sarebbe stata cancellata dalle memorie. Le prime squadre di soccorso, organizzate alla meglio, scavavano ovunque ci fosse indizio di qualche corpo: prima i vivi si disse, poi i morti. E c’era già chi inchiodava quattro tavole per approntare una bara, chi scavava fosse nel Cimitero, Don Vincenzo, tutt‘altro che stanco di una notte trascorsa tra case in rovina alla ricerca di voci flebili o invocanti, era già all’ opera, a dare coraggio tra al suo popolo che stava piombando nella disperazione. Si seppe a mezzogiorno dei tre ragazzi di Caposele morti a Lioni nei crolli di palazzi che avevano ingoiato tante famiglie e fra queste tanti caposelesi. Leo e sua moglie non seppero mai del recupero dei corpi dei loro figli. Quando la loro morte fu certa, la moglie di Leo uscì dalla sua pietrificata solitudine: sentì che sarebbe dovuta diventare compagna e madre di Leo, avvertiva che sarebbe stato fatale abbandonarlo al suo dolore incapace di esplodere. Sapeva, pure, che quel ruolo spettava a lei e non ad altri perché solo lei sapeva leggere pazientemente nella mente di lui, solo lei poteva decifrare quell’apparente calma di uomo forte e inflessibile. Non l’avrebbe lasciato nemmeno per un momento solo: doveva reprimere il dolore che la corrodeva dentro e rimandarlo a tempi più sereni.


120 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA Ora non era tempo di piangere e disperarsi. Le sembrò una liberazione e un sollievo la notizia del fratello venuto per portarli lontano da Caposele. Comunicò subito la notizia al marito e non le sembrò che si opponesse. Certo aveva perduto la capacità di decisione che in passato non delegava a nessuno. La donna, allora, quasi ad anticipare i tempi per staccarsi da un posto familiare e carico di ricordi che poteva essere pericoloso per il marito, già nel primo pomeriggio aveva riempito valigie e pacchi. Li aveva posati nel1’androne per convincere se stessa e Leo di una decisione ormai assunta dalla quale non era più possibile ritrarsi. Non le era, però, servito a niente affrettarsi , prima che calasse il sole. Le rimaneva ancora qualche ora e queste inevitabilmente le consumò vagando in quelle due stanze che pure aveva serrato per vietarle a suo marito. Stanze chiuse che già risentivano di una assenza. Ogni cosa era al suo posto; la scrivania con libri e quaderni aperti, come il fotogramma di un film interrotto da uno spot, l’armadio socchiuso, la maglia rossa sulla spalliera di una sedia. Nella penombra di quelle stanze, la donna esplose in lacrime soffocando ogni lamento: un pianto abbondante che tratteneva da giorni e che le aveva inondato tutto il viso. Non appena sentì il rumore di passi familiari, corse nel bagno, facendosi cogliere nell’atto di lavare la faccia. Indugiò, vedendolo sulla porta, prima nell‘ asciugarsi e poi nel pettinarsi. Scesero entrambi giù nel cortile. Trascorsero un‘ altra notte in macchina avvolti tra coperte di lana. La donna non chiuse occhio pensando al viaggio: fu la stessa sensazione della prima partenza da Caposele, quand’aveva vent‘anni ed era combattuta tra il desiderio di andare e quello di restare. Suo fratello arrivò puntualmente, caricò le valigie e i pacchi m macchina giusto il tempo per i convenevoli tra amici e parenti lì accorsi per salutarli. Leo sembrava aver riacquistato una rassegnazione, se non proprio la serenità, ed era lì appoggiato alla macchina ad ascoltare sua moglie che discuteva con i vicini. Si era lì per mettersi in macchina; dopo un momento di indecisione, Leo corse su per le scale dicendo che


121 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA aveva dimenticato la sua carta di identità. La donna ebbe appena il tempo di dire a suo fratello di raggiungere in fretta suo marito in casa, che si sentì un forte sparo di fucile e dopo qualche secondo un grido. Le si rizzarono i capelli in testa e un brivido l’attraversò tutta. Ora era “veramente sola: non era stata capace di salvare il suo uomo e il suo uomo non le aveva permesso di condividere la sua scelta di morte. Le ritornarono nella mente questi pensieri, stretta lì tra la vetrata fumé e i loculi di marmo, quando sentì qualcuno tossire. Non si curò nemmeno di sollevare la testa, si alzò, lanciò uno sguardo alle lapidi, fece un segno di croce e usci sul vialetto. Il cielo era quello di sempre, l’aria alquanto più fredda del solito. Sperava in cuor suo che l’indomani non piovesse; la tristezza della pioggia avrebbe attutito la sua voglia di sofferenza.


122 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA I n una stanza bianca ed angusta, era serenamente assopito sotto il peso silenzioso delle lacrime dei suoi cari. Pietrificato? Non direi. Il suo viso non era ancora vinto dal pallore; giurerei che sorrideva ancora, sembrava che sfidasse beffardo la morte. Che brutti scherzi ti fa l’amicizia! Fuori splendeva un sole tanto atteso, dopo giorni e giorni di una uggiosa pioggia incessante che aveva annacquato la primavera.... L’ultima volta che l’avevo visto, Donato mi aveva parlato, appunto, di una stagione che s’era presa gioco di noi tutti, mentre incombeva una campagna elettorale. Lo vedo ancora là, seduto dietro la sua scrivania che, all’occorrenza, si trasformava in laboratorio “tipografico”, stretto tra scaffali ed il suo computer, con un occhio intento a sbirciare sul cortile chiassoso, dove, in genere, i bimbi giocano e le donne, sedute su scanni, ragionano. E lì a farsi in quattro tra montagne di carte, pressato dalle scadenze e dai committenti che riceve cordialmente e pazientemente nello studio. “Chiedi a Donato!” dice Nicola”Parla con mio Zio”! gli fa eco Salvatore. Si, perché Donato, in fondo, è l’anima di quello studio, è il testimone muto e laborioso di tante vicende che si sono sgranate come un rosario, in questi ultimi trent’anni... Ha fretta Donato in questi giorni: è come se non voglia concedere più tempo al tempo. Eppure è sempre calmo ed imperturbabile, per niente nervoso, non ti nega l’ascolto e meno che il suo inconfondibile sorriso. Si intuisce, però, che tenta di accelerare il corso delle cose. Discutiamo di tutto partendo dal nulla e alla fine si affastellano idee, timori, ricordi e progetti futuri. Ripercorriamo assieme, come solo sanno fare due vecchi amici, gli anni del terremoto, i primi vagiti de “La Sorgente” ormai L’ultimo racconto


123 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA adulta che reclama di esistere. Mettiamo alla prova la comune passione per l’Inglese. E, alla fine, il discorso va sempre a cadere su un libro di “acquerelli Caposelesi” che pure reclama di vedere la luce. “Me lo prometti una buona volta di incollarti a quella sedia e di discutere seriamente di questo progetto? In fondo, tutto è pronto, si tratta solo di dare ordine cronologico ai racconti e poi per il resto sarà cura mia?” Io gli dico per l’ennesima volte si ed egli prontamente mi risponde: “Speriamo che sia la volta buona!”. Tento di mollargli istintivamente una sigaretta, dicendogli che Nicola non c’è....Declina gentilmente e mi e mi ricorda che ormai non fuma più da mesi. Aggiunge:”Non posso più scherzare col fuoco, la cosa è diventata tremendamente seria e non mi posso permettere il lusso di trasgredire”: Avverto che si sente appeso ad un filo: è il suo prolungato silenzio a farmelo capire. Gli chiedo come stanno a casa. E come un fiume in piena, ritrova vigore e parla di Rosetta, della figlia lontana di cui sente nostalgia dell’altra così premurosa, del suo adorato ometto e dell’ altra ancora che lo ha reso nonno per la prima volta. Ritorna a sorridere e non sta più nella pelle: non è cosa da niente essere nonno quando si deve sentirsi ancora necessariamente padri. Lasciamo lo studio per andare a bere un caffè al solito bar; si rientra e si lavora duro sulle bozze di un altro racconto che egli ha corretto meticolosamente e con discrezione. Ormai è tardi e decide di rientrare a Petazze. Lo attende la sua casa; a guardarla bene, sembra un cottage inglese, immerso in un giardino lussureggiante su una collina brulla e frustata incessantemente dal vento. Quel giardino è curato nei minimi particolari tanto da apparire artificiale... Sarà vero? Ad un tratto mi sovviene che Donato è un Conforti e allora mi convinco che quello è un miracolo verde che solo chi ama la natura, come i Conforti, sanno fare.


124 RINTOCCHI DEL TEMPO PAGINA RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI ALFONSO MEROLA RINTOCCHI DEL TEMPO ACQUERELLI CAPOSELESI ACQUERELLI CAPOSELESI On line su “SELETECA” 2014


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