CAPITOLO QUINTO
Martirio eroico
(800 “sìˮ per Cristo)
Otranto, colle dei Martiri: facciata della chiesa (foto di L. Farenga)
Il Pascià, accampato sul colle della Minerva, fece chia-
mare un Rays, il quale si diceva Saduc Sergente Maggiore
del campo, ordinando che «un’altra volta facesse battere
le grida per la città e di fuori, e che sotto la pena del palo
habbia a portare tutti li schiavi nella presenza sua li masco-
li, come le femine per augumentar, e crescere la casa del
nostro invictissimo (invittissimo) Mahomet Megha, e che li
portasse ogn’uno al suo padiglione, dove stava accampato
sopra la chiesa di S. Giovanni Evangelista, e così radunati
i poveri christiani a modo di pecorelle a due a due ed a tre
a tre legati portati avanti detto Bassà, dove sedeva al suo
padiglione»1.
«El pare», scrive Bendedei il 15 agosto del 1480, «che
heri venissero lettere da Anchona, come il turco aveva preso
Otranto et scorso per la Puglia ben 40 miglia infra terra et
menato ben quattromila anime cristiane…»2.
Un Ulema – ministro dell’Islam – arringò quel drappello:
«Otrantini, il mio signore vi offre un mezzo per riscattarvi.
Cercate di essere ragionevoli… Anch’io sono stato cristiano
e prete. Ma poi, accortomi dell’errore commesso, mi feci
turco perché Maometto è il vero messo di Dio… Non ve-
dete in che stato infelice vi trovate e in quale miseria per la
1 D. Moro, op. cit., pp. 63-64.
2 C. Foucard, op. cit., p. 93. Battista Bendedei era oratore estense presso
Papa Sisto IV.
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Lucca, pinacoteca privata di casa Melosi: I Martiri di Otranto, autore ignoto
vostra ostinazione? Ma sento che non posso abbandonarvi.
Ho pietà di voi anche se avete commesso un grave peccato,
prendendo le armi contro l’esercito di un grande signore…
Voi non potete fare altro che questo: riconoscere il vostro
errore e accostarvi alla fede di Maometto, la quale quanto
grande sia, lo potete dedurre dalle nostre vittorie e da quello
che vi è accaduto. Se Cristo fosse più potente di Maometto,
non vi avrebbe fatto pigliare»3.
Ed ecco farsi innanzi, con passo sicuro, uno di quella no-
bile schiera: il vecchio cimatore di panni, Antonio Pezzulla,
denominato poi Primaldo: «Noi abbiamo inteso, fratelli,
le larghe promesse fatteci dai Turchi. Io, a nome vostro,
le respingo. Nessuno tema le loro minacce; ma, seguaci di
Cristo, abbracciamo la santa Croce e il martirio che per noi
sarà vita, vita eterna!»4.
Un coro fece eco alle esortazioni del corifero intrepido:
«Sì, vogliamo morire per amore di Cristo!» Ottocento uomini,
da quindici anni in su, con le mani legate sul nudo dorso, a
gruppi di cinquanta, sfilarono per le vie di Otranto.
«Si disse che quando andavano così legati, una giovane
era ancora portata da certi turchi e, vedendo due suoi fratelli
così legati che andavano coll’altri, disse: – O Fratelli miei,
dove andate? – Rispose uno: – Andiamo a morire per amor
di Gesù Cristo –. A queste parole cascò in agonia e tramortita
in terra detta giovane e volendo un turco farla levare, le diè
colla scimitarra un colpo sul capo e l’ammazzò».
3 G. M. Laggetto, op. cit., p. 31.
4 Ibidem.
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Santuario di Santa Maria dei Martiri: l’eccidio degli Ottocento Martiri di Otranto,
olio su tela del XVI sec., attribuito a Lavinio Zoppo (cm 465x330)
Arrivati al «luogo destinato»5, gli Ottocento con coraggio
salgono il colle della Minerva.
Eccoli di fronte ad Agomat Pascià. Viene loro proposto
il preciso dilemma: o musulmani, e sarebbero conservati in
vita, o la morte.
L’intrepido condottiero di quel battaglione di generosi non
si spaventa e, rivolgendosi ai suoi concittadini: «Fratelli»,
esclamò, «avete ascoltato a quale prezzo ci viene proposto
di comprare gli avanzi di questa misera vita. Fratelli miei,
fino ad oggi abbiamo combattuto per difendere la patria; ora
è tempo di combattere per salvare le anime nostre per nostro
Signore, quale, essendo morto per noi in Croce, conviene
che noi moriamo per Lui stando saldi e costanti nella Fede:
e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna
e la corona del martirio»6.
Le parole di Antonio Primaldo furono accolte da un coro
di ottocento no a Maometto e ottocento sì a Cristo Gesù,
che trasformarono il colle della Minerva in ara del Signore,
ove «non vitelli o giovenche» venivano immolati, ma liberi
figli di Dio.
Si videro scene bellissime e commoventi: figli implorare
la benedizione dai genitori; genitori incoraggiare i figli ad
affrontare la morte; pensieri di felicità, teneri abbracci7.
Sembrava una festa: in tutti si rivelava una sorprendente
serenità di andare incontro al martirio, che Agomat fissò per
il 14 agosto, vigilia della solennità di Maria Assunta in cielo.
5 Ivi, pp. 31-32.
6 Ivi, p. 31.
7 Cfr. A. De Ferrariis, De Situ Japygiae, Editrice Salentina, Galatina, p. 115.
58
Cattedrale, Cappella dei Martiri: storica immaginetta raffigurante Antonio Pri-
maldo che, nonostante gli sforzi dei turchi per abbattere il suo tronco decapitato,
rimase ritto in piedi
La spontaneità del sacrificio di un popolo intero risalta ancor
di più se si riflette che Agomat, dopo i primi furori, permise
o tollerò la liberazione dei condannati sotto pena di riscatto.
Ne approfittarono venti persone le quali, senza apostatare,
comprarono la vita pagando 300 ducati a testa8.
Il turco, pur di ottenere un maggior numero di apostati,
promise agli Otrantini di restituire le spose, i figli, la libertà,
qualora avessero abbracciato la religione di Maometto.
Antonio Primaldo, inflessibile condottiero della falange
decisa nel proprio sì, rinnovò il giuramento di fedeltà a Cristo
Redentore, che fu solennemente ripetuto da tutti.
L’orrenda carneficina ebbe inizio dal prode e valoroso
Primaldo, decapitato per primo. Il suo tronco, però – nono-
stante gli sforzi dei turchi per abbatterlo – rimase in piedi,
ritto: cadde, solo quando la scure ottomana staccò il capo
all’ultimo degli Otrantini9.
A tale prodigio, il carnefice Barlabei si convertì al cristia-
nesimo e fu condannato alla pena del palo10.
Esempio unico più che raro di eroismo collettivo.
D’allora quella collina, bagnata dal sangue di tante vitti-
me, oltre alla originaria denominazione pagana, assunse nel
8 C. Foucard, op. cit., p. 166.
9 Cfr. A. De Ferrariis, Successi dell’Armata turchesca, in F. A. Capano,
Memorie alla Posterità delli Gloriosi e Confessori di Gesù Christo che patirono
Martirio nella Città di Otranto l’anno 1480, Pietro Micheli, Lecce 1670, p. 17;
D. F. De Araujo, Historia de los Martires della Ciudad de Otranto, in F. A.
Capano, op. cit., p. 27; G. M. Laggetto, op. cit., p. 41; A. Maria Verricelli,
Estratto De libro De Apostolicis Missionibus, in F. A. Capano, op. cit., p. 82; A.
Summonte, Estratto dell’Historia delle Città e Regno Napoletano - Parte Terza,
in F. A. Capano, op. cit., p. 84.
10 Cfr. D. F. De Araujo, op. cit., p. 27.
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Icona dei Martiri di Otranto, scritta da Renata Sciachì e donata all'arcidiocesi
dalla Comunità di Sant’Egidio (gennaio 1996)
linguaggio comune prima, e successivamente nella topono-
mastica cittadina, anche quella di colle dei Martiri11.
Le tenebre della notte, come sipario funebre, caddero sul
silenzio della grande ora, e per i corpi benedetti, sparsi sul
terreno, inizia la lunga attesa di un anno, quando dalla pietà
di Alfonso d’Aragona, raggiunta la città, saranno rimossi per
essere accolti nella cattedrale e nella chiesa di S. Caterina a
Formiello in Napoli.
«Mai in altra città del mondo, afferma un cronista del tempo,
citato da Lasorsa, si vide tanto orrore di empietà: gli eccidi che
avvennero durante gli assedi diTroia e di Cartagine, di Sagunto
e di Numanzia sono un nonnulla a paragone delle infamie e
delle crudeltà che commisero i turchi ad Otranto». Il cronista
nello scrivere aveva «l’animo tanto straziato e commosso che
gli offuscava la vista, le lacrime bagnavano le carte, e le dita
stecchite sulla penna non gli permettevano di scrivere»12.
Quando, l’undici agosto, la città di Otranto cadde in
mano al Turco, nell’Europa cristiana, nello Stato Pontificio,
nel Regno di Napoli, le reazioni furono analoghe a quelle
registrate nel mondo l’11 settembre del 2001.
Sisto IV pensa di fuggire da Roma; il re di Napoli fa pace
con Lorenzo dei Medici, denuncia vecchie alleanze, ne contrae
altre ritenute impossibili fino ad un giorno prima; re, principi,
baroni, marchesi, conti italiani ed occidentali si compattano di
fronte al comune pericolo e organizzano un esercito internazio-
nale, a capo del quale si designa lo stesso Alfonso d’Aragona.
11 Nel 1540, gli Otrantini, per onorare i gloriosi Martiri della fede, e per
trasmettere la memoria della profezia di S. Francesco di Paola, costruirono un
convento per accogliere i Religiosi Minimi.
12 G. M. Laggetto, op. cit., p. 37.
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CAPITOLO SESTO
La sofferta liberazione
(L̓alba di un tempo nuovo)
Liberata la città dai cadaveri in essa disseminati, il Pascià
si insediò con i suoi e con il macchinario bellico.
In breve le milizie turche, preso possesso del centro urba-
no, si dettero alacremente a riparare gli enormi danni da loro
stessi arrecati: a riattare le mura, ad installare strategicamente
le artiglierie per un’eventuale ripresa, a rader tutt’intorno il
terreno di alberi e di case, al fine di privare l’esercito libe-
ratore – se fosse giunto – da qualsiasi protezione o rifugio
naturale, a svolgere opere di barricamento in attesa di ulteriori
sviluppi generali.
Otranto divenne così una vera e propria cittadina turca,
anzi una fortezza turca contro l’occidente cristiano.
I vincitori non si accontentavano della sola base idruntina.
Difatti cominciarono a battere le campagne e depredare i vil-
laggi, spingendosi nelle scorrerie fin sotto le mura di Lecce
e più su, fino ad Ostuni, mentre già negli ultimi giorni dello
stesso mese di agosto una flottiglia di cinquanta navi, valida
di 6000 armati, risaliva l’Adriatico lungo la costa pugliese
fino al Gargano, per poi ridiscendere, dopo aver compiuto
alcune incursioni, prive di conseguenza, a danno delle po-
polazioni rivierasche.
Il Vicerè della Provincia, l’Arcivescovo De Arenis, alla
notizia dello sbarco dei turchi, aveva raccolto un piccolo
esercito e si era accampato a poche miglia da Otranto, nel
villaggio di Scorrano. Qui rimase fino alla caduta della
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Idruntum Civitas Apulie (da Giacomo Filippo da Bergamo, Supplementum Chroni-
carum, Venezia 1490, c. 256, 289)
Metropoli salentina; dopo si ritirò in Lecce per attendervi
l’esercito regio.
I turchi si impadronirono dell’abbazia basiliana di S.
Nicola di Casole, che usarono come luogo di smistamento
della cavalleria e come mattatoio dei capi di bestiame che
quotidianamente predavano.
Re Ferdinando, appresa la caduta di Otranto1, richiamò il
figlio Alfonso dal Senese, e allestì una flotta di ottanta navi
da guerra e quaranta galee, che affidò a Galeazzo Caracciolo
e inviò nelle acque di Otranto; diede 1500 lance al Conte di
Conversano, Giulio Antonio Acquaviva, che giunse a Lecce
il 2 settembre. Verso la metà dello stesso mese giunse anche a
LecceAlfonso, e si rese conto della triste situazione. Intanto Re
Ferdinando chiese aiuto aVenezia e a tutti i principi italiani. Ma
di questi solo Sisto IVrispose prontamente e generosamente2.
Venezia non ne volle sapere; Firenze, solo a perdono
ottenuto da Sisto IV3, si impegnò a fornire 15 galee per la
guerra contro i turchi.
Intanto l’azione bellica di Alfonso fu costretta a subire
una stasi, perché scoppiò la peste fra i soldati e perché venti
e piogge impedirono le azioni di assalto alla città. Tornò
1 Sigismondo dei Conti da Foligno, La Storia dei suoi tempi: dal 1475 al
1510, tomo I, Roma 1883: «La caduta di Otranto produsse addirittura uno sbalor-
dimento, non pure nella corte di Napoli e in quella Pontificia, ma in tutta Italia».
2 Cfr. Sisto IV, Bolla di indizione della Crociata contro i turchi, Archivio
Segreto Vaticano, 2 settembre 1480; nomina P. Angelo Carletti da Chivasso
predicatore della Crociata, Archivio Segreto Vaticano 1 dicembre 1480; incarica
P. Antonio da Mignano a raccogliere fondi per la Crociata, Archivio Segreto
Vaticano; indice la Crociata e commina sanzioni per questue non autorizzate,
Archivio Segreto Vaticano, 27 febbraio 1481.
3 Cfr. Sisto IV, Bolla di assoluzione dei fiorentini, Archivio Segreto Vaticano,
4 dicembre 1480.
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a Napoli lasciando due presidii di mille uomini ciascuno,
uno a Roca, l’altro a Castro, e nominò suo luogotenente il
prode capitano Giulio Antonio Acquaviva, che si accampò
a Sternatia.
Mentre le truppe napoletane erano così inattive, i turchi,
barricati in Otranto, ricevevano da Valona munizioni, vetto-
vaglie, armi e aiuti di ogni genere, e si preparavano a sferrare
una grande offensiva in primavera.
Da parte sua, a Napoli, Alfonso raccoglieva notizie, solle-
citava aiuti di truppe estere dalla Germania e dall’Ungheria,
e non trascurava la direzione delle faccende di Otranto.
Il 7 febbraio diede ordine al Conte Giulio Antonio Ac-
quaviva di effettuare una sortita. Il valoroso Conte, seguito
solo da dodici uomini, si scontrò con circa duecento soldati
turchi a cavallo presso il casale di Giuggianello. Dopo un
aspro combattimento, i nemici spiccarono la testa allo stre-
nuo guerriero con un colpo di scimitarra, ma il suo corpo
fu trascinato, lontano dalla mischia, dal cavallo e portato
insanguinato a Sternatia, recando in tal modo l’annuncio
della morte con la presenza del suo cadavere.
I turchi issarono la testa del Conte sulla punta di una lancia
e, di quando in quando, la mostravano ai cristiani.
Alfonso, addoloratissimo per la perdita del suo luogote-
nente, ordinò che l’esercito si riunisse sotto il comando del
valoroso capitano Capodiferro e si accostasse alla città, in
attesa della sua venuta col nerbo delle nuove milizie.
Durante lo stesso mese di febbraio, per ragioni non del
tutto chiare, fu richiamato a Costantinopoli Agomat Pascià
con quasi tutta l’armata, e in sua vece fu mandato ad Otranto
Ariadeno Belè di Negroponte.
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Di questa partenza approfittò la flotta cristiana ormeggiata
a Brindisi e, spintasi fino a Saseno, isoletta all’ingresso della
baia di Valona, vi attese l’armata del Pascià. Ma tra il capitano
Filomarino, napoletano, e il Capoto, genovese, si accese una
disputa: chi voleva attaccare e chi no. Quando si decisero ad
agire, la flotta era in gran parte al sicuro.
Ciò nonostante, catturarono 21 legni nemici, uccisero più
di mille turchi e liberarono i cristiani prigionieri. Favorito
da un fortunale, a stento il Pascià riuscì a sfuggire, anche se
si sparse in un baleno in tutta Italia la falsa voce della sua
cattura. Era il 25 febbraio.
Per quanto Sisto IV e Ferdinando si adoperassero per
mettere su un forte esercito e rigettare in mare il turco, non
riuscirono. Fallito questo tentativo, Ferdinando provò con
mezzi pacifici, e inviò al Pascià Sodoleto, ambasciatore
ferrarese presso la corte, per trattare personalmente, onde
ottenere, per via diplomatica, la restituzione della piazzaforte
salentina.
Il colloquio si svolse a Valona il 5 aprile, ma non ebbe
alcun esito perché il Pascià, in cambio di Otranto, voleva il
principato di Taranto.
In tanto pericolo intervenne la Provvidenza: improvvisa-
mente il 3 maggio 1481 morì Maometto II4. Sisto IVapprofittò
del momento, esortò i cristiani ad armarsi contro l’invasore
ed egli stesso allestì una flotta di trentaquattro navi sotto il
4 Cfr. D. Rohrbacher, Storia universale della chiesa cattolica dal principio
del mondo fino ai di nostri, vol. XI, Editrice Marietti, Torino 1878. La storia ci
assicura che Maometto II, al momento della sua morte, aveva raccolto nell’Asia
Minore un esercito di 300 mila combattenti. Forse voleva invadere l’Italia, sede
del Papato, suo naturale e implacabile nemico; Sisto IV, parla ai capi della flotta
che parte per Otranto, Archivio Segreto Vaticano, 30 giugno 1481.
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comando di Paolo Fregoso. Il 4 luglio la flotta salpò alla
volta del porto pugliese.
Il 15 giugno il DucaAlfonso era pronto per l’offensiva, di-
sponendo di un valido esercito rinforzato da millecinquecento
cavalieri tedeschi e da truppe spagnole, assoldate da Alfonso
d’Avalos, marchese di Pescara: in tutto ventimila uomini e
tremilacinquecento cavalieri. Facevano parte della spedizione
guerrieri e umanisti di fama; tra i primi, ricordiamo Jacopo
Piccinni e il futuro ammiraglio di Carlo V, Andrea Doria,
venuto in Otranto come paggio; tra i secondi, il Pontano, il
Sannazzaro, il Galateo, il famoso predicatore fra Roberto
Caracciolo e fra Serafino da Squillace che, liberata Otranto,
fu nominato Arcivescovo dell’Archidiocesi e ne tenne il
governo per trentadue anni (1482-1514).
Il primo pensiero del principe aragonese fu quello di
vedere gli 800 corpi dei Martiri ancora insepolti, incorrotti
e integri. Per suo ordine, furono repentinamente rimossi e
inumati nella chiesetta di S. Eligio, oggi distrutta.
A riordinare le genti d’arme, s’impiegò una settimana,
poi si aprì il fuoco.
Le forze erano pari, ed ecco perché dall’una e dall’altra
parte si evitava di sferrare l’attacco decisivo. Si effettuarono
diverse schermaglie, ove trovò la morte uno dei più valo-
rosi condottieri, il capitano Capodiferro. Questi, dopo aver
fatto strage di parecchi turchi nel corso di una loro sortita,
ricacciandoli con incauta baldanza nell’interno delle mura,
penetrò egli stesso credendo di essere seguito dai suoi; se
non che, appena dentro, si sentì calare le grate alle sue spalle
e si rese conto di trovarsi solo, nel recinto nemico. Piuttosto
che arrendersi, si batte’ da leone: la sua disperata difesa si
70
protrasse finché, trafittogli il cavallo, cadde anch’egli sotto
la furia delle scimitarre vendicatrici.
I particolari di questo episodio furono immediatamente
comunicati ad Alfonso per la fedele prontezza di un paggio
che, fatto prigioniero dal turco durante la prima campagna
del Duca sotto Otranto, divenuto valletto del Pascià, non
lasciava intentato nessun mezzo per rendersi utile al vecchio
signore. Quotidianamente, approfittando del silenzio e delle
tenebre notturne, scoccava nel campo cristiano una freccia, alla
quale legava un biglietto di informazioni, diretto al principe.
In questo modo Alfonso conobbe per tempo alcuni assalti
turchi e riuscì a sventarli. Il 25 luglio arrivarono ottocento
ungheresi, cinquecento fanti e trecento cavalieri inviati da
Mattia Corvino.
Avuti questi rinforzi, il Duca richiamò i duemila uomini
che stavano a presidiare Castro e Roca, e insieme invitò il
Caracciolo e il Fregoso ad avvicinare l’armata ai bastioni che
cingevano la città dalla parte del mare. Così assediati, i turchi
furono costretti a diradare le loro sortite, per essi veramente
necessarie data la penuria d’acqua di cui soffrivano all’interno.
Fatti i preparativi e studiato il piano di guerra, Alfonso
il 23 agosto sferrò l’offensiva generale, ed egli stesso, per
primo si lanciò nella mischia. Ma una sorpresa lo attendeva:
gli assediati, lungo l’argine interno delle mura, avevano pre-
parato dei trabocchetti, e inoltre avevano scavato un fosso
tanto profondo da non potersi superare. Ad evitare un inutile
spargimento di sangue, il Duca dette ordine di sospendere
l’assalto. Questo insuccesso scoraggiò gli animi dell’uno e
dell’altro esercito: i cristiani, essendosi ripromessa la vittoria
finale, ne rimasero delusi; i turchi, da parte loro, rimasero
71
atterriti nel vedersi così stretti in un cerchio di ferro. Ad ac-
crescere ancor di più timore e sfiducia, furtivamente, la notte
del 31 agosto, giunse da Valona una fusta5 con la notizia della
morte del Sultano (nuova per gli assediati) e della contesa tra
i figli di Maometto. Non potevano quindi sperare aiuti. Fu il
segnale della resa. Quando furono fatte le prime proposte, il
Duca Alfonso non ne voleva sapere: desiderava un clamo-
roso trionfo militare. Tuttavia si lasciò convincere dai suoi
capitani e il 2 settembre riceveva il messo degli avversari,
Dalmaschino. Il giorno otto si firmava la resa.
Il 10 settembre i turchi uscivano da Otranto per imbarcarsi
sulle quattro galee che Alfonso si era impegnato a fornire
per il rimpatrio delle truppe. Volle però rendersi conto di
persona se i patti venivano osservati anche dall’altra parte.
Si accorse che i turchi portavano con sé diversi prigionieri
cristiani, uomini e donne travestiti alla turca. Sdegnato, li
fece privare anche di quel ridotto bagaglio che era stato loro
consentito, e ne trattenne circa millecinquecento, che furono
ingaggiati in seguito a combattere a favore del Re di Napoli.
Il 13 dello stesso mese, il principe aragonese tornava ad
impossessarsi di Otranto e invitava a rientrare gli scarsissimi
resti di quella popolazione: l’esiguo numero dei superstiti sal-
vatisi e i pochi prigionieri strappati dalle navi turche durante
lo scontro con quelle cristiane, verificatosi presso Saseno.
Otranto torna ad essere italiana e cristiana. Il Re di Napoli
dà subito notizia al pontefice Sisto IV e gli scrive:
«Serenissimo e Beatissimo Padre e Signore,
Ho veduto finalmente risplendere quel giorno tanto lun-
5 Piccola nave velocissima a remi e vela, usata un tempo dai pirati.
72
Otranto, Cattedrale, presbiterio: i Turchi decapitano gli ottocento Martiri
Otranto, Cattedrale, presbiterio: i Turchi consegnano le chiavi della città ad Alfonso
73
gamente e ardentemente atteso. Otranto è stato riscosso addì
dieci del mese stante nell’ora di terza e questo per fermo è tal
successo che grandissimo onore arreca alla Santità Vostra,
ed a me, ed incredibile beneficio ad ambedue. Capitolarono
i nemici quando non potevano più sostenersi: la città ora è
in potere di Alfonso mio primogenito, avendola a lui ceduta
i turchi nell’atto che si imbarcavano sopra le galere in gran
diligenza per timore di essere trucidati dalle nostre milizie. Io
adunque, ne godo, e nel mio cuore tanta letizia si spande… La
causa precipua del mio godimento è questa: che io vedo nella
recuperazione d’Otranto assicurato il mio regno, liberata
l’Italia e tutto il mondo cristiano dall’imminente pericolo
per opera vostra come di duce supremo, e per me come di
vostro ministro. Deve dunque la Santità Vostra goderne al
pari di me, perché il vostro nome si è reso per il segnalato
beneficio immortale innanzi agli uomini, ed insieme merite-
vole appresso a Dio di quella grazia che arrecherà a Vostra
Beatitudine in questa e nell’altra vita, perpetua contentezza.
Dato a Bari, il dì undici settembre 1481. Della stessa
Santità, vostro figlio umilissimo.
Ferdinando Re di Sicilia»6.
Si chiudeva così il glorioso capitolo della storia di Otranto,
che seppe battersi con indomito coraggio in quindici magni-
fiche giornate per la libertà del paese e silenziosamente seppe
immolarsi per la libertà dello spirito7.
6 A. Perotti, op. cit., pp. 246-247.
7 Il 13 ottobre del 1481, le reliquie dei Martiri dalla chiesa di S. Eligio
furono trasferite parte nella cripta della Cattedrale otrantina, parte nella chiesa
di S. Maria Maddalena, in Napoli, denominata successivamente di S. Maria
dei Martiri. Esse, in seguito, furono definitivamente collocate nella chiesa di
S. Caterina a Formiello.
74
Otranto difese la civiltà occidentale: se avesse aperto le
porte all’invasore, forse la storia avrebbe avuto un altro corso,
né avremmo avuto Lepanto (ottobre 1571)8.
Dei 22.000 abitanti9 rimasero in Otranto «diciassette ho-
mini vivi i quali se riscattavano, ed alcune donne»10. Degli
altri: 12.000 caddero sul campo di battaglia; altri furono fatti
schiavi e 800 circa morirono per la fede cristiana. Le donne
e i fanciulli, infatti, furono condotti a Costantinopoli: le
donne, per essere vendute schiave sui mercati o negli harem;
i fanciulli, come paggi.
Otranto, nel 1480, per difendere l’Europa cristiana, fu
ridotta ad un mucchio di rovine, ma, come scrive lo storico
Alessi, «Sulle sue spiagge insanguinate rinacque la Civiltà
cristiana».
8Secondo noi la valenza storica del fatto di Otranto è pari a quelle dei Pirenei,
ove Carlo Martello fermò l’avanzata dei Mori presso Poitiers (732), e di Lepanto,
ove l’armata cristiana riportò una splendida vittoria su quella turca (1571). Lì
furono i soldati; in Otranto, invece, la comunità cristiana.
9 Cfr. F. Babinger, op. cit., p. 425; L. Pastor, Storia dei Papi dalla fine del
Medio Evo, vol. II, l. III (nuova rist. nella trad. di A. Mercati sulla IV ed. origi-
nale), Desclée, Roma 1925, p. 532.
10 Cfr. A. Saracino, op. cit., p. 82.
75
CAPITOLO SETTIMO
Grazie ai prodigi
(Dalla Chiesa Idruntina venerati da sempre)
Surano, chiesa parrocchiale: Antonio Primaldo e Compagni Martiri di Otranto,
icona di Luca Saponaro (anno 2012)
L’alba del 14 agosto vide la morte corporale di Antonio
Primaldo e dei suoi circa ottocento Compagni, ma non il
tramonto del loro ricordo. Se tacque la loro voce, la luce
sprigionata dal martirio ha camminato col tempo.
Da quel giorno la storia dei carnefici ha avuto bufere e
tempeste: gli uomini che sembravano eterni sono scomparsi
nella notte dei secoli; capitani che si vantavano di impugnare
una spada invincibile sono caduti come fantocci di creta.
Il nome degli Ottocento invece ha trionfato e si è irradiato
nell’Italia, nell’Europa, nel mondo.
Il particolare del corpo di Antonio Primaldo, prodigio-
samente restato in piedi dopo la sua decapitazione e fattosi
immobile sino alla fine della strage; la conversione del car-
nefice Berlabei che, impavido, sostenne l’orribile supplizio
del palo; i tredici mesi, cioè dal 14 agosto del 1480 all’8
settembre del 1481, che videro i corpi dei martiri insepolti e
incorrotti, sono fatti leggendari, di dominio pubblico1.
1 Il riferimento è ad alcune fonti a stampa antiche tra cui ricordiamo: Pietro
Colonna, detto il Galatino, che ha composto nel 1500 circa il suo Commentaria
in Apocalypsim S. Johannis Apostoli et Evangelistae; Antonio De Ferraris, detto il
Galateo, con il suo De Situ Japigiae, scritto verso il 1510 e, dopo sua morte (1517),
pubblicato a Basilea nel 1553; Giovanni Michele Laggetto che riporta notizie attinte
principalmente da suo padre, testimone oculare che aveva preso parte attiva nel fatto
otrantino del 1480, e afferma di aver terminato la sua opera Historia della Città di
Otranto come fu presa dai Turchi e martirizzati li suoi fedeli cristiani nel 1537; F.
A. Capano con le sue Memorie alla Posterità delli gloriosi e costanti confessori di
Giesù Cristo che patirono martirio nella città di Otranto l’anno 1480. Raccolti da
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Se coloro che si dissero vincitori degli Eroi e dei Martiri
otrantini giacciono in abbandono, il sacrario degli Ottocento
è caldo di baci e profumato di preghiere.
Basta entrare nel vetusto tempio della Città per assistere a
scene commoventi: migliaia di uomini si stringono intorno ai
sette armadi in noce, custodi gelosi delle Reliquie dei Martiri,
avidi di vedere la carne e il sangue, le spighe di grano e la
lingua, la freccia fissata nell’occhio e le parti molli miracolo-
samente preservatesi, invocandone la protezione. E tutti, muti
e pensosi, con l’occhio inumidito di pianto, fermandosi nella
stupenda Cattedrale che è sacrario e santuario insieme, pregano
in silenzio e venerano amando. Venerano quei Sacri Resti,
ricercati ed amati, strumento di prodigi nelle mani di Dio.
Nella relazione dei Processi, il Can. Francesco Perez
racconta (cfr. Process. Summarium; n. 4 fol. 9-10): «Si sa
da tutti, per pubblica voce, della quale ci è restata la tradi-
zione, che dopo il loro glorioso Martirio, su quei santi corpi
si vedevano faci lucidissime; e per la prima volta, quando
furono portati in chiesa essendo comparso di notte per tutta
la chiesa uno splendore molto grande, tutti della città corsero,
supponendo che la chiesa si fosse incendiata. Nell’anno poi
1739, a’ 14 agosto, terminata la loro festa a tre ore di notte,
si fecero vedere processionalmente, andare nel luogo dove
patirono il martirio. Qual visione fu veduta da una infinità
di popolo, concorso per la loro festività. Non è dubbio che
delle cose predette è pubblica voce e fama, non solamente
per la città e provincia ma per tutto il regno e fuori».
vari autori impressi e manoscritti pubblicate a Lecce nel 1670. Cfr. anche mons.
S. Bressi, Tredicina efficacissima in onore dei BB. Martiri Otrantini, Stab. Tip.
della Campania del Mezzodì, Scafati 1889, pp. 20-23.
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Cattedrale: Cappella delle Reliquie dei Martiri
I santi Martiri otrantini, spesso, si sono mostrati potenti
intercessori presso il trono di Dio nelle malattie e nelle cala-
mità. Valga per tutti il prodigio, riferito nel giugno del 1677 da
Donata Antonia Gualtieri nobile signora otrantina, maritata a
Monopoli col Signor Francesco Antonio de Nicola Palmieri.
«Io verso il principio di giugno prossimo passato di que-
sto anno ebbi gli occhi, e massime all’occhio sinistro, una
grandissima flussione che non mi fece riposare, e sentivo
grandissimi dolori… Lo scrissi alla signora mia madre che si
chiamava Raimondina Prototico commorante in Otranto, la
quale mi rispose che mi aveva raccomandata ai Santi Martiri
di Otranto, e ricevei la sua lettera alli 15 o 16 giugno, ed io
sentendo leggere la sua lettera me ne risi dicendo:
«Io mi sono raccomandata alla SS.ma Annunziata e a
Santa Lucia, e pure non guarisco: che vogliono fare i Santi
Martiri di Otranto?».
Il giorno del Corpus Domini, che fu alli 17 giugno, io
intesi dolori di spasimo, particolarmente all’occhio sinistro,
a segno tale che non vedevo, né potevo riposare; per il che
a sera, pensando alla poca fede che io avevo avuto a detti
Santi Martiri, pentita mi raccomandai alli BB. Santi Martiri
di Otranto con fede grande e li dissi queste formate parole:
«Santi Martiri miei, se siete voi che mi impetrate la gra-
zia, fatemi riposare questa notte, liberatemi dal dolore ed
impetratemi la vista».
Così seguì, poiché la notte riposai e la mattina del venerdì
mi alzai sana senza alcun dolore, e colla vista perfetta, e come
l’aveva prima, e l’ho adesso, per la Deo Grazia».
Interrogata da monsignor Giuseppe Cavalieri, vescovo di
Monopoli, se avesse chiamato il medico, rispose:
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Armadio a muro con resti indecomposti dei Martiri (a destra, nella cappella)
G. Riccardi (1524): Colonne istoriate, libro in pietra sulla storia degli 800 Martiri
«Io non ci ho chiamato il medico, né ho operato medica-
mento veruno, ma tengo di certo che fui guarita per inter-
cessione di detti Santi Martiri». (Process. Foll. 379 et seq.).
La semplicità dello stile e la conclusione del racconto «non
ci ho chiamato il medico, né ho operato medicamento veruno»,
richiama alla mente l’episodio evangelico del cieco nato.
Il sac. Saverio De Marco, nella sua «Compendiosa storia
degli 800 Martiri» scrive: «Molto dovrei dire della sensibile
protezione di questi Santi verso la loro patria. Due volte fu
liberata dall’invasione dei turchi: nel 1537, imperando So-
limano, e nel 1644, regnando Ibraimo. L’una e l’altra volta
comparvero sulle mura e per la spiaggia numerose schiere
d’armati, alla vista dei quali, sbigottiti, subito s’allontana-
rono. La causa di tale fuga si seppe dai greci e dagli schiavi
cristiani, che servivano su quella flotta.
Nell’anno 1714 la processione divota, che si fece per la
città con le loro Reliquie, pose termine ad una epidemia; e così
il loro potente patrocinio liberò la nostra città dal terremoto
che rovinò Nardò, Ostuni, Brindisi, Francavilla, Foggia ed
altre città minori».
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CAPITOLO OTTAVO
Il Pontefice Giovanni Paolo II in Otranto
(Nel quinto centenario del martirio)
Il Pontefice Giovanni Paolo II (oggi santo)
Arriva il Papa
Il 5 ottobre 1980, Otranto è tutta imbandierata, infiorata.
Le sue strade, le sue case, i suoi ristoranti sono pavesati da
tricolori e da striscioni bianco-gialli. Sono bandiere d’Italia
e del Papa che sventolano e s’incrociano, allietando l’avvin-
cente vetusta città.
Otranto aspetta il Papa, Giovanni Paolo II. Lo aspetta,
vestita di festa. È impaziente. Frenetica. Cittadini e pellegrini,
venuti da tutte le parti d’Italia e anche dall’estero, attendo-
no il rappresentante di Cristo. Lo attendono cantando e, di
quando in quando, scandendo slogan: «Viva il Papa!», «Viva
i Martiri di Otranto!», «Viva Maria!».
L’entusiasmo esplode quando appare all’orizzonte l’eli-
cottero e si manifesta in grida di giubilo: «Ecco il Papa! Viva
il Papa!». Ad accogliere il Santo Padre sono l’Arcivescovo
di Otranto mons. Nicola Riezzo e il Sindaco della città prof.
Salvatore Miggiano.
Gli occhi di quell’enorme folla di gente sono tutti, come
riflettori, puntati su quell’uomo bianco che, sorridente, at-
terra. E il Papa benedice, stringe la mano ai vicini, riesce ad
accarezzare qualche bambino.
Dal colle dei Martiri al piazzale
Su di una macchina scoperta, il Papa percorre alcune
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Otranto: colle della Minerva (detto: colle dei Martiri)
Santuario di Santa Maria dei Martiri, interno
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vie della città. Passa tra due schiere di persone festanti, che
benedice e alle quali sorride. Arriva sul colle dei Martiri,
entra nella chiesa che lo sovrasta, si inginocchia e prega.
Riprende poi il cammino che lo porta al piazzale, approntato
e allestito per la circostanza. Sul grande palco, presiede la
santa Messa insieme con l’Arcivescovo mons. Riezzo alla
presenza del Rappresentante del governo italiano, delle Au-
torità regionali, di tutti i Vescovi della Puglia e di quello di
Corfù, delleAutorità comunali, di molti Sindaci della diocesi
e della Regione e di oltre trecentomila fedeli.
Dopo la proclamazione dell’evangelo, il Papa rivolge
ai presenti la parola e, tra l’altro, dice: «Ci ha fatto venire
qui ad Otranto il ricordo dei Martiri… Cinquecento anni
fa qui, ad Otranto, ottocento discepoli di Cristo hanno reso
testimonianza, accettando la morte per il Nome di Cristo…
Riuniti oggi qui, presso le tombe dei Martiri di Otranto…,
noi presentiamo al Dio Unico, al Dio Vivente, al Padre di
tutti gli uomini i problemi della pace in Medio Oriente ed
anche il problema, che tanto ci è caro, dell’avvicinamento e
del vero dialogo con coloro ai quali ci unisce – nonostante
le differenze – la fede in un solo Dio, la fede ereditata da
Abramo. Lo spirito di unità, di reciproco rispetto e di intesa
si dimostri più potente di ciò che divide e contrappone.
Libano, Palestina, Egitto, Penisola Arabica, Mesopota-
mia nutrirono da millenni le radici di tradizioni sacre per
ciascuno dei tre gruppi religiosi; là ancora, per secoli, hanno
convissuto sugli stessi territori comunità cristiane, ebraiche
ed islamiche; in quelle regioni, la Chiesa Cattolica vanta
comunità insigni per antichità di storia, vitalità, varietà di
riti, proprie caratteristiche spirituali.
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Otranto: 5 ottobre 1980, il Pontefice Giovanni Paolo II nel cinquecentenario
del martirio
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Il Santo Padre Giovanni Paolo II con don Grazio Gianfreda dinanzi all’Urna
dei Martiri
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Sovrasta alta su tutto questo mondo, come un centro ideale,
uno scrigno prezioso che custodisce i tesori delle memorie
più venerande, ed è essa stessa il primo di questi tesori,
la Città Santa, Gerusalemme, oggi oggetto di una disputa che
sembra senza soluzione, domani – se lo si vuole! – domani
crocevia di riconciliazione e di pace. Si, noi preghiamo
perché Gerusalemme, anziché essere, come è oggi, oggetto
di contesa e di divisione, divenga il punto d’incontro, verso
cui continueranno a volgersi gli sguardi dei Cristiani, degli
Ebrei e dei Musulmani, come al proprio focolare comune;
intorno a cui essi si sentiranno fratelli, nessuno superiore,
nessuno debitore agli altri; verso cui torneranno a dirigere i
loro passi i pellegrini, seguaci di Cristo, o fedeli della legge
mosaica, o membri della comunità dell’Islam»1.
L’incontro con i giovani
La giornata del Papa in Otranto volgeva ormai al tramonto,
e non poteva mancare l’incontro con i giovani, che, dopo
quello in Cattedrale con i vescovi e i sacerdoti, i religiosi e le
religiose, ebbe luogo all’aperto, nel pomeriggio, sulla rotonda
del Lungomare degli Eroi, poco lontano dal Monumento agli
Eroi e ai Martiri di Otranto. Erano oltre quindicimila giovani
venuti da diverse regioni d’Italia ad attendere il Papa.Ad essi
il Vicario di Cristo, parlando a braccio, disse: «Carissimi gio-
vani! Alla conclusione di questa intensa e splendida giornata
del pellegrinaggio, che mi ha condotto alla vostra Otranto,
per venerare gli Ottocento Martiri nel quinto centenario della
1 Giovanni Paolo II, Omelia, Ci ha fatti venire qui la venerazione verso il
Martirio, in “L’Eco Idruntina”, a. LXI, settembre-ottobre 1980, pp. 326-332.
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loro testimonianza di fede e di sangue, mi incontro con voi,
che siete e rappresentate il futuro della vostra Città, della
vostra Patria, della Chiesa, e portate nel cuore, come una
preziosa eredità, il mirabile esempio di quegli Otrantini che il
14 agosto del 1480 – all’alba di quello che viene considerato
storicamente l’«evo moderno» – preferirono sacrificare la
vita stessa anziché rinunciare alla fede cristiana.
È questa una pagina luminosa e gloriosa per la storia civile
e religiosa dell’Italia, ma, specialmente, per la storia della
Chiesa pellegrina in questo mondo, la quale deve pagare,
attraverso i secoli, il suo tributo di sofferenza e di persecu-
zione per mantenere intatta ed immacolata la sua fedeltà allo
Sposo, Cristo, Uomo-Dio, Redentore e Liberatore dell’uomo.
Voi, carissimi giovani, siete legittimamente fieri di ap-
partenere ad una stirpe generosa, coraggiosa e forte, che si
specchia con compiacimento in quegli Ottocento Otrantini
i quali, dopo aver difeso con tutti i mezzi la sopravvivenza,
la dignità e la libertà della loro diletta città e delle loro case,
seppero anche difendere, in maniera sublime, il tesoro della
fede, ad essi comunicato nel Battesimo.
Non possiamo leggere oggi, senza intensa emozione, le
cronache dei testimoni oculari del drammatico episodio.
I cittadini di Otranto al di sopra dei quindici anni, furono
posti dinanzi alla tremenda alternativa: o rinnegare la fede
in Gesù Cristo, o morire di morte atroce. Antonio Pezzulla,
un cimatore di panni, rispose per tutti: «Noi crediamo in
Gesù Cristo, Figlio di Dio; e per Gesù Cristo siamo pronti a
morire!». E subito dopo, tutti gli altri, esortandosi a vicenda,
confermarono: «Moriamo per Gesù Cristo, tutti; moriamo
volentieri, per non rinnegare la sua santa fede!».
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Erano forse degli illusi, degli uomini fuori del loro tempo?
No, carissimi giovani! Quelli erano uomini, uomini autentici,
forti, decisi, coerenti, ben radicati nella loro storia; erano uo-
mini che amavano intensamente la loro città; erano fortemente
legati alle loro famiglie; tra di loro c’erano dei giovani, come
voi, e desideravano, come voi, la gioia, la felicità, l’amore;
sognavano un onesto e sicuro lavoro, un santo focolare, una
vita serena e tranquilla nella comunità civile e religiosa!
E fecero, con lucidità e con fermezza, la loro scelta per
Cristo!
In cinquecento anni la storia del mondo ha subito molti
mutamenti; l’uomo, nella sua più profonda interiorità, ha man-
tenuto gli stessi desideri, gli stessi ideali, le stesse esigenze; è
rimasto esposto alle stesse tentazioni, che – in nome dei sistemi
e delle ideologie di moda – cercano di svuotare il significato
ed il valore del fatto religioso e della stessa fede cristiana.
Di fronte alle suggestioni di certe ideologie contempora-
nee, che esaltano e proclamano l’ateismo teorico o pratico, io
chiedo a voi, giovani di Otranto e delle Puglie: siete disposti
a ripetere, con piena convinzione e consapevolezza, le parole
dei Beati Martiri: «Scegliamo piuttosto di morire per Cristo
con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo?».
Essere disposti a morire per Cristo comporta l’impegno
di accettare con generosità e coerenza le esigenze della vita
cristiana, cioè significa vivere per Cristo».
Il Santo Padre, concludendo il suo dialogo con i giovani,
lasciava loro il seguente messaggio: «Siate giovani di fede! di
vera, di profonda fede cristiana! Il mio grande Predecessore
Paolo VI, il 30 ottobre 1968, dopo aver parlato sull’autenticità
della fede, recitò una sua preghiera «per conseguire la fede».
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Tenendo presente quel testo così incisivo e profondo, io
auspico che, sull’esempio dei Beati Martiri di Otranto, la vostra
fede, o giovani, sia certa, fondata cioè sulla Parola di Dio,
sulla approfondita conoscenza del messaggio evangelico e,
specialmente, della vita, della persona e dell’opera del Cristo,
ed altresì sull’interiore testimonianza dello Spirito Santo.
La vostra fede sia forte; non tentenni, non vacilli dinanzi
ai dubbi, alle incertezze, che sistemi filosofici o correnti di
moda vorrebbero suggerirvi; non venga a compromessi con
certe concezioni, che vorrebbero presentare il cristianesimo
come una semplice ideologia di carattere storico da porsi
allo stesso livello di tante altre, ormai superate.
La vostra fede sia gioiosa, perché basata sulla consapevo-
lezza di possedere un dono divino. Quando pregate e dialogate
con Dio e quando vi intrattenete con gli uomini, manifestate
la letizia di questo invidiabile possesso.
La vostra fede sia operosa, si manifesti e si concretizzi
nella carità fattiva e generosa verso i fratelli, che vivono
accasciati nella pena e nel bisogno; si manifesti nella loro
serena adesione all’insegnamento della Chiesa, Madre e Ma-
estra di verità; si esprima nella vostra disponibilità a tutte le
iniziative di apostolato, alle quali siete invitati a partecipare
per la dilatazione e la costruzione del regno di Cristo!
Affido questi miei pensieri ai Beati Martiri, la cui inter-
cessione invoco oggi, in modo particolare per voi, giovani,
perché, come loro, sappiate vivere con rinnovato impegno
le esigenze del messaggio di Gesù»2.
2 Cfr. Giovanni Paolo II, Ai giovani. La vostra fede sia certa, forte, gioiosa
e operosa, in “L’Eco Idruntina”, cit., pp. 342-345.
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Una lapide a memoria
La venuta del Santo Padre, con una giornata così ricca di
incontri, non poteva cadere nell’oblio. Ci voleva almeno un
segno esterno che ricordasse ai posteri l’evento e i messaggi
del Papa alla Chiesa d’Otranto, ai pellegrini di tutti i tempi e
ai fratelli d’Oriente. Ci pensò il successore di Mons. Riezzo,
l’arcivescovo Vincenzo Franco che, un anno dopo, volle fis-
sarli in Cattedrale su una lapide marmorea, con testo curato
da mons. Antonio Antonaci, che così recita:
IN QUESTA CHIESA CATTEDRALE
SINTESI DI SPIRITUALITÀ E DI VIGORE CREATIVO
DELLA GENTE DI TERRA D’OTRANTO
DOMENICA CINQUE OTTOBRE 1980
VENNE
PELLEGRINO DI PACE E D’AMORE
S. S. GIOVANNI PAOLO II
PER VENERARE I BEATI MARTIRI IDRUNTINI
NEL QUINTO CENTENARIO
DELLA LORO TESTIMONIANZA DI FEDE
E ADDITÒ
ALLA CHIESA DI OTRANTO
RETTA DALL’ARCIVESCOVO NICOLA RIEZZO
ALLE MOLTITUDINI CONVENUTE DA OGNI PARTE
LE VIE DELLA VERITÀ E DELLA GRAZIA
LA FRATELLANZA CON I POPOLI D’ORIENTE
NEL RICORDO DI QUELLA RADIOSA GIORNATA
LA CHIESA DI DIO CHE È IN OTRANTO
UNITA INTORNO AL SUO PASTORE VINCENZO FRANCO
RINNOVA L’IMPEGNO
DI CAMMINARE NELLA COMUNIONE DELLA CARITÀ
E MANTENERSI CUSTODE E PORTAVOCE
DELLA UNIVOCA TESTIMONIANZA A CRISTO
DEI SUOI MARTIRI
Otranto, ottobre 1981
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CAPITOLO NONO
Un ininterrotto pellegrinaggio
(Esperienze vissute)