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RODOLFO NICODEMI DUCCIO MUCCIARELLI IL ‘900 PRIVATO DI UN REAZIONARIO SENTIMENTALE ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ DUCCIO MUCCIARELLI Copyright © 2023 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-635-3 Immagine di copertina proposta da: Autore Prima edizione Novembre 2023
Dedicato a mio padre
PRIMA PARTE
LA BORSA DI COCCODRILLO Nel 2004 Marina aveva da poco compiuto trent’anni, ma il fisico snello e i movimenti elastici la facevano apparire ancora più giovane. La sua era una bellezza discreta. Lei, offesa dalla vita e diffidente verso gli uomini, faceva di tutto per tenerla nascosta: niente trucco, abiti anonimi. Solo chi l’osservava con attenzione poteva apprezzare i suoi lineamenti regolari, gli occhi scuri e intelligenti, l’incarnato così chiaro e quel suo sorriso materno, che induceva alla confidenza. Lavorava come infermiera in uno studio medico. Si era appena trasferita a Varese e i soldi non le bastavano mai. Per arrotondare, aveva dato la sua disponibilità ad assistere durante la notte i malati della lussuosa clinica Quiete. Era la segreteria a contattarla e lo faceva con poche ore di preavviso. Quella volta, invece, fu il primario in persona, addirittura con qualche giorno di anticipo. Un anziano paziente, il signor Edoardo Mucciarelli, voleva che fosse lei ad assisterlo nella sua ultima notte in clinica. Lei, o nessun’altra. Poi l’avrebbero trasferito all’ospedale del Circolo, per una operazione al cuore, che definire delicata sarebbe stato un eufemismo. Marina rimase sorpresa. Questo Mucciarelli lei non lo conosceva proprio, mai visto. Si chiedeva perché volesse proprio lei. Il professore percepì la sua perplessità e per superarla aggiunse che il paziente, nonostante i suoi novanta e più anni, era autonomo, lucido e perfettamente a conoscenza dei rischi che l’attendevano. Marina non poteva certo dire di no al primario. Questo Mucciarelli doveva essere uno importante, se il primario in persona si era disturbato a chiamarla. Si affrettò ad accettare. La sera del 24 marzo, poco prima delle venti, imboccò il viale in salita che porta alla clinica, un elegante edificio dei primi del ‘900. Parcheggiò sotto un grande abete, l’ultimo di una breve fila. Faceva freddo, qualche giorno prima era caduta perfino la neve, ma la sera era serena. Appena scesa dalla macchina, si fermò a osservare le
stelle. Lo faceva sempre, per respirare un po' di aria fresca prima di immergersi nell’atmosfera di dolore e malattia, che c’è in tutti gli ospedali. Le cliniche, anche quelle di lusso, non fanno eccezione. Un paziente lucido e anziano non è un vantaggio, quelli non hanno mai sonno e non danno tregua. Marina sospirò e si incamminò con passo svelto verso la gigantesca pensilina di vetro e ferro battuto dell’ingresso. Non era una sera come tante altre, la stranezza di quella richiesta l’aveva incuriosita. Sperava di ottenere qualche informazione sul paziente dalla sua amica dell’accettazione, ma non c’era più nessuno. Entrata nel vecchio ascensore a vista, fece scorrere piano la serranda di legno della cabina, per non fare troppo rumore e salì al terzo piano. L’ampio corridoio era deserto. C’era un forte odore di disinfettante, i pavimenti in graniglia, appena lavati, riflettevano le luci soffuse. Dalle porte socchiuse delle camere filtrava la luce azzurra di qualche televisore, ma il volume bassissimo non lasciava percepire l’audio. Nella saletta del medico di turno un’infermiera al computer non la degnò di uno sguardo. Marina estrasse dalla borsa il biglietto della macelleria “T’amo pio bove”. Con un sorriso si chiese se il pio bove avesse mai corrisposto tanto amore. Poi si concentrò sul retro: stanza 308, Edoardo Mucciarelli, scritto con la cattiva grafia di chi ha fretta. «Sono Marina Stefanini, posso?» Il tono di voce era quello di chi si scusa per aver rotto il silenzio. «Duccio Mucciarelli, si accomodi pure». Il vecchio aveva una voce incerta, quasi strozzata, come quella di chi vuole tenere a bada l’emozione. La camera, la solita camera asettica della clinica, era in penombra. Lo trovò seduto sul letto, il cuscino dietro la schiena. La luce della testata illumina i pochi capelli sorprendentemente scuri, con sfumature rossicce, solo sulle tempie sono brizzolati. Sopra il pigiama beige di cotone indossava una giacca da camera cammello, con raffinati cordoncini marrone. La temperatura della camera era molto alta, non c’era certo bisogno di una giacca così pesante. Il signor Mucciarelli l’aveva indossata per un antico riguardo verso l’ospite, una cortesia che Marina intuì. Dietro un paio di occhiali dalla montatura pesante lo sguardo lasciava trasparire una sorprendente commozione. Solo un attimo, poi il vecchio riprese il controllo.
«Le ho fatto portare una cena semplice, immagino che non abbia fatto in tempo a mangiare. Sa, qui non c’è molto da scegliere, mi fanno cenare alle sei, ma il cibo non è poi così male». Solo allora Marina notò sotto la finestra due poltrone con al centro un tavolino. L’unica stranezza, per il resto l’arredamento era quello standard della clinica. Mentre si toglieva il cappotto, Marina percepì su di sé lo sguardo insistente dell’uomo. Particolare, come quello di chi si sforza di riconoscere qualcuno che non vede da tempo. Quello sguardo, quasi intimo, la imbarazzò e le dipinse sul viso l’aria interrogativa di chi si aspetta una spiegazione. «Meno male, una donna con la gonna! Non ho osato chiederlo al professore, ma detesto le donne in pantaloni. Le donne sono donne, gli uomini, uomini. So che non è un pensiero popolare di questi tempi, ma io odio tutta questa voglia di omologazione, sono all’antica, non ho paura di dirlo, anzi, ne sono molto orgoglioso». Marina rimase sorpresa. Quella frase buttata lì, come per nascondere una verità che si vuole celare in tutta fretta, non si accordava alla commossa sorpresa dello sguardo con cui l’aveva accolta. Non era neppure un complimento, solo una constatazione piuttosto banale, che non richiedeva replica. «Questo Mucciarelli è davvero un uomo all’antica. Come può essere altrimenti? Ha quasi cento anni». A Marina non sfuggì neppure la strana incongruenza tra quel suo tono improvvisamente duro e la delicatezza del pensiero della cena. Perché stupirsi. Non erano forse così gli uomini di una volta? Galanti, gentili, ma sempre padroni? Non sapeva decidersi su di lui: empatico e gentile, o arrogante e impositivo? Mucciarelli intuì l’imbarazzo e cercò di tranquillizzarla, ma, come gli capitava sempre, quando aveva a che fare con una donna che gli piaceva, non trovò le parole giuste. «Ho novantasei anni. Il mio futuro rischia di essere molto breve, ho smesso da tempo di fare complimenti alle donne, anzi, non l’ho mai fatto». Messa in allarme dall’ambiguità della frase, Marina gli domandò perché avesse voluto proprio lei. «Davvero lo vuole sapere?» Il tono era ironico, di chi si diverte a prendere benevolmente in giro.
«Sì, certo, può dirmi quello che vuole, io apprezzo la franchezza». La voce suonava metallica, come di chi è sulla difensiva. «Ecco, il primo motivo, il principale, è che la notte qui dentro è interminabile, ho sempre dormito poco e cerco qualcuno che mi aiuti a trascorrerla parlando. Non so quanto tempo mi rimane, ma non voglio sprecarlo dormendo. Potevo chiedere a mio figlio, o forse perfino a mia nuora, di passare la notte accanto a me. Ma quelli non mi avrebbero ascoltato, si sarebbero messi su quella poltrona e avrebbero continuato a dirmi di sì. “Sì papà, hai ragione, sì, Duccio, è come dici tu!” Credono che sia fesso solo perché sono vecchio». Cercava una pronta smentita e Marina fu pronta a rassicurarlo. «Non credo proprio che qualcuno possa considerarla un fesso». Quel Duccio era reticente, girava in torno alla domanda senza risponderle, ma lo lasciò proseguire. «Che me ne faccio dei loro sì, io cerco una persona che mi ascolti davvero, che dica no, se pensa che sia un no, sì, solo se è sì. Poi, sa, certe cose sono più difficili da confidare a chi ci è vicino. Mica sono stato un santo, certe cose si confidano più facilmente agli estranei, non si ha paura di offendere la loro sensibilità. Domani mattina noi ci saluteremo e non ci vedremo più». Marina non voleva lasciargliela passare, si sentiva presa in giro. «Mi ha risposto solo in parte, avrebbe potuto chiedere una qualsiasi infermiera, invece so che ha cercato proprio me. Mi dica la verità!» «Ha ragione, non ho scelto lei a caso, questa notte è troppo importante per me. Sa, approfittando del fatto che riesco a muovermi da solo, avevo preso l’abitudine di andare a trovare il signor Melzi; lei ha passato molte notti accanto a lui, ecco svelata la fonte delle mie informazioni». «Che cosa mai le avrà detto di me?» «Non molto, per la verità, ma ho saputo le sole cose che mi interessava sapere: che lei sa ascoltare, una virtù rarissima, mi creda. Poi il buon Melzi mi ha raccontato che lei ha avuto una vita non semplice, che ha perso presto il papà, e che per questo ha dovuto lasciare gli studi di medicina». «È stata una scelta obbligata, ma non per questo meno dolorosa, mi piaceva molto studiare. Ma cosa c’entra?» «Sono le disgrazie a farci crescere, i suoi trent’anni sono pochi, ma sono molti di più di quelli di una figlia di papà. Anche se non ha potuto
terminare medicina, lei ha una buona cultura, scommetto che ha frequentato il Classico. Io non sono un uomo colto, sa, ho fatto ragioneria e non mi piaceva neppure studiare. L’importanza di sapere e capire le cose l’ho appresa direttamente dalla vita, ma so apprezzare chi ha fatto buoni studi». «È vero, ho fatto il classico a Sarzana, ma lei da cosa lo ha capito?» «Questo, in verità, me l’ha confidato il mio amico Melzi, ma che fosse di Sarzana l’avrei capito subito dal suo accento: mezzo toscano e mezzo ligure. Parleremo di quei posti, vedrà». Era di buon umore: Marina era la persona che cercava. “Furbetto” pensò Marina. “Questo non me la racconta giusta, non mi farà chiudere occhio!” Ma le scappò un sorriso. Il vecchio paziente si girò su un fianco, come se volesse dormire. La cena non era poi così male, Marina non scoprì mai se il menu fosse quello ufficiale, o se la cuoca fosse stata corrotta. Duccio attese pazientemente che l’infermiera avesse terminato, fingeva di essersi appisolato, ma, appena Marina mandò giù l’ultimo boccone, lui si rigirò verso di lei. «Era buono?» Non aspettò la risposta. Apprezzava chi sapeva ascoltare, ma non era una delle sue virtù. «Ora dobbiamo organizzarci. Nell’armadio c’è una sorpresa per lei, la prenda è in un sacco di panno rosso». «Posso aprire?» «Ma certo, l’ho preparato apposta!» Slacciato il nodo, ne uscì una sorprendente borsa di coccodrillo, di quelle che non si vedono in giro da anni, ma che all’epoca doveva essere molto preziosa. Brillava alla luce della lampada, stupenda e allo stesso tempo irreale. Era piccola, nera, lucida con una chiusura a clic clac di metallo dorato. Le squame, partendo dal fondo e salendo verso la chiusura diventavano sempre più piccole ed erano organizzate in lunghe file simmetriche di rettangoli regolari. «È questo che rende questa borsa così preziosa», disse Duccio indicando la disposizione delle squame. «Il clic clac, poi, è d’oro, oro massiccio. Non stia lì impalata, la borsa è solo il contenitore. Non è un gran regalo, so benissimo che, se si azzardasse a uscire con questa borsa, riceverebbe solo insulti».
«È vero, è importabile, ma grazie lo stesso, è bellissima!» «Questa borsa mi è molto cara, ma è giunto il momento di lasciarla e darle una nuova speranza di vita. La comprai molti anni fa per regalarla a una mia amica. Lei, poi, trovò il modo di restituirla. È un oggetto così bello e prezioso, che non sono mai riuscito a separarmene. Mia nuora, l’unica a cui potrei lasciarla, la butterebbe immediatamente nella spazzatura. Quella è della sinistra dura e pura. Spero di non aver detto qualcosa di inopportuno». «No, si tranquillizzi, la politica mi interessa poco, ma certo non sono di quella parrocchia». Marina pensò subito che la vera ragione di tanto attaccamento fosse il ricordo dell’amica, ma non disse nulla. Prese delicatamente la borsa tra le mani e la sfiorò, le sue dita correvano leggere sul lungo rosario di collinette scure e lucide. «Se ne sta lì da anni nel suo panno rosso, in attesa che qualcuno la riscopra e la apprezzi. Del resto il povero coccodrillo è defunto da così tanto tempo. Gettare la borsa nella spazzatura non lo riporterebbe in vita, anzi, l’offenderebbe!» Da quando, due giorni prima, il professore gli aveva confermato la presenza di Marina, Duccio non aveva mai smesso di pensare a quella notte, a quello che avrebbe detto, alle parole da usare, a ciò che, invece, avrebbe dovuto tacere. Ma ora, che il momento era arrivato, si sentiva confuso. Per prendere tempo si mise a raccontare una vecchia storia, solo un diversivo, ma l’umore si era fatto scuro, dal passato riemerse un ricordo che risuonò raccapricciante. «Ha fatto caso come le cose preziose hanno spesso un risvolto crudele? Pensi a certi cibi raffinati e allo strazio di un mattatoio. Ero piccolo, avrò avuto otto anni, quando quello sciagurato di mio padre mi fece assistere all’esecuzione di una giovane mucca. Forse pensava che questo avrebbe contribuito a fare di me un vero uomo. La povera bestia presagiva il suo destino, non voleva entrare, dovettero spingerla in tre uomini. Muggiva in modo straziante e roteava gli occhi terrorizzati. Poi un colpo, un tonfo e tutto era finito». Marina immaginò la scena, incerta su ciò che fosse più insopportabile: la morte della povera bestia, o il turbamento del bambino. Come se avesse intuito il suo pensiero, Duccio tentò di giustificare il padre. «Allora non si era troppo delicati con i figli, soprattutto con i maschietti. La vita era molto dura. A nessuno oggi verrebbe in mente di
fare ciò che, senza troppi pensieri, aveva fatto mio padre. Anche le storie che mamma e nonna mi raccontavano prima di addormentarmi erano terrificanti: bambine sbranate da un lupo, bimbi abbandonati nella foresta. Quella era un’epoca crudele, ma nella storia dell’umanità bellezza e crudeltà sono andate spesso a braccetto. Comunque la borsa ora è sua, sta a lei decidere cosa farne, ma ora la apra. Dentro c’è una busta e un foglio di carta. La busta contiene il giusto compenso per la fatica che farà per starmi vicino questa notte, che non sarà poca». «Di questo proprio non deve preoccuparsi, sarà la clinica a pagarmi, lei non deve». «Lo so, ma questo è un extra, solo per lei, l’Amministrazione non c’entra. Lo consideri un mio piccolo regalo. Mi perdoni se non ho trovato niente di meglio, ma chiuso qui dentro non potevo fare altrimenti. Il foglio, invece, richiede una spiegazione». Marina non osò aprire la busta davanti a lui, anche se moriva dalla voglia di farlo. Aveva un disperato bisogno di denaro. Poi il Mucciarelli le chiese di leggere il foglio. Era piegato in due, quando lo dispiegò rimase sorpresa. A tutto aveva pensato, meno che fosse una poesia. Piano… che non ci senta chi è sordo a un richiamo di fiore oltre stagione, chi non sa perdonare a chi si porta giovinezza oltre i limiti segnati, dopo rubato a talismano, un ramo di pesco in fiore da profumare il verno. Cantiamo piano, che non senta la morte -può essere nei pressiQuesto canto di vita, coraggioso”. Lui rimase in silenzio, lasciò che lei si riprendesse dall’emozione, era evidente che quei versi l’avevano turbata.
«È una poesia di Rina Pellegri. Era di Arcola, è un paesino a pochi chilometri dalla sua Sarzana. Non credo che lei la conosca». «In effetti non l’ho mai sentita nominare, vede che non sono poi così colta». «L’hanno dimenticata più o meno tutti. Forse perché in gioventù era stata etichettata come una poetessa fascista. Non mi interessa sapere se è vero. Anche se fosse, Rina Pellegri è stata, prima di ogni altra cosa, una delicata, grande poetessa e anche una donna che ha affrontato con coraggio le avversità dalla vita. Ho voluto che lei leggesse questi versi, un canto delicato che celebra la vita e sfida la morte, per introdurre il nostro incontro. So bene che mi rimane poco tempo, la mia vita è stata lunghissima, oltre il tempo che la pubblica decenza consente. Prima di andarmene voglio dare voce ai miei pensieri. Le poche persone a cui avrei dovuto confidarli non ci sono più. Di volta in volta immaginerò che siano seduti lì, sulla sua poltrona, ad ascoltarmi. Lei, questa notte, sarà tutti loro. Ci vuole sensibilità, intelligenza e conoscenza della vita per capire ciò che si ascolta, per questo doveva essere lei e non una qualsiasi». Marina pensò che questo Mucciarelli fosse un po' stravagante. Chi mai avrebbe avuto bisogno di una poesia per parlare della propria vita? La scelta, poi. Tra le tante poesie di grandi autori, perché mai andare a rievocarne una del tutto sconosciuta, di una donna, perdipiù fascista! Era incuriosita, ma anche commossa. Per la prima volta ebbe la certezza che si sarebbe ricordata di questo strano paziente. Se c’era una dote universalmente riconosciuta a Duccio era quella di capire al primo colpo le persone. Era una predisposizione naturale, ma una vita trascorsa a trattare con clienti spesso difficili l’aveva resa quasi infallibile. Su Marina non si era sbagliato, era veramente una donna perspicace. Lei lesse la tensione sul volto del vecchio e intuì che riportare il discorso a terra lo avrebbe aiutato a superare quel momento difficile. «Una poetessa di Arcola. Incredibile, nessuno conosce Arcola, è un paese così piccolo. Non mi dica che lei c’è stato». «Più di una volta, in tempi e in circostanze diverse. Se vuole possiamo iniziare da qui, dal nostro territorio comune. Ma prima devo assentarmi un momento». Si alzò rifiutando l’aiuto con un gesto deciso della mano.
«Torno subito, rimanga seduta». Si diresse senza esitazioni verso il bagno con passi brevi e veloci, i passi dei vecchi che non vogliono apparire tali. Chiuse la porta e fece scorrere l’acqua del rubinetto, per coprire il rumore della pipì. Una piccola attenzione, una delicatezza che Marina poche volte aveva riscontrato nei suoi pazienti, resi spesso sconci dalla vecchiaia. Quando tornò indossava una lunga vestaglia di seta di color rosso rubino con piccoli pois neri. Non tornò a letto. Si fermò un istante davanti alla finestra a contemplare il cielo. Del giardino, immerso nel buio, si potevano percepire solo i contorni degli alberi più alti. Deluso, si sedette in poltrona. «L’altra sera è nevicato. Mi sono seduto qui a osservare i fiocchi. Scendevano leggeri, come se non avessero fretta di toccar terra; bianchi sullo sfondo di un cielo grigio, che diventava sempre più scuro. Ho sempre amato la neve, quel bianco che pulisce e trasforma ogni cosa. La neve smussa gli angoli, sembra di vivere in un mondo di bambini; la rivincita del sogno sulla realtà. Quando ero piccolo mi bloccavo per ore a guardarla dalla finestra della cucina. Non è cambiato nulla, anche l’altra sera è stato lo stesso incanto. La neve di marzo: un regalo. Ho pensato che fosse l’ultima volta». «Ne vedrà ancora di nevicate!» «Non è tristezza la mia, quando si diventa vecchi si torna un po' bambini. È vero, ma i giovani lo fraintendono. L’ingenuo stupore no, quello è perduto per sempre, ma si torna a osservare, perché si pensa che potrebbe essere l’ultima volta. È un dono, sa, perché così si ridà valore alle piccole cose, si torna a provare emozioni». «È molto tempo che non mi emoziono, non c’è mai tempo, troppe cose da fare e…» Marina sospirò. «Eppure, quando viene il momento di guardare indietro, sono le emozioni molto più che i fatti a tornarci in mente. Invecchiando ho riscoperto le sensazioni. Magari non ricordo il volto di una persona, ma la sensazione che mi trasmetteva, quella è ancora lì, intatta». Tra i due si era creata una specie di complicità. Una tenerezza che per Duccio aveva origini lontane. Poteva cominciare a raccontare la sua storia di uomo solo in apparenza normale, ma in realtà sorprendente.
PASSAGGIO AL MONTOLIVO Le origini toscane di Edoardo Mucciarelli erano subito evidenti in quel cognome, che evocava nel suono certi dolcetti di Siena, che profumano di mandorle e vaniglia. L’aristocratico Edoardo, invece, era lì a ricordare le origini nordiche della madre, donna bellissima, ma fredda come i suoi occhi grigio azzurri. Quanto quei mondi fossero distanti fu subito chiaro dai dissidi che rovinarono ben presto l’armonia della famiglia Mucciarelli e che lasciarono un segno nella fanciullezza del piccolo Edoardo. A quell’epoca il volgarissimo detto, “mogli e buoi dei paesi tuoi”, avrebbe trovato un preciso riscontro nell’infelice matrimonio dei suoi genitori. A risolvere la dicotomia tra nome e cognome ci pensò il diminutivo. Dino, tentò la mamma, Duccio replicò papà. Prevalse Duccio, Dino venne subito dimenticato, ma il vero vincitore fu Edoardo e non solo sui documenti ufficiali. Per quasi tutta la sua vita e per la maggioranza delle persone la spuntò quasi sempre lui. Quella sera, però, era il sentimentale Duccio ad avere la scena. «Mi chiami pure Duccio, io, da parte mia, se è d’accordo e se non si offende, la chiamerò Marina. Non voglio simulare una familiarità che tra noi non esiste, penso solo che semplificherà il nostro colloquio, sennò con tutti questi signor, signora o signorina non finiamo più». Marina pensò che il chiamarsi per nome avrebbe potuto colmare almeno un poco il solco profondo scavato dai quasi settant’anni di differenza di età. Del resto non aveva nessun problema, trovava del tutto naturale che i pazienti la chiamassero per nome. Duccio si tolse i pesanti occhiali, si passò la mano sinistra sulla fronte, incerto sul dove cominciare. Iniziò dai suoi primi ricordi, quelli più lontani nel tempo, quelli più soggetti agli inganni della memoria. La sua non fu una scelta molto originale, del resto non la si può certo pretendere da un vecchio ragioniere, ma in quel caso era obbligata. «Non capirebbe nulla di me, se non partissi dall’inizio. Il mio destino è stato scritto nei miei primi anni, tutto ciò che è venuto dopo è solo la conseguenza di quelle mie prime dure esperienze».
Duccio definì solitaria la sua infanzia. Non che fosse stato trascurato, anzi, era stato curato in tutto e per tutto, ma la mamma era troppo impegnata a tirare avanti la famiglia, per trovare tempo per le “smancerie”, come chiamava lei quei momenti di tenero affetto e di coccole che tanto amano i bambini. Manifestazioni inutili, anzi inopportune per allevare un maschio alle durezze della vita. Per lui ci furono poche parole affettuose, pochi regali, molti “devi”. Non gli veniva permesso di giocare in cortile con gli altri bambini, figli di povera gente, non all’altezza delle ambizioni della madre. Fu così che Duccio si abituò a trovare solo in se stesso la forza di crescere in fretta, in un mondo che gli venne subito descritto come ostile e pieno d’insidie. Era nato nel 1908, aveva appena sette anni quando scoppiò la grande guerra. La sua infanzia terminò presto. «All’età di nove anni, era il 1917, avevo già l’incarico di recuperare il cibo della tessera annonaria. Papà, quando c’era, andava al lavoro prestissimo e mia mamma doveva curare il mio fratellino Guido, che aveva un anno. Mi mettevo in fila che era ancora notte, per essere tra i primi. Il freddo entrava nelle ossa, per riscaldarmi battevo forte i piedi e soffiavo sulle mani. Le notti di allora erano così diverse da quelle a cui siamo abituati ora. Quelle di oggi non sono più neanche notti, troppo illuminate e rumorose. Quelle di allora, si fa fatica anche solo a immaginarle, erano così buie, da incutere paura. Anche in città. Le luci giallastre dei lampioni soccombevano alle tenebre nel giro di pochi metri, i loro incerti cerchi di luce erano interrotti da lunghi spazi di buio. Tutto intorno la notte la faceva da padrona, solo il cielo brillava di stelle, luminoso come non l’ho più visto. Intorno c’era il silenzio, un silenzio a cui non siamo più abituati, rotto solo dal rumore dei miei passi veloci di bambino ansioso di mettersi al sicuro nella lunga coda di persone in attesa. Tornavo con un orribile pane nero, un po' di olio, di zucchero e il latte per Guido. Ecco, quando sento parlare della grande guerra, questo è quello che mi torna in mente». «Mi sembra impossibile che qualcuno abbia ancora ricordi diretti della guerra del quindici - diciotto, quella che ho studiato sui libri di storia, quella dei sanguinosi assalti alle trincee riprodotte nei primi filmini».
«A parte ciò che si legge sui libri, di quella tragedia sono rimasti solo i nomi dei tanti caduti incisi su lapidi sempre più scure, inserite in piccole aiuole con le pesanti catene nere a proteggerle dallo sfregio delle tante auto mal parcheggiate intorno. Che tristezza quei lunghissimi elenchi di ragazzi che se ne sono andati senza poter vivere la loro vita! Non c’è Comune, nemmeno quelli che non ti aspetti, perché così piccoli, da non essere menzionati su nessuna carta geografica, che non abbia la sua brava lapide. Quelle pagine di pietra danno, più di tanti libri, la misura dei lutti che produsse la grande guerra. I nomi dei caduti, ormai dimenticati da tutti, resistono all’indifferenza di chi vede nei loro piccoli monumenti solo la disdetta di un parcheggio mancato. Avrebbero potuto essere miei fratelli maggiori. Se chiudo gli occhi riesco ancora a vedere quei ragazzi sfilare con i loro corpi forti di giovani già abituati alle fatiche dei campi. Me li ricordo bassi, tarchiati con gli occhi che splendevano di orgoglio per le loro nuove divise grigio verdi. Marciavano avanti e indietro, facendo risuonare i loro scarponcini, soldatini di piombo in carne e ossa. Quella che io continuo a chiamare piazza del Mercato, allora era una immensa piazza d’armi e la caserma, che ora è abbandonata, era la loro precaria abitazione in attesa di partire. Sono stato fortunato, per pochi anni sono riuscito a evitare le trincee; tutta la mia sofferenza si esaurì in quelle code notturne. Quando la guerra finì e finalmente sulla nostra tavola ricomparve il pane bianco, quello vero, di frumento, quello che avevamo sognato per tanto tempo, Guido, che non l’aveva mai visto, si mise a piangere! Noi eravamo piccoli borghesi, certamente non ricchi, anzi. Con l’inflazione che galoppava lo stipendio di papà ci garantiva solo una vita molto, ma molto austera. Eravamo dei poveri con guanti e cappello. La cucina di mio nonno materno, invece, non aveva mai smesso di traboccare di cibi pregiati, non mancavano neppure le carissime creste di gallo. Non le ho mai volute mangiare, ora non si usano neppure più. Poco male. Quelle code notturne servirono a formarmi. Cominciai a capire la differenza tra ricchezza e povertà e a sviluppare un accentuato senso di giustizia». «Chissà perché pensavo che lei fosse nato ricco».
«No, ho avuto la perfida sorte di nascere povero da due famiglie ricche. Allora la differenza tra un ricco e un povero la si vedeva a tavola e dal riscaldamento invernale. Il cibo era un indicatore infallibile, ma anche la temperatura dei locali. Si diceva “g’han minga fregg i pè”, per dire che una famiglia era abbiente». «Però non divenne socialista». «Neppure per un giorno! Ho sempre pensato che l’unica ricchezza che conta e che merita rispetto uno se la deve guadagnare da solo. Non vale ottenerla sottraendola agli altri e neppure ereditarla. Per questo sono un liberale, credo che ciascuno debba poter essere l’arbitro della propria fortuna. Tassare chi è intraprendente e ha voglia di lavorare, per dare sussidi ai fannulloni è una vera vergogna. Guardi l’America, lì sì che sanno premiare i meritevoli, per questo sono diventati la più grande potenza, mentre noi sprofondiamo nei debiti. Comunque sin da bambino ho avuto un carattere forte, così non mi tenni per me l’offesa di quella disparità di trattamento culinario. I Colombo, la famiglia di mamma, per prendermi in giro, mi affibbiarono il soprannome di “Giustino”». «E lei, che mi pare non sia tipo da porgere l’altra guancia, li ricambiò con un astio che, come posso vedere dalla sua espressione, ancora vive. Guardi che lo dico con ammirazione, la sua vita è stata difficile fin da subito». «Non è proprio così, sono stato anche un bambino privilegiato: in paradiso ci andavo ogni anno. Si chiamava Toscana, non quella di oggi e neppure quella di Firenze. ma quella della campagna massese, ai margini di una Versilia ancora innocente. Come tutti i paradisi anche il mio era in alto. Il Montolivo, la tenuta di campagna dei miei nonni paterni, era una montagna dal profilo conico perfetto, coltivata a vigne e ulivi in basso e con un misterioso bosco di lecci e pini in alto. Lì l’Ottocento non era ancora terminato, nei luoghi e, soprattutto nella vita degli uomini. Un mondo che mi rassicurava. Sono sempre stato un bimbo solitario, mi nascondevo tra gli alberi di quel bosco. Non giocavo con gli altri, avevo una sola amica, una bambina un po' più grande di me. Si chiamava Nerina. Con lei mi sentivo felice, aspettavamo che tutto tacesse nel calore del dopo pranzo e scappavamo a rifugiarci nei nostri due nascondigli segreti: una piccola radura nascosta che profumava di
pini da cui si vedeva una striscia di mare, e, quando pioveva, il vecchio fienile vicino alle stalle, con i suoi giacigli di paglia profumata. Solo noi in paradiso, mano nella mano, con il canto infinito delle cicale. Varese, invece, era già nel nuovo secolo, sconvolta dalle nuove costruzioni che allargavano la città e cancellavano senza pietà i vecchi giardini delle case di villeggiatura dei milanesi. Serviva spazio, per costruire i villini della nuova borghesia. Varese, per me, era il luogo dei doveri e dell’obbedienza, però sapevo che ogni estate c’era sempre il Paradiso ad aspettarmi». Duccio si mise allora a raccontare di quando, al termine della scuola, i bimbi Mucciarelli lasciavano la città, per raggiungere i nonni in Versilia, al Montolivo. Il viaggio per la Toscana era uno dei momenti più attesi, il più bello dell’intero anno, meglio del Natale. Si commosse nel rievocarlo. Gli occhi chiusi, il capo appoggiato allo schienale della poltrona, le parole leggere raccontavano un ricordo reso perfetto dal tanto tempo passato. «Si partiva tutti insieme da Varese che era ancora notte, si pigliava la ferrovia varesina che allora terminava proprio alla vecchia stazione Centrale di Milano, in prossimità dell’attuale piazza della Repubblica». «Non c’era ancora la Centrale? Pensavo che fosse vecchissima. Scusi, ho fatto una gaffe, dovrei sempre pensare prima di parlare». «Non si preoccupi, so bene di essere un Matusalemme, mica mi offendo per una verità certificata. Anzi, sono contento di aver messo sottoterra tutti quelli che mi hanno voluto male! Tanti. La vecchia Centrale era in piazza della Repubblica, appena fuori dalle mura spagnole. Fino a pochi anni fa si poteva ancora vederne qualche resto dove ora c’è un prato con i luna park. Sono rimasti solo i grandi alberghi, che allora si affacciavano direttamente sulla piazza della stazione». «Eravate una famiglia numerosa?» «Per quel tempo, no. Eravamo in cinque, mio padre Silvio, mia madre Sofia e i miei due fratelli: Angela, maggiore di me di due anni e Guido, il più piccolo, che era del 1916. Di quei viaggi ricordo ogni dettaglio, forse perché, anno dopo anno, si ripetevano gli stessi gesti, le stesse immagini, gli stessi suoni». «Conosco a memoria quella linea, l’ho fatta tante volte anch’io».
Duccio, socchiusi gli occhi, prese a rievocare le immagini che si susseguivano nella sua mente. «Prima la lunga rincorsa delle sagome dei pioppi che nel buio anticipavano la luce del giorno, poi il profumo del pane appena sfornato dei panini acquistati sul marciapiede di Fornovo, i rintocchi delle campane del campanile di Borgo val di Taro e la lunga galleria. Alle spalle il Nord, con i tanti doveri, davanti l’attesa delle vacanze. Era il suono a un tratto meno assordante del treno nella galleria ad anticipare l’esplosione di luce della Toscana. Guido, allora si alzava per avvicinarsi ancora di più al finestrino e gridava tutto il suo entusiasmo di bambino. Il tamtam ritmico dei vagoni lanciati in discesa gli faceva da eco. Il mio punto di riferimento era un piccolo paese ligure, alto su un colle che anticipava la stazione di Sarzana e la Versilia. Il mio babbo diceva che quella era Arcola e che prima o poi ci saremmo andati tutti, per ammirare da lì le Apuane e la piana di Luni. Vede, Arcola è entrata nella mia vita molto presto». Marina riaprì gli occhi chiusi con cui aveva seguito il racconto. Nonostante la stanchezza di una lunga giornata, aveva ascoltato Duccio con commozione. «Fu proprio un viaggio come quello a cambiare la mia vita. L’ultimo, quello del marzo del 1926». Avevo ormai diciotto anni, che allora erano tanti per i figli della povera gente, ma molto pochi per i figli della borghesia. Io ero un borghese, ma povero, un’eccezione. Partii che ero Duccio, solo un ragazzo, quando tornai, pochi giorni dopo, ero Edoardo, già un uomo.» Nello scompartimento i Mucciarelli erano rimasti soli. L’unico estraneo era sceso a Piacenza e nessuno aveva più violato la loro intimità occupando la sesta poltrona di velluto rosso, l’unica libera. Per tutta la pianura e nella faticosa tratta appenninica ognuno si era rifugiato nel proprio silenzio, solo Guido aveva tentato di romperlo rivolgendosi ai fratelli maggiori, ma né Duccio, né Angela gli avevano dato corda. Il bianco e il blu del suo vestito alla marinara rompeva la monotonia degli abiti degli adulti, scuri come i loro pensieri. Quello non era il solito viaggio. Alla stazione di Pietrasanta non ci sarebbe stato il nonno con il suo calesse ad attenderli. Anche Guido, che non aveva ancora compiuto i dieci anni, sapeva bene che era morto
da qualche mese e che i giorni seguenti non sarebbero stati una vacanza. A lui, però, bastarono la luce chiara e le insolite foglie persistenti degli ulivi, per rompere quella cappa di tristezza che gli adulti gli avevano imposto. Per qualche giorno per lui non ci sarebbe stata scuola, questo lo rendeva felice. Non c’era nessuno dei parenti alla stazione. Sotto i grandi platani, che contornavano il piccolo piazzale, lo zio Aldo, il fratello minore del padre di Duccio, aveva mandato ad accoglierli lo chauffeur della ditta. Se ne stava appoggiato alla imponente Fiat 510, nera e luccicante. Marina cercò di immaginarsi la scena. La piazzetta in salita della stazione di Pietrasanta con i platani e lo sfondo del forte e l’angusto arco d’ingresso alla città. Nel 1926 il paesaggio sarà stato diverso. Non aveva idea di come fosse una Fiat 510, lei conosceva solo la piccola 500, quanto allo “chauffeur” lei se lo immaginava imponente, come l’auto, con i baffi a manubrio. Seguendo il filo della sua immaginazione se ne uscì con una strana domanda «Era in divisa? Lo chauffeur, intendo». «Francamente non me lo ricordo, ma è probabile. Le divise allora erano molto di moda, non sto parlando di quelle degli autisti. Erano in tanti a pensare di nascondere le loro facce ottuse e le loro pancette da leoni di trattoria sotto berretti di varia foggia e giacche militari. Tentativi senza speranza. Quella sera, come al solito, l’atmosfera in famiglia non era delle migliori, i battibecchi erano all’ordine del giorno. Iniziò mamma, che quel giorno era ancora più agguerrita del solito: “Vedi Duccio come si buttano i soldi?” e mi indicava l’imponente auto. Aveva un tono di voce fintamente basso, quello che in realtà si utilizza per richiamare l’attenzione delle persone vicine. Si fa finta di tener nascosto ciò che, invece, deve giungere chiaro e forte al reale destinatario. Infatti, puntualmente, il messaggio arrivò a mio padre, colpevole di aver voluto coinvolgerla con i tre figli in quel viaggio insopportabile. “Basta Sofia, non mi sembra né il caso, né il momento”. Fu la sua risposta irritata e si infilò nell’abitacolo indicandole con l’indice il bottone di velluto nero che portava sul bavero. Allora si usava così, lei non li avrà neanche mai visti!» «Ha ragione, non me li ricordo. Oggi nessuno porta più il lutto»
Dopo pochi minuti di strada la grande Fiat varcò il cancello del Montolivo, risalì il lungo viale di lecci e si fermò davanti a un austero edificio giallo, pallido come un sole d’inverno. La villa di villeggiatura dei Mucciarelli era solida e austera come una fortezza: massiccia, le finestre strette come feritoie scavate nelle larghe mura, la facciata priva di ogni ornamento. C’era la vecchia nonna Maria ad accoglierli. Piccola, con i capelli stretti in una treccia grigia intorno alla testa. Portava una gonna nera, così lunga da sfiorare il terreno; il bianco della sua camicetta dal collo alto spiccava sotto la stretta giacca abbottonata, anch’essa nera. Nessuna spilla, nessun anello, solo la vera all’indice. Lutto stretto. La nonna abbracciò per primo Duccio, aveva un debole per quel nipote che sorrideva così poco. «Il tuo babbo mi ha detto che ti sei già impiegato in banca, bravo! Abbiamo bisogno di un giovane sveglio come te, qui con i soldi ultimamente non andiamo tanto d’accordo». E, mentre lo diceva, rivolgeva uno sguardo sospiroso e triste al figlio. Angela, come al solito, non riuscì a trattenere le lacrime. «Coraggio, ragazza mia, il tu nonno se ne è andato come è vissuto: senza piagnistei. Se lo sentiva, sai, ma non ha chinato il capo nemmeno davanti al prete, è sempre stato un senzadio. La Madonna lo perdoni». Sospirò. «Basta lacrime, Angela, altrimenti i giovanotti scappano e non troverai marito, ormai hai l’età giusta». Il cocco di nonna Maria, però, era il piccolo Guido, l’ultimo dei tre figli di Silvio e Sofia, che fissava l’ampio portone delle stalle attigue alla villa. «Guido, vieni qui ad abbracciare la tu nonna, che i cavalli li andrai a vedere più tardi. Cresci bello come il sole. Fai la quarta elementare, vero? Mi raccomando, studia, mi hanno detto che con il maestro non vai tanto d’accordo». Poi si rivolse sorridendo alla nuora, che la sovrastava dall’alto del suo metro e settantacinque e che la guardava fredda con quei suoi occhi grigio azzurri. «Sei sempre bella, Sofia, ma come fai a essere così snella, dritta e bionda dopo tre figli! Voi lombardi siete un po' austriaci».
Era un modo gentile per sottolineare la distanza che la separava da lei. Per tutti i Mucciarelli da sempre Sofia era “l’austriaca”, non esattamente un complimento. L’ultimo abbraccio fu per il figlio, che l’aveva abbandonata per andare ad abitare in quella strana località, quasi svizzera, che era Varese. «Vieni qua Silvio, quanto mi sei mancato! Questa sera vengono a cena i tuoi fratelli; vogliono vederti prima dell’appuntamento di domani con il notaio. Mi raccomando, non litigate». E se lo baciava quel figlio un po' matto, che se ne era andato giovanissimo in Lombardia, appena dopo il diploma, per inseguire la sua Sofia. Il grande amore si era raffreddato, ma lui era rimasto sentimentale e sognatore come allora, purtroppo completamente disinteressato agli affari di famiglia. Per la cena venne apparecchiata la sala da pranzo delle grandi occasioni. Il tavolo rettangolare da dodici occupava quasi completamente l’intero locale. Sul buffet, che si allungava sulla parete di fronte alle finestre, i piatti erano perfettamente allineati e impilati per dimensione e funzione. Le infinite posate, coltelli e coltellini, forchette e forchettine, cucchiai e cucchiaini, illuminate dal lampadario di cristallo di Boemia, scintillavano riflesse nella specchiera che sormontava la credenza. «Mia nonna Maria ci teneva molto al “decoro”. Così definiva le rigide regole che governavano i pranzi e le cene ufficiali. I posti erano assegnati secondo una gerarchia immutabile, che rispecchiava la vicinanza affettiva di mio nonno ai suoi tre figli. A capotavola sedeva sempre lui, nonno Giovanni, all’estremità opposta, vicino alla cucina, nonna Maria. Alla destra del nonno mio zio Dario, l’amato primogenito, con accanto sua moglie Mariuccia, timida e riservata. In mezzo, equidistante da padre e madre, ma lontano da entrambi sedeva mio zio Aldo, il minore dei fratelli. Lui, spavaldo e chiassoso era la pecora nera della famiglia, scapolo e sciupafemmine. Il posto accanto a lui rimaneva sempre vuoto, ufficialmente per sottolineare la colpevole mancanza di una futura, improbabile moglie. In realtà tutti sapevamo che lì il nonno avrebbe, invece, voluto vedere Ada, la sua unica figlia femmina, frutto di una relazione illegittima. Per il veto di nonna il posto non venne mai occupato, ma lui, per ripicca, pretese che venisse sempre apparecchiato. Sull’altro lato, a fianco del nonno, mio padre Silvio con accanto mamma. Noi nipoti eravamo seduti nella seconda parte del
tavolo. Io subito dopo mamma, poi mia sorella Angela e Guido, proprio vicino a nonna. Di fronte a noi stava sempre mio cugino Folco, l’unico figlio di Dario e Mariuccia. Quella sera, però eravamo solo in nove. Lo zio Dario si sedette con naturalezza a capotavola, per riaffermare la sua primogenitura e, come se non bastasse, alla sua destra fece sedere la moglie. Io trovai indelicato che il posto del nonno fosse stato subito occupato. Sarebbe stato più rispettoso lasciarlo vuoto, in segno di lutto. Quella sera ero già di cattivo umore, perché Nerina, la mia amica d’infanzia, non si era ancora fatta viva». Quello che Dario dichiarò, appena tutti presero posto, irritò Sofia. «Folco vi saluta tutti, ma non è potuto venire, è a Pisa a preparare la tesi. Presto avremo un altro avvocato in famiglia!» Sprizzava orgoglio e senso di superiorità. Era lui, ora, il capo. Silvio lo guardava con l’ammirazione riservata al fratello maggiore che si era affermato. Aldo, l’unico che sfoggiava un inopportuno abito di gabardina chiara, lo sfidava, invece, con una espressione insofferente. Marina ascoltava in silenzio, cercando di memorizzare quella lunga lista di nomi e di parentele. Aveva capito subito, da ragazza intelligente qual era, che in quella notte il suo ruolo sarebbe stato quello. Del resto glielo aveva ricordato lo stesso Duccio, quando, tra i tanti complimenti, le aveva educatamente ricordato che lei era lì, perché sapeva ascoltare. Si limitava a pochissimi brevi commenti, con l’unico scopo di far capire a Duccio che stava ascoltando con attenzione. Quella sera i commensali erano avari di parole. Che quella sarebbe stata la loro ultima cena in quella casa era ben chiaro a tutti. Fino a pochi mesi prima il vecchio Giovanni Mucciarelli era riuscito a mantenere nascosti i problemi finanziari, che con il passar degli anni si erano sempre più addensati sulla famiglia, ma, con la sua morte, si erano manifestati in tutta la loro gravità. L’incontro con il notaio, previsto per il giorno seguente, avrebbe suggellato la rovina dei suoi figli. Per rompere il ghiaccio, Silvio si rivolse alla madre. «Domani in mattinata vado al cimitero a trovare il babbo, hanno già posato la lapide?» Maria lo guardò in silenzio, indecisa se dar libero sfogo al suo malumore, o a reprimerlo ancora una volta, per amor di pace. Prevalse il malumore, che ormai aveva contagiato un po’ tutti.
«Posata l’han posata, Silvio, ma lo dico subito a te e a tutti voi», si interruppe per far correre lo sguardo sui tre figli, poi riprese «io lì dentro con lui non ci vado». Lasciò che il brusio di sorpresa suscitato dalle sue parole si placasse e poi aggiunse: «In primis per il torto che il vostro babbo mi ha fatto. Sapete di che parlo. In vita ho sopportato e l’ho curato fino all’ultimo, come deve fare una brava moglie, ieri gli ho portato anche i fiori, ma accanto a lui per l’eternità no. E poi, ditemi voi, ma si può fare una lapide senza nemmeno una croce, una Madonnina, un qualcosa, insomma, che faccia capire che siamo cristiani?» Fu Dario, ormai preso dal suo nuovo ruolo di capo famiglia, a risponderle. «Mamma tu lo sai che, a parte te, noi si è allergici all’incenso. Babbo era devoto solo al Mazzini, ci ha voluto far scolpire le fiamme che ardono, quelle del riscatto dell’Italia». «Sarà come dite voi! Intanto a me quelle fiamme fanno paura. Non ha voluto neanche vedere il prete, neppure in chiesa l’ho potuto portare. Dio lo perdoni». Si guardò intorno per richiedere assenso, ma, vista la tiepida accoglienza avuta dalle sue parole, pensò bene di calcare i toni. «Per forza non c’era nessuno! Solo quei quattro compagni d’armi e quelli del circolo, buoni quelli, per il resto nessuno. Un uomo come lui. Avrebbe dovuto esserci tutta la città». «Se è per quello, mamma,» replicò Silvio «meglio soli che mal accompagnati. A noi non piace il nero, né quello dei preti, né quello degli altri». Sofia, decisa a troncare lo spiacevole battibecco tra suo marito e la suocera, le chiese la ragione dell’insolita assenza di Nerina. Sperava di avere una risposta banale, che avrebbe calmato le acque, ma quella sera tutto era destinato ad acuire le tensioni. «L’è impegnata a ricamare il suo corredo, tra poco si sposa!» A Maria erano tornati a brillare gli occhi. «Sposa il figlio del fattore dei conti Arnaboldi». Lo disse con aria di trionfo, come se il titolo dei proprietari si potesse estendere anche al fattore, al futuro sposo e, naturalmente, a Nerina. Marina guardò Duccio un po’ sorpresa. «Nerina, la sua amica del cuore, era parte della famiglia?» «In un certo senso sì, anche se era esclusa dai pranzi ufficiali, girava sempre per casa».
Duccio spiegò che Nerina era l’ultima figlia della numerosa famiglia di contadini che occupava il casale della zona bassa della tenuta. Era cresciuta snella, troppo esile per i duri lavori dei campi. Gli occhi neri sembravano ancora più scuri su quel viso bianchissimo e regolare. Non sembrava neppure loro figlia. La nonna Maria aveva sempre avuto un debole per lei. Per un inesplicabile caso del destino, la natura l’aveva dotata di una grazia e una eleganza fuori dal comune. Vedendola crescere così bella e fine, come una vera contessina, la nonna l’aveva presa sotto la sua protezione. Nerina era la figlia femmina che non aveva mai avuto. Se la teneva sempre in casa, le aveva insegnato le buone maniere, la vestiva come una vera signorina. La figliola era sveglia, ci mise poco a imparare a leggere e a scrivere sotto la sua guida. Passavano insieme ore, nonna la intratteneva con i libri edificanti scritti per le signorine di buona famiglia, mentre Nerina, dal compimento dei suoi diciotto anni, ricamava il suo corredo. Erano trascorsi otto anni, ma Nerina non se l’era ancora presa nessuno. Allora ci si sposava molto presto. Troppo bella e educata per un contadino, metteva soggezione, troppo di umili origini e povera per un giovin signore. Maria considerava quel matrimonio una sua personale rivincita e non vedeva l’ora di sbandierare la bella notizia alla nuora. Era nota l’antipatia di Sofia per Nerina. Come tutte le madri, “l’austriaca” era gelosa e vedeva con sospetto l’amicizia del suo adorato Duccio con la figlia di poveri contadini. Come un toro che, davanti allo sventolio di un drappo rosso, abbassa la testa preparando l’attacco, Sofia preparò la replica, lei non le mandava certo a dire, soprattutto voleva sempre avere l’ultima parola. Prima allontanò con una scusa il bambino. «Guido, fai un favore alla mamma, mi vai a prendere in cucina un altro tovagliolo? Questo mi è caduto». Appena l’innocente uscì, Sofia si guardò intorno e con un sorrisetto malizioso lanciò la sua stoccata: «Come mai così all’improvviso? Tutta questa fretta di sposarsi! Non è che la santarellina, come dire, avete capito, no?» La nonna prese subito le difese della sua protetta. «Ma che dici, Sofia! La Nerina l’è una ragazza serissima».
Era diventata tutta rossa e avrebbe voluto aggiungere ben altro. Si limitò a guardare la nuora e i suoi occhi dicevano: «povero il mio Silvio, come farai a sopportarla»; ma per amore del figlio e dei nipoti quella sera evitò di risponderle a tono. Sofia, invece, non vedeva l’ora di riversare sulla suocera la sua irritazione per essere lì contro la sua volontà e non smise di schizzare nuovo veleno. «Non se la prenda, signora Maria, l’ho detto solo per scherzare un po'. Ho sempre avuto l’impressione che quel faccino da madonnina nasconda qualcosa. Forse mi sbaglio. Però che nome è Nerina? È figlia di due contadini comunisti, le hanno dato il nome di una mucca!» “Povero Leopardi” pensò Maria, ma in tanti anni al fianco di un uomo difficile come Giovanni Mucciarelli aveva imparato a tacere e a mandar giù, e non replicò. Il ritorno di Guido chiuse la discussione. Marina non fece fatica a immaginare la scena: il silenzio improvviso sulla sala, i soli rumori delle posate, gli occhi dei commensali concentrati sul cibo. «Ma lei, Duccio, lei lo sapeva del matrimonio di Nerina, vero?» Il vecchio in silenzio si tolse gli occhiali, si passò la mano sulla fronte e sugli occhi. Dopo oltre settanta anni di silenzio, era finalmente giunto il momento di svelare il suo segreto. Senza distogliere lo sguardo da Marina cominciò a raccontare. «Eravamo inseparabili, lei aveva otto anni più di me e io pendevo dalle sue labbra. Ci siamo sempre visti un po' di nascosto, non perché dovessimo superare chissà quale divieto, ma perché ci è sempre piaciuto stare da soli. Poi ci siamo innamorati. Anzi, ora so di averla sempre amata. Lei era bellissima, la mia fata turchina. Nessuno, quella sera, notò il mio improvviso pallore. Le parole di nonna per me erano state un colpo al cuore, il sospetto di mamma, peggio ancora, mi aveva terrorizzato». «Pensavo che il vostro fosse un innocente amore da ragazzini». «Proprio così. Eravamo inesperti, non avevamo preso nessuna precauzione, era successo per caso. Per quello avevo il cuore in gola. Abbandonata la forchetta, con la mano sotto il tavolo contavo i mesi trascorsi da un certo pomeriggio di agosto. Ero così agitato, che non
riuscivo a farlo senza l’aiuto delle dita. Sette. A quest’ora su quel suo corpo così snello si sarebbe certamente notato. Mi sentii sollevato, tentai di riprendere a mangiare, ma di colpo l’appetito mi era passato. Avrei voluto essere solo, per piangere la mia delusione e gridare la rabbia che sentivo montarmi dentro, ma seppi controllarmi. Così almeno mi parve. Fu nonna a rompere il silenzio. “Domani mattina, se volete, e se la mamma è d’accordo, faccio preparare il calesse e vi faccio accompagnare al Forte. L’acqua è fredda, ma l’aria sa già di primavera, che ne dici Guido?” Nonna era una donna meravigliosa, sapeva sempre trovare il modo di renderci felici». La proposta di Maria venne accettata con entusiasmo da tutti, anche da Sofia, che non vedeva l’ora di allontanarsi dalla suocera. «Purtroppo, però, quella sera la mia salita al Golgota non era ancora finita». Duccio raccontò che fu lo zio Dario ad alzarsi per primo da tavola. Estrasse il grosso orologio d’oro dal panciotto, finse di controllare l’ora, che in realtà ben conosceva, essendo appena risuonati i nove rintocchi della pendola, poi, si rivolse alla madre: «Con Silvio e Aldo ce ne andiamo nello studio del babbo». Era un annuncio atteso e non prevedeva repliche. Ma, mentre i tre fratelli si stavano avviando, inaspettata si alzò la voce di Sofia. «Se non vi dispiace, vorrei che venisse con voi anche Duccio, ormai è grande e in banca tutti l’apprezzano». Quella richiesta era la risposta di Sofia al senso di superiorità di Dario per la laurea di Folco, ma anche la manifestazione di totale sfiducia verso il povero Silvio. Sofia non amava nessuno della famiglia del marito. Lei lombarda tra quei toscani, così lontani dalla sua austera morale, si sentiva perennemente una straniera. Era ricambiata: “l’austriaca”, appunto. Poi, senza attendere repliche ed evitando lo sguardo indignato del marito, si avviò con le altre donne verso il salotto. «Hai capito chi comanda? Povero Silvio» sibilò lo zio Dario ad Aldo.
Silvio finse di attardarsi, per parlare con Duccio. A bassa voce gli impose di non intervenire in nessun caso. «Ascolta e basta, se hai qualcosa da dire, lo dirai dopo a me, quando saremo soli». A parte la domestica per le pulizie, nessuno aveva più messo piede nello studio di Giovanni Mucciarelli. Era una grande stanza al piano terreno, una stretta porta a vetri la metteva in comunicazione con il giardino. I mobili in noce nero, imponenti e austeri, erano in stile rinascimentale. Duccio amava quel luogo. Era lì che da bambino raggiungeva il nonno nelle sere d’estate. Quell’uomo, tanto autoritario con tutti, trovava sempre il tempo per il suo solitario nipote. Gli leggeva un vecchio libro di miti greci. Duccio ricordava ancora l’immagine stilizzata di un Achille inginocchiato, la lunga lancia nella mano, l’elmo appena sollevato, della sua nera copertina. Tra le tante storie di eroi invincibili, di aspri duelli, di divinità dalle forti passioni umane, quella che Duccio “Giustino” voleva sempre ascoltare era la commovente vicenda di Cassandra, la bellissima figlia di Priamo che, senza mai essere creduta, sapeva prevedere un futuro di sventure. Dai miti greci alla storia del Risorgimento. Quando il nonno era in vena, Duccio si faceva raccontare di quando aveva abbandonato l’università per seguire Garibaldi in Trentino, delle battaglie, dell’Italia finalmente libera, della grandezza del Generale e della purezza di Mazzini. Si incantava a guardare i ritratti dell’eroe dei due mondi e dell’ascetico vate. Gli sembrava che l’osservassero con sguardi severi dalle loro massicce cornici dietro la scrivania. In mezzo a loro il nonno aveva fatto porre un vecchio tricolore privo dello stemma sabaudo. Anche se non era abitata da gennaio, nella stanza persisteva un forte odore di sigari toscani, i preferiti dal nonno. Dario si sedette solennemente sulla grande poltrona con braccioli del padre, mentre Silvio e Aldo occuparono le due poltroncine antistanti. Tra di loro, impilate sulla scrivania, le carte di Giovanni. Tutto in quella stanza continuava a parlare di lui. Duccio rimase in piedi, rappresentazione fisica di una presenza giudicata incongrua e inopportuna. Mentre il fumo azzurro dei tre sigari volteggiava nell’aria, i tre fratelli in silenzio rincorrevano l’autorevole voce del padre. Era una sorta di intimo addio, una muta, immobile cerimonia funebre quella che si stava svolgendo in quel momento. Duccio, però, nonostante la giovane età e la severità dell’atmosfera non era certo tipo da intimorirsi. Quando il fumo dei
sigari raggiunse il verde del tricolore, lui si avviò alla porta finestra e, senza nascondere il suo malumore, la spalancò. Fu solo allora che Dario si decise a entrare in argomento. Senza tanti giri di parole comunicò ai fratelli e al nipote che l’azienda di famiglia era sull’orlo del fallimento. «Da quattro anni paghiamo l’ostracismo delle autorità. I fascisti ci stanno rendendo difficile la vita. Non abbiamo ricevuto minacce, con il babbo non avrebbero mai osato, ma da quando comandano loro non abbiamo più avuto un appalto, solo ispezioni e ammende. Dobbiamo, però, avere l’onestà di ammettere che non è solo colpa loro. Anche noi ci abbiamo messo del nostro. Negli ultimi anni babbo non era più lucido, ma era lui a comandare; io potevo solo darmi da fare per rimediare». Dario, di fronte all’atteggiamento seccato e insofferente di Aldo, si bloccò. Poi riprese, con un tono più alto e aspro. «Caro il mio fratellino, nonostante i tuoi continui viaggi con la costosa 510, che babbo ti ha generosamente concesso, la tua attività di responsabile vendite in questi anni non ha dato molti frutti. Se almeno ti fossi dedicato di più ai clienti e un po' meno a chi so io!» Piccato per la completa indifferenza del fratello alle sue accuse, Dario pensò bene di rincarare la dose. «Come se non bastasse, per pagare i tuoi debitucci, caro Aldo, babbo è stato costretto a ricorrere alla banca. Cosa credi? Gli interessi pesano sul bilancio. A fatica ero riuscito a ottenere un po' di respiro dal direttore. Poi è arrivata la mazzata del testamento del babbo. È stato il colpo finale». Dalla relazione adulterina di Giovanni Mucciarelli con la giovane signorina Spada nella primavera del 1901 era nata Ada. Dario riuscì a convincere il padre a non riconoscerla. Non lo fece per soldi, quelli non sono mai stati così importanti per i Mucciarelli, ma per non acuire il dolore della sua adorata mamma. Forse per compensala, o semplicemente perché l’amava come una figlia, come in effetti era, Giovanni dispose nel suo testamento che a Ada venisse lasciata la metà dei suoi depositi bancari. «A questo punto», proseguì Dario, «dobbiamo rassegnarci a vendere il Montolivo. Senza i proventi dell’azienda è impossibile mantenerlo; so bene quanto ci costa ogni anno tra fattore e contadini. I macchinari ormai sono vecchi, le case andrebbero risistemate, sono anni che non
facciamo manutenzione. Insomma, mi spiace doverlo ammettere, ma il Montolivo è sempre stato più un peso che una fonte di reddito. Dovevamo venderlo anni fa, ma il babbo non ne ha mai voluto sapere». Così Duccio, nel giro di un’ora, scoprì che Nerina si sposava e che la sua famiglia era sul lastrico. Il suo avvenire andava in pezzi. Per la rabbia se ne uscì con un commento che lasciò tutti di sasso. «È proprio necessario dare tutti quei soldi alla bastarda?» Quel “bastarda”, quasi urlato, ebbe l’effetto di surriscaldare la riunione. Anche i volti austeri di Mazzini e Garibaldi sembrarono sussultare. Un sorriso rianimò il viso annoiato di Aldo, felice che il giovane nipote mettesse in discussione l’autorità del fratello. Silvio si indignò, aveva riconosciuto nelle parole del figlio il pensiero della moglie. Stava per replicare, ma fu bloccato da Dario. «Lascia stare, Silvio, i giovani hanno il loro modo di vedere le cose, un po' manicheo, ma la domanda di Duccio è legittima. Ti voglio dire una cosa, caro Duccio», la voce di Dario era tornata bassa e calma, ma il tono era di chi non avrebbe accettato repliche. «Tanto per cominciare la bastarda, come dici tu, si chiama Ada e per noi è una sorella. I piaceri sono il sale della vita, e tuo nonno di sale forse ne ha usato un po' troppo. Siamo liberi pensatori, non parrucconi; non c’è niente di male nel concedersi di quando in quando qualche piacere, purché ci si faccia carico delle conseguenze e che ci si comporti da uomini d’onore. Ada ha condiviso con noi l’affetto di nostro padre, è stata la figlia che gli mancava. Veniva spesso in azienda a trovare il babbo, sempre carina e affettuosa. Ha pianto con noi la sua morte. Certamente lei non ha nessuna colpa, semmai la madre, ma poi che ne sappiamo noi! Il babbo ha voluto lasciarle un po' di denaro, noi dobbiamo rispettare la sua volontà. L’onore prima di tutto, e quello noi Mucciarelli, per fortuna, non l’abbiamo ancora perduto». Marina, che fino ad allora era rimasta in silenzio, fece notare che in quell’occasione suo zio e suo padre si erano dimostrati più tolleranti e moderni di lui. Sulla modernità Duccio non fu d’accordo. «Non è proprio così, Marina. Lei scambia per modernità la difesa a oltranza di una mentalità minacciata e già superata da una nuova morale. Lo zio difendeva vecchi stereotipi. Le scappatelle degli uomini venivano tollerate, solo perché sesso e matrimonio erano cose ben distinte. Per questo, le chiamavano così, cose da poco, brevi evasioni da mogli austere, che vivevano il
sesso solo come un sospiroso dovere». Lui, invece, aveva già assorbito dalla madre la moralità borghese: concreta, competitiva e orientata all’affermazione sociale. Tutto ciò che minacciava la fortezza famiglia doveva essere bandito. Le infedeltà erano oggetto di scandalo. Sul sesso si chiedeva un occhio, ma solo per gli uomini e se era praticato con donne senza nome, nella discrezione di nascosti casini. «Sulla tolleranza, invece, le do ragione. Mi sono sempre pentito della mia uscita. Avevo solo diciotto anni. Il mio carattere era già fermo, facile all’ira e poco incline ad accettare opinioni diverse dalle mie. Figuriamoci quella sera. Da tempo condividevo con mamma la convinzione che i Mucciarelli, tutti, compreso mio padre, fossero molli, troppo sensibili ai piaceri della carne. Proprio per questo, pensai, le famiglie vanno a rotoli. Persi l’ultima occasione di riflettere sulle irreversibili scelte di vita che stavo per compiere. Ho capito il valore della tolleranza solo molti anni dopo, quando era troppo tardi». Dopo la filippica al nipote, Dario spiegò che era riuscito a convincere un vecchio amico di famiglia a rilevare l’azienda e ad accollarsi un terzo dei debiti. La cessione dell’azienda non avrebbe fruttato nulla ai Mucciarelli, ma la famiglia avrebbe evitato il disonore del fallimento e sarebbe uscita a testa alta, perché i vecchi operai non sarebbero stati licenziati. Per coprire i restanti debiti, bisognava vendere anche il Montolivo. Dario aveva trovato un compratore, ma in questo caso aveva dovuto cercare lontano. L’acquirente era un industriale milanese, che aveva fatto fortuna con le fonderie durante la guerra. Il Forte stava diventando di moda tra i ricconi di Milano. Quella sera l’unico a obiettare fu lo zio Aldo. «Dare la nostra tenuta a un pescecane! Quelli come lui si sono arricchiti sulla pelle dei soldati che morivano in trincea!» Ne seguì un breve battibecco, ma alla fine Dario ottenne di formalizzare le vendite dal notaio il giorno seguente. Della ricchezza del nonno era rimasta una miseria, ma l’onore no, quello era salvo. A Silvio e ai suoi fratelli sembrò una resa accettabile. Non a Duccio, ma lui non contava nulla. Confuso e arrabbiato si congedò e si rifugiò finalmente nella sua camera. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…
INDICE PRIMA PARTE LA BORSA DI COCCODRILLO …………………...………..……9 PASSAGGIO AL MONTOLIVO …………………………..…….18 ADDIO A NERINA ………………………………………..…..ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. L’ETÀ DELL’ORO ……………………………………...…….ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. LA GUERRA DI GUIDO …………………………………….…ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. SECONDA PARTE L’ESTATE DI NERINA ……………………….………...……..ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. ENRICA ………………………………………….….……… ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. “LA QUINTA” ………………………………….……….…..ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.
AL MIRTETO ………………………………….……….……ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CHI È CHI: ELENCO ALFABETICO DEI NOMI ………..………..ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.