FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 36 tico, e dal nesso fra quel metodo e la tradizione esegetica ed editoriale della Commedia. Stabilire come Foscolo s’inserì in quella tradizione, non se «fu filologo, e fino a che punto, e di che tipo di filologia», 41 può forse contribuire a spiegare le sue fatiche di editore dantesco.42 41 Fischetti, Filologia 300. 42 Dalla bibliografia di Invernizzi 192-93, risulta che l’unico foscolista ad occuparsi dei commentatori danteschi è stato Giovanni Da Pozzo, prima in un articolo su Belfagor, poi nell’introduzione alla sua edizione critica (EN IX, 1, lxv-lxxxii), dove tuttavia compare un elenco inerte di editori danteschi, non senza gravi imprecisioni. Da verificare, inoltre, la completezza dell’informazione bibliografica: Da Pozzo ad esempio non segnala una ristampa del 1835 del secondo articolo edimburghese (cfr. Foscolo, Dante).
CAPITOLO TERZO BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA NEGLI STUDI DANTESCHI L’importanza del Foscolo dantista dipende non da quanto la sua opera sia in sintonia col suo tempo, ma da quanto è grande a prescindere da esso. In tal senso i commentatori danteschi sono il presupposto di qualunque ricerca sulla Commedia: solo conoscendoli Foscolo può differenziarsi da loro. La necessità di sistematizzare le proprie conoscenze sui commentatori emerge all’inizio e alla fine della carriera del Foscolo dantista. Il primo articolo su Dante della rivista di Edimburgo è un rapido excursus sulla storia dell’esegesi della Commedia: difatti una traduzione parziale e rimaneggiata di quell’articolo, uscita sul Raccoglitore del 1820 ad opera del conoscente di Foscolo Davide Bertolotti, s’intitola Esame critico dei commentatori di Dante. 1 Tre mesi prima di morire Foscolo rimpiangeva di non aver approfondito quell’analisi, cioè di non aver corredato la sua edizione dantesca di un’appendice critico-documentaria, «the most irksome part of the work», di sicuro interesse 1 Bertolotti 41-58 e 76-79.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 38 per gli studiosi di controversie dantesche.2 Entrambe le occasioni, ovvero l’esame critico dei commentatori e l’intenzione irrealizzata di raccoglierne in un’appendice le controversie, sono legate al nome e all’opera di Niccolò Giosafatte Biagioli, un insegnante d’italiano spretato, esule a Parigi dopo un’esperienza politica nella Repubblica romana.3 Biagioli aveva progettato per la sua edizione dantesca un’appendice documentaria simile a quella foscoliana ma rimasta anch’essa sulla carta.4 In più l’articolo edimburghese si presenta come una recensione anonima dell’allora inedito commento di Biagioli, il quale, secondo Foscolo, non avrebbe in sostanza cambiato il piano dei suoi predecessori, e quindi sarebbe condannato alla sola dimensione dell’epigonalità. I rapporti epistolari intercorsi fra i due esuli gettano luce sulla scelta di Foscolo di aprire il suo articolo con la recensione di un commento inedito. Il 18 novembre 1816 Biagioli scrive a Foscolo ricordandogli di averlo conosciuto «molti anni» prima presso la libreria Fayolle, tradizionale luogo d’incontro degli Italiani in trasferta a Parigi. L’aveva frequentata pure Alessandro Manzoni, che infatti nel 1807 chiedeva a Fayolle l’indirizzo esatto di Biagioli da comunicare a Fauriel.5 Quel lontano e breve incontro con Foscolo offre a Biagioli il pretesto per parlargli del suo commento 2 Foscolo, Lettres inédites 91-92. 3 Un primo inquadramento offre Timo, Biagioli. 4 Biagioli, Commedia I XVIII n. 1. 5 Manzoni-Fauriel 41: «Nous avons démandé au libraire Fayolle l’adresse de M.r Biagioli». Dell’adorazione di Biagioli per Dante, Manzoni si faceva beffe: «Biagioli me demande de vous; son travail sur Dante avance, il me dit que bientôt il se mettera à genoux pour en écrire la dedicace, à... vous devinez... à Dante» (101).
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 39 dantesco, nel quale scrive d’aver «speso la vita» e di cui ora gli manda il manifesto. Biagioli prega Foscolo di trovargli sottoscrittori, e lo invita a collaborare all’esegesi del poema redigendo «una nota sopra una voce usata da Dante, per la quale viene da alcuni italiani criticato».6 La risposta di Foscolo non ci è giunta, ma non deve esser stata negativa, visto che Biagioli gli invia le prime bozze del suo commento (su cui è imbastito l’articolo del 1818), con la promessa che gli «spedirà gli altri fogli tosto che il primo volume sarà stampato».7 Così recita la lettera del 26 marzo 1818, che chiarisce l’evoluzione del rapporto tra i due esuli. Biagioli non si aspetta di collaborare con Foscolo a livello paritario: «le giuro che non sarà mai stato al mondo scolare 6 EN XX, 74. 7 Almeno in un caso, nel 1818, pare che fosse Cyrus Redding, amico e traduttore di Foscolo, a consegnargli a Londra materiali danteschi ricevuti da Biagioli a Parigi. Così Redding racconta la sua amicizia con i due esuli italiani: «it was some time in the year 1818 that I became acquainted with Ugo Foscolo. Señor Biagioli, a very agreeable and accomplished man, now no more, but then professor of Italian in the College of Louis le Grand, to whom I had become known in Paris, asked me if I should have any objection to take over to the celebrated Ugo Foscolo, then an Italian refugee in England, whither he had come in 1816, a remarkable MS. copy of Dante. I was naturally anxious to be acquainted with a man of no mean European fame, and I willingly obliged Señor Biagioli» (Redding, Personal Reminiscences 117). A parte il singolare appellativo spagnolo, una versione più sintetica della stessa vicenda fornisce lo stesso Redding, Fifty Years’ Recollections 171 e 186-87: «I had received an introduction to Ugo Foscolo, when I came from Paris two years before [...]. I was introduced to him by a letter from M. Biagioli, of the College of Louis the Grand, in Paris. When I returned, after my long absence, I brought over a present to him from his friend and countryman, a folio of Dante in manuscript».
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 40 sì docile, e sì riconoscente, come sarò io con lei, gloriandomi d’averla non meno per amico che per maestro». In cambio degli insegnamenti di Foscolo, Biagioli si offre di divulgare i suoi scritti a Parigi («appena il primo tomo della sua nuova opera sarà stampato, me ne mandi due esemplari») 8 e di procurargli gli strumenti di lavoro per il suo impegno di dantista. Entro il luglio del 1818 Foscolo riceve da Biagioli due edizioni della Commedia, quelle di Zatta e di Volpi. Anche se questi specifici esemplari quasi certamente sarebbero finiti sui muriccioli a causa della successiva dispersione della biblioteca foscoliana,9 non v’è dubbio che quelle edizioni avrebbero continuato a essere rilevanti per Foscolo, la prima perché contiene la biografia dantesca di Pelli,10 la seconda, la già citata Cominiana, perché costituisce il testo-base della Commedia di Biagioli, e, con qualche aggiustamento, dello stesso Foscolo. Ha avuto seguito la richiesta di note dantesche inedite avanzata da Biagioli a Foscolo: «in quanto alle sue note, me le mandi pure, ma senza fretta che c’è tempo, seguiterò il suo consiglio ponendole in fine del terzo 8 EN XX, 302. 9 Gabriele Rossetti entra in possesso di un’edizione Zatta postillata da Foscolo: si veda Rossetti, Carteggi 238 e 252. 10 All’erudito fiorentino Giuseppe Pelli (EN IX, 1, 200), e pure agli Accademici della Crusca (EN IX, 1, 417), Foscolo rivolge l’accusa di non aver mai letto tutta la Commedia, accusa già avanzata da Biagioli (Commedia I xxxii): «Un altro difetto, che m'è parso discoprire in quelli che m'hanno preceduto in sì gloriosa e ardua fatica, si è il non aver abbastanza studiato, letto e riletto per mille volte la Divina Commedia intera, prima di porsi a scrivere le loro note e chiose».
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 41 tomo». 11 Biagioli lo conferma nella prefazione al suo commento: «debbo sin da ora far noto a’ miei lettori d’un nuovo pregio che acquisterà la presente edizione, per più note promessemi dal dottissimo sig. Ugo Foscolo, alle quali spero dar conveniente luogo nell’ultimo dei tre volumi». 12 Il fatto è che nel terzo tomo le note foscoliane promesse non ci sono, e che nei primi due il nome di Foscolo vien fatto soltanto due volte, entrambe nelle chiose al Purgatorio. Non soltanto dunque è naufragato il progetto originario di collaborazione, persino nella forma di un’expertise foscoliana sul lessico dantesco; in più sono mutati i rapporti fra i due esuli. Ora Biagioli non è più così disposto a riconoscere l’autorità di Foscolo, tanto che pensa ancora che Virgilio sia nato ad Andes, malgrado il suo autorevole corrispondente gli abbia fatto conoscere l’opinione contraria.13 Inoltre a un rapporto personale e privilegiato, che comporta l’invio (o almeno la promessa di invio) di osservazioni reciprocamente discusse e concordate, subentra quello anonimo e unilaterale di scrittore-lettore. Difatti la seconda e ultima citazione di Foscolo nel Purgatorio di Biagioli non 11 EN XX, 302. 12 Biagioli, Commedia I xliv n. 1. 13 Biagioli, Commedia II 296: «Ho già detto, Inf. I [68-69], che nacque Virgilio in Andes; così dicevano gli antichi il luogo oggi chiamato Pietola. Scaltrito dal dottissimo sig. Ugo Foscolo, che il D. Visi, nella sua storia di Mantova [cfr. Visi 30-31], combatte questa comune opinione, mi fo un debito di farne parte a’ miei lettori. Non ho tempo di schiarir questo punto, ma non lascerò d’avvertire, che in quello che dice il Poeta nel primo e nel ventesimo [al v. 56] dell’Inferno, e nel presente [Purg. XVIII 82-83], parmi travedere essere intendimento suo di combattere l’opinione contraria, e sin d’allora corrente».
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 42 è niente più che un rinvio a una chiosa dantesca contenuta nel commento alla Chioma di Berenice. 14 In effetti il 10 dicembre 1818 Biagioli scrive a Foscolo che nella Chioma ha trovato spunti interessanti, e che continua a mandargli bozze del commento. Dopo questa lettera il legame fra i due si allenta, pur senza interrompersi o incrinarsi, e diminuisce il ritmo dello scambio epistolare. A rifarsi vivo più di un anno dopo, consapevole di esser in fallo per il lungo silenzio, è Foscolo, in cerca di un’edizione di Tacito. Biagioli gli regala la sua, e ottiene così la possibilità di visionare il terzo canto della versione foscoliana dell’Iliade. La risposta del 15 aprile 1820, con cui Biagioli comunica le sue impressioni sulla traduzione omerica, è impreziosita dall’invio del primo tomo dell’edizione dantesca. È singolare che soltanto ora Foscolo la riceva, visto che Monti l’aveva avuta appena uscita, prima del 2 dicembre 1818. Evidentemente Biagioli non cessa di esprimere a Foscolo la sua stima, anzi la sua devozione, ma ormai i due giocano a tavoli diversi, visto che Dante non è più la ragione determinante del loro carteggio.15 14 Biagioli, Commedia II 507: «adunque onde cavò mai il sig. Can. Dionigi quella sozza lezione che porta voce in vece di carne, e, in luogo d’alleviando, alleluiando [Purg. XXX 15], parola sconcia per sé, e per l’orribil guasto che porta nel costrutto e nel sentimento? Ha ben ragione l’egregio sig. Ugo Foscolo di fare al sig. Canonico quella lavata di capo, che leggesi in una delle sue eleganti ed erudite note alla Chioma di Berenice» (passo riportato infra, p. 74 n. 17). 15 Il primo giugno del 1822 Giannone scrive a Foscolo: «Biagioli però sente di lei come sent’io, e tutti gli altri che abbiano sortito dal Cielo qualche inclinazion generosa, e ciò mi fa supporlo uomo d’ingenuo costume e di rettissimo cuore» (EN XXII, 64-65). Foscolo figura tra i sottoscrittori di due opere curate da Biagioli per l’editore parigino Dondey-Dupré, le Rime di Michelangelo Buonarroti (1821:
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 43 Tutto lascia credere che il contributo di Foscolo all’esegesi dantesca di Biagioli sia stato, se non irrilevante, certo trascurabile, comunque non tale da mutare le linee portanti del commento dell’esule parigino. Lo suggerisce la missiva del 16 marzo 1827, l’ultima inviata da Foscolo a Biagioli, insieme a una copia del Discorso: Nel Discorso [...] ella vedrà qua e là ch’io parlo di lei; né di certo io la rimerito delle lodi di che a lei piacque d’essermi liberale. Ma dacché non ho fatto mai traffico di lodi letterarie con uomo veruno, ella ascriva quanto scrissi e scriverò intorno alle opinioni del suo Commento non a voglia di gara – gara? e a che pro? – bensì a lungo costume fatto sistema, e a natura inflessibile in me, ogni qualvolta, illudendomi o no, a me paja di rivendicare ciò che io credo negletto e manifestamente vero. E però in questo primo volume e negli altri che le arriveranno, io professo di sgombrare, per quanto le mie forze il consentano, i molti antichissimi errori, che vanno e andranno tuttavia raddensandosi a rannuvolare il poema e le intenzioni di Dante. Il Commento pubblicato da lei mi dolse tanto più, quanto che non essendo accomodato al secolo nostro, riesce macchiato qua e là di motti aspri e fors’anche illiberali e insieme impotenti, ma indegni più che altro sì di lei che li ha scritti, e sì del padre Lombardi ch’ella assale a ogni poco, e che fu benemerito più ch’altri mai del Poema [...]. Mi dolse anche, e mi duole, ch’ella siasi avventato contro al Ginguené, che senz’altro è caduto in falli parecchi; ma non era egli uno di que’ forestieri generosissimi, che si studiarono, e venne lor fatto, di ridurre la Letteratura vi si dà notizia degli Essays on Petrarch), e il Tesoretto della lingua toscana (18222 ).
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 44 italiana in Letteratura europea? (Foscolo, OEP VIII 259-60) Il giorno prima di scrivere queste righe, Foscolo aveva consegnato a Pickering i materiali manoscritti che, in base all’accordo faticosamente raggiunto, gli erano dovuti per completare con altri quattro volumi l’edizione dantesca avviata l’anno prima col Discorso. L’occasione era dunque propizia per un bilancio provvisorio, perché, se la collaborazione con Pickering si era conclusa, proseguiva invece lo studio di Dante. Più volte Foscolo ripete ciò che scrive a Biagioli in questa lettera, ossia che il Discorso mira a liberare l’interpretazione della Commedia dagli errori e dai pregiudizi che si sono accumulati nel corso di cinque secoli. 16 A tal fine il Discorso tende ad affastellare numeri, date, personaggi, di cui viene di volta in volta messa in dubbio la pertinenza e ricontrollata la veridicità. Soltanto l’epistemologia novecentesca comprenderà in tutte le sue implicazioni la portata del metodo per errorem ad veritatem, per cui il processo del sapere non è meccanico o cumulativo, ma si basa sulla ricerca e sulla elimi16 Cfr. ad es. EN IX, 1, 186-87: «mi proverò ad ogni modo di diradare le opinioni che per cinquecento anni si sono confuse a quel tanto di vero, che dall’esame del secolo e della vita e della mente del poeta può emergere per emendare ed intendere con norme critiche il testo». Si veda Rossetti, Commedia II ii: «giudico esser mio assunto il mettere in veduta le verità espresse dall’autore, e non gli errori ne’ quali caddero i suoi interpreti». A me pare probabile che una frase di tal fatta presupponga la conoscenza del Discorso. Dal canto suo Rossetti ammise una parziale convergenza d’idee col Foscolo dantista, ma dichiarò nel contempo la priorità cronologica del suo Comento rispetto al Discorso: su ciò è esauriente l’Introduzione di Tobia R. Toscano a Rossetti, Carteggi xii-xvi.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 45 nazione di errori.17 Attenersi impersonalmente ai fatti è il metodo della ricerca erudita settecentesca, sperimentato dalla filologia maurino-bollandiana e applicato alla storiografia letteraria da vari studiosi, tra cui Muratori e Tiraboschi.18 Il loro ritratto tracciato nel saggio foscoliano Antiquarj e Critici del 1826 – «hanno la pazienza di cercare i fatti dove sono dispersi; hanno il coraggio di accumularne un numero immenso, e la perseveranza di verificarli fra la moltitudine degli errori popolari»19 – si pone evidentemente in stretta continuità col programma del Discorso. La differenza fondamentale è che raccogliere i fatti non basta: occorre nel contempo organizzarli secondo un «occhio filosofico» guidato da superiori categorie interpretative.20 «Se la storia senza filosofia non è che serie cronologica d’avvenimenti», osserva Foscolo in difesa della sua orazione inaugurale, «le disquisizioni critiche senza avvenimenti non sono mai storia». 21 Dei rischi legati a una storia senza filosofia, a uno svolgimento analitico privo di categorie sintetiche, è consapevole lo stesso Tiraboschi. Il quale tuttavia, nella premessa alla seconda edizione della sua Storia della letteratura italiana, rivendica la necessità di accertare «la verità e le circostanze de’ fatti», i dati concreti che 17 Popper 80: «l’eliminazione dell’errore [...] conduce all’accrescimento oggettivo della nostra conoscenza, della conoscenza intesa in senso oggettivo. Essa conduce all’accrescimento della verisimilitudine oggettiva, rende possibile l’approssimazione alla verità (assoluta)». 18 Mari 33 e 64. 19 Foscolo, Antiquarj 4. 20 Quondam, L’occhio filosofico. 21 EN VII, 49.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 46 possono sfuggire a chi realizza quadri filosofici.22 Così facendo Tiraboschi rimane un archivista che fornisce materiali, non un uno storico che li organizza. Foscolo persegue piuttosto l’ideale di una storia filosofica, prova cioè a realizzare quella sintesi tra Muratori e Vico auspicata da Manzoni nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia: una sintesi tra la moltitudine di notizie particolari verificate e raccolte dal primo (in genere dalla grande tradizione erudita e antiquaria), e i generalissimi princìpi regolatori ispirati dal secondo (la storicità della Commedia, l’innesto della storia sulla filologia).23 È quanto Foscolo stesso lascia intendere nell’abbozzo del primo e poi abortito discorso preliminare, intitolato Intento e metodo delle illustrazioni storiche e poetiche: «a ben illustrare il poema di Dante Alighieri bisogna un unico atto a guardare con perspicacia minuta d’analisi, e contemplare con vastità ed altezza di mente le teorie generali». 24 Foscolo descrive come un’unica folgorazione, un unico atto di pensiero, in apparenza irriflesso, quello che in termini moderni si potrebbe definire un circolo ermeneutico, che avanza dalle minute analisi di stampo muratoriano alle teorie generali di tipo 22 Tiraboschi v-vi. Di Tiraboschi e Foscolo parla Borsa, Introduzione. Sulla storia della critica ottocentesca come «affrancamento dal modello tiraboschiano» si conclude il profilo di Mari. 23 Il passo manzoniano di sintesi tra Muratori e Vico si legge in Manzoni, Discorso 76-77. La trascrizione foscoliana di quel passo, oggi conservata alla Labronica, fu scambiata per un inedito e pubblicata in Foscolo, OEP XI 394-98. Sulla questione ragguagliano Treves 243, e Borsa, Introduzione CL n. 157. 24 EN IX, 1, 677.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 47 vichiano, e viceversa, in una continua fusione di orizzonti.25 Inoltre la missiva del 16 marzo 1827 ammonisce Biagioli di non aspettarsi un trattamento di favore da parte di Foscolo, il quale anzi, in virtù di un «lungo costume fatto sistema», esercita nei suoi confronti la stessa inflessibile indipendenza di giudizio rivendicata da Dante medesimo nelle sue opere.26 Agli occhi di Foscolo, Biagioli ha commesso il peccato capitale di barattare la propria indipendenza etica con il riconoscimento pubblico. Il tradimento dei chierici è uno degli errori da cui Foscolo vuol liberare l’interpretazione della Commedia: Dante fu talor esaltato e talor calunniato in grazia degli altrui mecenati. Anzi è tale che andò magnificando tutto il poema con improperj contra chiunque non trova sovrumana ogni sillaba, e con ejaculazioni d’ ammirazione perpetua fin anche ove le imperfezioni palesano che la è pure opera d’uomo; e nondimeno non sì tosto certi antenati de’ padroni del critico sono biasimati da Dante, l’estatico ammiratore diviene in un subito esecratore fanatico e accusa il poeta di trascuraggine rea e di accanita malignità. (EN IX, 1, 191) È risaputo che Dante fa dire a Ugo Capeto di essere «figliuol [...] d’un beccaio di Parigi» (Purg. XX 52), un’origine attribuita dalla tradizione al padre di lui, Ugo il Grande. Di fronte a questo verso Biagioli si inalbera, e 25 Sulla compresenza nella storiografia di Foscolo di due momenti, la ricerca erudita muratoriana e la sintesi filosofica vichiana, interviene Getto 152. 26 Par. XVII 118-20; Conv. IV.viii.13; Mon. III.i.3; Epist. XI.11.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 48 taccia Dante sia appunto di «malignità», il termine usato da Foscolo, sia di incompetenza in campo storico. Con una reazione così veemente l’esule parigino mirava a difendere gli avi del suo protettore, re Luigi XVIII, primo sottoscrittore dell’edizione, nonché munifico elargitore di una gratifica a Biagioli di ben seimila franchi.27 Viceversa, sin dal primitivo e poi disatteso accordo col Pickering per l’edizione dei classici italiani, Foscolo aveva garantito di non lasciarsi condizionare «by the fear of giving offence [...] to reigning families, whether old or recent».28 Gli «improperj» e l’«ammirazione perpetua», ovvero la mancanza di misura nella lode e nel biasimo, sono un tratto peculiare del commento di Biagioli. Dei suoi eccessi verbali è vittima in primis un dantista «benemerito» che già abbiamo citato e che più volte dovremo citare, il francescano Baldassarre Lombardi. Verrebbe da pensare – ma con molta cautela – che le strade dei due si siano incrociate a Roma, dove Lombardi risiedeva da 27 D’accordo con Foscolo, ma più esplicito nel censurare la doppia morale di Biagioli, è Vincenzo Monti, postillatore dei commenti di Lombardi e Biagioli: «Per trovare una qualche scusa alla viltà del comento a tutta la parlata di Ugo Ciapetta ricordiamoci che il Biagioli scriveva in Parigi; che i discendenti di Ugo onorano dell'augusto loro nome il catalogo de’ suoi associati; che le adulazioni gli sono state pagate seimila franchi [...]; che finalmente nel duro passo a cui s'è trovato gli era impossibile di salvare, come dice il proverbio, la capra e i cavoli. Se poi posto nella dura necessità di contraddire al poeta, egli abbia fatto bene a precipitarlo dal cielo, a cui finora con tanti incensi l'assunse, e a gittarlo adesso nel fango pubblicandolo ignorante de’ fatti, maligno, bugiardo, mentitore, calunniatore, e poco meno che un pazzo briccone, ciò rimane all'incorrotto giudizio de’ savi che leggeranno» (Monti, Postille 285-86). 28 EN IX, 1, 669.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 49 anni e dove Biagioli s’era recato a fine Settecento, giungendo a ricoprire un incarico nella Repubblica romana. Stando così le cose, il tramite fra Biagioli e Lombardi potrebbe essere Liborio Angelucci, console della Repubblica romana e finanziatore dell’edizione lombardina della Commedia. La conoscenza personale, tutta da verificare, non giustifica la virulenza con cui Biagioli nel suo commento attacca Lombardi, una virulenza tanto meno ammissibile quanto più compiaciuta ora di eccessi di furore («mozzami l’orecchio, se [Lombardi] dice vero»), ora di cadute nel disfemismo («ne dice una sì grossa che, se non s’apre lo scaricatojo, non so donde farla passare»).29 Sebbene l’imbarazzante brutalità di certe offese – ad esempio «sozzo can vituperato» – sia attenuata dalla loro matrice letteraria,30 resta il fatto che la frequenza, l’asprezza e lo squilibrio di queste sfuriate inducono Foscolo a sospettare che le «ragioni [di Biagioli] si ristringono spesso a questa unica, di cavillare a ogni modo addosso al suo benemerito [lo stesso attributo della lettera] predecessore». 31 Allo stesso modo Monti aveva ammonito Biagioli dopo aver ricevuto da lui il primo volume dell’edizione dantesca, il 2 dicembre 1818: «voi, mio caro, mi carminate troppo spietatamente quel povero frate Lombardi. Abbiatene un poco di compassione, e ne sarete, credetelo, più lodato e stimato».32 Il consiglio di Monti è indirettamente riferito da Biagioli 29 Biagioli, Commedia II 384 e 355. 30 L’insulto rivolto a Venturi da Biagioli, Commedia II 449, stigmatizzato da una postilla a EN IX, 1, 254, rimanda a Dec. III 6. 31 EN IX, 2, 77. 32 Monti, Epistolario 137.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 50 nella premessa al secondo volume della sua edizione, dove egli s’impegna con tono mellifluo a «temperare il giusto suo sdegno» verso Lombardi, e si appella, come già aveva fatto alla fine della prefazione, al giudizio della comunità dei dantisti.33 Queste promesse non sono mantenute: Biagioli non soltanto continua a «carminare» rudemente Lombardi, ma in più rifiuta o ignora i suggerimenti dei colleghi dantisti, che pure aveva sollecitato. 34 Lo spazio fra testo e lettore è invaso dalla personalità del critico, dalla flagrante soggettività dei suoi giudizi. Biagioli infatti è intemperante non soltanto nel biasimo ai commentatori danteschi, ma pure nelle lodi a Dante.35 33 Biagioli, Commedia II iii-iv. 34 Lorenzo Da Ponte ricorda di aver inviato alcune chiose dantesche a Biagioli senza ricevere risposta. Queste sono le sue parole: «confesserò tuttavia essermi passato qualche volta pel capo il sospetto d’aver altamente offeso quel sommo critico, che il più dolce di core non credon esser quelli che sentono col Lombardi, sebben “docilissimo”, si protesti, “e pronto a ravvedersi, e disdirsi, e a confessar il suo inganno ad ogni cenno che fatto gli venga”» (Da Ponte, Memorie III 1 69). Giuseppe Campi riferisce di aver saputo «in Parigi da parecchi suoi [di Biagioli] famigliari che il Biagioli morì pentito d’avere bistrattato il Lombardi» (Commedia xxv). 35 Dello stile espositivo di Biagioli, troppo elogiativo verso Dante, troppo critico verso i dantisti, in particolare verso Lombardi, discorre nel 1824 Witte, Ueber das Missverständniss. Foscolo ignorava il tedesco («io di tedesco ne so quanto monsignore B... sa di greco»: EN XVI, 169), quindi non poté conoscere l’articolo, nato come una recensione a Biagioli. Eppure sono evidenti certe concordanze, sia nella concezione generale (l’asserita necessità di una comprensione storica della Commedia, sulla base di una conoscenza di prima mano della biografia dantesca e degli antichi commenti), sia in alcuni passaggi particolari (per Witte «Lombardi hat den Vorzug grosser Liebe
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 51 In effetti molte sue chiose includono, come dice Foscolo, «ejaculazioni d’ammirazione perpetua». Ad esempio Biagioli rifiuta il parere di Pierre-Louis Ginguené, lo storico francese della letteratura italiana che aveva affermato l’eccellenza dell’episodio di Paolo e Francesca: «infatti come può dirsi un ente di perfetta natura superiore ad altri pur di perfetta, ma diversa natura?».36 I passi danteschi di cui Biagioli esalta la perfezione assoluta sono gli stessi evidenziati da Vittorio Alfieri in un autografo inedito, oggi conservato alla biblioteca dell’Institut de France di Parigi, di cui s’era servito lo stesso Ginguené.37 Il rimando alle «bellezze» della Commedia notate da Alfieri comporta da un lato un apprezzamento più che altro estetico del poema, senza effettive ricadute esegetiche, dall’altro lato una divinizzazione acritica di Dante: mentre Alfieri scrive che, se rifacesse il suo estratto, ricopierebbe tutta la Commedia, perché si impara persino dagli errori di Dante, Biagioli arriva a sostenere che i presunti difetti di Dante sono a ben vedere pregi.38 Questo fanatismo è una reazione alle riserve settecentesche sul genio poetico dantesco insinuate nella cultura francese da alcuni interpreti italiani: è noto che Voltaire comunica per lettera tutta la sua stima a Saverio Bettinelli deprecatore della mostruosità della Commedia. «Se lo strinse necessità a parlar di Dante», commenta allora Biagioli, Voltaire «doveva attenersi al giufür den Dichter»: 37; per Foscolo agisce «per amore del poeta»: EN IX, 2, 361). 36 Biagioli, Commedia I 101. 37 Timo, Itinerari. 38 Biagioli, Commedia I xiii, n. 1.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 52 dicio dei sapienti d’Italia, e non a quello di Bettinelli e suoi pari». 39 Il divario fra la “dantomania” italiana e le cautele francesi era ormai proverbiale, tanto che Leopardi poteva assumerlo a modello della convenzionalità del gusto: «Dante non è egli un mostro per li francesi nelle sue più belle parti; un Dio per noi?».40 Il giudizio più equilibrato cui aspira Foscolo («io nell’uomo non guardo il Dio»)41 è alieno da qualunque sciovinismo letterario: «chi, ad ogni fallo in che i forestieri [...] trascorrono, insulta a’ Principi della letteratura Europea [...], non recita egli le parti di bestia spregevole più della scimia?».42 Se un giudizio regolato non esclude il ricorso a interpreti non italiani, capaci, come Ginguené, di inserire la nostra letteratura in una prospettiva europea, allora è chiaro perché Foscolo contesti a Biagioli le ripetute citazioni di Alfieri nelle vesti di smodato celebratore italiano delle bellezze della Commedia. Vanno intese in tal senso le singolari riserve del commento foscoliano sul linguaggio poetico di Alfieri. Il verbo saria, prima persona singolare del condizionale presente, è una variante scartata da Foscolo per Inf. XVI 47, in quanto solecismo che può esser confuso con la terza persona. Nella chiosa Foscolo non s’accontenta di sanare la presunta corruttela, ma aggiunge che Alfieri ha sbagliato a impiegare (tre volte) saria nell’Antigone. Visto che lo stesso condizionale occorre più volte nel les39 Biagioli, Commedia I vii, n. 1. 40 Leopardi 1176. 41 EN IX, 1, 370; cfr. anche EN IX, 1, 352. 42 EN IX, 1, 484-85. Era stato Biagioli (Commedia I 411), a evocare indirettamente la scimmia, dicendo, a proposito dei seguaci di Voltaire, che «ciò che fa la prima l’altre fanno».
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 53 sico poetico foscoliano, persino nell’Ajace e nel Tieste, la chiosa sarà diretta non ad Alfieri, ma a Biagioli che lo eleva a maestro infallibile di gusto poetico.43 L’episodio di Paolo e Francesca dimostra che Alfieri ha lasciato un segno indiretto ma non superficiale sulla critica dantesca di Foscolo, che proprio per questo è poco disposto a tollerare l’abuso di quell’autorità da parte di Biagioli. Foscolo parla dei due cognati sia negli articoli per la Edinburgh Review, sia nel Discorso. L’impostazione degli articoli è per certi versi ancora settecentesca. In primo luogo Foscolo vi sostiene che quell’episodio sa raggiungere vette di poesia in pochi versi, contro l’opinione di chi, come Voltaire o Bettinelli appunto, accusava la Commedia di eccessiva lunghezza.44 In secondo luogo non viene del tutto respinta una chiosa di Lombardi, secondo cui Dante, a sua volta peccator carnale, rivede se stesso in Francesca, cosicché mescola alla compassione nei suoi confronti il timore della propria dannazione. Di simili cascami settecenteschi Foscolo si sbarazza nel Discorso, mentre continua a considerare centrale il problema della pietà / compassione, definita nell’Ortis la sola virtù utile agli uomini. 43 Anche a proposito della «grazia idiomatica» e della «energia di pur», nella nota a Che pur guate, Inf. XXIX 4, Foscolo rileva che «Alfieri per giovarsene assai troppo le tolse vigore». 44 Secondo Voltaire ciò che nell’Eneide è rappresentato da due terzi del sesto canto, nella Commedia ne occupa ben ottantatre. Già nel primo articolo edimburghese Foscolo aveva indirettamente risposto: «Virgil has related the story of Eurydice in two hundred verses; Dante, in sixty verses, has finished his masterpiece – the Tale of Francesca da Rimini» (EN IX, 1, 16).
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 54 Ancor oggi i lettori del quinto canto dell’Inferno si domandano per quale motivo, all’inizio («pietà mi giunse, e fui quasi smarrito»)45 e alla fine («di pietade / Io venni men») dell’episodio di Paolo e Francesca, Dante sia sopraffatto dalla pietà. Troppo generica doveva parere a Foscolo la risposta di Vico, non riferita al passo di Inf. V e ancora giocata sul parallelismo fra Dante e Omero: «entrambi di tanta atrocità risparsero le loro favole, che in questa nostra umanità fanno compassione». 46 L’esegesi del Discorso corre invece sul crinale fra storia e psicologia. Dal padre di Francesca, Guido da Polenta, e dai fratelli di lei, Dante ottenne asilo a Ravenna. Perciò, in segno di gratitudine, immortalò la tragica storia di Francesca in modo tale che il nome della protagonista non fosse né dimenticato, né pronunciato senza pietà. Lo stesso assassinio degli amanti andava riportato al solo fine di imputarlo a Gianciotto, atteso per questo dalla 45 Stando a Foscolo è inadeguata per questo verso la spiegazione di Biagioli: promette costui di «stare alla lettera» (e in effetti il suo commento è ottimo sotto l’aspetto linguistico), ma poi cede alla moda di ripercorrere l’infinita trafila dei significati accessori delle parole (EN IX, 1, 445). Invece per Foscolo il primo passo dell’esegesi della Commedia è l’explanatio verborum, la spiegazione dei significati originari nascosti sotto le incrostazioni dei secoli. In tal senso chi commenta Dante dovrebbe riuscire a trasporre nella critica quel che Alfieri ha fatto in poesia. Nel commiato alla Chioma di Berenice Foscolo scrive che Alfieri «restituì il nerbo alla nostra lingua applicando sovente alle parole più comuni le antiche ed originarie significazioni onde riescono nuove ed efficaci» (EN VI, 353-54). 46 Vico, Opuscoli 232. Osserva Andrea Battistini: «il sentimento che dal bestione fa nascere l’uomo è la pietà, continuamente richiamata nel carme [i Sepolcri], e innalzata da Vico a epifonema dell’intera Scienza nuova, che si chiude con la massima [...] “se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”» (Temi 38).
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 55 Caina. Tanta reticenza, insolita in Dante, riguardo a particolari che avrebbero infamato Francesca e riaperto la ferita nel cuore dei suoi familiari, induce Foscolo a ipotizzare che l’episodio fu o composto o almeno ritoccato mentre il poeta era ospite riverito del padre di lei, il suo amico Guido. Le premesse di questo ragionamento, in particolare della conclusione, sono alfieriane. Intanto Dante non è un cortigiano di Guido da Polenta, e quindi i rapporti fra i due non sono esenti da una sorta di complicità, se non di reciproca stima. Non essendo mai sceso a patti col potere, a differenza di Petrarca, 47 l’autore della Commedia dimostra la superiorità degli ingegni «sprotetti» di cui scrive Alfieri. Inoltre Dante ha scelto la via dolorosa dell’esilio, la medesima frattura decisiva delle biografie dei suoi ammiratori Alfieri e Foscolo. Sventura e opportunità, l’esilio significa questo: come Alfieri sceglie di “spiemontizzarsi” per poter fare liberamente lo scrittore, così Foscolo più volte ricorda che Dante non avrebbe scritto la Commedia se non fosse andato in esilio.48 Le Muse sono amiche degli esuli, e in quanto esule Dante ha improntato a viva compassione le terzine di Paolo e Francesca. 47 EN IX, 1, 226. 48 Cfr. ad esempio EN IX, 1, 210, 436, 458. È un topos del dantismo coevo, ricondotto da Bayle 374 a un passo degli Elogi di Paolo Giovio: «sed exilium vel toto Etruriae principatu ei majus et gloriosius fuit, quum illam sub amara cogitatione excitatam, occulti, divinique ingenii vim exacuerit, et inflammarit». Cfr. anche Parini 208: «il bando, che il Poeta ebbe dalla sua patria per ragioni di stato [...] contribuì alla invenzione del Poema»; e Lomonaco 139: «all’esilio di Dante siamo debitori di quel poema».
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 56 In altri termini la compassione del lettore e di Dante personaggio è indistinguibile dalla compassione di Dante poeta, ospite del padre di Francesca e quindi informato della tragica fine della giovane. Foscolo applica a Dante l’idea alfieriana per cui lo scrittore dovrebbe «sentire» dentro di sé le passioni che rappresenta. Si legge nel Discorso che «alle varie passioni che lo spettacolo d’ogni oggetto eccita in lui [Dante], rispondono spontanee le nostre, perché non che fingerle ei spesso le aveva osservate in altri, e sentite». 49 Già Alfieri, nel trattato Del principe e delle lettere, aveva osservato che «a voler fare vivamente sentire altrui, bisogna che vivissimamente senta lo scrittore egli primo». 50 Per capire uno scrittore, specialmente Dante, che nelle sue opere non fa che parlare di sé, occorre allora non leggere i suoi interpreti, bensì entrare in sintonia con lui e con la sua enciclopedia mentale, conoscerne la biografia, le antipatie, le aspirazioni che lo rendono unico: in sostanza spiegare Dante al di là dei codici retorici o delle partizioni di genere, quasi fosse un poeta moderno, non medioevale. A tal proposito Foscolo era già stato chiaro: «a molti lettori, ed io mi son uno, pare che a volere accertarsi degli intendimenti delle parole, mille commentatori non giovino quanto l’impratichirsi delle passioni e de’ caratteri degli scrittori che nel loro stile trasfondono tutto quello che sentono».51 Nel momento stesso in cui ambisce a restituire e interpretare il testo del poema, Foscolo afferma la priorità dell’autore rispetto al testo e ai suoi commenti: «esposi49 EN IX, 1, 455. 50 Alfieri, Del principe 954. 51 EN IX, 1, 294.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 57 zione veruna non era mio intendimento di aggiungere al testo»,52 si legge nella premessa Al lettore, in accordo con la “linea italiana” individuata da Bloom nella tradizione degli studi danteschi. Come Vico giunge a «leggere gli autori latini schietti di note, con una critica filosofica entrando nel di loro spirito», giacché «lessici» e «commenti» hanno contribuito alla «decadenza» della lingua latina, così De Sanctis e Croce invitano il lettore a gettar via i commenti e a incontrare senza mediazioni la personalità degli scrittori.53 Alfieri stesso leggeva Dante sine notis, ma, a differenza di Foscolo, era indifferente ai problemi storici: «le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco si curava di intenderle». 54 Per Foscolo l’altro limite dei commentatori danteschi è appunto questo, che essi non orientano la loro esegesi secondo l’identità vichiana fra storia e poesia. La primissima versione delle pagine critiche sull’episodio di Paolo e Francesca denuncia che i commentatori, ignari della natura essenzialmente storica della Commedia, «ne s’ occupoient pas de la partie poetique; cependant ce n’est que par ces faits que l’on peut connoitre le génie de ce poete». 55 52 EN IX, 1, 703. 53 Foscolo poteva leggere la frase di Vico nell’autobiografia premessa alla Scienza nuova (I xxx). L’invito desanctisiano a «gettar via i commenti», rilanciato da Croce (Tissoni 9-10 n. 16), si trova nel saggio su Francesca da Rimini (De Sanctis 3). Di Mazzini e del rigetto dei commentatori danteschi discorre Russo 209-10. Sull’impossibilità di leggere la letteratura senza mediazione critica, ha scritto pagine notevoli Lavagetto 79-87. 54 Alfieri, Vita 176. 55 EN IX, 1, 631. Il primo frammento della “Francesca” foscoliana è pubblicato con questo titolo anche da Chiavacci Leonardi 163.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 58 Sono sempre più evidenti i motivi per cui Foscolo si è allontanato da Biagioli dopo aver assistito alle fasi terminali della gestazione del suo commento. L’esule parigino non ha ricevuto in sorte un’anima dantesca, pertanto non si applica a indagare né l’indole di Dante, né i tempi in cui è vissuto: preferisce un approccio estetico inconcludente (a nulla serve tessere panegirici della Commedia), anzi provinciale, poiché chiude la porta in faccia alle grandi personalità della cultura europea, dalle quali Foscolo trae una lezione di metodo. Carlo Dionisotti ha scritto che il dantismo foscoliano in tanto ambisce a una dimensione appunto europea, in quanto mira a «riformare il culto nazionale di Dante nei termini propri del culto che gli veniva tributato in Europa». 56 Tale riforma prevede prima una riflessione sulla prassi dei grandi storici europei, poi la traduzione in atto di quella riflessione. Mentre i commentatori danteschi paiono talvolta aspirare al merito di raccogliere notizie più che di giovarsene, gli storici europei onorati all’inizio del saggio Antiquarj e Critici, Gibbon, Roscoe e Sismondi, a detta di Foscolo sanno selezionare i fatti e organizzarli in un sistema superiore, in accordo alla summentovata sintesi tra Muratori e Vico auspicata da Manzoni.57 56 Dionisotti, Varia fortuna 223. 57 Il passo di Antiquarj e Critici merita di esser ripercorso nella sua compiutezza, quale documento basilare del dantismo foscoliano: «the deservedly popular histories of the Decline and Fall of the Roman Empire, of the Age of Lorenzo de’ Medici, and of the Republics of the Middle Ages (we mention these as specimens of the works of the same class which have appeared during the last half-century) are extremely dissimilar in some respects, but possess three characteristics in common – genius for historical composition, more or less conspicuous in each, but innate in all – philosophical observation
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 59 Foscolo è in rapporti di studio e di cordiale dimestichezza sia con Roscoe sia con Sismondi. Dal primo, grazie a Panizzi, ha ricevuto nel 1826 un manoscritto dantesco (l’attuale Egerton 2567 della British Library), più e più volte collazionato per il suo commento. L’amicizia col secondo è più antica, risale al periodo fra il 1803 e il 1804, qualche anno prima che Foscolo venga a conoscenza dell’opus magnum dell’intellettuale ginevrino, la Histoire des républiques italiennes du Moyen Âge, opera edita tra il 1807 e il 1818, prima a Zurigo, poi a Parigi.58 Un bifolio delle carte labroniche riporta un lungo brano apografo, non ignoto agli studiosi ma inedito quanto a trascrizione, tratto dalla seconda edizione della Histoire del 1826: Deux écrivains qui sont nés avant la mort du Dante, qui tous deux l’ont enrichi de commentaires, et qui étoient mieux à portée que personne de connoître son histoire, s’accordent à dire que Dante avoit composé les sept premiers chants de son poëme avant son exil (i) [c’è un rimando a una nota a pié di pagina che però non è trascritta]. Il me semble qu’il seroit difficile de produire une autorité assez forte pour réfuter la leur. Les preuves internes que Maffei, Flaminio del Borgo, et quelques autres ont fait valoir contre ce récit, ne sauroient être admises; car il n’est pas douteux que and reflection – and variety and abundance of facts. For their genius, they were indebted to nature; for their philosophical spirit, to the age in which they lived (of which we shall say more hereafter); but for their facts, almost exclusively to the authors of those ponderous volumes, some of which will form the subject of the present article, especially those which have furnished the most ample materials for the genius of Gibbon, Roscoe, and Sismondi to work upon» (3). 58 Su Foscolo e Sismondi si veda Supino.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 60 le Dante n’ait retouché tout son ouvrage a plusieurs reprises, et n’y ait ajouté, en divers endroits, des vers analogues à l’epoque où il y mettoit la dernière main. La touchante épisode de Francesca de Rimini, le morceau de tout le poëme où il y a le plus de delicatesse et de sensibilité, porte l’empreinte des ménagemens que le Dante croyoit devoir à Guido de Pollenta, père de Francesca, son protecteur et son hôte à la fin de ses jours [in nota: Inf. V 73 et suiv.]. Dans le premier chant, du vers 101 a 111, on trouve une prediction relative à Cane della Scala, où sa grandeur future est annoncée; prédiction qui n’a guère pu être écrite avant l’année 1318, lorsque Cane fut élu chef de la ligue gibeline. Tous les commentateurs, sans exception, se sont obstinés à supposer que l’on commençoit à écrire un poëme par le premier vers, et que l’on suivoit jusqu’au dernier, sans jamais retourner en arrière; ce qui, d’après le passage sur Can Grande, devait les porter à conclure que Dante n’avoit commencé son immortel ouvrage que trois années avant sa mort; tandis qu’il n’avoit pas trop de toute la vigueur de la jeunesse pour en concevoir le plan, et qu’il a dû le commencer pendant qu’il étoit encore échauffé par les leçons de son maître Brunetto Latini, mort en 1294, et par les encouragemens de son ami Guido Cavalcanti, mort avant l’exil du Dante, en 1302 [a pié di pagina: vol. IV pag. 187]. 59 59 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXIII, cc. 192r-193r. L’incipit del brano – di cui qui si offre per la prima volta la trascrizione integrale – è riportato da Da Pozzo (EN IX, 1, 746), il quale però non ha saputo individuarne la fonte, suggerita dalla nota conclusiva. Si tratta appunto di Sismondi, Histoire 187-89. Non si può non consentire con Amedeo Quondam, secondo cui non è stato ancora chiarito in tutte le sue implicazioni il ruolo
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 61 Foscolo ha fatto trascrivere e ha conservato questo brano, un intero paragrafo del capitolo XXV della Histoire, perché esso risponde al circolo ermeneutico richiamato all’inizio di Antiquarj e Critici: alcuni «fatti» attentamente selezionati acquistano significato alla luce di una tesi superiore, ossia che Dante avrebbe ritoccato più volte la Commedia, intervenendo a distanza di anni su brani già composti. Questa tesi percorre tutto il Discorso, ma in una delle prime sezioni viene attribuita a Boccaccio e a Sismondi appunto sulla base del brano appena citato.60 A ben vedere Sismondi accoglie i tempi di composizione della Commedia fissati da Boccaccio, dalla genesi fiorentina («Dante avoit composé les sept premiers chants de son poëme avant son exil») sino ai ritocchi che Dante avrebbe apportato all’opera «jusqu’au moment de sa mort».61 È un dettaglio decisivo, che permette a Foscolo di sostenere che appunto al momento della morte di Dante la Commedia non era conclusa, anzi neppure del tutto divulgata. Il quadro d’insieme delle attuali conoscenze sulla prima divulgazione della Commedia è ovviamente mutato rispetto ai tempi di Foscolo. Al massimo oggi si può ammettere che la morte improvvisa abbia impedito a Dante di licenziare in prima persona il Paradiso, perstoriografico di Sismondi per la critica e la letteratura italiane (Tre inglesi 217 n. 3). 60 EN IX, 1, 198-99. 61 Sismondi, Histoire 192. Anni dopo lo stesso Sismondi (De la littérature I 246 n. 1) avrebbe rigettato la tesi foscoliana dell’incompiutezza e mancata divulgazione del poema, poiché a suo dire le opere dei grandi uomini sono note al pubblico già prima che essi decidano di licenziarle.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 62 ciò diffuso al di fuori della cerchia ravennate senza l’ultima revisione autoriale. Dunque la teoria dell’incompiutezza e della mancata divulgazione della Commedia è inammissibile nei termini in cui la formula il Discorso. Ciò non toglie che quella teoria vada valutata e giustificata nel quadro del sistema foscoliano. I foscolisti invece o la ignorano, o la riconducono al transfert esistenziale, ideologico e politico, compiuto da Foscolo nei confronti di Dante. È indubitabile che quando parla di Dante esule, campione di libertà, fustigatore degli Italiani, Foscolo sembra parlare di sé: la Commedia è la misura di ogni sua aspirazione e ideale di vita. Parrebbe allora altrettanto indubitabile che l’autore delle Grazie e il traduttore dell’Iliade, opere non finite, pensi che pure la Commedia sia incompiuta e che il suo autografo sia ricchissimo di varianti d’autore.62 Almeno in questo caso l’identificazione biografica non convince appieno, perché sembra ridurre l’analisi letteraria da fine a mezzo, da proposito di compiuta illustrazione critica a pretesto di un discorso intimo e personale. Basti pensare che sino a qualche mese prima dell’impegno editoriale come dantista, Foscolo negli Essays on Petrarch supponeva che fosse Petrarca, non Dante, ad accumulare un gran numero di manoscritti non finiti, e a questa circostanza addossava una connotazione negativa, derivata da un passo della Vita di Alfieri: «chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri; nessun libro essendo veramente fatto e compito s’egli non è con somma diligenza stampato, riveduto e limato 62 Timpanaro, Sul Foscolo filologo 132, ha rimesso in circolo la tesi ottocentesca di Cattaneo 43-44, che sin dal titolo informa la ricerca di Di Giannatale. A quella tesi aderisce pure Mineo 134.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 63 sotto il torchio, direi, dall’autore medesimo». 63 Le bozze corrette di alcune sezioni del Discorso, conservate alla Labronica, testimoniano che Foscolo aveva sì limato sotto il torchio quell’opera, pur senza giungere a una versione definitiva, come provano sia una nota posta sulla soglia della princeps del ’25, sia la successiva e già menzionata attività di postillazione.64 Se dunque Foscolo attribuisce a Dante quel che pochi mesi prima presumeva avesse fatto Petrarca, ciò accade non perché egli avesse cominciato a identificarsi con l’autore della Commedia per spirito di emulazione, bensì perché la teoria dell’incompiutezza e della mancata divulgazione di quel poema gli pareva illustrare in modo economico due ordini di «fatti». In primo luogo il racconto di Boccaccio sul rinvenimento degli ultimi tredici canti del Paradiso proverebbe che le prime copie pubbliche del poema, compilate dai figli Jacopo e Pietro sugli originali del padre, furono diffuse dopo la sua morte. In secondo luogo, se Dante avesse divulgato la Commedia quand’era in vita, non avrebbe potuto peregrinare per l’Italia, ma sarebbe stato perseguitato dai potenti che aveva schernito e dagli inquisitori che non accettavano la sua missione di riformatore religioso. È significativo il proposito di evidenziare il ruolo svolto nella prima divulgazione della Commedia da Jacopo Alighieri: il suo testo, forse in parte autografo, 63 EN X, 129; Alfieri, Vita 269. 64 Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXV, cc. 117r-181v: sono le bozze di stampa corrette del Discorso, cui si è già fatto riferimento. La nota di Pickering, trascritta in EN IX, 1, 175 n. 1, ricorda però che il Discorso fu «stampato senza che l’Autore fosse presente alle prove sul torchio».
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 64 rappresenta verosimilmente la fonte dell’intera tradizione del poema.65 Per il resto la teoria dell’incompiutezza e della mancata divulgazione della Commedia ha basi ben poco solide. Intanto il racconto di Boccaccio è inattendibile, perché nel periodo in cui egli colloca il miracoloso ritrovamento dei canti finali del Paradiso, a Guido Novello era nota l’intera Commedia. 66 Inoltre non disponiamo di alcuna documentazione relativa alle ripercussioni sulla vita di Dante causate dai suoi sferzanti giudizi sui potenti ancora in vita mentre scrive,67 sicché sembra eccessivo insistere sui condizionamenti esterni alla sua attività letteraria. Infine, argomento decisivo: l’iper-interpretazione di Foscolo si scontra con i versi del poema (Purg. XXXII 104-05: «quel che vedi [...] fa che tu scrive; Par. XVII 128: «tutta tua vision fa manifesta»; Par. XXVII 66: «e non asconder quel ch’io non ascondo») in cui Dante subordina la riuscita della missione profetica della Commedia alla sua piena divulgazione. Alla tesi cardinale dell’incompiutezza della Commedia seguono due esemplificazioni, relative a Francesca da Rimini e a Cangrande della Scala. La circostanza chiave per capire l’episodio del quinto canto dell’Inferno, ossia che Francesca sia la figlia di Guido da Polenta, si basa su uno scambio di persona autorizzato dal brano di Sismondi conservato alla Labronica: Guido da Polenta il Vecchio, padre di Francesca ma non protettore di Dante, è confuso con Guido da Polenta il Giovane, alias Guido Novello, il nipote di Francesca che ospitò il poeta 65 Inglese, Filologia 411-14. 66 Casadei 52 (anche per la bibliografia pregressa). 67 Santagata 251.
BIAGIOLI E LA CONTESA SULL’EREDITÀ ALFIERIANA 65 al tramonto della sua vita. Subito dopo aver affermato l’intenzione di liberare la Commedia dagli errori che si sono accumulati nei secoli, il Discorso ammette che nella ricerca letteraria l’errore è inevitabile, purché non sia adottato per amore di sistema; anzi, nell’ultima lettera a Biagioli Foscolo aveva rinnovato un’ammissione del Boccaccio dantista, ovvero che la possibilità dell’errore offre materia di rettifica a nuovi studi e a nuovi interventi.68 Mentre però l’ammissione boccacciana è un semplice modulo retorico, Foscolo ribadisce la propria fedeltà al metodo per errorem ad veritatem. Dato che la nostra opera è fallibile, noi impariamo dai nostri errori, soprattutto da quelli che emergono dalla discussione critica grazie ai nostri tentativi di risolverla. Il secondo esempio riguarda Cangrande. Il quale, identificato nel veltro dalla celebre profezia del primo canto, comincia a dar prova della sua grandezza soltanto nel 1318, allorché viene eletto capo della lega ghibellina. Foscolo ne ricava che Dante deve aver inserito la profezia soltanto dopo quell’anno. L’osservazione non è originale (l’aveva formulata il solito Lombardi), e certo non permette di concludere che tutti i commentatori, senza eccezione alcuna, abbiano pensato che Dante compose la Commedia «par le premier vers [...] jusqu’au dernier».69 Sembra però indiscutibile che Fosco68 EN IX, 1, 288; Foscolo, OEP VIII 261. Scrive Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante: «se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante» (642). 69 Lombardi, Commedia I 14: «nel 1318 successe la prefata elezione di Cane in Capitano della lega Ghibellina, né se non in vicinanza di esso tempo pare che potesse Dante giudiziosamente azzardare cotale predizione». Nella stessa chiosa Lombardi ricorda che «Boccaccio vi crede inserita posteriormente dal Poeta medesimo la parlata di
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 66 lo avesse sullo scrittoio l’apografo di Sismondi («ce qui, d'après le passage sur Can Grande, devait les porter à conclure que Dante n’avoit commencé son immortel ouvrage que trois années avant sa mort»), quando osserva, proprio in riferimento a Cangrande, che «chiunque persiste e contende che l’opera non era ritoccata materialmente a norma degli avvenimenti, s’assume di dimostrare che poco più di quattr’anni bastassero a comporla dal primo all’ultimo verso». 70 Ciacco nel sesto canto di questa cantica». Del resto pure G. I. Dionisi, parlando proprio di Cangrande, scrive che «non poteva il poeta chiuder bene il suo Paradiso senza ritoccar qua e là il Purgatorio e l’Inferno» (Aneddoto II, 27 n. 3). Infine Giuseppe Pelli, riguardo alla tesi di Dionisi, osserva: «tutto questo può spiegarsi con ritocchi e aggiunte che gli autori fanno finché vivono alle opere loro» (163 n. 19). 70 EN IX, 1, 466. C’è un altro caso in cui Sismondi fornisce a Foscolo un particolare decisivo che manca nei commenti coevi. Nel canto decimo dell’Inferno, Farinata degli Uberti riprende a parlare dopoché Cavalcante Cavalcanti, convinto che suo figlio Guido sia morto, è crollato nell’avello infuocato. Secondo Foscolo la chiave per intendere l’episodio consisterebbe sia nella parentela fra i due personaggi (Guido è il genero di Farinata), sia nel fatto che quest’ultimo, pur avendo appena appreso che il marito della figlia Bice è morto, riprende comunque a parlare, perché gli affetti domestici non lo distolgono dalla calamità della patria (EN IX, 1, 424). È Sismondi, Histoire 107, a ricordare che Guido è «gendre de Farinata», o meglio il promesso genero di Farinata. La promessa di matrimonio tra Guido e Bice risale al 1267, e Farinata muore nel 1264: non sa se il matrimonio sia stato effettivamente celebrato. Stando a Velardi, il Guido Cavalcanti genero di Farinata sarebbe soltanto un omonimo del primo amico di Dante.
CAPITOLO QUARTO DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE DEI LETTERATI Il marchese Giovanni Iacopo Dionisi fu canonico della cattedrale di Verona e bibliotecario della Capitolare. Il suo elogio funebre dettato in stile lapidario da Antonio Cesari ne esalta l’impegno proficuo e prolungato come dantista. L’amore esclusivo di Dionisi per Dante («Dantem Alligherium unice dilexit») lo spinse a consacrargli, oltre a sei degli otto Aneddoti e alla Preparazione istorica e critica, l’edizione bodoniana della Commedia del 1795 («cujus et Comoediam, comparatis magno sumptu interque se conlatis optimae notae codicibus, justae lectioni restituit»), basata sulla collazione di più manoscritti, tra i quali spicca un codex vetus e optimus, il Laurenziano di Santa Croce, conservato a Firenze. Qui Dionisi soggiornò dall’aprile al giugno del 1789, circa la metà di quanto pensasse Cesari («cujus rei causa Florentiam profectus, ibidem ad sex menses commoratus est»). Nel corso dei suoi studi il canonico perfezionò un protocollo d’analisi attento alle implicazioni storiche e linguistiche delle opere dantesche: «implexiora loca explicavit, sive ea ad historiam, sive ad Poetae sententiam adsequendam pertinerent; neque eorum quae ad il-
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 68 lius vel vitae vel studiorum rationem attinent, quidquam non pertractatum reliquit».1 Rispetto a queste parole, non si sa se più scontate o magniloquenti, le ponderate ricerche di Luca Mazzoni hanno restituito un ritratto di Dionisi assai più sfaccettato, almeno per due motivi: da un lato, perché il contributo del canonico veronese agli studi danteschi è stato sminuito o negato, spesso a vantaggio del suo rivale Lombardi; dall’altro, perché quel contributo va in buona parte ascritto non a Dionisi, bensì al suo nègre littéraire, il parroco di Soave Bartolomeo Perazzini, autore delle Correctiones et adnotationes in Dantis ‘Comoediam’, opera celebre e celebrata negli annali della filologia tanto per i restauri di passi danteschi quanto per l’enunciazione teorica di princìpi di ecdotica.2 Dionisi sottovalutato, Perazzini presente in filigrana: i risultati degli studi di Mazzoni sono un utile avviamento a questo capitolo del dantismo foscoliano. Dal momento che le indagini di Dionisi sono state condotte a quattro mani con Perazzini, non è sempre agevole stabilire il peso specifico dell’uno e dell’altro nel Dante foscoliano. Attraverso la Bodoniana giunge a Foscolo la proposta di Perazzini di sottolineare con le parentesi il carattere di inciso della battuta rivolta alla meretrice Taide dal suo amante a suggello del canto XVIII 1 L’elogio funebre di Dionisi, «che si vede a stampa con sopra il ritratto di lui in un foglio volante ora divenuto assai raro», fu ristampato da Scolari 60-61 n. 16. 2 Di Mazzoni si vedranno Dante a Verona e Apogeo, in attesa di un altro suo contributo, Fra Dante. Su Perazzini, cfr. D. Colombo, Le ‘Correctiones’.
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 69 dell’Inferno: «(quando disse: Ho io grazie / grandi appo te?)».3 In questo caso il debito con Perazzini non è riconosciuto. Invece per Inf. I 28, uno dei loci del canone di Barbi, a fronte della vulgata «poi ch’ebbi riposato il corpo lasso», Foscolo propugna il ritorno alla lezione aldina, con hei anziché ei (dunque «poi ch’hei posato un poco il corpo lasso»), e accredita apertis verbis questa emendazione a Dionisi, che però poteva leggerla nelle Correctiones. 4 Perazzini riflette altresì sul tema cardine della prosodia vocalica della Commedia. È noto che Foscolo pensa che l’edizione della Crusca abbia rimosso troppe vocali. Perazzini, con tono più assertivo che convincente, è di parere opposto: «hoc est vitium pene perpetuum vulgatae editionis, in quam imperite nimis ad infarciendos versus mille et mille vocales intrusae sunt».5 L’eccesso 3 Perazzini 60. 4 Perazzini 57. Le varianti del verso appena citato nascono dalla difficoltà d’intendere poi che per poi ch’e’. L’erroneo scioglimento di sequenze univerbate è analizzato dal quinto aneddoto: «per difetto ancora d’apostrofe e mancanza d’accenti si rese difficile la lettura de’ Codici: quando v. g. la particola che de’ leggersi ch’è o ch’e’» (25). Nello stesso tempo però si è talvolta abusato dell’apostrofo: Dionisi propone di leggere «guardommi un poco» per Inf. VI 92, anziché l’«idiotismo» «guardomm’un poco». Foscolo accetta la proposta, perché considera quella apostrofata un esempio di «pronunzia cattiva, che sa più di Valtrompia, che di Toscana». Dionisi sottolinea pure la necessità della scriptio separata per poi che, però che, mentre che (in luogo di poiché, perocché, mentreché), «massime dove l’andamento del verso lo voglia», come alla fine di Inf. II, «così gli dissi: e poi che mosso fue» (Aneddoto II 101). A sua volta Foscolo non soltanto introduce la stessa correzione, ma in più si pronuncia contro perocché, un «brutto mosaico» (EN IX, 2, 21), e a favore di poi che, «costume universale a que’ tempi» (EN IX, 2, 59). 5 Perazzini 78.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 70 di vocali (ad esempio Caino per Cain di Inf. XX 126) illanguidisce e deturpa la bellezza della Commedia («quibus oratio languescat, et nativa Dantis pulchritudo depereat»). Gli Accademici avrebbero favorito la successione di vocali nel verso con l’arbitrario inserimento di sillabe (incoronato per coronato), contro la volontà del poeta, «qui virili ornamento contentus mollitiem aspernatus est».6 Al contrario Perazzini pensa che Dante eviterebbe lo iato («hiulcum», la successione di vocali appunto), grazie alla -d eufonica: «quid fieri potuit – si chiede il parroco di Soave – ut Dantes hiulcum hunc verborum concursum, qui saepius occurrit, non temperaverit, si satis constet, eum ad hoc dixisse od pro o, sed pro se, ned pro né, ched pro che?».7 Dionisi filtra e riorganizza tali considerazioni: da una parte bisogna «toglier con l’autorità delle vecchie edizioni l’iato, ed altre minuzie viziose che lascio per brevità»,8 dall’altra parte le -d eufoniche mancano nel manoscritto di Santa Croce, quello su cui fonda la sua edizione, ma vanno mantenute per seguire la Crusca, o, come scrive Dionisi, «per non dispiacer a’ leggitori da gran tempo avvezzi all’edizione volgata, coll’istraniar troppo spesso in tali minuzie da quella». 9 6 Sono osservazioni congruenti alla retorica classica: cfr. Cic., Orat. 23.77: «habet enim ille tamquam hiatus et concursus vocalium molle quiddam». 7 Perazzini 67. 8 Dionisi, Aneddoto II 102, traduce Perazzini 58: «Mitto cetera hujus generis, quae quidam minuta sunt». 9 Dionisi, Commedia I xxx. Dionisi avrà scelto le forme eufoniche bembiane sed, ned, ched, anche per rispettare una delle norme tipografiche dell’editore Bodoni (cfr. Cappelletti, Elementi di filologia). Può capitare dunque che un intervento di Dionisi criticato da Foscolo
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 71 Non ci soffermeremo sulle risposte di Foscolo (ad esempio nella chiosa a Inf. XXIX 77-78: ned «particella così posticcia non necessaria alla verseggiatura propria di questo poema»; o in quella a Inf. XXXIV 113: contro ched della Bodoniana, la -d è inserita per evitare la successione di vocali), se non per riscontrare la fedeltà alla prosodia vocalica di matrice vichiana. Invece si dovrà insistere sul fatto che la replica di Foscolo a Dionisi (e a Perazzini) verte ugualmente sul loro lessico critico. A Inf. XXVI 97 la Crusca legge «vincer poter dentro da me l'ardore». Dopo aver preferito la lezione oggi invalsa, «vincer potero dentro a me l’ardore», Foscolo sente il bisogno di giustificarsi: Le sono minuzie. Ma v’è egli poesia senza parole? o parole senza sillabe? o metro mai senza brevi sillabe e lunghe? o verseggiatura scevra di noja a chi non provvede a varietà di distribuzione d’accenti? o melodia e armonia di verseggiatura senza esattissima proporzione di modulazioni nelle vocali, e articolazioni nelle consonanti? Né la vita umana tutta quanta non consiste d’altro se non di minuzie. (EN IX, 2, 138)10 sia stato in realtà imposto o suggerito da Perazzini o, meno spesso, da Bodoni. Chiosa Foscolo a Inf. VII 22: «Bod. sopra, qui e sempre e forse su l’autorità di pochi codici ne’ quali il Dionisi amò il ‘sopra’ da prosatore più del ‘sovra’ de’ poeti»: ma era stato Bodoni a preferire la forma sopra. Del resto Dionisi, Aneddoto IV 169 n. 2, avrebbe voluto che la sua edizione mantenesse l’ortografia della Crusca e fosse corredata da ampie note. Il fatto che la Bodoniana non segua questi criteri parrebbe confermare quella «fastidiosa tendenza a cambiare idea» da parte di Dionisi messa in luce da Mazzoni, Dante a Verona 2. 10 Commenta questo brano Pasquini 476.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 72 Tra le maggiori insidie per un editore degli scritti del Foscolo inglese, Michele Barbi segnala «la trasfusione della stessa materia dall’uno nell’altro», come se quelle che noi siamo portati a considerare opere singole siano state ottenute saldando après coup pezzi differenti.11 Dalla «trasfusione» di sintagmi singoli o di brani interi all’interno del corpus foscoliano, da un’opera all’altra e persino da una redazione all’altra, origina l’«alta densità di coagulo»12 della chiosa appena riportata. Essa compare, oltreché a commento di Inf. XXVI 97, in versioni provvisorie tanto del Discorso sul testo, quanto di un altro discorso preliminare d’argomento dantesco, rimasto incompiuto.13 Il monito che l’arte risieda in particolari anche minimi ha insomma particolare risonanza nel pensiero critico foscoliano. Il Discorso sul Decameron, come già si diceva, ribadisce che la solidarietà cruscante fra grafia e pronuncia ha alterato il testo dei grandi classici volgari, Boccaccio certo, ma anche, e non meno, Dante: «gli uomini non impazienti a queste necessarie minuzie giudicheranno»,14 appunto grazie al Discorso sulla Commedia. Dunque quando parla di minuzie, poter / potero, da me / a me nel caso in esame, Foscolo allude alla scrizione piena di parole apocopate o elise, quindi all’inve11 Barbi, La nuova filologia 162. 12 Mazzacurati 46. 13 La chiosa sulle minuzie si legge tra le bozze a stampa del Discorso (Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, Fondo “Foscolo”, vol. XXV, c. 125r), e in un abbozzo del secondo dei Discorsi preliminari (EN IX, 1, 679). 14 EN X, 323. Anche nella Storia del testo d’Omero (EN XII, 384), il termine minutiae si riferisce all’utilizzo anacronistico dell’apostrofo da parte di Payne Knight.
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 73 ramento del principio vichiano della Commedia verseggiata a vocali. Perciò è più che probabile che l’obiettivo non dichiarato della chiosa sia Dionisi: il canonico veronese, sulla scia di Perazzini, marginalizza come «minuzie viziose» gli iati, quasi per inerzia rispetto alle scelte della Crusca. Non v’è dubbio che la parola minuzie porti con sé la connotazione negativa di indugi prolungati su inezie all’apparenza irrilevanti. Non a caso Foscolo ammette che l’edizione dantesca «fu la meno allegra delle sue fatiche», e la paragona ai lavori eruditi di Giuseppe Scaligero e di Pierre Daniel Huet. I loro nomi compaiono nell’abbozzo di uno dei discorsi preliminari, allo scopo di ribadire che le spossanti ricerche erudite (le «fatiche dotte» dell’ultimo sonetto delle Poesie) sono «minuzie necessarie» purché esercitate non su minori e minimi, bensì sui grandi classici: «e Dante merita dopo Omero le prime cure non foss’altro dagl’Italiani». 15 Dionisi ignora l’altissima posta in gioco di un piano editoriale ambizioso, affidato all’operosità italiana. Sul progetto della Commedia come «libro da Italiani», e di riflesso sul valore condizionante della propria filologia, Foscolo scandisce parole definitive a suggello della Serie di edizioni: «quand’oggimai non ha di libere se non le minuzie letterarie, trattile in guisa che le non pajono inezie, e ne derivi alquanto di vero, il quale dov’anche emerga da minime cose ha in sé ad ogni mo15 EN IX, 1, 679-81. Simili considerazioni su Huet ritornano nel secondo paragrafo dei Discorsi (EN IX, 1, 176-77), che comincia così: «qui dov’io scrivo, le minuzie sono istituto di Università», e quindi sono riconosciute ed apprezzate nella repubblica letteraria.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 74 do l’eterna onnipotente natura del vero».16 Queste parole, giocate sull’antitesi fra «minuzie» (positive) e «inezie» (negative), sono ispirate al motivo alfieriano dell’intellettuale che si dedica alle lettere perché in altri campi gli è preclusa l’azione. Scrivere compensa l’impossibilità di agire, o meglio scrivere la verità diventa una forma superiore di azione, un’azione che ha qualcosa di eroico, specialmente nelle circostanze minime delle dispute letterarie. Sminuire Dionisi è una costante degli studi danteschi di Foscolo sin dagli esordi. Le critiche rivolte al canonico dalla Chioma di Berenice e dal primo articolo edimburghese sono però viziate dall’invalidità logica dell’argomento ad personam. L’età avanzata di Dionisi, il suo temperamento da canonico abituato a intonare «alleluia», oppure «the dogmatic tone of a prelate, and the contemptuous air of a patrician» nella polemica con Lombardi: tutto ciò da un lato risponde al taglio psicologistico della critica foscoliana, dall’altro però non basta né a stabilire la fallacia dell’emendazione di Dionisi a Purg. XXX 15, «la rivestita voce alleluiando», né a provare che, più in generale, le sue varianti sono «the most manifest errors of copyists».17 La denigrazione dell’avversario e il ricorso al principio d’autorità sono argomenti deboli dal punto di vista 16 EN IX, 2, 305. 17 Particolarmente sferzante il brano della Chioma: «dirò bensì che in tutte le cose, e fino ne’ codici, e negli autori ogni uomo travede le proprie passioni ed i propri costumi: qual maraviglia dunque se monsignore [Dionisi] fa alleluiare la rivestita voce, poich’egli da più di ottant'anni alleluia? e da più di ottant’anni....?» (EN VI, 442).
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 75 logico, ma sufficienti a persuadere Biagioli. Questi non soltanto approva la «lavata di capo» della Chioma contro Dionisi, ma in più riserva al canonico ormai scomparso lo stesso irridente disprezzo già sperimentato contro Lombardi: se per Foscolo la lezione «alleluiando» era «stravagante», per Biagioli Dionisi interpreta un passo dantesco «così stravagantemente, che non si può tenere che non ne informi i forestieri per fargli un tratto sganasciar delle risa». 18 In fin dei conti Dionisi è un superstite dell’ancien régime della critica dantesca, un vecchio prete patrizio che provoca scomposte sghignazzate di scherno e commiserazione. Ce n’è abbastanza perché Foscolo e Biagioli siano richiamati a una critica più urbana e argomentata dal filologo modenese Marcantonio Parenti, in un passo poi trascritto dalla Commedia della Minerva del 1822, una sorta di edizione-archivio sotto il profilo testuale ed esegetico, da Foscolo posseduta e postillata. In particolare Parenti spiega in modo convincente l’eziologia della corruttela alleluiando > alleviando, e quindi contesta l’intangibilità della vulgata alleviando. 19 18 Biagioli, Commedia I 628. Da vedere anche, sempre in riferimento a Dionisi, Biagioli, Commedia III: «tienti dal ridere, se puoi» (52); «muove a riso» (385); «sustituisce a chiarezza la voce carezza, che non la posso scrivere senza ridere» (421). 19 Minerva, Commedia II 691-94, riprende Parenti, Alcune annotazioni 173-76. A proposito dell’edizione-archivio della Minerva, curata da G. Campi, F. Federici e G. Maffei, Foscolo rivela che «la tanta congerie di cose, mi ha fatto utilissimo il loro lavoro» (EN IX, 2, 301). Da questa edizione – che si suppone posseduta e annotata da Foscolo in base alla postilla di EN IX, 1, 355 – vengono ad esempio le uniche citazioni esplicite di Perazzini negli studi danteschi foscoliani, nelle chiose a Inf. IV 125 e a Inf. XVIII 18. Va di conseguenza escluso che Foscolo conoscesse direttamente le Correctiones, possi-
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 76 Insomma, che alleluiando sia una difficilior nascosta sotto l’apparenza di una lectio impossibilis, mai Foscolo lo concede; però, colpito dal silenzio di Dionisi di fronte alle acerbe critiche della Chioma, egli ammette di esser stato nei suoi riguardi «peggio che discortese» e «villano di motteggi puerili». 20 Questa ritrattazione è più di forma che di sostanza. Più della metà dei rimandi a Dionisi e alla Bodoniana presenti nelle chiose foscoliane all’Inferno si concentra, se non ho visto male, nei primi cinque canti. Foscolo lascia capire che Dionisi è uno smodato congetturatore vittima della propria estrosità critica, tanto che non occorre compulsare per intero la sua edizione.21 Lo stesso «splendido ritratto caricaturale»22 di Dionisi consegnato bilità lasciata aperta da Da Pozzo, Dante e Foscolo 666-67. Uno degli editori della Minerva, Giuseppe Campi, curò in proprio una Commedia, pubblicata postuma, in cui dichiarò di seguire il criterio foscoliano della prosodia vocalica: «tante affettate smozzicature che s’incontrano nel testo degli Accademici non ricorrono ne’ Mss. antichi. Tali sono, ad esempio, lo ’nferno, lo ’ngegno, e simili, e vanno soppressi; ché le vocali nel nostro idioma aiutano il numero e l’armonia del verso» (Campi, Commedia lxiv). 20 Il passo di Foscolo, Lettera apologetica 58-59, è rifuso in EN IX, 2, 302-3. 21 EN IX, 2, 4: «Dionisi propone da certi codici Eh, e altrove Ehe, a anche Hee, Heh ed Hey come più gl’incontra; non perciò importerà il ricordarli». Forse Foscolo scriveva così perché aveva dovuto restituire a Pickering il primo volume della Bodoniana. Lo suggerisce la lettera del suo copista G. Berra a Pickering del 10 gennaio 1826: «the books lent by you to Mr. Foscolo and peremptor[i]ly requested by you to be returned, although still necessary to the edition in course for you, namely – Bodoni’s Dante first volume [...]» (Foscolo, OEP XII 415). 22 A EN IX, 1, 562-63, si riferisce la nota definizione di Dionisotti, Varia fortuna 208.
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 77 alla quintultima sezione del Discorso è un crogiuolo in cui vengono riplasmati spunti e motivi già emersi nei testi sinora allegati. In un primo tempo Foscolo pare ancora interessato all’indole del vecchio canonico più che alla correttezza logica delle sue tesi, che «sapevano dell’autorità di prelato, e della non curanza signorile di un patrizio Italiano». In seguito però Foscolo entra nel merito della critica testuale di Dionisi. Le emendazioni stravaganti della Bodoniana, dettate dalla volontà di preservare la divinità di Dante o di contestare gli Accademici della Crusca, suscitano perlopiù scherno («provocava altri [Biagioli appunto] a ridere insieme e resistergli»), per certi versi stupore per la splendida edizione bodoniana cui sono consegnate, rare volte perfino consenso («ei talor vi coglieva», scrive Foscolo; «n’ha pur indovinata una», ammette Biagioli). 23 La conclusione del ritratto, a sorpresa, si distende in un più cordiale apprezzamento dei talenti del Dionisi dantista, il quale «scoperse alcuni documenti ignotissimi ed utili, e richiamò gli studi alla storia della Divina Commedia». L’ultima ammissione è di sicuro rilievo. Al di là delle dichiarazioni di facciata così ostili a Dionisi, Foscolo guarda con occhio attento alle ricerche d’archivio condotte dal canonico insieme a Perazzini, perché esse illustrano gli «implexiora loca» di cui parlava Cesari, e quindi mettono in luce la dimensione storica della Commedia. 24 In particolare il quinto degli Aneddoti, 23 Biagioli, Commedia III 567. 24 La Dedica dell’ultima opera di Dionisi parla così di Dante: «perché ho conosciuto tutte le ragioni della sua eccellenza non potersi investigare e sapere senza la cognizione di molte cose alla Storia di lui appartenenti, questo ho almen fatto di trarne quante ho saputo
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 78 scritto dopo la summentovata visita a Firenze, descrive almeno tre di quei «documenti ignotissimi ed utili». Il primo è il già citato Laurenziano di Santa Croce, una vera e propria “edizione” allestita sul fondamento di varie tradizioni per mano di Filippo Villani, umanista della cerchia di Coluccio Salutati. Dionisi e Foscolo negano (a torto) l’autografia di Villani per ragioni cronologiche, cioè perché Villani, pubblico lettore della Commedia all’inizio del Quattrocento, non avrebbe potuto scrivere il codice ben sessant’anni prima, nel 1343.25 L’epistola di Dante all’amico fiorentino è il secondo documento scoperto da Dionisi e Perazzini alla Laurenziana su indicazione di Lorenzo Mehus, e valorizzato già dal secondo articolo della Edinburgh Review. 26 Su questa rivista Foscolo non soltanto aveva riportato il testo dell’epistola nella trascrizione dionisiana, ma l’aveva fatto precedere da una serie di considerazioni che risentono della lettura assidua degli Aneddoti. Il canonico aveva scritto che «la storia e la lingua» sono «due chiavi maestre ad aprir la Commedia», pur non essendo riuscito a rinvenire, malgrado le ricerche nelle biblioteche fiorentine, «un comento ben ragionato, il quale avesse per fondamento la Storia». 27 A sua volta Foscolo ribadisce l’importanza di conoscere la storia e la lingua della dall’opere sue principalmente, e da quelle, che a questo fine medesimo ne furono da’ benemeriti scrittori parecchi tramandate copiosamente» (Preparazione I vii). 25 Dionisi, Dialogo apologetico xxiv; EX IX, 1, 188. Sul codice di Santa Croce interviene Boschi Rotiroti. Di recente si è tornato a dibattere della collocazione stemmatica del codice: l’ultimo intervento in ordine di tempo è di Sanguineti. 26 Dionisi, Aneddoto V 176-78; EN IX, 1, 140-43. 27 Dionisi, Aneddoto IV 34 e Aneddoto V 3.
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 79 Commedia, e nel contempo, con simili accenti, deplora la mancanza di un commento di taglio storico: «a commentary upon Dante, which should be useful in a historical and poetical view, still remains to be executed [...]; Dante, notwithstanding the number of his biographers, has not yet had a historian».28 Proprio un commento, il cosiddetto Ottimo commento alla Commedia, è il terzo dei documenti d’archivio che le ricerche di Dionisi offrivano all’occhio filosofico foscoliano. Il quinto Aneddoto ne parla nell’ambito di un esame più generale dell’esegesi dantesca antica, che costituisce il principale merito del dantismo veronese. A detta di Dionisi, i commentatori antichi sono spesso all’oscuro di elementi basilari per capire la Commedia: ad esempio ignorano l’identità del veltro, o, pur se lo identificano con Cangrande, non sanno trarre tutte le conseguenze da questa identificazione.29 Per lo stesso motivo qualche anno prima Dionisi aveva sostenuto l’apocrifia del comentum di Pietro Alighieri: come sarebbe possibile che il figlio di Dante fosse così poco informato dell’opera del padre da non saper identificare il veltro né sciogliere qualche altro enigma?30 È totale il disaccordo con Foscolo: «i primi interpreti» – si legge nel Discorso – «non perché non vedessero, ma non s’attentavano di additare, sin da’ primi versi della Commedia, i nomi di personaggi potenti e il vero peri28 EN IX, 1, 132 e 138. 29 Dionisi, Aneddoto V 15-16. 30 Dionisi, Aneddoto II 5-6, pubblica la premessa del commento di Pietro Alighieri, traendola dal codice di Santa Giustina, dal quale Perazzini ha a sua volta esemplato due copie: cfr. Mazzoni, Un nuovo codice.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 80 coloso».31 Ad esempio, secondo Foscolo, Pietro Alighieri sarebbe un po’ troppo laconico in alcuni punti decisivi del suo commento, perché, intimorito dalle minacce dei nemici del padre, non poteva mostrarsi filoscaligero, identificando Cangrande nel veltro. «Ad ogni modo di tutto quasi che abbiamo di certo nelle allusioni storiche» – conclude Foscolo – «siamo pur debitori a que’ primi commentatori; e ove mostravano d’ignorare cose note a’ loro occhi, la colpa era de’ tempi»32. Non soltanto l’antica esegesi è imprescindibile per capire la Commedia, ma l’Ottimo in particolare merita davvero il titolo di «famigliare di Dante»: una familiarità con la sua persona, con i suoi manoscritti, col poema nella sua interezza.33 Servirsi di testi inediti di Dante o delle testimonianze di suoi contemporanei come fondamento per le nuove ricerche relative alla biografia dantesca e alla genesi del poema: è questa la strada indicata dagli Aneddoti, in sintonia con la tradizione antiquaria veronese, che il Discorso ha provato a percorrere. Certo, Foscolo ha letto le chiose dell’Ottimo e di Pietro Alighieri in modo parziale e indiretto,34 molto probabilmente grazie non tanto 31 EN IX, 1, 474. 32 EN IX, 1, 476. 33 L’impressione di Foscolo riguardo all’Ottimo («pare ch’abbia l’intero poema, e la corrispondenza d’ogni sua parte davanti agli occhi»: EN IX, 1, 534), è stata confermata da Massimiliano Corrado: «il commentatore palesa una profonda dimestichezza con l’intera Commedia» (Ottimo 383). 34 EN IX, 1, 498-99: «a me di questo commento [...] non è toccato di leggere se non pochi squarci riferiti ne’ libri altrui, e mi sono riportato anche qui all’antiquario che lo divorò tutto intero» (per Pietro: forse l’antiquario è Dionisi); EN IX, 1, 525: «da quel tanto del
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 81 agli Aneddoti, quanto a due edizioni «nobilissime e più benemerite del poema», 35 l’edizione-archivio della Minerva e la Commedia fiorentina dell’Ancora, uscita nel 1819. È altrettanto certo che sulla storicità del poema Foscolo matura idee diverse rispetto a Dionisi. Questi tende a distinguere in Dante lo storico dal poeta,36 e a collocare la Commedia nel Medioevo, allontanandola da noi in un eccesso di scalarità cronologica. Al contrario Foscolo, ostile alla «affannosa, contenziosa, boriosa indagine delle date», 37 non soltanto troverebbe del tutto anacronistico il dettagliatissimo «giornale della visione» proposto dal quarto Aneddoto, ma in più pensa che si debba sottolineare l’originalità della Commedia, che va avvicinata a noi perché inaugura la storia letteraria europea e quindi getta luce sul futuro. Ciò nonostante, la profonda rielaborazione dei materiali dionisiani da parte del Discorso38 ha permesso a Foscolo di inverare il postulato vichiano per cui il soggetto del poema è la storia del suo tempo. In altre parole la feconda dialettica col canonico, lungi dall’essere un curioso effetto d’eco, definisce le condizioni di leggibisuo commento che mi è toccato di leggere» (a proposito dell’ Ottimo). 35 EN IX, 1, 282. Sulla rilevanza della Commedia dell’Ancora per la conoscenza dell’esegesi antica da parte di Foscolo, insiste Bellomo, Dizionario 5. 36 Dionisi, Preparazione II 109: «in questi capitoli s’è fatta veder manifesta la contraddizione in tal senso tra Dante istorico, e Dante poeta»; II 68 n. 1: «Dante fece la Vita nuova [...] non da istorico, ma da poeta». 37 EN IX, 1, 195. 38 Il riuso foscoliano degli Aneddoti si distingue dal semplice stoccaggio di materiali dionisiani operato da Girolamo Mancini e studiato da Frasso, All’ombra.
FOSCOLO E I COMMENTATORI DANTESCHI 82 lità, orienta la lettura, e talvolta governa l’interpretazione, di svariate sezioni del Discorso e di altrettante chiose all’Inferno. Quelle sezioni e quelle chiose non sarebbero state scritte in assenza delle ricerche sul campo condotte da Dionisi (e Perazzini), non tanto perché Foscolo, procedendo per errorem ad veritatem, rettifichi sbagli e incongruenze,39 quanto perché egli si serve dei loro «documenti ignotissimi e utili» per l’intelligenza storica della Commedia. Il dibattito sull’allegoria del primo canto è il paradigma del rapporto tormentato e contraddittorio tra Dionisi e Foscolo: come il primo riconosce nella «storia» il «senso nuovo nascosto»40 del proemio, così il secondo è reticente nell’ammettere i debiti nei suoi riguardi. Sul piano letterale Foscolo parrebbe il primo esegeta a richiamare come referente delle tre fiere un brano di Geremia che descrive tre animali selvatici, leone, lupo e pardus, mandati a punire i peccati degli abitanti di Gerusalemme. Il richiamo a Geremia è oramai pacificamente accolto dal secolare commento, benché il merito dell’agnizione di lettura non sia accreditato a Foscolo.41 39 Valga ad esempio la diversa valutazione della Visio Alberici, la visione di un monaco di Montecassino conservata nell’archivio dell’abbazia e innalzata, da Dionisi (Preparazione I 4-18), non da Foscolo (EN IX, 1, 59-69 e 471-73), a principale fonte del poema. Un passo del secondo articolo edimburghese ancor oggi si potrebbe sottoscrivere per raffinata eleganza: «much of a great writer’s originality may consist in attaining his sublime objects by the same means which others had employed for mere trifling». Il saggio di Gizzi contiene la riproduzione fotografica del codice e la traduzione italiana del testo della Visio Alberici. 40 Dionisi, Aneddoto II 67. 41 EN IX, 1, 513. Secondo Hollander, Commedia I 5, il primo a parlare di Geremia sarebbe stato «forse» Tommaseo. Costui disprez-
DIONISI, PERAZZINI E LE MINUZIE NECESSARIE 83 Sul piano metaforico, invece, il Discorso assume una posizione minoritaria (il che non significa per forza erronea), alla quale ha dato un apporto decisivo e misconosciuto appunto Dionisi. Il secondo dei suoi Aneddoti suggerisce una spiegazione storica, anziché morale, del primo canto della Commedia: la selva rappresenta gli incarichi politici di Dante, la lonza Firenze, il leone il regno di Francia, la lupa la curia romana.42 Eppure, dato che le tre fiere impediscono a Dante di uscire dalla selva, Lombardi ha buon gioco a rilevare l’aporia di questa spiegazione: com’è possibile che Firenze, la Francia e Roma, insomma i tre nemici di Dante, gli abbiano impedito di lasciare i suoi incarichi politici? La tesi di Dionisi e l’obiezione di Lombardi furono sviluppate dal nobile marchigiano Giovanni Marchetti nella prefazione alla Commedia da lui curata nel 1819 insieme a Paolo Costa. Pur attribuendo a Marchetti il merito di aver definitivamente chiarito la questione dell’allegoria della selva e delle tre fiere, Foscolo non può non ammettere a denti stretti che l’originaria «interpretazione [di Dionisi] raccoglie e riflette lume in più versi oscuri nelle tre cantiche». 43 zava Foscolo («quando parlava di Dante imbecilliva», annota nel Diario 150), tanto che mai avrebbe menzionato con onore il Discorso. Cfr. anche pp. 161-62 n. 79. 42 Dionisi, Aneddoto II 66-86. Una sintesi equilibrata fornisce Mazzoni, Dante a Verona 85-86. 43 EN IX, 1, 475; per tutti i riscontri, Cappelletti, Della prima e principale allegoria.
CAPITOLO QUINTO LA SCIENZA DEI FATTI: LOMBARDI EDITORE DELLA NIDOBEATINA La prima carta dei Frammenti fiorentini pubblicati da Petrocchi si intitola Edizioni e varianti. Così Foscolo vi descrive la situazione editoriale della Commedia nel primo Ottocento: vi furono a questi tempi tre editori, l’uno per amore del poeta, l’altro per libidine di novità, l’ultimo per vanità di fama letteraria – tanto è misero chi crede di aver nome di letterato, per sì fatte inezie viziose – i quali pubblicarono il poema con tre lezioni sì discrepanti tra loro che i novizi di questo poeta non saprebbero a chi dar fede. Tutti e tre anziché venire eleggendo secondo il giudizio o l’orecchio, alcune lezioni con parsimonia, ristamparono di pianta l’uno l’edizione del Nidobeato, l’altro quante più bizzarre e spropositate varianti trovò ne’ codici, l’ultimo – ed è un’edizione in foglio imperiale di cui si sono tirati pochi più di settanta esemplari dal tipografo rimessi – pubblicò con ortografia sua nuova anzi tutta sua forse, certo suo codice tra cento ch’ei ne possiede. Costui vaneggiò di mente e annichilò quante più virgole ha potuto, e fece più oscuro il poeta; levò la bella e tutta toscana lettera aspirativa, e in