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LUCIA GUGLIELMI SENZA CORNICE ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ SENZA CORNICE Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-659-9 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Maggio 2024
Ad Alessia e Massimiliano
1. «That’s all. Have you any other question?» Un applauso scrosciante fu la risposta che solida pervenne alla sua domanda. Erano le dieci di mattina, e, dopo appena due ore, Irene aveva già finito di lavorare. Come ogni giorno, anche quel giorno. Si guardò attorno, respirò il sole pieno che dominava Roma ‒ la sua città ‒ quasi volesse annunciare qualcosa di buono, mentre altrove, altre città, si vestivano uggiosamente delle penombre autunnali. Irene, con una vigorosa stretta di mano, si accomiatò dai sette turisti giapponesi, che aveva accompagnato in visita al Colosseo alle prime luci dell’alba. «Your tale about “sport” is cool, very cool, really!», entusiasta le si rivolse il capofamiglia. Poteva raccontare mille aneddoti sul Colosseo, ma alla fine quella storia per cui forse il termine “Sport” sarebbe derivato dal latino “sportula”, il sacchetto pieno di una merenda da gustare durante lo spettacolo della lotta dei gladiatori, incuriosiva sempre i viaggiatori, non meno che apprendere che gli archeologi avevano rinvenuto ‒ nelle fogne sottostanti ‒ mascelle di orso, ossi di pollo e semi di zucca, a testimonianza che anche gli antichi Romani amassero rosicchiare qualcosa durante le sfide per stemperare la tensione. I più, però, restavano colpiti dal fatto che i cittadini si portassero, nell’anfiteatro Flavio, anche un vaso da notte, perché durante i ludi si discuteva più o meno animatamente del combattimento, defecando in piena libertà e spesso in compagnia. Altro che privacy! Uno scatto tutti assieme prima dei saluti di commiato e poi via, ognuno per la propria strada. Maestoso. Irene continuava a guardarlo mentre si incamminava verso la sua Smart nera. Lo stupore affiorava intatto. Per quanto sovente le capitasse di trovarsi nei pressi del Colosseo, non smetteva di scuoterla. E come,
d’altronde, ci si potrebbe abituare a una cosa così: a frequentare, a sorsi, la grandezza? Chiamò il suo capo, che le confermò l’ingaggio per il tour delle sette della mattina seguente in Cappella Sistina. La maggior parte dei suoi colleghi svicolava dal primo turno della giornata; lei invece, ormai da qualche mese, non accettava che quello, innanzitutto per via della possibilità di godersi il sito quasi in solitaria: l’ingresso era infatti così esoso da selezionare già a monte la clientela. I gruppi, poi, che le venivano assegnati erano facilmente gestibili, perché poco numerosi e in genere più sensibili all’arte; infine, la retribuzione elevata, in virtù anche della mancia, che, lauta, le era generalmente assicurata, le consentiva di non dover sbrigare molto altro per vivere. Almeno sul lavoro aveva trovato la quadratura del cerchio: ritmi e introiti che ruotavano in perfetta sincronia senza sovraffaticarla. Si fermò al bar, sorseggiò un caffè lungo e scorse rapidamente i messaggi. Dopo la radioterapia, fissata per mezzogiorno, avrebbe avuto a disposizione almeno un paio di ore di riposo prima di doversi acconciare per la serata. Quel tempo lento, dedicato alla cura del suo corpo, era il dono più generoso che concedeva ora a se stessa. Riconciliante come una carezza imprevista che sopraggiunge a uno schiaffo altrettanto inatteso. Squillò il cellulare appena riposto nella borsa. Dalla suoneria personalizzata capì subito di chi si trattava. «Ciao amore… sì, sì, tutto bene, ho finito proprio ora. Diego, ti ricordi che Figlio sta con te stasera?» «Certo, tranquilla, me lo hai ripetuto almeno dieci volte da ieri. Piuttosto… ti va di pranzare insieme oggi? Guarda che sole che c’è! Ci gustiamo uno spaghetto alle vongole fronte mare, facciamo due passi sul bagnasciuga, e poi, come promesso, io vado a prendere Valentino a scuola, mentre tu avrai tutto il tempo che ti serve per prepararti. Ma a proposito… con chi esci?» «No, Diego, grazie, sono stanca, niente pranzo oggi. Domani, forse. E smettila di impicciarti; salutami Franca, piuttosto». La stoccatina finale era il suo marchio di fabbrica. Diego, il suo ex marito, quello che poi di ex aveva ancora poco e niente.
Quand’è che esattamente il loro matrimonio si era fratturato? Nelle sue ricostruzioni non avrebbe saputo dire se era successo quando l’intruso era comparso, o già, cinque anni prima, quando avevano gradualmente smesso di fare l’amore. O più probabilmente, prima ancora, quando lui aveva preso a tradirla con chicchessia, dopo la nascita di Valentino. Schegge di una relazione che tagliavano ancora senza che potessero essere più ricomposte. Appena arrivata a casa, Irene si rilassò nella doccia, che dopo la separazione aveva dotato di radio e di luci colorate a led per rendere gli anfratti di casa più suoi e meno loro; si buttò sfinita sul letto, per poi spalmarsi ben bene di creme affinché i seni non si arrossassero e non si screpolassero troppo, infine indossò un body nero di pizzo. Tirò su la gamba destra, piegandosi su un fianco, si passò una mano fra i capelli e si scattò un selfie, poi due, poi l’ultimo, ammiccando alla fotocamera. Controllò rapidamente la galleria, scelse la posa con lo sguardo più disinibito e la inviò. A quel punto riuscì finalmente ad addormentarsi. Quando si risvegliò, avvertì quella euforia, scoperta qualche mese prima e non più inconsueta, per assaporare la quale aveva riadattato gli scampoli della sua vita, percorrendo una strada totalmente contraria a quella da cui proveniva. Chiamò Valentino, lo ascoltò distrattamente mentre le raccontava di come un compagno di classe gli avesse sottratto quasi certamente una delle card più preziose. Poi il silenzio, doveva aver finito con le sue ciance. «Gute Nacht Figlio». «Gute Nacht Madre». Gli parlava in tedesco quando non gli si rivolgeva in inglese; non c’era giorno della settimana in cui Valentino non fosse impegnato in qualche lezione di conversazione. Irene gli aveva imposto fin da piccolo di familiarizzare con quante più lingue europee possibili. Aveva reso pieno il suo tempo, perché temeva si perdesse come lei. Se un vaso è colmo, pensava, allora non ci si potrà versare altro, niente liquidi di scarico o materiali di risulta: Valentino sarebbe stato sorgente, mai fogna. Ancora smancerie e sbaciucchiamenti telefonici, poi finalmente libera. Credeva a tanti miti Irene, ma non di certo a quello dell’istinto materno. Sapeva bene che era stato inventato a partire dal ‘700 per convincere le madri a occuparsi dei figli affinché non iniziassero a nutrire velleità
sociali o politiche. Non aveva mai creduto alla favoletta del sentimento innato verso chi si genera. Lei, non diversamente da tante altre donne, aveva imparato a relazionarsi col figlio nel tempo, anche se, a dire il vero, a volte le sembrava che se ne prendesse cura più per dovere che per amore. In fondo ‒ si raccontava quando si sentiva scollata dalla sua creatura ‒ è dai tempi della morte di Cristo che nel mondo occidentale l’uomo si seppellisce sotto i sensi di colpa; quello delle donne che mancano alla chiamata di essere madri perfette era solo uno dei tanti, instillati per tenere sotto giogo le donne con una strategia non diversa da altre messe in atto nei secoli. Non capita forse in molte relazioni di non amarsi reciprocamente? Può accadere anche con un figlio. Come con Figlio. Aprì l’armadio, scorse attentamente l’innumerevole quantità di abiti firmatissimi che impreziosivano il suo guardaroba, per poi tornare alla tuta nera aderente che aveva lasciato, già pronta, al mattino, sulla poltroncina accanto al letto. Si truccò con un ombretto tenue e il mascara volumizzante sulle ciglia da poco ricresciute, completando il make-up con un rossetto rosso fuoco e un po’ di fard; la pelle del suo viso aveva tenuto alle intemperie più che ogni altra parte di lei: era ancora lucida, senza occhiaie solcate o visibili rughe. Si allacciò ben stretta in vita una cinta alta puntellata di strass, afferrò una pochette color argento abbinata alle scarpe, tacco dieci, che il solo fatto di indossarle ‒ per lei che era alta 1,75 mt ‒ si configurava inequivocabilmente, per l’uomo di turno, come una dichiarazione di guerra, un atto di pronunciata spavalderia; poi, impostato il navigatore sulla fedele Smart, si diresse alla meta. Quando, a tarda notte, rincasò, ebbe appena il tempo di farsi una doccia e di poggiarsi un paio di ore sul letto prima che la sveglia del mattino suonasse. La cappella Sistina l’attendeva.
2. «Ciao Emma, sono ai Vaticani, ho appena staccato, fra un’ora sono giù. Che ne dici se prendiamo un caffè al Borghetto? Preparati, dai». «Irene, scusami, sono impicciata, proprio non riesco». «Per i tuoi impicci il tempo lo trovi sempre, però! Dieci minuti, che ti costerà mai?!» «Ok, ok, non cominciare con le tue frecciatine. Fammi uno squillo quando stai per arrivare e ti raggiungo, non voglio lasciare Viola da sola per troppo tempo». «Yessssssss, sto partendo». Erano amiche da sempre, dai tempi della scuola elementare. Sorelle elettive. Emma sfoggiava quella bellezza mediterranea un po’ rotonda che seduceva al primo sguardo; ma più che le forme abbondanti, a uncinare irrimediabilmente gli uomini erano i suoi occhi verdi, penetranti e silenziosi. Estremamente riservata, non poteva ‒ nei modi ‒ essere più distante da Irene che, invece, già alla nascita, aveva strappato la pagina del vocabolario alla voce “discrezione”. Lavorava nell’ospedale di zona come pediatra; separata da qualche anno, viveva con disinvoltura la sua seconda adolescenza, dopo aver incasinato però la sua testa ben più del necessario e con una difficoltà crescente a tenere in piedi il sistema che lei stessa aveva impiantato. Il Borghetto di Ostia Antica era il loro punto di ritrovo, a metà strada tra le rispettive case; in particolare si incontravano nel bar vicino alla Basilica di Sant’Aurea in cui entrambe si era sposate, l’una testimone dell’altra e anche se ora non lo erano più, sposate, erano rimaste l’una per l’altra, testimoni di gioie e di dolori. Non le diede tempo neanche di accomodarsi che già era partita con domande a raffica: «Hai parlato con Sergio? Gli hai ribadito a chiare lettere che te li deve dare, quei soldi? Oltre alla casa cos’altro ti deve fottere, Emma? Le figlie? Forza, che aspetti a farti sentire?!»
«Ancora?! Allora era questo che intendevi per un caffè insieme? Che mi avresti sfranto anche oggi? Risparmiami! È la prima domenica libera da un mese a questa parte». «Io non ti riconosco così remissiva, ma che ti succede? Hai un sacco di buffi e ancora che lasci correre… tanto hai chi ti supporta, no? Ma ci pensi almeno a cosa stai insegnando alle tue figlie? A farsi calpestare due volte! Cavolo, non ti dà i soldi del mantenimento, da quanto ormai? Sette mesi?» «Ti ridarò tutto, sta’ tranquilla, sto facendo molti straordinari in questo periodo, appena posso…» «Non me ne strafotte nulla dei soldi, i miei soldi sono tuoi e lo sai bene, ma non permetterò che ti lasci sfruttare ancora e prendere per i fondelli da quello stronzo! Se non chiami in settimana un avvocato, lo farò io. Reagisci, cazzo!» «Sì, ho capito, ora basta però. Parli dodici lingue, eppure il volgare rimane la tua preferita. Piuttosto… com’è andata ieri sera?» «Ti racconterò con calma, ora non mi va; molla le ragazze dai nonni e vieni a dormire da me stasera. Domattina non lavoro che ho i controlli in ospedale». «Non posso, Irene, domani mi tocca il primo turno di guardia in Pronto Soccorso. Vieni tu da me con Valentino; mentre i ragazzi si guardano un film, noi parliamo un po’, ok?» «Ok, va bene. Serata poke?» «Mi piace, aggiudicata!» Era la loro comunità, quella, che aveva fatto da surrogato alla sostanza della famiglia mancata. Compensava silenzi, assenze e teneva insieme quando serviva, perché si sa, arriva il momento in cui non importa come, con quale collante e a quale prezzo, ma si avverte, impellente, la necessità di sentirsi un pezzo unico. E allora, in vite stropicciate come le loro, l'interdipendenza era divenuto un comodo salvagente, una rete che faceva da costellazione, pulsante di energia anche quando, anzi soprattutto quando, si sentivano monadi. Nei buchi, negli strappi, nelle parole abusate, le riserve potevano inaridirsi, ma proprio in mezzo a quelle fessure, la luce altrui le faceva pulsare e pulsare ancora. Diego, intanto, la aspettava per pranzo insieme a Valentino. Si era trasferito in un’altra abitazione, a pochi isolati da lei, solo qualche mese prima e dopo una non breve separazione in casa. Si sentivano e si
vedevano ancora quasi tutti i giorni: una volta la cercava lui, il giorno dopo lei, in un flusso ininterrotto di agganci quotidiani. Si erano talmente invischiati l’uno con l’altro che le loro vite si erano andate definendo come una scacchiera a quadri bianchi e neri; nessuna sbiadita mescolanza di grigio, dunque; nella partita del loro matrimonio si erano frammentati, fatti a pezzi, con contorni netti, ma pur sempre a scampoli; a volte lo scacco lo muoveva uno, a volte l’altro; il pavimento su cui la loro esistenza scorreva non era ancora a tinta unita, anche se i colori rimanevano distinti: il bianco esisteva finché non intoppava nel nero e viceversa. «Valentino è andato a pranzo da Filippo. Ci siamo solo io e te. Ce ne andiamo ai cancelli o preferisci rimanere nei paraggi?» «Vada per i cancelli, ma guidi tu, mentre io provo a chiudere gli occhi. Sono stanca». «Sempre l’insonnia?» «Già, ma non stanotte». «Ah ecco, sarei proprio curioso di sapere cosa hai combinato… comunque, se preferisci, ce ne andiamo a casa a dormire un po’, insieme. Io e Valentino ieri sera abbiamo fatto la maratona de Il signore degli anelli, poi alle dieci lui è crollato e io invece non ho praticamente chiuso occhio. Sono distrutto». «Sì, magari, solo con te riesco a riposare». «Allora è fatta, ci fermiamo in rosticceria a prendere qualcosa e poi ci abbracciamo un po’». «Mi sembra un ottimo programma, purché non parli di Franca, oggi». Ancora Franca. Non sapeva mettere freno alla lingua pungente, neanche nei momenti che gli altri predisponevano placidi. Una volta in camera da letto, lei si spogliò completamente, dandogli la schiena. Non era più riuscita a farsi guardare da lui nuda; dagli altri, in qualche modo, sì, ma non da lui, l’unico uomo verso cui non nutriva più alcuna mira seduttiva. Poteva sembrare un paradosso, ma non lo era. Irene gli dava la schiena perché dal canto suo, le era rimasta solo quella illusione, di preservare, nell’uomo che era stato il compagno di una vita, un’immagine di sé, che si era nella realtà disfatta per sempre. Rendere duratura in lui la memoria di quella materia ora disgregata, sottratta, scomposta, la faceva riverberare davanti a sé illusoriamente integra.
Si sfilò la parrucca, l’ultima acquistata, con i capelli di color nero lucido, di media lunghezza, e si infilò in una sottoveste di raso verde petrolio; a quel punto si stese sul letto accanto a Diego. Sapeva ancora di casa, lui, con i suoi odori, con quei contorni di pelle che erano stati i primi con cui, adolescente, si era rapportata; ed era ancora il loro letto, quello: il letto della prima notte di nozze, delle poppate notturne, delle parole sospirate, e delle schiene diventate infine adiacenti. Diego iniziò ad accarezzarle dolcemente i capelli, così corti da fargli sentire, massaggiandola, la nuca. Se li era rasati a zero anche lui, mesi prima, quando le erano cadute le prime ciocche, e proprio su quel letto, tutti e due spelacchiati e più simili che mai, si erano scattati la più intima delle loro foto.
3. Viveva così Irene, senza pause, da quando ‒ poco più di un anno prima ‒ mentre era convinta di andare in una direzione, si era ritrovata sulla corsia contraria. Da allora preferiva rotolare ovunque le pendenze la conducessero o appoggiarsi a chiunque le prestasse il fianco. Senza mai una sosta. Quella sera arrivò dall’amica in compagnia di Valentino, non mancando di portare con sé poke in abbondanza, una bottiglia di bollicine e un profiterole gigantesco. Se esisteva una qualità di cui non era sprovvista era certamente la generosità. Si prodigava in regali per le persone care ogni volta che si trovava in viaggio e non lesinava in circostanze di condivisione come queste, optando sempre per i migliori prodotti disponibili. Lo faceva anche per il piacere di fare piacere, ma soprattutto perché nel dare pregustava l’atto del ricevere, la gratificazione che sarebbe derivata da un atto, tutto figlio di sé. Piantata nel suo centro anche quando poteva apparire protesa verso l’altro. Figlio e le ragazze si accomodarono sul divano fronte schermo, pronti con le loro bacchette di legno a ingurgitare pure l’incarto del poke, mentre Irene ed Emma, rifugiatesi in cucina, si allineavano; solo così le cose sembravano veramente accadere per loro, quando l’una era messa al corrente dei casi dell’altra. Come era capitato a Emma, la notte in cui, sfinita, aveva portato via dal marito violento se stessa e le proprie figlie, barricandosi nella casa sfitta di un collega. Era passata la mezzanotte quando aveva chiamato non i suoi genitori, non il fratello, ma Irene. Era stata la sua amica a infilarsi in quell’appartamento con lei per uscirne solo quando Emma le era sembrata meno inquieta. Ed Emma non aveva realmente capito ciò che avesse con azzardo messo in atto, fino a che non si era vista, quella notte, negli occhi stralunati e assonnati di Irene. Risintonizzarsi, allinearsi, dunque, come due pianeti che nella distanza seguono momentaneamente una stessa traiettoria. «Mi sa che Beppe ha subodorato qualcosa», agganciò Emma.
«Sarebbe pure ora». «Pare che tu non aspetti altro. Sono stata molto attenta, non capisco cosa stia succedendo, lo sento insofferente e sospettoso». «E Mario?» «Al solito lui, per fortuna. Tranquillo, pacifico; anzi mi ha dato una copia delle chiavi di casa nuova e quando, l’altra sera, l’abbiamo inaugurata, nell’armadio ho trovato accappatoio e pantofoline per me. Non saprei proprio cosa contestargli, è premuroso e attento». «Come no… Due palle quell’uomo, non immagino neanche cosa tu ci possa trovare: banale, noioso; e quando afferma che ti starebbe accanto fino alla morte, lo dice, perché sa bene che, se accettassi di andare a vivere con lui, dopo poco ti spareresti un colpo alla testa; dai retta a me, mollalo e vedrai che risolvi gran parte dei tuoi casini». «Mario mi fa sentire in equilibrio, non posso permettermi di perderlo». «Fandonie! Emana grigiore da ogni poro. Un piattume su cui scivolare pure senza pattini ai piedi». «Sei sempre così categorica tu… Potrei provare a spiegarti se almeno una volta facessi il favore di tacere per qualche minuto». «Ti racconti un sacco di balle, sorella, ma forza, ti darò retta, mi sto zitta, sono proprio curiosa di vedere come te la rigiri». «È che non mi ero mai sentita così prima… È come se mi trovassi su una fune sospesa: Mario mi tiene per mano, e, così facendo, mi fa restare ferma, nell’esatto centro; mi sembra che le mie forze, grazie alla sua presenza, convergano; non si annullano mica, perché sono come sostenuta, senza paura di scivolare; certo, nessuno scossone, nessun brivido, ma è lui che mi fa stare sempre ben ritta in piedi. Poi però arriva Beppe e mi sconquassa; allora a quella fune io mi ci appendo, mi ci aggroviglio, dondolo e mi ritrovo a osservare il mondo sottosopra. E quando sbircio il mondo alla rovescia, mi viene una gran voglia di lanciarmi dentro ogni respiro, anche se so bene che basterebbe un solo spiffero soffiato dalla sua bocca tagliente per farmi precipitare. Dimmi tu, allora, che altro potrei fare se non tenermi l’imbracatura di Mario e la spinta di Beppe. Perché non dovrei? Non ho vincoli con nessuno dei due, non ho fatto promesse io». «Forse perché sono l’uno all’oscuro della relazione con l’altro? Forse perché questa situazione va avanti da un anno e mezzo ormai e se prima la mescolanza di quei due ti alimentava l’adrenalina, ora sei ben
consapevole che è solo un casino in più nella tua vita rattoppata? E che, con questa bella fune, presto ti ci strozzerai? Altro che!» «Io non ho mai dichiarato di amarli o tanto meno di volermi impelagare in una relazione; sono stata sempre attenta a non dare conferme, a pesare ogni singola parola, ma se entrambi mi considerano come una compagna e sognano una convivenza, non è un mio problema, non è mia responsabilità; a me interessa solo che in ospedale nessuno capisca, perché non voglio che vadano di mezzo il mio lavoro e la mia reputazione». «Sempre e solo tu al centro di ogni scelta e i tuoi equilibri! Quelli degli altri invece mica contano. Te la stai cavando perché i due sono colleghi, eppure non si parlano, perché ti sei ben organizzata con gli incastri dei turni, altrimenti saresti già lo zimbello di tutti e ti ritroveresti con una magagna bella grossa da spiegare alle tue figlie: per iniziare potresti partire da come essere calpestati e calpestare a propria volta, o come essere una stimata pediatra e una bugiarda senza scrupoli». «Ma la fai finita di bacchettarmi?! Vogliamo parlare di te, allora? A Valentino lo racconti, forse, dove te ne vai, quando ti infili in delle tute superaderenti con un boa attorno al collo? Quando lo molli dai tuoi genitori in fretta e furia? Quando lo spacchetti ovunque per pensare solo a te?» «No, non ancora, ma lo farò un giorno, Figlio deve crescere libero da pregiudizi, mica come noi. Non mento a nessuno io, diversamente da te». Emma sospirò sconsolata. Irene a quel punto, d’improvviso, prese la mano dell’amica, si tirò giù la maglia, abbassò la coppa del reggiseno e la portò sul seno destro. Non era un atto nuovo, improvvisato; quella movenza si era fatta rituale della tragedia di sé che tanto amava mettere in scena. Tutta catastrofe e nessuna catarsi. Battute recitate con regolarità tra pose e intervalli debitamente studiati. «Lo senti? Lo vedi? A che altro posso aspirare, se non me lo risistemano?» «Smettila Irene, ti fai solo del male. Puoi ancora vivere, sei viva, il resto migliorerà, vedrai. Serve anche impegno di testa da parte tua». «Parli facile tu, che hai gli uomini che non si accorgono nemmeno di cosa combini, pur di stare con te… e invece nel mio caso, sono io che devo coprirmi per evitare che mi vedano bene».
«Non sarà così in eterno, ci vuole tempo. Hai energia e soldi per cercare una soluzione; fidati, insieme la troveremo, come abbiano sempre fatto». La malattia era diventata un alibi: se ne serviva all’occorrenza per scrollarsi di dosso le richieste, avanzate dagli affetti più cari, di prendersi cura di sé in modo nuovo. Provare a evitare, per esempio, quelle sceneggiate tese a riportare l’attenzione sempre sulla sua persona, a far emergere come un bassorilievo gli aspetti positivi che nella sua vita c’erano ancora. Era una sopravvissuta, ma mancava di tenerlo a mente. Si dice che la malattia apra nuovi orizzonti a chi ce la fa, che conceda nuove forme di vita, una sorta di riscatto della pena; in Irene, invece, aveva scaravoltato l’anima, spingendola a percorrere sentieri dai quali si era, per principio e indole, fino ad allora, tenuta alla larga; ora invece ne era così infognata da non rendersene neanche conto. Un semaforo verde a ogni pulsione. Si era addestrata a proiettare su altre figure il disagio, alimentando l’autocommiserazione. I suoi sensi, poi, erano diventati selettivi: vedevano e ascoltavano solo ciò che si inseriva a completamento dell’idea che aveva elaborato di sé, di donna che non può essere compresa fino in fondo e che dunque in virtù di tale riconoscimento è legittimata a trovare appagamento in qualsivoglia forma senza doverne dare conto; voleva essere risarcita dalle persone vicine, dalla società, dal mondo intero. Non era un’attesa, era una pretesa la sua. Senza appelli.
4. «Michelangelo non voleva correre il rischio che qualcuno dei suoi assistenti rivendicasse la paternità di una sezione della Cappella Sistina, per questo, pur avvalendosi di eccellenti collaboratori, li licenziò assai frequentemente». «Mi scusi, ma è vero che, a testimonianza di un temperamento alquanto bizzarro, una volta l’artista ordì un inganno addirittura ai danni del Papa Giulio II? Leggevo che numerosi furono gli alterchi tra di loro e che una volta Michelangelo, esasperato dalle continue richieste del Papa di visionare i lavori nella Cappella, comunicò di doversi recare a Firenze per qualche giorno, raccomandandosi di non entrare nella Sistina per alcun motivo. Tuttavia pare che la curiosità del Santo Pontefice fu tale che si fece aprire le porte e, una volta dentro, vi trovò il Buonarroti che aveva solo finto di dover partire e che invece si era semplicemente rinchiuso all’interno. Michelangelo, allora, montato su tutte le furie, minacciò di lasciare il lavoro incompleto, come d’altronde fece in diverse altre occasioni… un bel caratterino entrambi, insomma!». «Tutto vero, verissimo. Mi scusi, ma lei chi è? Non ricordo il suo nome». «Michele. Mi incuriosiva questo aneddoto, sa? Ho visto un documentario su Sky sulla sua produzione artistica, tempo fa, e ho provato a immaginare che mondo sarebbe il nostro, se Michelangelo avesse abbandonato la Cappella Sistina a metà, se Augusto, per esempio, accogliendo le richieste di Virgilio, avesse bruciato l’Eneide, se Max Brod avesse dato retta a Kafka, se Dino Campana non avesse ricostruito a memoria le poesie che Soffici e Papini gli avevano, pur involontariamente, smarrito». «Un mondo decisamente più povero e in effetti non sappiamo di quanto non lo sia comunque; attorno al nostro, gira l’universo delle opere distrutte dagli artisti stessi, di quelle perdute, delle altre smarrite. Direi che possiamo comunque ritenerci fortunati della bellezza che ci
abbevera quotidianamente e anzi, l’essere consapevoli di quella sommersa, che probabilmente mai affiorerà, rende quella disponibile ancor più preziosa». Michele, a fine visita, si avvicinò a Irene. Un uomo distinto, che poté parlarle guardandola negli occhi, grazie alla sua imponente statura. «Le andrebbe un caffè? Se non ha altri improrogabili impegni ovviamente». «Verrei volentieri, Michele, ma ora proprio non posso. Mi lasci il suo numero e la ricontatto io nei prossimi giorni, se le va. Anzi, diamoci pure del tu… sei di Roma?» «Vivo a Nepi, ma sono spesso in centro per lavoro. Allora ci conto. Fatti sentire». Annotò quel Michele nella sua ormai foltissima rubrica telefonica con l’appunto: “Michele, cliente, interessante, cinquanta anni?, Nepi, richiamarlo per un caffè a partire da…” e appuntò un giorno della settimana successiva. Mentre alla guida si immetteva sulla Via del Mare, ripensò meccanicamente a tutti gli impegni del pomeriggio. Era un esercizio quotidiano. Radioterapia, Figlio, pranzo insieme, ricevimenti con i professori, spinning, doccia, Figlio dai nonni, preparativi, lui. Avrebbe sfanculato un’altra giornata. Si sentì sollevata. Ferma al semaforo mandò un messaggio a Emma. «Stasera a mezzanotte, Pizzeria Granodoro, Via Tuscolana 327, Claudio». Letto, visualizzato, nessuna risposta. Ospedale, scuola, palestra, casa, genitori, casa, Tuscolana. Persone, luoghi, tappe, toppe per la sua vita sconclusionata. Le sarebbe servito un lungo viaggio, perché nel mondo fuori dal suo mondo, si sarebbe forse riconciliata, almeno un po’. Aveva scelto la professione della guida turistica perché si percepiva veramente a casa solo quando era in viaggio. Per il momento, però, doveva aspettare: c’era l’appuntamento quotidiano con la radioterapia a impedirglielo. Ripensò alle spiagge solitarie della Sardegna, dove tutto era iniziato. Quel tour, quattordici mesi prima, con un nutrito gruppo di turisti giapponesi. E lui, Antonio, l’autista del pullman, dieci anni più giovane, che le aveva ricordato che era donna. Ancora. Erano cinque anni che nessuno le sfiorava il corpo. Ogni tanto Diego l’aveva stuzzicata tra le lenzuola, ma lei, irrigidita nei suoi mutandoni
strappati, lo aveva rimesso sempre al suo posto. Teneva a mente che quelle stesse mani, magari solo poche ore prima, avevano penetrato la natura di un’altra, come chiamava per metonimia sua madre la vagina, e non avrebbe ceduto per un momentaneo sfizio. Il sesso era un ricordo lontano e aveva imparato, senza alcun insegnamento, a farne a meno con discreto agio. Il suo desiderio si alimentava esclusivamente del godimento dato dalle opere d’arte e poi a dirla tutta, non credeva di aver provato altri tipi di orgasmo al di là di quello che avvertiva quando veniva rapita da certi capolavori. Ma lì, in Sardegna, quel ragazzetto con la barba pettinata, le aveva tenuto lo sguardo addosso, ogni momento; più basso di lei l’aveva squadrata per ore, sollevandole, con il solo gesto degli occhi, le gonne morbide che indossava mentre, per esempio, era impegnata a descrivere la struttura architettonica di un nuraghe. Di sbircio o frontalmente, lui non si era mai ritratto dal suo orizzonte. Avevano pranzato sempre assieme e condiviso stanze limitrofe durante tutto il viaggio itinerante che aveva previsto quotidiani cambi di albergo. E poi, quando mancavano tre giorni al termine del tour, non si era fermato agli ammiccamenti e alle lusinghe. Quella sera i clienti avrebbero goduto di una serata libera in Costa Smeralda, così Antonio si era sbilanciato invitandola a cena nel ristorante dell’albergo, sarebbero stati finalmente solo loro due. Irene, senza troppo pensarci, aveva accettato per catapultarsi, subito dopo, ad acquistare nello shop dell’albergo un completo di pizzo nero; forse non aveva mai osato tanto. Si era da anni tarata su biancheria di cotone bianco o peggio su un pallido color carne. Lo indossò e si guardò allo specchio. Però, mica male. Sopra infilò un tubino corto blu. Amava i gioielli di oro rosa. Ne aveva sempre di preziosi con sé e scelse per l’occasione la collana con una pietra di lapislazzuli. Era più alta di lui, ma sui tacchi non intendeva lesinare. Tacco dieci, come sempre, e via. Non aveva programmato nulla in realtà, non era stata mossa dall’idea consapevole di partecipare a quel gioco di seduzione, ma le attenzioni di cui era stata soggetto nei giorni precedenti l’avevano guidata, in quelle ultime ore, come un timone di un’imbarcazione col pilota automatico. Bussarono alla porta, un cameriere le consegnò una rosa rossa. Lesse il biglietto. «Ti aspetto nella hall. Fremo, Antonio».
Si cosparse del suo profumo, La vie est belle, e lo raggiunse. Al ristorante non ci arrivarono. Lui, nella hall, la accolse con una bottiglia di Franciacorta Rosé. C’era un vassoio di pregiate ostriche, crudo di gamberi rossi con del pane guttiau. Irene si accomodò. Difficilmente si imbarazzava, ma avvertì un certo turbamento nel prendere atto che, se pensava a quando era stata corteggiata l’ultima volta, proprio non se lo ricordava. Viveva con suo marito da quando aveva sedici anni, e a dirla tutta, probabilmente Diego forse mai l’aveva corteggiata. Non così. Si erano ritrovati insieme nel gruppo del post-cresima e da allora non si erano più lasciati. «A te, a noi qui, insieme». Sorrise, sembrava alquanto impacciato. Da seduti però la dismisura si appianava, rendendo il corteggiamento più agevole. Non era avvezza all’alcol, tanto che, dopo il primo calice, era già su di giri. Quando, dopo il secondo assaggio, lui la guardò negli occhi e le prese la mano, lei abbassò ogni difesa. Lo seguì nella sua stanza. Era tutto in ordine, pensò ai panni di Diego disseminati sui pavimenti di casa. Irene si sedette sulla poltroncina sotto la finestra e si sfilò le scarpe. Sulla seduzione aveva tutto da imparare. Antonio, più avvezzo, mise su un lento e la invitò a ballare. Gli andò incontro. Falling di Harry Stiles. «Mi hai stregato, sei bellissima, possente, ti voglio. Ora.» «Io…» «Non dire nulla, non mi interessa. L’ho vista la fede al dito, cosa credi? È che non me ne frega niente». Irene a tutto stava pensando tranne che al marito. Pensava al sesso dell’era mesozoica, alle precauzioni da prendere, ai peli che non si era tirata via. Lui le sfiorò le labbra al lato sinistro, le prese il mento e lo tenne nella sua mano mentre la baciava tutto attorno; poi quando sentì le labbra di Irene schiudersi, si insinuò in lei voracemente. Le slacciò la zip posteriore del vestito e la spinse sul suo letto. «Accavalla le gambe, fatti guardare», le ordinò perentorio. In piedi davanti a lei la scrutò come non avrebbe potuto in posizione verticale. «Ti voglio, tutta». Le iniziò a baciare le caviglie, mentre con una mano si infilava tra le sue gambe, guardandola di tanto in tanto. Irene rivolse indietro la testa.
A un certo punto lui le si sdraiò sopra, mentre lei rimase ferma. Non lo accarezzò, non si mosse. Muta. Nei suoi occhi c’era lei diciottenne alla sua prima volta, c’erano Diego, Valentino, il suo corpo sempre più piazzato, il lavoro, le mutande strappate, lo sconosciuto che si muoveva su di lei, che ansimava, che le stringeva le natiche tra le mani. Le si abbandonò sopra per poi scivolarle accanto. «Sei bellissima», abbracciandola e poco dopo aggiunse: «quel nodulo a destra immagino non sia nulla di importante». «Grazie… No, tranquillo, no». Ma … grazie di che? ‒ pensò mentre gli sussurrava: «Ora, se non ti spiace, vado». «Non andare, dormi qui con me». «No, preferisco andare, grazie». Lo baciò, si rinfilò nelle sue comodità e chiuse la porta dietro di sé. Nodulo? Non aveva mai fatto un’ecografia mammaria. Si toccò, lo sentì per la prima volta sotto i suoi polpastrelli. C’era. Forse, allora, era il caso di farsi controllare. Però. Aveva scopato. Con un uomo che non era il marito. Dopo cinque anni. Soltanto in quell’attimo realizzò. E sulla pelle affiorarono violenti i brividi che non aveva avvertito mentre accadeva. Quella notte non dormì e non fu per i sensi di colpa.
5. Diede un’occhiata al navigatore: per raggiungere la pizzeria sulla Tuscolana verso mezzanotte, era necessario mettersi in moto tre quarti d’ora prima. Presumibilmente, trattandosi di un martedì sera, non avrebbe trovato traffico, per cui pensò di recarsi a cena dai suoi, attendere che Valentino si addormentasse, e infine ritornare nella propria abitazione a indossare qualcosa di più adatto all’occasione. Si programmava mentalmente le giornate, in modo quasi maniacale, Irene: ogni attimo veniva misurato, scolpito. Non voleva starci nei buchi. Non sapeva starci, per cui bandiva qualsiasi intermezzo tra un impegno e l’altro. Per quell’appuntamento aveva acquistato, il giorno prima, una tuta di rete nera smaccatamente provocante, con calze e corpetto tessuti in un unico pezzo di lingerie. Strategie tese a tenere coperto il seno fino all’ultimo. Prestò attenzione a indossare gli slip sopra la tutina, così che lui li potesse sfilare senza dover togliere il resto. Optò infine per una blusa bianca e una gonna di pelle dal ginocchio, con stivali aderenti anche essi di pelle nera, tacco a spillo. Quando a mezzanotte arrivò a destinazione, la serranda era abbassata per metà, come lui le aveva anticipato per messaggio. Bussò tre volte, ligia agli accordi presi; da dentro proveniva una luce tenue, mentre le lampade della sala principale sembravano spente. Evidentemente quel chiarore era soffuso da un ambiente limitrofo. Sbucò un tipo da sotto la serranda. Alto, un po’ rotondetto, ma con il viso corrispondente a quello della foto che le aveva inviato, circostanza insolita quanto rassicurante. «Ciao, benvenuta! Mi chiamo Pasquale». «Piacere, io sono proprio Irene, invece». L’accento di lui era smaccatamente campano. «Sì, sai, per evitare problemi, utilizzo sempre un altro nome…» «Non aggiungere altro, va bene così, Pasquale, Claudio o in qualunque altro modo tu voglia essere chiamato».
«Dai vieni, ci beviamo un calice di passito e se ti va c’è una pastiera che ho preparato io. Sono un campione nei dolci napoletani». Irene si abbassò per entrare e non appena furono all’interno, lui chiuse energicamente la saracinesca. La sala era quasi totalmente buia e la luce fioca filtrava sulla sala centrale, in effetti, dall’adiacente cucina a vista. Una pizzeria semplice e pulita, con un’apparecchiatura minimale. «Fai il pizzaiolo?» «Sì, e sono anche il proprietario del locale; molti sacrifici, ma mi ritengo soddisfatto, ti piace?» Irene si limitò ad annuire, evitando commenti. Odiava i convenevoli. Le fece strada dirigendosi verso la cucina. Lei, mentre camminava dietro a quello sconosciuto, in un posto serrato, senza agevoli via di fuga a disposizione, non avvertì la minaccia di alcun pericolo, forse perché era l’altro pericolo, quello dell’intruso che le si era rintanato dentro da mesi, a tenerla ferma in pugno, così tanto che evidentemente si era anestetizzata a ogni altra forma di rischio. Camminava dunque, animata da una carica piuttosto febbrile. Lo seguì, stando ben attenta a mostrarsi disinvolta. E la battuta sempre pronta le era generalmente di aiuto. «Avresti potuto invitarmi a cena comunque… dovrai rimediare, non mi accontento mica di una pastiera, vediamo cos’altro hai da tirare fuori». Lui non se lo fece ripetere due volte. La prese e di peso la spinse verso il bancone da lavoro in acciaio. Era libero e pulito. Senza troppi preliminari se la scopò lì. Le sfilò solo il brasiliano, come Irene aveva previsto. Rapido e indolore. «L’avevo detto che non ti eri e non ti saresti sprecato». «Ma chi ti credi…» «Fossi in te cercherei di migliorare certe tecniche, su quelle culinarie saprai il fatto tuo, ma sul resto ‒ lasciatelo dire ‒ sei davvero deludente». «Troia». «Se sono irresistibile come quella Elena di Troia, non male. Lo prendo come un complimento.» «Eh? Ma che dici?» Irene, imperturbabile, afferrò la fetta di pastiera dal vassoio e si incamminò verso la porta d’uscita smangiucchiando priva di qualsiasi
grazia. Lui, innervosito, riaprì la serranda e con la stessa vigorosa energia, senza rivolgerle la parola, la richiuse davanti a sé. Entrata in auto, Irene mandò un messaggio a Emma: «Tutto ok, sto tornando a casa. A domani».
6. Di quella seconda notte con Antonio avrebbe ricordato ogni dettaglio. Dopo la lunga giornata trascorsa in visita alla Maddalena, ad attenderla in albergo trovò un’estetista pronta a metterle a posto tutte quelle cose di cui, da tempo, non si era più curata. Aveva acquistato un abito stretto, lungo, con una spaccatura centrale subito dopo aver chiesto ad Antonio di raggiungerla nella sua stanza a fine serata. Lui si era presentato con i capelli interamente cosparsi di gelatina, una camicia grigia a maniche lunghe, aperta fino al petto, un paio di pantaloni neri di scarso valore. Non lo aveva capito se quell’uomo l’attraeva, ma l’idea di fare sesso di nuovo, sì, quella la attraeva di sicuro. Questa volta ci sarebbe stata dentro, voleva godersi l’attimo senza portare il pensiero altrove. L’inattesa situazione che si era delineata tra loro due aveva ridestato aneliti che pensava assopiti per sempre. Era donna, aveva un corpo che, pelle a pelle con un altro corpo, poteva vibrare ancora. Senza troppi fronzoli, appena entrato, lei prese a baciarlo, gli slacciò i pantaloni e lo spinse sul letto, poi si accovacciò davanti a lui che fece appena a tempo a sussurrare un “Ehi…” Antonio, dapprima, le cercò con una mano il seno destro, stringendolo con eccessiva foga, mentre con l’altra le accarezzò i lunghi capelli, poi la tirò su per le braccia. Era un’altra, Irene, rispetto alla sera prima. Lei gli si distese sopra e non preoccupandosi dell’uso di precauzioni si lasciò penetrare. Due lauree, master a non finire per poi rilasciare la sua vita così, senza neanche un tentennamento. Questa volta il suo spazio interiore coincise con quello delle quattro pareti: le lenzuola profumate di fresco, la camicia non sfilata di Antonio, le espressioni volgari che quella sera lui pronunciò al fine di eccitarla. E le piacque, le piacque unirsi a uno sconosciuto, seppure basso e non troppo affascinante, ma che sembrava avere occhi solo per lei, quasi la amasse già. Doveva farlo suo. E tenerselo. Solo così avrebbe dato avvio a una nuova fase della sua vita.
«Rimani qui da me stanotte». Non se lo fece dire due volte Antonio che si era già addormentato accanto a lei, con le sue braccia a tenerla stretta. Irene non riuscì a dormire neanche quella notte, in realtà; la trascorse interamente a progettare ogni passaggio. Concretezza tipica femminile. Fece mente locale sui tour brevi che aveva in programma fuori Roma nel mese successivo: avrebbe avuto modo di incontrarlo nei fine settimana, lontano dalle rispettive case, nelle più belle città italiane. Da Cagliari, in un’ora di volo, Antonio poteva essere ovunque. Le avrebbe riscoperte quelle città alla presenza di lui, le avrebbe attraversate e odorate di luci nuove. Un sogno, un segno. Prima, però, si sarebbe sottoposta a quell’ecografia mammaria, per starsene più tranquilla ora che una parvenza di felicità era a portata di freccia. E di lì a poco avrebbe parlato a Diego per fare chiarezza sul loro matrimonio. La sera successiva fu l’ultima che lei e Antonio trascorsero insieme prima del rientro di Irene a Roma. Finalmente dormì un sonno profondissimo, abbandonandosi del tutto a lui. Il fatto che fossero bastati due giorni per affidarsi a uno sconosciuto, nelle settimane seguenti alimentò in lei l’idea che quel rapporto dovesse avere qualcosa di magico, esclusivo. Quando l’indomani, all’alba, si risvegliarono, fecero ancora l’amore, e prima di salutarsi lei gli illustrò le sue prospettive per proseguire la relazione anche a distanza. «Il prossimo fine settimana andrò a Napoli per un tour, dovrei staccare dal gruppo sabato in tarda mattinata, giusto il tempo di metterli sul treno e poi, via, a goderci la città, io e te. Che te ne pare?» «Penso che tu sia folle… e tra l’altro, mi sembra di aver capito che sei sposata, o sbaglio?» «Ora te ne preoccupi? Non perdiamo tempo, che devo andare in aeroporto. Io sarò lì da giovedì, tu quando potresti raggiungermi? Stavo pensando di prenotare una stanza in un albergo dietro Piazza del Plebiscito, sono certa che ti piacerà». «Sei un tir, non ti fermi davanti a nulla e io ti trovo, anche per questo, irresistibile. Diciamo che potrei arrivare venerdì sera e ripartire domenica pomeriggio, che ne pensi? «Perfetto, allora è tutto deciso». Sfilò dalla valigia un corpetto rosso che aveva comprato il giorno prima e glielo passò. «Questo per non dimenticarti del profumo della mia pelle».
Lui la strinse forte a sé. «Allora a venerdì, e tu avvisami quando atterri a Roma». C’era qualcuno ora che pensava a lei come donna e nel farlo Irene diventava sottana di raso, tempo leggero, fresco desiderio.
7. Quando, nel tardo pomeriggio, rientrò a casa, Diego le andò incontro come sempre, ma poi si fermò, la guardò e in un attimo capì: «Ma che hai fatto? Quel sorriso, il trucco… tu sei andata a letto con qualcuno, non è vero?» «Lasciami stare, sono stanca». «Forza, dimmelo. Tutta imbellettata, da dove vieni? Hai un’espressione che non ti vedevo da anni». «Ti ho mai chiesto nulla, io, di tutti i tuoi sorrisetti? Allora lasciami in pace e fammi godere questo momento». «I miei sorrisetti? Negli ultimi anni non hai fatto altro che volgermi le spalle. Sai benissimo che sei l’unica donna che amo, eppure continui a denigrarmi, a schivarmi tra le lenzuola; sono ancora tuo marito, te lo ricordi?» «Certo, almeno quanto tu ricordi che sono tua moglie ogni volta che ti infili nel letto di altre donne». «Hai il coraggio di lamentarti se mi sono cercato un po’ di piacere altrove, dal momento che avevi smesso di fare l’amore con me?» «Avresti dovuto cercare di riconquistarmi invece!» «Smettila Irene, sei ridicola, io le ho provate tutte e tu anziché recuperare con me, te ne sei andata con un altro?! Davvero basta. Non aspetterò ancora. Sai che c’è? Hai reso la decisione ancora più semplice, io me ne vado. Mi sono stufato dei tuoi rifiuti. Non subirò altre umiliazioni. Goditi pure il momento, ora!» «Non scaricare su di me le tue scelte. Se te ne vuoi andare, quella è la porta. Chiudila bene però e poi … fottiti!». Diego, così come era vestito, se ne andò, senza portarsi via nulla e sbattendo vigorosamente la porta dietro di sé. A Valentino avrebbe spiegato con calma, in un altro tempo, in un altro linguaggio, cosa stava accadendo. Ora non era il caso, perché Irene, con i suoi sbalzi d’umore, serpeggiava con le parole, rendendo imprevedibile ogni umana reazione, meglio far passare qualche giorno.
D’altronde spesso Valentino aveva dormito nel letto con la madre, mentre Diego era stato relegato nella sua stanzetta; il sentore che le cose tra di loro non andassero per il verso giusto, quel figlio, doveva averlo già annusato. Irene mandò giù il saporaccio della discussione con Diego immaginando il successivo weekend a Napoli. Per qualche inspiegabile ragione non riusciva a preoccuparsi troppo per lo scontro con il marito, le uniche immagini che le scorrevano nella testa erano quelle dei giorni precedenti. Stappò una tonica, la bevve tutta d’un sorso, poi si distese sul divano. Non era pratica, ma dopo aver smanettato un po’, le sembrò di aver scattato un selfie con posa vagamente provocante, che inviò ad Antonio insieme a un messaggio esageratamente sdolcinato. Lui rispose con delle frasi tutt’altro che sdolcinate. Era d’improvviso diventata famelica, Irene. L’indomani si recò dal suo medico di base. Non era troppo preoccupata per quel nodulo, perché in fondo non aveva avuto mai alcun tipo di fastidio e poi aveva in circolo l’euforia della storia con Antonio che si distendeva in ogni angolo del corpo. Gli riferì di quella pallina dura che aveva avvertito alla base del seno destro. Il dottore, dopo averla sommariamente visitata, le prescrisse un’ecografia mammaria, e, visto che Irene non ne aveva mai fatte, si raccomandò che non lasciasse trascorrere troppo tempo. Irene, più per depennare l’incombenza che per altro, preferì recarsi, il pomeriggio stesso, in un ambulatorio privato vicino casa. Il verdetto, però, fu spiazzante quanto inequivocabile. Il senologo che effettuò l’esame le spiegò che c’erano delle calcificazioni diffuse e la vascolarizzazione e la forma del nodulo non lasciavano troppi dubbi sulla malignità della lesione. Si doveva sottoporre quanto prima, in ogni caso, a una risonanza magnetica nucleare. Le prospettò, infine, senza mezzi termini, l’urgenza di un intervento. In poche ore i progetti di ristrutturazione della sua esistenza, che aveva appena avuto il tempo di abbozzare, erano già stati messi al bando. Di fronte all’imprevisto di una patologia così impegnativa, in mente le venne Diego, suo marito, non Antonio che pure l’aveva messa in condizione di scoprirsi e in assenza del quale mai sarebbe arrivata a quella nuova terribile consapevolezza. Era malata a sua insaputa, chissà da quando; si era così abbandonata al ritmo di vita rattoppata che neanche si era resa conto di avere note inceppate a risuonarle dentro.
Con la mano che nervosamente si palpava, andando a caccia di quella creatura infestante, lo chiamò. «Diego, torna a casa, devo parlarti». «Irene, non complichiamo le cose, ormai ho deciso, vado via; voglio spiegare tutto a Valentino, domani stesso, se per te va bene». «Diego, ascoltami, ti prego». «Mi cerco un appartamento vicino a voi, ma non torno a casa; per ora mi appoggio a casa di Franca, così non ci stiamo tra i piedi». «Diego, komm zurück, bitte». Silenzio. Quando avevano qualcosa di intimo, di improrogabile da confidarsi, si parlavano in tedesco, in memoria del periodo splendido che avevano condiviso dopo le nozze, quando avevano mollato i lavori occasionali che svolgevano e la casa regalatagli dai rispettivi genitori, per trasferirsi a Berlino. Si erano donati due anni di intimità profonda. Parlarsi in tedesco era il modo che adottavano per mettere un punto a discussioni sterili o per chiedersi aiuto, quando nella propria lingua sarebbe stato troppo arduo farlo per orgoglio o imbarazzo. Il silenzio, dall’altro capo del telefono, durò pochi secondi. Diego rispose con un asciutto, istantaneo “arrivo”. Precipitatosi a casa, trovò Irene sciolta in un lungo pianto sul loro letto, che gli raccontò, con il capo chino, dell’esame diagnostico e delle prospettive all’orizzonte. Lui raggelò, la strinse immediatamente a sé, così forte, da farla sentire sigillata in un guscio e poi: «Io resto qui, non vado da nessuna parte. Sarò la tua colonna, sempre. Hai capito Irene? Sei mia moglie, la donna che ho scelto, la donna che amo». Lei annuì e gli sfiorò le labbra con le dita. «Ora forza, prenotiamo questa cazzo di risonanza».
8. Nel mese successivo, durante il quale arrivarono la risonanza, le consulenze, il verdetto e la messa in lista per l’intervento, Irene non venne meno a un solo weekend con Antonio. Diego rappresentava il porto sicuro dentro casa, Antonio quello nell’altrove. Fu quest’ultimo, però, la molla che la tenne in galleggiamento nelle incognite di quelle ore; fu l’oasi incontaminata in cui prendere fiato. Ogni tempo dedicato alla scelta dell’itinerario, alle prenotazioni, alla selezione dei capi da mettere in valigia era tutto tempo gelosamente sottratto all’intruso e messo in avanzo per lei. In una contesa ad armi non pari. Antonio, dal canto suo, se al primo weekend ‒ quello programmato a Napoli ‒ si era mostrato entusiasta, e anche al secondo era apparso apparentemente contento, già al terzo manifestò visibili segni di insofferenza. La mattina prima di ripartire per l’isola provò con dolcezza a spiegare le sue difficoltà: «È pur sempre un viaggio, Irene, io ho un lavoro da svolgere, e sinceramente mi sto sobbarcando troppe spese aggiuntive; rallentiamo, ci sono anche i miei genitori di cui occuparmi, hanno ormai una certa età, svariati acciacchi e non posso mollarli così spesso» e giù di lì. Lei, però, non si lasciò intimorire; fece leva sulla sua malattia, sul futuro incerto e disperato che l’attendeva, su come il suo corpo sarebbe, a breve, potuto franare, e su come, invece, quell’amore rendeva possibile ogni battaglia; una sorta di trappola emotiva innescata per stimolare la fabbricazione di sensi di colpa; così Antonio un po’ cedette, un po’, tuttavia, preferì continuare a godere delle attenzioni di un’intrigante donna matura che prenotava e pagava per entrambi nei più eleganti alberghi, nei ristoranti più lussuosi. Era consapevole di subire il fascino di quella voce da cui poteva mutuare i segreti delle città italiane delle quali lui, autoconfinatosi dalla nascita in terra sarda, poco sapeva. Al quinto weekend, quando Antonio aveva provato telefonicamente a opporre debole resistenza a incontrarsi, lei gli aveva regalato il biglietto aereo per raggiungerla a Roma, a casa sua. Aveva infatti convinto
Diego a partire con Figlio per andare a trovare i genitori che vivevano in Umbria. Ho bisogno di qualche giorno da sola, lo faresti per me? … Starò bene, è solo che tenere tutto stretto dentro per evitare che Valentino capisca è impegnativo… Mi bastano tre giorni senza dovermi preoccupare di nulla, puoi farlo? Così Irene si era garantita casa libera per ospitare Antonio, nessuna remora a condividere uno spazio intimo, che fino ad allora era stato familiare, con un semisconosciuto. Quando Antonio arrivò, non si lasciò facilmente andare a moine, pareva infastidito, quasi a disagio. Irene intanto aveva pensato a ogni dettaglio: per iniziare, una romantica cena a lume di candela in un elegante ristorante sul lungomare; per l’occasione indossò il vestito più sexy e bevve, quella sera, oltre le sue abitudini, nel tentativo di indurre pure lui a bere smoderatamente perché si sciogliesse un po’; nella distanza ‒ pensò Irene ‒ si era un po’ perso, l’aveva un po’ persa; rientrati a casa, dopo aver fiaccamente fatto l’amore, Antonio le comunicò che proprio non ce la faceva, che era finita così, che era stata l’ultima volta, quella, perché c’era un’altra donna in Sardegna ad aspettarlo, e che lei doveva lasciarlo andare. Magari un giorno, chissà, si sarebbero rivisti. Lasciar andare. E come si impara? A Irene non era mai capitato. Staccarsi definitivamente da un pezzo di sé, rinunciare alla dolcezza che ignorava di poter esprimere, alla spensieratezza con cui aveva costruito ogni stanza da letto in cui si erano incontrati. Si era riscoperta ‒ grazie a lui ‒ femmina e non era plausibile che l’altro non condividesse il suo stesso ardore. Era stata attenta, aveva speso e si era spesa, e ora lui pretendeva di mollarla così. E per chi poi? Una ragazzetta provinciale che mai avrebbe potuto competere con una colta e raffinata benestante come lei. Non gli credette, in alcun modo. Era solo una balla per non ammettere che faceva fatica a gestire la distanza. Rincarò la posta in gioco e perseverò nella strada del ricatto. «Sei un buffone, dicevi di amarmi e io ti ho dato retta tanto da avviare le pratiche della separazione per stare con te. Ti rendi conto? E ora vorresti lasciarmi? Ma hai dimenticato che ho un tumore? Che potrei morire? E che a causa tua, a causa del dolore che mi infliggi, potrei aggravarmi? Sei un assassino, ecco cosa sei!». Giù il sipario. Antonio ascoltava incredulo, ma in ogni caso profondamente scosso.
«Irene, cosa blateri? Sono stato io a individuare quel nodulo! Se non fosse stato per me, neanche te ne saresti accorta. Dovresti ringraziarmi piuttosto, perché ora potrai curarti e riprendere in mano la tua vita». «Io ti voglio, non puoi lasciarmi proprio ora, vuoi capirlo?!» «Irene, ci conosciamo a malapena, io non ti ho fatto alcuna promessa, mai! Se hai dei problemi di nervi e pensi di mandare a monte un matrimonio dopo qualche notte di sesso, allora oltre al seno, cara, dovresti farti controllare anche il cervello. È meglio che vada adesso. Non complichiamo le cose, fai un favore a entrambi e prenditi cura di te». «Sei solo un cazzo moscio, non vali nulla. Tu prova a uscire da quella porta e non mi rivedrai più». Irene urlava, strepitava, lo stringeva, lui si barcamenava come poteva; alla fine si gettò sul letto piangendo disperatamente e in quel mentre Antonio, esausto, ne approfittò per sgusciare via. Poi sopravanzò il tempo dell’attesa dell’intervento e, in quell’arco temporale, non mancò un solo giorno in cui non lo inondò di insulti, improperi, minacce; intuì, attraverso delle foto sui social, che non le aveva mentito e individuata chi fosse la donnetta che l’aveva sostituita, le mandò un lungo messaggio in cui le raccontò di quello che Antonio le aveva fatto subire. «Sta’ attenta, lui mi ama e mi cercherà ancora. Con te sta solo giocando, ti usa perché non riesce a vivere lontano da me». Aveva appena scoperto anche l’identità della madre di lui, quando si ritrovò bloccata su ogni canale. Ci mise tempo a chiudere quella parentesi, ma si assolse con un rapido e indolore colpo di spugna: indubbiamente era stato l’intruso a dettarle quei comportamenti che lei mai aveva e avrebbe adottato. E ciò che rendeva più insopportabile la sua condizione era che nessuno riuscisse a capirla. Arrivò, a distanza di poco, il primo intervento, poi, a seguire, l’infezione della membrana che le avevano innestato, il secondo intervento al seno destro: un seminato di cicatrici su cicatrici; fu proprio quando stava per completare la parte chirurgica, che i medici le comunicarono che l’intruso si era già infilato nell’altro seno e così via, altri interventi, cinque in tutto, con un seno deturpato per sempre. Le salvarono i capezzoli, ma tutto attorno era un campo minato, sentieri sulla carne che solcavano e sporzionavano la pelle che cedeva da una parte, e anche dall’altra, e dall’altra ancora. Senza forma. Senza
contorni. Senza una densità piena. Ciò che di più lontano potesse essere dalla grazia e di più vicino all’orrido. A volte, nella sua stanza, guardandosi, le sembrava che da quel seno provenisse puzza, un nauseante odore di marcio che le causava il voltastomaco; e anche se provava a chiudersi le narici tra le dita, poteva sentirlo ancora e anzi le tornavano a galla tutti i cattivi odori della sua esistenza. Il bruciato dell’uovo al tegamino preparato a otto anni di nascosto, mentre i genitori si trovavano nell’orto. Quello di chiuso, polveroso, incellofanato, degli alloggi dei primi viaggi quando non poteva permettersi di meglio. Di sudore fermo nei panni di Figlio, dopo l’allenamento di tennis, buttati in un angolo della stanza. Di amuchina: quando aveva capito che Diego la tradiva e si era disinfettata di gel ogni centimetro di pelle per venirne via. Di alito cattivo: quello che sa di sbronza, di alcuni sconosciuti con cui era andata. Il seno sapeva di una mistura rancida, eppure non poteva gettarlo nell’umido come aveva fatto con certi cattivi ricordi. Ce l’aveva appiccicato addosso. Forse per sempre. Fine anteprima. Continua…
INDICE 1. .................................................................................... 7 2. .................................................................................. 11 3. .................................................................................. 15 4. .................................................................................. 19 5. .................................................................................. 24 6. .................................................................................. 27 7. .................................................................................. 30 8. .................................................................................. 33 9. .......................... Errore. Il segnalibro non è definito. 10. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 11. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 12. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 13. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 14. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 15. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 16. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 17. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito. 18. ........................ Errore. Il segnalibro non è definito.
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Postfazione .......... Errore. Il segnalibro non è definito. Ringraziamenti .... Errore. Il segnalibro non è definito.