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NICOLA VALENTINI I SETTE ANGELI ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ I SETTE ANGELI Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-642-1 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2024
A Chiara, a Laura, a Silvia
7 PROLOGO Il passato non ci abbandona mai per davvero. Siamo legati a esso, ma anche a quello di chi abbiamo vicino. Ognuno di noi porta con sé una storia, e s’intreccia con le altre, allo stesso modo in cui s’incontrano le nostre vite. Non lo vediamo, però il passato è sempre lì, in attesa che i ricordi lo riportino in superficie; e una volta riemerso, può capitare che niente sia più come prima, che quello che avevamo imparato ad accettare non sia più gradito, o che l’equilibrio che avevamo trovato non sia più stabile. Il passato non muore mai.
CAPITOLO 1 Milano, ottobre 2010 L’insegna dichiarava che il locale si chiamava Iris, ma qualche burlone, con della vernice spray aveva corretto la I iniziale in T, e aveva aggiunto in fondo le lettere T ed E, trasformando il nome in Triste, ritenendolo più adatto alla sua atmosfera, molto lontana da quella festante e alla moda che si poteva respirare sui Navigli o in Brera. L’Iris bar sorgeva nel quartiere Barona, incastonato tra l’autostrada dei Giovi, la via Rossa Bianca e i campi da calcio della Pro Barona. Il locale infatti, era come al solito quasi deserto, se si escludevano i cinque uomini e la chiassosa comitiva di sei ragazzi qualche tavolo più in là. Qualcuno che non conosceva il posto avrebbe pensato che la causa di quel mortorio fosse la pioggia, che aveva spazzato via la lunga estate e svuotato i locali, oppure la posizione periferica; altri potevano incolpare la concorrenza del bar all’interno dei campi sportivi, ma una volta dentro, era facile intuirne la reale causa. “Bring Me to Life” degli Evanescence provava a fare compagnia ai pochi presenti e a movimentare la serata, la voce struggente di Amy Lee si alternava ai latrati di Troy McLawhorn, eppure le pareti restavano bisognose di una rinfrescata, i pavimenti continuavano a reclamare una profonda ripulita, e i tavoli e il resto degli arredi in attesa di ricevere il cambio. Poi c’era Arnaldo, il proprietario. Forse era stato proprio lui a spingere i buontemponi a correggere l’insegna. Era alto e parecchio magro, la faccia scavata e incorniciata dai capelli scriminati in mezzo, lisciati e incollati da una generosa dose di gel, e poi i sottili baffi neri; in ogni stagione indossava occhiali da vista tondi dalle lenti scure, che facevano a cazzotti con il colore pallido del suo viso; in molti erano convinti che avrebbe potuto interpretare lo iettatore Rosario Chiarchiaro al posto di Totò nell’episodio “La patente”. I cinque uomini erano già al terzo giro di Tequila e l’alcol cominciava ad alterare gli umori di tutti loro, a parte uno. Si chiamava Lorenzo, sembrava il più giovane del gruppo e di sicuro era il più equilibrato. Conosceva i suoi compagni, tuttavia quella era la prima sera che trascorreva in loro compagnia. Sapeva benissimo chi erano e cosa
facevano nella vita: una di queste era rifornirlo di qualche dose di cocaina ogni tanto. Ne era un consumatore saltuario, in ogni caso, se la sua abitudine fosse stata scoperta dalla madre, sarebbe stata sufficiente a farlo sbattere fuori di casa. Eppure non riusciva a smettere. Ogni volta si riprometteva che sarebbe stata l’ultima, salvo poi ricredersi perché, in fondo, c’erano cose ben più gravi di una tirata; e poi si trattava di un problema di poco conto in rapporto ai benefici che ne ricavava. Lorenzo avrebbe fatto volentieri a meno della compagnia di quei quattro, ma non si era potuto sottrarre al loro invito, altrimenti la madre sarebbe venuta a conoscenza del suo peccato e allora addio pace, e soprattutto addio al suo portafoglio e, di conseguenza alla bella vita. E poi le voleva un mondo di bene. Sapeva quanto aveva sofferto, e sapeva anche che lui rappresentava l’unica cosa di cui andava fiera. Non poteva e non voleva deluderla. Doveva stringere i denti e dare loro ciò che volevano: un’informazione. Volevano conoscere il luogo in cui si nascondeva una persona, solo per scambiare qualche parola, gli avevano detto. Quel luogo era sconosciuto ai più perché l’anonimato serviva a proteggere le persone che vi risiedevano, tutte donne, tutte vittime di svariate violenze. I quattro psicopatici volevano incontrarne una in particolare, e sarebbe durato il tempo necessario a lasciarle un messaggio. In teoria, la missione si sarebbe limitata a impaurirla per farle comprendere che era giunta l’ora di dare un taglio a pretese e minacce. Poi sarebbe stato libero di tornarsene a casa dalla madre e questa volta – giurò a se stesso – sarebbe stata quella buona per smettere con le sostanze. Intanto, però, gli toccava la panca di legno dell’Iris, scomoda, ciondolante e appiccicosa; e sopportare il loro linguaggio osceno, i discorsi privi di senso e guardare le brutte facce che si portavano appresso. Si era illuso di riuscire a liberarsene in breve tempo, invece avevano stabilito che prima di passare a salutare la donna, avrebbero trascorso tutti quanti qualche ora insieme, come vecchi amici, a bere e rinsaldare lo spirito di corpo, come fanno i soldati. “Chissà se sono stati l’alcol e la droga a fonderne i cervelli o se erano già fusi di loro”, si ritrovò a pensare mentre li osservava. “E chissà se anche il mio cervello rischia la stessa fine se non la smetto con la droga” si disse preoccupato.
Mentre formulava dubbi e pensieri, infilò una mano dentro la felpa e tastò la catenina che portava al collo; raggiunse il crocifisso e lo toccò con pollice e indice, in un gesto che compiva ogni volta che aveva bisogno di conforto; non era un vero credente, tuttavia il contatto con quella croce nera e rifinita in argento, riusciva a trasmettergli pace. Inoltre era un regalo di sua madre, e aveva la particolarità di potersi aprire in due. «Un giorno ne donerai la metà a chi vuoi proteggere» gli aveva detto lei. Come aveva sperato, la croce riuscì a consolarlo. Osservò il gruppo di sottecchi. Avevano un umore instabile: un attimo erano allegri e loquaci, quello dopo s’incupivano e restavano silenziosi. Sembravano amichevoli, perfino divertenti e simpatici poi, d’un tratto, diventavano minacciosi. Così era successo nel locale in cui erano stati prima dell’Iris con quello che si faceva chiamare Maicon: avevano riso e scherzato, si erano dati le pacche sulle spalle fino a quando il balordo, senza alcun preavviso, lo aveva afferrato per la gola e attaccato contro il muro, intimandogli di non prendersi più certe confidenze. Lorenzo era ancora roso dalla rabbia per quel gesto vile, violento e senza senso, e peggio, non aveva compreso a quali confidenze si fosse riferito il mentecatto; di sicuro, da quel momento era stato ben attento a non offrirgli il minimo pretesto per un altro scatto, limitandosi a rispondere a monosillabi. Dal canto suo, Maicon aveva continuato a rivolgersi a lui con tono allegro e amichevole, quasi non fosse successo nulla. Guardò nervoso l’orologio e sospirò quando i quattro ordinarono un altro giro. Significava che la tortura era ancora ben lontana dal concludersi. Li osservò di nuovo e per ammazzare il tempo provò a stabilire chi fosse il più suonato. C’era quello minuto che s’intendeva di motori e che passava le giornate chiuso in un garage a modificarne e ripararne di ogni tipo, ovviamente quando non era impegnato a delinquere. Aveva le unghie contornate di nero, il colore del grasso e dell’olio che maneggiava ogni giorno. Aveva il pizzetto e lo zuccotto calato sopra la testa; gli altri lo chiamavano Squarcio, per via del cognome, Scarci, ma anche per la cicatrice che gli aveva squarciato una guancia. Sembrava soffrire di qualche morbo che lo costringeva a un moto perpetuo, una sorta di ballo di San Vito; le punte dei piedi erano incollate sul pavimento e facendo leva con quelle, oscillava le gambe su e giù in un tremolio continuo e snervante.
Poi c’era il tizio con i capelli rasati e il naso da pugile. Era quello che lo disgustava più di tutti perché aveva l’abitudine di sputare. Parlava e sputava. Rideva e sputava. Fumava e sputava. La sua principale caratteristica fisica era la pelle butterata dall’acne. La sua faccia ricordava un terreno cosparso di buche causate dall’esplosione di qualche ordigno; soffermandosi, invece, sui punti del viso in cui i peli della barba spuntavano in mezzo a quegli stessi fori, si aveva l’impressione di guardare una distesa di sabbia disseminata da rovi. Di lui sapeva che era una sorta di maniaco soggetto a ossessioni di qualunque tipo: era consigliabile non attirarne l’attenzione, e in quel momento, a loro insaputa, c’erano riusciti i sei ragazzi dell’altra comitiva. Li stava fissando in modo ostile. Era noto anche per la suscettibilità e, ancor di più, per la gelosia: per questo era conosciuto come Otello. Aveva una lunga lista di aggressioni a danno di persone che si erano soffermate a osservare la sua ragazza un attimo di troppo; quella sera, però, lei non c’era. «Che cazzo ha da guardare?» chiese, rivolgendosi a nessuno in particolare. «Chi?» s’informò con noncuranza quello che era noto per essere il “capobranco”. Aveva i capelli biondi, lunghi e lisci, e spesso indossava sulla fronte una bandana; si faceva chiamare Axl, come il suo idolo musicale. Osservandolo si capiva subito che era lui il leader dei quattro: si poteva percepire la sua pericolosità nonostante i bei lineamenti, si poteva quasi respirare. Piaceva moltissimo alle donne per via del suo look da rockstar, ma anche per come si muoveva; parlava in modo calmo e la voce roca era quasi un sussurro. Sensuale era la parola più adatta a lui. I tratti quasi angelici e i modi tranquilli non dovevano ingannare, era conosciuto nell’ambiente per essere spietato, perfino con gli amici e i conoscenti di lunga data. All’interno dell’inseparabile giacca di pelle, che a seconda della stagione poteva essere corta o lunga, liscia o borchiata, nascondeva il suo strumento di minaccia preferito, un coltello modello militare, costituito da due diverse lame, una liscia e affilata, l’altra seghettata. Se ne prendeva cura in modo costante, ed era noto che non si limitasse alle minacce. In attesa della risposta di Otello, Axl si chinò sul tavolo e sniffò una lunga striscia di cocaina. «Quel merdoso» rispose l’amico, indicando il tavolo con i sei ragazzi. Axl si sollevò che era ancora intento a tirare con il naso, gli occhi lucidi; quindi si voltò verso il punto indicato dall’amico e li osservò: quattro
ragazzi con le facce pulite e gli abiti di marca, e due ragazze nemmeno troppo carine. Quello che stava indicando Otello, aveva la faccia dello studente universitario. “Che cazzo ci fanno in un posto come quello?”, si chiese. Li poteva quasi vedere, bere in un pub in zona Bicocca, per poi passare la serata agli Arcimboldi con altri figli di papà come loro. «Quello pieno di brufoli?» chiese poi Axl con il consueto sussurro. «Se gli dai due schiaffoni, si mette a sparare ancora caramelle dal culo» s’intromise Maicon. Lorenzo aveva scoperto quella sera il perché del suo nome: un omaggio a un calciatore dell’Inter, la sua squadra del cuore; non c’era alcuna somiglianza fisica con lui e non ne condivideva nemmeno le caratteristiche tecniche, si trattava di semplice ammirazione. «Fra’, io gli darei una bella lezione» insistette Maicon. «Lascia perdere» commentò Axl mentre stendeva sul tavolo una nuova striscia bianca. «Non siamo qui per questo» aggiunse un momento prima di chinarsi. Otello lo guardò e sembrò convincersi. «Femminucce, fate bere solo me? Siete già full?» urlò Squarcio mentre Axl risorgeva dalla sua sniffata. Lorenzo scrollò la testa davanti alle loro esibizioni degne di uno spettacolo da baraccone. Adesso stavano ridendo e la tensione sembrava calata, o addirittura non esserci mai stata. Otello si era dimenticato di quello che lo fissava, i bicchieri erano pieni di nuovo, e loro pronti a svuotarli in un solo colpo. Riempirono anche il suo, e quando parve tergiversare, calò un silenzio carico di tensione. Axl spinse il bicchiere dalla sua parte e lo fissò; non aveva altra scelta che unirsi al brindisi. Quando prese il drink, la tensione si sciolse all’improvviso e tutti tornarono a sorridere. «Alla nostra, brothers» propose Squarcio, dando inizio alla bevuta. Finite le Tequila, uno alla volta sbatterono i bicchieri sul tavolo e quando giunse il turno di Lorenzo, sentì i loro sguardi addosso, dunque fece altrettanto; gli fu concesso solo di risparmiare le bestemmie. Sperò fosse l’ultimo giro. Sentiva la testa girare e le labbra screpolate prendere fuoco a contatto con l’alcol. Poi si accorse che i componenti dell’altra comitiva si erano voltati dalla loro parte, attratti dal rumore. Vide qualcuno sorridere per poi tornare alle loro discussioni. Se solo avesse potuto avvertirli. Lorenzo aveva avuto il presagio di quanto stava per accadere. «Il merdoso mi ha fissato ancora» sentenziò Otello.
Il silenzio calò di nuovo, la tensione era tornata a crescere. Nemmeno Axl si prese il disturbo di calmarlo. «Dai, facciamoci un altro giro» propose Squarcio ancora inconsapevole. Nessuno lo ascoltò. Lorenzo guardò Otello e comprese cosa stava per succedere, poi si voltò verso Axl e cercò in lui un aiuto che non sarebbe arrivato. Il capobranco si stava passando una mano sul naso, inspirando rumorosamente l’aria con indifferenza, come se avesse dato la sua tacita approvazione all’azione punitiva. Fu un attimo. Otello scattò in avanti in direzione dei sei. «Si può sapere che cazzo hai da guardare?» urlò in faccia al suo principale obiettivo. I sei si voltarono verso di lui con il sorriso ancora stampato sulla faccia, ma cessarono di colpo quando si accorsero della sua espressione stravolta e minacciosa. «Amico, nessuno ti sta fissando» provò a dire uno. «Taci tu! E non sono tuo amico.» Quello si alzò, commettendo un secondo errore, questa volta fatale, perché Otello reagì assestandogli una testata in pieno volto. Il sangue schizzò, una ragazza strillò, l’altra anche, mentre Arnaldo si avvicinava, ma per essere trattenuto da Maicon. L’altro ragazzo, quello accusato “dello sguardo di troppo”, restò immobile, paralizzato dalla paura. Fece un tentativo per parlare, per giustificarsi, tuttavia non riuscì a emettere alcun suono e in ogni caso, non ne avrebbe avuto il tempo, perché Otello gli fu subito addosso, rovesciandolo a terra con tutta la sedia. Cominciò a picchiarlo selvaggiamente e continuò a farlo anche quando quello sembrò perdere i sensi; se ne fregò delle urla spaventate delle ragazze, e malgrado le loro suppliche, continuò a colpire. Mirava alla faccia con una tale ferocia che nessuno osò avvicinarsi. Fu Lorenzo, nonostante fosse il più giovane e malgrado fosse a sua volta spaventato a morte, a intervenire, ponendo fine all’orribile aggressione. Prese Otello per le spalle e lo trattenne. «Basta, l’hai umiliato abbastanza» gli disse, sperando di fermarlo. Otello non l’ascoltò nemmeno e tentò di liberarsi dalla presa senza smettere di fissare la sua preda, i muscoli tesi allo spasmo e gli occhi spiritati, ma senza successo, perché Lorenzo riuscì a trattenerlo. Non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscito a domarlo, intanto vide la vittima del pestaggio muoversi e se ne sentì sollevato. Il ragazzo aveva la faccia insanguinata, gli occhi già gonfi e ciechi che vagavano in cerca di un aiuto che non ricevette, perché nessuno osò avvicinarsi.
Poi giunse l’urlo sguaiato di Squarcio. «Alla nostra, brothers!» La sua voce ebbe la forza di spezzare l’incantesimo. Otello si voltò verso l’amico, improvvisamente tranquillo e Lorenzo lo lasciò andare. Maicon scoppiò a ridere, mentre Axl osservò la scena in silenzio, con un’espressione indecifrabile. Era tornata la calma, con i quattro che sembravano essersi già dimenticati della rissa, del tizio steso a terra, degli altri suoi amici spaventati e del triste Arnaldo.
CAPITOLO 2 Un’ora più tardi, si trovavano all’interno dell’auto di Squarcio, una Alfa 75 elaborata, con un enorme alettone posteriore. Avevano percorso la via Barona quasi fino in fondo, fino a giungere in una zona isolata che precedeva le cascine del parco agricolo Sud Milano e avevano parcheggiato sul lato opposto, qualche metro più indietro rispetto all’indirizzo indicato da Lorenzo. Lo avevano costretto a restare con loro, giusto per assicurarci che non ti sia sbagliato, gli aveva intimato Axl. La pioggia e l’imminente oscurità permettevano di restare dentro l’abitacolo senza essere visti; per maggiore sicurezza avevano calato i rispettivi copricapo. Lorenzo si era accontentato del cappuccio della felpa. «Sei sicuro che sia questo l’indirizzo?» chiese Squarcio dal lato del conducente. Lorenzo si trovava sul sedile posteriore, schiacciato tra Axl e Maicon, intenti a sniffare altra droga. «Certo che sono sicuro!» rispose secco, accorgendosi troppo tardi di aver alzato la voce. Quasi non gli importava più, perché voleva solo andarsene da lì, da quei rozzi individui. Era pentito soprattutto per essersi cacciato in quella situazione a causa del suo maledetto vizio. Alla sua esclamazione, Axl sollevò la testa e si voltò appena dalla sua parte, il tempo necessario per fulminarlo con lo sguardo. Poi sorrise appena quando notò che gli tremavano le mani. «Rilassati» disse, offrendogli da fumare. «Sono tranquillo» replicò Lorenzo, afferrando il pacchetto. Impiegò un’eternità per riuscire a estrarre la sigaretta. «Se lo dici tu…» commentò Axl, stringendosi nelle spalle. «Allora, è questo l’indirizzo o no?» tornò a chiedere Squarcio. Lorenzo scrollò la testa, esausto. «È questo» rispose dopo aver aspirato del fumo. Per un momento, a causa della paura, dell’alcol e del buio, cominciò a temere di essersi sbagliato, per cui osservò la strada e controllò di nuovo. Trascorsero alcuni minuti nel silenzio più totale, rotto di nuovo da Lorenzo. «Certo che se non volevamo farci notare, abbiamo scelto l’auto giusta.»
Non ricevette risposta. Otello era assorto nei propri pensieri e sembrava intento a osservare la strada e la casa dal finestrino, mentre Squarcio fumava, muovendosi al ritmo della musica sparata a tutto volume dai suoi auricolari. Improvvisamente innervosito, Axl rifilò una manata al sedile di Squarcio per farsi sentire: «Ehi, lì davanti, aprite un po’ o moriremo soffocati» ordinò. Era la prima volta che Lorenzo lo sentiva gridare e quella voce, ora potente, lo fece rabbrividire. Squarcio stesso trasalì poi, dopo aver compreso il messaggio, abbassò il finestrino di due dita. Poco dopo, Axl estrasse il coltello e, alla luce dei lampioni, controllò la lama. «Perché quel coltello? Mi hai detto che avevate intenzione solo di parlarle, non di fare altro» protestò Lorenzo. Axl gli rispose senza staccare gli occhi dalla lama. «Infatti, chi ha detto il contrario?» «Quello.» Indicò il coltello con un cenno del mento. «Ti ho già detto che devi rilassarti.» «E io ti ho già detto che lo sono» replicò lui, rendendosi conto sempre con un attimo di ritardo, che stava correndo il rischio di scatenare la loro reazione. Axl sembrava aver ripreso il pieno controllo di nervi e situazione, la voce era tornata a essere bassa e roca, quasi una carezza. «Non è vero, sei troppo nervoso e agitato.» «Certo che lo sono, se tiri fuori un’arma… Si tratta di una donna, non c’è nessun pericolo e poi avevi detto che volevi solo scambiare qualche parola con lei.» Axl accennò un sorriso e questa volta lo guardò. «Infatti: faremo parlare le nostre bocche. I coltelli servono solo ad attirare l’attenzione e dovrà prestarcela tutta, deve capire bene cosa le chiederemo» gli spiegò. Lorenzo annuì e questa volta si guardò bene dall’aggiungere altro. Rimasero di nuovo in silenzio per diverso tempo, fino a quando Axl ritenne giunto il momento di agire. «È ora» ordinò e aprì lo sportello, subito imitato dagli altri. Si avviarono lungo la via, ormai buia e deserta. Fu sempre Axl a suonare alla porta, mentre gli altri si nascosero per non farsi notare subito. Qualcuno lo stava osservando dallo spioncino, e Axl sperò che si decidesse ad aprire perché voleva evitare di sfondare la porta. Infine, sentì il rumore di una catena che veniva inserita, e poi la porta si aprì appena. Apparve parte del volto di una donna. «Sì? Chi cerca?» chiese, con l’accento dell’Est Europa.
Axl si sforzò di sorridere, ma non ci era abituato, così il suo sorriso sembrò una smorfia. «Buonasera, cercavo Miriam.» «Chi è lei?» «Un amico.» «Non è ancora tornata dal lavoro.» «Capisco, posso aspettare.» La donna restò in silenzio, parve valutare la risposta. «Miriam non mi ha detto che aspettava visite.» Axl sorrise di nuovo e si toccò la fronte con una manata. «Che sbadato! In effetti, mi trovavo in zona e all’ultimo momento ho pensato di salutarla, tuttavia non mi è venuto in mente di avvertirla. È un problema?» «Temo di sì…» replicò la donna e si apprestò a richiudere. Axl infilò un piede per impedirglielo. «Sia gentile: mi faccia entrare.» La donna fece un cenno alla strada alle spalle del ragazzo. «Se proprio vuole aspettare che torni, dovrà attendere fuori.» «Fuori piove e fa freddo. Avanti, sia gentile.» «Se ne vada o sarò costretta a chiamare la polizia.» In quell’istante la mano di Axl scattò fulminea nel varco aperto e afferrò quella della donna, ancora posata sulla catena. La tirò con violenza a sé. «Non si faccia pregare, sia gentile» ripeté per la terza volta, con la voce che si era ridotta a un sibilo. «La prego, mi lasci!» piagnucolò, cercando di liberarsi dalla sua stretta. Axl l’attirò ancora di più e intanto estrasse il coltello, premendolo sul dorso della sua mano. Lorenzo, seppur defilato, si accorse di come Axl osservava le dita curate della donna, poi vide la lama scorrere dal dorso al polso sottile e fragile. «È appena stata dall’estetista o se le fa da sola?» chiese, riferendosi alle unghie. Lei non rispose. «Mi lasci entrare, oppure le trancio queste belle dita, una per volta» la minacciò, e per dare maggiore credito alle sue parole, spinse la punta del coltello dentro la carne. Il sangue iniziò a scorrere e lei provò a gridare, ma Axl la anticipò. «Se urla, gliela stacco.» «Vacci piano» protestò Lorenzo. Axl si voltò appena, poi, per tutta risposta spinse la punta del coltello in profondità. La donna emise solo un lamento. «La prego, non mi faccia del male» lo supplicò con un filo di voce.
«Ha capito cosa le ho detto?» chiese ancora calmo. Poi, all’improvviso urlò: «Apra questa cazzo di porta!» e spinse il coltello più a fondo nel palmo. La donna, piangendo, annuì. «Bene» commentò con un sussurro. «Se farà qualche scherzo, giuro che dovrà imparare ad allacciarsi le scarpe con una sola mano. Adesso, avvicini la porta e tolga quella fottuta catena.» Lei ubbidì e un attimo dopo Axl spalancò la porta ed entrò seguito dagli altri, come un’orda infernale. Lorenzo fu l’ultimo a varcare la soglia. Lo fece con il rispetto di chi entra in casa altrui, ma anche con cautela, quasi avesse paura di profanare un luogo sacro. La donna era bionda, molto carina, i tratti somatici confermavano le sue origini dell’Est Europa. Axl si guardò intorno. «Che bel posticino! Si nota il tocco femminile.» «Come ti chiami?» chiese invece Otello. Anche lui stringeva un coltello. «Aleksandra.» «Molto bene, Aleksandra, di dove sei?» «Per metà Ucraina e Russia» rispose balbettando. «Posso indovinare qual è la metà russa?» esordì Squarcio, facendosi avanti e fissandole il seno prosperoso. Lei reagì incrociando le braccia sul petto e Squarcio rise, godendo della sua paura. «Quante siete in casa?» tornò a chiedere Otello, facendole ballare la lama davanti alla faccia. «Ora o in generale?» chiese lei tra i singhiozzi. «Aspetta» s’intromise Lorenzo, le si avvicinò per tamponare la ferita. «È sotto shock» spiegò. «Ha bisogno d’acqua.» «E vai a prendergliela» replicò Maicon. Lorenzo si guardò intorno fino a quando scorse una bottiglia d’acqua sopra un tavolo e si affrettò a recuperarla. «Ora e in generale» specificò intanto Otello. «Siamo in sette, però Miriam non è ancora tornata.» «Quindi, oltre a te, ci sono altre cinque donne adesso in casa?» chiese Maicon. Aleksandra annuì. «Dove sono?» chiese Axl. «Due in cucina a preparare la cena, una in bagno e altre due stanno riposando» rispose indicando con la mano. Lorenzo tornò con l’acqua e gliela porse. «Brava, adesso mostraci dove sono» disse Otello quando terminò di bere.
«A destra c’è la cucina e lì in fondo il bagno. A sinistra le camere da letto» rispose lei indicando le varie porte. Axl annuì serio come al solito, mentre Maicon le sorrise e le accarezzò la guancia, guardandola con desiderio. Squarcio era sempre perso nel suo mondo e continuò a muoversi al ritmo di una musica che poteva ascoltare soltanto lui. Poi si divisero, indirizzandosi nelle tre diverse direzioni, lasciando la donna in compagnia di Maicon e Lorenzo. «Va meglio?» le chiese quest’ultimo. Aleksandra annuì, ma era evidente quanto fosse ancora scossa. «Non fateci del male» lo supplicò. «Ti prometto che non vi succederà niente» provò a rassicurarla, ma non finì di pronunciare la frase che il pugno di Maicon lo smentì: la colpì in pieno volto. Aleksandra cadde a terra tramortita, mentre Lorenzo trasalì per la sorpresa e lo spavento. Poi, però, la sentì emettere dei flebili lamenti, mentre dalle altre zone della casa giungevano le grida delle sue compagne. «Che fai?» protestò Lorenzo, fronteggiandolo. Un attimo dopo si ritrovò il coltello puntato in mezzo al petto, mentre con l’altra mano gli afferrò i capelli. Lo tirò a sé, ringhiandogli le sue minacce direttamente in faccia. «Prova ancora a dirmi cosa devo o non devo fare, e tua madre dovrà mettere insieme tutti i tuoi pezzi se vorrà vederti di nuovo intero.» Lorenzo fu costretto ad annusare il suo alito che sapeva di alcol e marijuana; strinse i pugni per la rabbia, ma senza poter fare molto di più. Maicon lo fissò ancora a lungo, continuando a minacciarlo con il coltello, prima di lasciarlo andare. Lorenzo si ripulì il viso dai suoi schizzi di saliva, poi si voltò di nuovo verso la donna. Si era ripresa e stava provando a rimettersi in piedi, aveva le lacrime agli occhi, il naso gonfio e perdeva sangue dalla bocca. Le si avvicinò per aiutarla quando si accorse del lampo che aveva attraversato lo sguardo di lei; ne seguì la direzione e si accorse di un movimento. Gli sembrò di vedere un’ombra acquattarsi dietro una poltrona in fondo alla stanza, però distolse lo sguardo per non attirare l’attenzione di Maicon. Poi, cercando di non farsi scorgere dal balordo, di tanto in tanto, tornò a guardare nella stessa direzione, e infine comprese. Maicon si girò a sua volta da quella parte, ma Aleksandra si avvinghiò alle sue gambe. «Ti prego, non farmi ancora del male!» urlò, e si strinse con maggior forza a lui, impedendogli di muoversi.
Era riuscita a distrarlo e a farlo infuriare ancora di più. Maicon provò a scacciarla rischiando di cadere. Preso dalla rabbia, mentre lei continuava a strillare e a supplicare, la scalciò. «Puttana!» L’afferrò per i capelli e tirò con violenza, eppure lei rimase ancora attaccata alle sue gambe, così la colpì con un altro pugno. Questa volta Aleksandra allentò la presa e cadde all’indietro. Libero e colmo di rabbia, la scalciò ancora, fino a quando si sentì soddisfatto. Poi si rivolse a Lorenzo. «Mettiti in quell’angolo e non provare a muoverti!» gli intimò con il coltello puntato. Maicon si chinò su di lei e, aiutandosi con la lama, la liberò dai vestiti, poi si slacciò i pantaloni. Lorenzo osservava la scena impotente; finì con l’incrociare lo sguardo supplichevole di Aleksandra e comprese che non stava chiedendo aiuto per sé. Le fece un cenno di assenso, poi la vide chiudere gli occhi, forse perché rassicurata, o forse per sopportare meglio il dolore e l’umiliazione. Quando Maicon finì, si sollevò e la guardò con disprezzo, prima di rivolgersi all’altro. «Se vuoi farti un giro, accomodati, e stai tranquillo che non lo dirò a mammina» lo schernì. Vedendo che Lorenzo non si muoveva, cambiò espressione. «Non avevo capito che hai altri gusti, però non me ne frega un cazzo! Resta qui di guardia e non fare scherzi» lo minacciò. Gli scappò una lacrima comprendendo le conseguenze del suo gesto: aveva tradito la fiducia di sua madre. Era stato uno stupido a fidarsi delle loro parole, le promesse di quattro balordi. Aveva condannato a morte sette donne.
CAPITOLO 3 Al suo ingresso, Miriam fu avvolta dal tepore e dal silenzio della casa. Non se ne stupì troppo, visto che aveva fatto particolarmente tardi e le altre dovevano essere già davanti alla televisione, o magari a letto. Appena entrata in cucina, una mano si materializzò dal buio alle sue spalle e le tappò la bocca. Si sentì tirare da braccia forti mentre una lama le si posò sul collo. «Miriam?» chiese la voce roca dell’uomo che la stava imprigionando e minacciando. Lei mosse appena la testa per confermare, gli occhi sbarrati dalla paura. «Adesso ti libero la bocca, ma se provi a urlare, te la richiudo, per sempre. Tutto chiaro, vero? In genere mi credono quando parlo, spero per te che farai lo stesso.» Miriam annuì e un attimo dopo si ritrovò a guardarlo in faccia; subito dopo comparvero anche gli altri. Li guardò uno per uno, una sequenza di volti sadici e inespressivi, facce senza anima. «Sai perché siamo qui?» domandò Otello. Lei negò, muovendo la testa. «Dovresti saperlo, invece» disse Axl. Il suo sguardo si spostò dalla faccia della ragazza a un po’ più in basso, verso il seno. Si passò la lingua sulle labbra. «Parli troppo, soprattutto con gli avvocati.» Miriam rimase immobile mentre Axl si faceva più vicino, aveva gli occhi dilatati da qualche sostanza. «Il fatto è che dobbiamo essere certi che tu abbia capito.» Lei spostò ancora lo sguardo su ognuno di loro, sempre più spaventata, cercando un barlume, un segno di speranza, un gesto che la confortasse, che le facesse capire che sarebbe finito tutto presto e per il meglio. “Dove sono le altre? Perché non vengono ad aiutarmi?”. L’uomo che aveva parlato fino a quel momento e che le era sembrato il capo, si rivolse a un altro del gruppo. Non si era accorta subito di lui, forse perché era rimasto indietro rispetto agli altri. Era più giovane di loro e le parve diverso, meno minaccioso, però vide altro nei suoi occhi, qualcosa che non la rassicurò affatto: paura.
«Aspetta fuori e metti in moto» gli ordinò Axl, ma Lorenzo non si mosse. «Hai capito o te lo devo ripetere?» aggiunse, allungando di nuovo la lama sulla gola della donna. Solo allora Lorenzo obbedì. Appena il ragazzo se ne fu andato, uno la prese da dietro mentre un altro le tappò la bocca con del nastro, poi la spinsero sul pavimento e la tennero bloccata mentre quello che aveva impartito gli ordini, l’uomo dai capelli lunghi, la fissava cominciando a sbottonarsi i pantaloni. Miriam era la sua ricompensa. *** Lorenzo attese fuori, continuando a guardare la casa. Fu tentato di telefonare alle forze dell’ordine, poi ci ripensò per paura di quello che sarebbe accaduto a lui e alla delusione che avrebbe procurato alla madre. Quel pensiero gli fece male. L’edificio era ancora immerso nell’oscurità, a parte la luce nella sala, quella dove Axl e gli altri suoi compari stavano… cercò di scacciare via quella orribile visione. Era stato ingannato, proprio come succede quando si scende a patti con il diavolo. L’unica cosa che gli restava era pregare. No, forse qualcosa si poteva ancora fare, anche a costo di pagare un prezzo parecchio alto. Raccolse il telefono dalla tasca e compose un messaggio per la madre con cui l’avvertiva di ciò che stava avvenendo. Finito di scrivere, si fermò: gli sarebbe bastato cliccare sul tasto d’invio, eppure non ne ebbe il coraggio. Con il telefono ancora in mano, indeciso sul da farsi, si accese una sigaretta, sperando che si sbrigassero alla svelta, voleva andarsene al più presto e tornare al sicuro della propria camera. Non sarebbe mai riuscito a dimenticare le urla, le lacrime, gli occhi gonfi, i vestiti stracciati di Aleksandra e delle sue compagne. Forse, si disse, il tempo avrebbe attenuato il dolore, ma proprio in quell’istante la casa fu rischiarata da una luce intensa, e un attimo dopo vide le fiamme, e poi Axl e i suoi compagni uscire di corsa dalla casa. «Avanti, andiamo via!» gli ordinò Axl. Lui lanciò la sigaretta a terra poi, confuso, fece come gli era stato intimato. Richiuse il telefono e lo infilò in mezzo alle proprie gambe mentre partiva sgommando. «Che cosa è successo?» chiese, osservando la casa in fiamme attraverso lo specchietto retrovisore. Nessuno gli rispose. «Dannazione! Avete dato fuoco alla casa?» urlò.
Otello aveva già rimesso mano al coltello, però Axl lo trattenne. «Avanti, calmati, si è trattato di un corto circuito» disse poi, provocando la risata sguaiata dei compari. «Che dici? Un corto circuito?» «Intendeva alla sua testa, gli è andato in corto il cervello» s’intromise Otello e Squarcio scoppiò in una nuova risata. «Cristo Santo!» imprecò Lorenzo. Questa volta fu Axl a tirare fuori il coltello e, rapido, si allungò in avanti, con una mano abbracciò il sedile del conducente, la faccia vicina a quella del ragazzo, lo sguardo sulla sua gola, la voce un sussurro suadente carico di minacce. «Sei stato bravo, adesso vedi di non crearci dei problemi» minacciò. «Non era così che doveva andare… dovevate solo parlarle» si lamentò, in preda al panico. «Mi ha chiamato per nome. Hai capito? Mi ha riconosciuto, ed è colpa tua. Sapeva chi sono. Ci avrebbe denunciato tutti quanti, anche te. Ho dovuto farlo» si giustificò Axl. Quell’affermazione gli fece comprendere che stava mentendo. Aveva visto lo sguardo sorpreso di quella Miriam e gli era sembrato evidente che non sapeva chi fossero. «Così le hai uccise tutte…» dedusse. Axl sollevò le spalle e si staccò da lui. «È stato un incidente. Non volevo, ma il cervello mi è andato in pappa» spiegò, toccandosi la testa e strabuzzando gli occhi. «Un tragico, accidentale e fottuto incidente. Adesso non ci pensare più» aggiunse e tirò fuori dalla tasca un paio di dosi di droga, poi ci ripensò e aggiunse delle banconote. «Tieni, questo lo offro io. Più tardi fatti una tirata o una scopata, o entrambe le cose, vedrai che ti sentirai meglio.» Lorenzo afferrò la droga e il denaro, e infilò il tutto in mezzo alle gambe, vicino al telefono. Diede una rapida occhiata ai quattro balordi e si rese conto che erano persi nei loro pensieri, stanchi e fatti. Stando attento, riaprì il telefono e gli apparve la schermata di blocco; nel buio dell’abitacolo, la luce del display sembrò quella di un faro, però per fortuna durò pochi attimi prima che si spegnesse di nuovo. Si maledisse per quella sua fottuta mania di sicurezza, e aggiunse un altro milione di maledizioni per non aver mai utilizzato un sistema di sblocco più immediato come il riconoscimento delle impronte, ma ormai era tardi per recriminare. Diede una nuova occhiata ai quattro: non si erano accorti di nulla. Per sbloccare il telefono avrebbe dovuto riaccendere il display e inserire il codice pin e doveva farlo in fretta; cliccò sul tasto laterale e quando lo schermo s’illuminò ancora, digitò le quattro cifre, tuttavia non
accadde nulla e comprese che, nella fretta aveva inserito un codice errato. Si sentì travolgere dalla disperazione, sicuro che se ci avesse riprovato, l’avrebbero scoperto. Cercò di calmarsi, fece un grosso respiro e non osò guardarli un’altra volta per paura di non trovare il coraggio di ripetere l’operazione. La luce dello schermo lo abbagliò per un istante, rischiando di fargli perdere il controllo dell’auto; da dietro gli giunse un’imprecazione, ma adesso era apparsa nuovamente la schermata di blocco; si concentrò e digitò le quattro cifre del codice; lo fece con forza e precisione e quando ebbe terminato attese. Non successe nulla per un istante che a lui sembrò interminabile, poi la schermata si sbloccò e il display si riaprì sul messaggio composto per la madre. Era ancora lì, in attesa di essere inviato o di venire cancellato. Sperò di non sentire le loro voci e cliccò sul tasto d’invio.
CAPITOLO 4 Milano, gennaio 2011 Viveva ogni giorno con la consapevolezza che poteva essere l’ultimo su questa terra. Sapeva che in molti avrebbero voluto vederla morta. E poi c’erano le statistiche che ben conosceva. L’anno precedente erano stati contati oltre cento casi di vittime di femminicidio, in realtà erano maggiori, se si consideravano le denunce di ogni genere di violenza, ed erano ancor di più se a questi si sommavano tutti i casi non denunciati. Lei stessa aveva conosciuto la violenza e la prepotenza di un uomo che diceva di amarla. Con il suo amore, l’ex compagno le aveva slogato la mascella, fatto saltare i due incisivi superiori e chiuso un occhio a suon di pugni; le aveva anche spaccato il setto nasale e rotto un paio di costole a forza di calci quando era crollata sul pavimento, mentre rischiava di soffocare nel suo stesso sangue. Le botte di quella sera erano state solo l’apice di una vita vissuta nel terrore. All’inizio erano arrivati i divieti, il controllo di ogni suo movimento, telefonata, sguardo, gesto o pensiero, però le botte erano riuscite a tirarle fuori il coraggio di denunciarlo, di lasciarlo e costruirsi una nuova vita lontano da lui. Da allora si era ripromessa di dedicare il resto della propria esistenza a punire gli esseri spregevoli come lui e a proteggere donne meno fortunate di lei. Così Eleonora Failla, di professione avvocato, aveva cominciato ad assistere donne vittime di violenza. Aveva fondato un comitato per aiutarle a trovare il coraggio di denunciare, sostenuta anche da personaggi noti della città. La sua iniziativa, però, aveva avuto un prezzo elevato da pagare in termini di qualità della vita. All’inizio le era sembrato di ripiombare nell’incubo, ma poi proprio le minacce che erano cominciate ad arrivare, avevano rafforzato la determinazione a proseguire la sua battaglia fino a quando non fosse riuscita a dare dignità a ognuna delle sue clienti e mandare in carcere ognuno di quegli uomini violenti. Aveva preso delle precauzioni. Aveva fatto installare un sistema di allarme in casa e non usciva mai senza mettere in borsa uno spray al
peperoncino. C’era stato anche un momento in cui aveva preso in considerazione il porto d’armi, poi aveva desistito perché le armi le facevano paura e, inoltre, le ricordavano quella che il suo ex ogni tanto le faceva ballare davanti agli occhi. Poi era morta Miriam. Nonostante le precauzioni, malgrado si trovasse in una struttura segreta, chi voleva punirla era riuscita a trovarla. Era successo a ottobre dell’anno precedente, appena qualche mese prima di quel freddo gennaio del 2011. Subito dopo erano arrivate le nuove minacce. Come non collegare, quindi, la morte di Miriam con gli avvertimenti che le stavano giungendo? Dapprima aveva trovato qualcosa in macchina: qualcuno aveva defecato sul suo sedile. Più che paura, quell’episodio le aveva provocato disgusto, tanto da non volerlo denunciare alle autorità. Poi si era accorta di essere seguita. Il tipo che la teneva d’occhio era troppo simile ad Axl Rose dei Guns N’ Roses per non notarlo. Le appariva ovunque, fino a quando si accorse anche degli altri tre. Ne parlò con le sue assistenti che le consigliarono di rivolgersi alla polizia. D: L’hanno minacciata? R: No. D: Si sono rivolti direttamente a lei, magari con frasi ingiuriose o atteggiamenti ostili? R: No. D: Sono entrati in casa sua o hanno arrecato danno a lei o alle sue proprietà? R: Ancora un no. D: Allora ci dispiace signora Failla, non possiamo intervenire, però possiamo consigliarle di rivolgersi a una di quelle società private che offrono vigilanza e sicurezza. R: Grazie, ci penserò. Eleonora Failla non si rivolse a nessuna agenzia privata, ma accettò il consiglio delle sue assistenti di staccare per un po’. Si concesse una breve vacanza, un intero fine settimana, dalla mattina del venerdì alla domenica sera successiva, per recarsi sui colli bolognesi, dove aveva vissuto prima di trasferirsi a Milano e dove aveva una casa appartenuta ai suoi genitori. Il venerdì pomeriggio non rispose alla telefonata di Tiziana, una delle sue assistenti che l’aveva cercata per assicurarsi che il viaggio fosse andato bene, tuttavia Tiziana non se ne preoccupò. Cominciò ad allarmarsi quando Eleonora non rispose alla telefonata successiva, domenica sera, quando l’aveva cercata per chiederle com’era andato il
weekend. La preoccupazione divenne panico quando Eleonora non si presentò al lavoro la mattina del lunedì. Solo nel tardo pomeriggio, dopo che era ancora irrintracciabile, Tiziana si decise a dare l’allarme alla polizia. Eleonora Failla fu ritrovata in casa sua, morta da oltre quarantotto ore. Non si era mai allontanata da lì, non aveva mai raggiunto i colli bolognesi. Era stata spogliata, imbavagliata e legata, e poi violentata brutalmente, con ogni probabilità per ore, e tagliuzzata con due tipi di lame, una affilata e una seghettata. In un freddo weekend di gennaio, Eleonora Failla aveva smesso di difendere le vittime di violenza maschile. In quel freddo weekend di gennaio, era diventata lei stessa una vittima.
CAPITOLO 5 Milano, febbraio 2019 L’agente di polizia penitenziaria di turno l’accompagnò all’uscita, verso la libertà. Provò un’infinita tristezza al contrario di quanto si sarebbe aspettata, ovvero gioia di vivere e voglia di programmare il futuro. “Ma quale futuro?” si chiese in quell’istante Demetra Weber. Era stata abbandonata da tutti. C’era stato un tempo in cui la cercavano, la desideravano, era corteggiata e invidiata. Era cresciuta con il desiderio di far parte di quel mondo dorato che era la televisione, ed era certa di meritarselo quel mondo, aveva lavorato duro sin da piccola. Aveva trascurato i compagni, le feste di compleanno, le uscite con le amiche e con gli amici per inseguire il suo sogno. Aveva rinunciato anche all’amore di un bel ragazzo, l’unico che le aveva voluto bene per davvero, ma all’epoca lei aspirava ad altro, a qualcuno di più importante. Aveva capito troppo tardi di aver commesso un errore, di aver perso l’unica persona che l’aveva accettata per com’era, difetti inclusi. Dopo, il mondo finì di crollarle addosso in una sorta di punizione divina, a partire dalla frequentazione di quel presentatore attempato che l’aveva fatta esordire come ballerina in un programma d’intrattenimento preserale. Grazie a lui aveva incontrato quel regista più vecchio perfino di suo padre, che le aveva proposto una parte nella sua nuova pellicola; a lei non importava doversi mostrare nuda, né dover avere rapporti sessuali con lui e un paio di suoi amici, altrettanto vecchi e bavosi. Una buona dose di alcol riusciva a renderla insensibile, e il giorno dopo quasi non ricordava. Grazie a quella piccola parte aveva conosciuto il produttore del film, il figlio di una facoltosa famiglia milanese. Un bel ragazzo, troppo basso e curato per i suoi gusti, ma era piacevole ed era anche un buon amante. Qualche mese dopo il nuovo incontro, Demetra presentava un programma tutto suo e intanto aumentavano le amicizie di altri personaggi dello spettacolo, e anche del calcio e della musica.
Si era concessa a ognuno di loro, con la speranza di trovare l’uomo che le permettesse di fare un ulteriore, e magari definitivo, balzo in avanti nella notorietà. Quando il giovane erede dello showbiz milanese aveva cominciato a fidarsi di lei, le aveva assegnato un compito molto importante: ingaggiare altre ragazze, belle e disinibite per intrattenere e rallegrare i suoi importanti ospiti durante le serate che amava organizzare nelle sue residenze. Le ragazze dovevano essere affidabili, non creare imbarazzo e ancor meno, problemi a lui e ai suoi amici. Si parlava di attori, cantanti, presentatori, sportivi, politici, giornalisti, ereditieri, spesso sposati, per cui la riservatezza era una qualità fondamentale, oltre alla bellezza e alla disponibilità. Il tutto era lautamente ricompensato, con l’aggiunta dell’opportunità di entrare nelle grazie di qualcuno di loro. Era sempre filato liscio, fino alla sera maledetta in cui quella Miriam, una delle sue amiche, si era messa a fare la schizzinosa. «Hanno abusato di me» le aveva confidato tra le lacrime il giorno successivo. «Dove ti eri cacciata, Demetra? Perché non sei intervenuta quando hanno cominciato a baciarmi e a spogliarmi?» Cristo, ma dove aveva vissuto fino a quel momento? Pensava forse che sarebbe diventata famosa solo perché era bella o brava? Di ragazze come lei ne esistevano una marea. Quella sciocca non si era accontentata di rovinare la serata a lei, al suo amico e agli ospiti: aveva minacciato di denunciare il padrone di casa e tutti i presenti, e non erano serviti soldi e promesse, come non erano servite le minacce dopo. La stronza era andata avanti, affidandosi a una di quelle avvocatesse, con ogni probabilità lesbica o frigida, o entrambe le cose. E per lei erano cominciati i guai. Il bell’erede non l’aveva più cercata, anzi, l’aveva bandita dalle feste, le aveva tolto il programma pomeridiano e l’aveva isolata dal resto delle sue conoscenze. Non le era più riuscito di trovare spazio nemmeno come ospite nei programmi di emittenti locali, e gli unici che ancora la cercavano erano perfetti sconosciuti o vecchi e nostalgici fan. Depressione, pianti, abuso di farmaci e droghe, questo era stato ciò che aveva vissuto dopo quella sera, fino a quando ogni altro suo sogno residuo svanì per sempre, ossia il giorno in cui aveva investito e ucciso una donna con la propria auto. Era stata arrestata perché trovata imbottita di farmaci e cocaina, ma ora, Demetra Weber era di nuovo libera.
CAPITOLO 6 Ottobre 2021 Era arrivato l’autunno, e i colori dell’estate erano spariti dal mondo. Le giornate si erano accorciate, e alle 18:00 faceva già buio. Il sole si sostituiva spesso alla pioggia. Le foglie cominciavano a cadere morte dagli alberi, nascondendo il pavimento stradale. Il vento sferzava le facce e scompigliava i capelli, trasportando la fredda minaccia dell’inverno alle porte, e spazzando via anche il buon umore. Lo stesso stridore delle rotaie del tram, e il tipico odore metallico che producevano, sembrava attutito dalla pioggia. L’uomo era tarchiato, baffuto e calvo, a parte una sporca e disordinata corona di capelli scuri che avrebbe avuto bisogno di una sistemata. Anche gli abiti che indossava erano sporchi e disordinati, d’altronde, da quelle parti era conosciuto come il Rabbino, a causa della sua spilorceria. Era piegato sulle ginocchia e sbuffava per la fatica e l’acqua che lo stava inzuppando; era intento a togliere il lucchetto che serrava la saracinesca del suo negozio, però quello stronzo non ne voleva proprio sapere di aprirsi. Sbuffò ancora e si deterse la faccia da acqua e sudore, quando percepì qualcuno alle sue spalle. Non fu sicuro se sentì prima la lama premuta sulla gola o i capelli afferrati e tirati indietro con violenza. Il tizio che continuava a tenergli la testa piegata verso l’alto lo costrinse ad alzarsi. «Ehi, amico, vacci piano con quell’affare» riuscì a dire a fatica. «Il tuo alito puzza più di… te» replicò l’aggressore. Il Rabbino si rilassò, riconoscendo la voce di Axl, uno degli uomini di Bellomo. «Sai com’è, Axl? Il dentifricio costa» disse e sorrise alla propria battuta, mostrando una fila di denti marci. «Se poi usassi la mascherina come fanno tutti i cristiani, non avresti di che lamentarti» aggiunse. Axl lo lasciò andare, poi si grattò la guancia ispida con il dorso della mano. Il Rabbino si mosse, ma la punta dura e fredda di una rivoltella contro la tempia, lo costrinse a immobilizzarsi di nuovo.
«Chiudi il becco, sorcio» gli intimò una voce. Riconobbe Otello, un altro degli uomini di Bellomo. Axl spinse il Rabbino contro la saracinesca, poi fece cenno a un terzo uomo di aprire. Si muoveva a ritmo con la musica, e da questo particolare e dai suoi auricolari, il Rabbino riconobbe quello svitato di Squarcio. Un attimo dopo, il negozio era aperto. «Dove avete lasciato l’altro vostro compare?» chiese con un sorriso sornione. Axl lo spinse a mani aperte sulla schiena, facendolo rotolare sul pavimento all’interno del negozio, poi accese la luce e con un gesto ordinò a Squarcio di richiudere la saracinesca. Otello, invece, si mosse veloce verso il bancone, lo oltrepassò e si posizionò davanti alla grossa cassettiera metallica dove erano contenuti i tesori del Rabbino. Aprì i cassetti, uno a uno, e cominciò a versarne il contenuto sul pavimento. Anelli, collane, monete, spille, bracciali, argenteria, tutto fu sparso per terra. «Ehi, tu! Che pensi di fare?» gli urlò il Rabbino sollevandosi sulle braccia. Si accorse del sangue che usciva dalla bocca a causa dell’impatto con il pavimento e sputò per terra un misto di sangue, saliva e polvere. Un attimo dopo Axl lo ricacciò per terra, poi posò la suola degli anfibi sulla sua schiena e lo tenne inchiodato al pavimento. Gli calpestò la testa. «Tu lo sai perché siamo qui» esordì, tirando fuori una sigaretta dalla tasca interna del lungo giaccone di pelle nera. L’accese con un fiammifero, poi avvicinò il fiammifero ancora acceso alla testa del Rabbino. L’uomo lanciò un urlo, ma per sua fortuna, la fiamma si spense presto. «Ripeto: tu lo sai perché siamo qui.» «Dite al vostro capo che non campo d’aria» replicò, tentando di sollevare la testa. Axl aumentò la pressione degli anfibi, schiacciandogli ancora di più la faccia. «Devi portare rispetto, ri-spet-to» scandì. «Sì, d’accordo, ho capito» piagnucolò il Rabbino poco convinto. Axl scrollò il capo. «Un po’ troppo in ritardo.» Gli scagliò un calcio in faccia. Il Rabbino si coprì con le mani e si rannicchiò per il dolore e per proteggersi da ulteriori calci, che arrivarono, duri e in rapida successione.
Axl cambiò obiettivo, puntando alternativamente su addome e fianco. Soddisfatto, si chinò e gli sollevò la testa. «Il cinquanta per cento va a Pallozza, il cinquanta, non il trenta.» L’uomo annuì; sanguinava dal naso e sputò di nuovo sangue. Nella macchia scura s’intravide un dente. Axl fece una smorfia di disgusto, gli lasciò andare la testa e si sollevò. Si accorse di aver sporcato gli anfibi. «Cazzo! Cazzo! Cazzo! Guarda qui, i miei anfibi nuovi, porca puttana! Non sai nemmeno sanguinare per i cazzi tuoi!» urlò e si scagliò di nuovo contro di lui. Squarcio rise divertito, mentre Axl rifilò un ultimo calcio di frustrazione all’uomo steso a terra, poi Otello concluse l’opera versandogli sulla testa il contenuto di un cassetto. «Datti una sistemata e poi rimetti a posto il negozio, che non ci fai una bella figura con i clienti» lo derise Otello. «E ricorda quello che ti abbiamo detto, altrimenti non avrai più un negozio» aggiunse Axl, prima di uscire. Il Rabbino ebbe appena la forza di sollevare la testa e annuire; si assicurò che se ne fossero andati, quindi si diede una ripulita al muso insanguinato con il dorso della mano. «Andate a farvi fottere, voi e quel pazzo di Pallozza» riuscì a dire prima di crollare. *** Usciti in strada, si diressero a uno dei bar che frequentavano più spesso, I terroni per caso, gestito da due ragazzi salentini. Ordinarono due birre a testa e altre se ne fecero riporre in alcuni sacchetti. Se ne andarono decisi a scolarsele all’aperto, incuranti della pioggia. La loro meta era il parco comunale, dove avrebbero brindato alla riuscita della missione punitiva con uno spinello o due. Anche il parco sembrava più tranquillo del solito, di certo per merito della pioggia sottile che scoraggiava a passeggiare e praticare sport. Aveva iniziato a cadere dopo alcuni mesi di siccità, che stava rendendo Milano arida e insopportabilmente calda come il deserto del Sahara. Non solo il fiume Po, ma anche il ruscello che scorreva all’interno del parco non esisteva quasi più: al suo posto era comparso un mucchio di terra secca, pieno di grosse pietre, rami rotti e spazzatura di ogni genere. Si sedettero sullo schienale di una panchina di cemento, le scarpe infangate posate laddove altri avrebbero poggiato le chiappe, stapparono le prime birre e cominciarono a bere a canna, infine ruttarono tutti insieme.
«Che cazzo di silenzio» esordì Squarcio, mentre Otello terminava di rollare uno spinello. Axl annuì e sollevò la testa al cielo, poi allargò le braccia quasi per accogliere la pioggia o abbracciare l’intera volta celeste. «Già, non c’è in giro un cazzo di nessuno» esclamò. Otello gli passò lo spinello. Axl aspirò la sua parte, fece una seconda tirata per poi passarlo a Squarcio che, a sua volta, dopo aver fumato, lo ridiede a Otello. La marijuana cominciò a fare l’effetto desiderato. Rilassò le menti, calmò i nervi, accelerò i battiti dei cuori e annebbiò le viste. Chiusero gli occhi per aumentare la sensazione di relax ed estasi. Al primo spinello ne seguì un secondo e poi un terzo, così come alla prima birra ne seguì una seconda e poi una terza e poi altre ancora. Il cocktail di alcol, fumo e droga mandò i loro cervelli in un mondo parallelo, appena connesso alla realtà. D’un tratto fu Squarcio a interrompere la pace. Aveva aperto gli occhi e si era accorto di una figura che avanzava verso di loro. Otello e Axl lo sentirono muoversi, tuttavia restarono immobili nella stessa posizione. «E questo chi cazzo è?» chiese Squarcio. Solo allora Otello si ridestò per capire che cosa avesse distratto l’amico. Voltò la testa da quella parte e vide a sua volta. Una figura avanzava nella loro direzione, era vestita di nero. Sorrise. «Sto sognando, adesso richiudo gli occhi e conto fino a dieci, poi sparirai.» Squarcio si unì a lui nella risata e fece come gli aveva suggerito l’amico, chiuse gli occhi e cominciò a contare. Quando arrivò a dieci, tornò a guardare da quella parte e si accorse che la figura era ancora più vicina. «Ehi, col cazzo che quella cosa è sparita!» Otello aprì gli occhi e si rese conto che l’amico aveva ragione, non solo: adesso poteva anche vederla meglio, e notò che indossava uno di quegli abiti in stile orientale, tanto larghi da nasconderne le forme; si accorse che anche il volto era quasi del tutto nascosto. «Il cavaliere mascherato» scherzò, e di nuovo scoppiarono a ridere. Sentendoli, anche Axl si ridestò; aprì gli occhi e osservò in silenzio. Notando la figura che si avvicinava, si sforzò di comprendere a quale cultura appartenesse: araba, cinese, indiana, africana? Ormai Milano era diventata come una di quelle fottute metropoli in cui si erano fuse tutte le etnie del pianeta. Alla fine stabilì che si trattava di un arabo. «Maledetti talebani del cazzo» disse, e sputò per terra. «Non sono le donne a indossare il burqa?» chiese confuso Squarcio.
«Vuol dire allora che si tratta di una talebana del cazzo» si corresse Axl. Si sollevò e si rivolse alla figura in arrivo. «Ehi, tu. Ehi, dico a te» urlò. Questa continuò a camminare a testa china, come se non l’avesse sentito. «Maledetta puttana, talebana del cazzo, islamica di merda! Fanno bene i vostri uomini a prendervi a botte» esclamò, saltando giù dalla panchina. Subito sentì la testa girare, barcollò e fu costretto a fermarsi per ritrovare l’equilibrio; quando ci riuscì, riprese ad avanzare, ma con cautela. «Ehi, dico a te! Sei sorda?» chiese e, quando l’ebbe raggiunta, l’afferrò per un braccio, costringendola a fermarsi. Quella si girò e Axl poté guardarle il volto. Era coperto quasi del tutto da una maschera nera, talmente aderente da assomigliare più a una seconda pelle; riuscì a vedere solo gli occhi e una piccola porzione di faccia, ma tanto bastò a stordirlo. La lasciò andare e lei – se di una lei si trattava – dopo averlo fissato a lungo, si voltò e riprese a camminare. «Che succede?» chiese Otello appena lo ebbe raggiunto. Un attimo dopo furono affiancati anche da Squarcio. Tutti e tre la osservarono mentre si allontanava lungo la strada. Poco dopo imboccò uno dei sentieri laterali, immerso tra gli alberi. «Perché hai lasciato andare la musulmana?» esclamò Squarcio, sorpreso. «La sua faccia» disse Axl imbambolato. «Che cosa aveva la sua faccia?» s’informò Otello. Axl scrollò la testa. «Era strana, sembrava una maschera.» «Cazzo, era tanto brutta che portava una maschera?» Squarcio scoppiò di nuovo a ridere. Si aspettava che i suoi amici lo imitassero, eppure Otello non stava ridendo. Axl lo guardò serio. «Cartapecora. Sembrava fatta di rughe» spiegò. Si tenne per sé il fatto che le rughe le aveva viste sotto la maschera, e che attraverso quella gli era parso di distinguere anche le vene e i capillari bluastri che ne solcavano il viso; tenne per sé anche il dubbio che quell’essere non fosse un uomo e forse nemmeno una donna. “I mostri non esistono” si disse. Non voleva essere preso in giro dai suoi amici. Non voleva avere paura. Otello annuì altrettanto serio, come se avesse compreso i suoi pensieri; poi, dopo un cenno d’intesa, i tre decisero di andarle dietro. La videro per l’ultima volta un istante prima che imboccasse un’altra stradina; pochi secondi dopo si ritrovarono sullo stesso sentiero, però di lei non c’era più traccia. «Dove cazzo si è cacciata? Non può essere sparita» commentò Otello. Axl, come al solito pensieroso, si guardò intorno e scrutò fino alla cima degli alberi. «Non si sentono nemmeno gli uccelli…»
Otello rimase in ascoltò. Axl aveva ragione, era calato un improvviso silenzio. Poi osservò il suo capo e si accorse che aveva l’aria di uno che aveva visto un fantasma. Si girò verso Squarcio e lo trovò sempre chiuso nel suo mondo, più squilibrato che mai. Si diede un’occhiata intorno a sua volta, imitando l’amico. Era tutto immutato: in giro continuava a non esserci nessuno, la pioggia a cadere, l’aria a rimanere immobile e il cielo scuro come un sudario avvolto sopra le loro teste. Ne ebbe quasi paura.
CAPITOLO 7 A quanto pare non si è fatto troppo benvolere nemmeno qui. Non frequenta nessuno, niente amici e nemmeno donne; si limita a sporadiche escursioni nei bar della sua zona. Abita in Viale Ungheria, una strada alla periferia di Milano, poco distante dall’aeroporto di Linate. È un complesso di cinque edifici, lui è al secondo piano di quello denominato E. Nelle vicinanze c’è un commissariato di polizia, però non è un problema, perché i poliziotti si limitano ai permessi di soggiorno. La sua abitazione si trova tra due strutture dell’Aeronautica, l’aeroporto militare da una parte e l’ex campo di aviazione di Taliedo dall’altra. Tra i due siti c’è un certo passaggio di mezzi militari e Viale Ungheria è interessata dal loro transito, ma sempre a orari prestabiliti. *** Dove sei? Ti hanno fatto del male? Sei ancora viva? Chi è stato a portarti via? Lo conoscevi? Ti fidavi di lui o non l’avevi mai visto prima? Stai soffrendo o hai sofferto? Hai compreso quello che stava per accaderti? Proverò a restituirti alla tua famiglia, e se non ci riuscirò, proverò a dare una risposta a ognuna di queste domande. Poi, tenterò di darti giustizia. Dopo aver studiato a lungo il volto ambrato della ragazza, riaprì il primo cassetto della scrivania e depositò con estrema cura la fotografia, come se quel gesto delicato potesse, in un certo senso, compensarne le sofferenze. Posò i gomiti sul tavolo e si strofinò il volto, quasi a voler cancellare la tristezza che la visione di quel giovane viso aveva impresso sul suo. La ragazza si chiamava Karina ed era scomparsa un pomeriggio mentre si recava al minimarket del suo paese, in provincia di Milano. Fino ad allora si era limitato ad accettare casi non troppo complicati e nemmeno pericolosi, e dopo quella terribile esperienza, era determinato a proseguire la sua carriera con i vecchi propositi. Troppo vivi i tormenti
degli Herrera: Se solo non l’avessimo fatta uscire… se ci fossimo andati noi a comperarle i quaderni… se… e se… se… se… troppo dolorose le recriminazioni della madre. Veniva da un paese povero, l’Italia sarebbe dovuta essere la ricompensa per una giovinezza difficile. Karina non avrebbe dovuto patire i suoi sacrifici; alla figlia avrebbe concesso le occasioni che erano state negate a lei, a cominciare dall’istruzione. Avrebbe dovuto studiare per non finire come le sue coetanee in Ecuador, sottomesse da maschi egoisti e prepotenti. Doveva imparare, mettere il massimo impegno in ogni cosa che faceva; perseveranza e sacrificio l’avrebbero resa più forte, più ambiziosa delle sue amiche. Voleva che crescesse autonoma e indipendente, quello che non era stata lei, anche se Leandro era un brav’uomo. Non doveva essere la schiava di nessuno, né di un marito, né di una casa e nemmeno dei figli, perché tutti ti spremono senza dirti grazie. Sapeva che nella quasi totalità dei casi, il finale era sempre lo stesso, ma non poteva dirlo a quelle due anime in pena che erano i genitori di Karina; bisognava concedere loro il tempo di abituarsi all’assenza della figlia, a metabolizzare il lutto. Aveva bisogno di respirare aria fresca. Afferrò il giubbotto di pelle nera ormai fuori moda, e uscì. Pioveva. Una pioggia fine, un muro sottile e compatto d’acqua che in breve gli sarebbe penetrato nelle ossa. Non poteva permetterselo a cinquant’anni, allo stesso tempo non aveva nemmeno voglia di tornare in casa a prendere un ombrello che comunque odiava, così si diresse all’unico bar nelle vicinanze, un locale gestito da cinesi. Un tempo erano concentrati in un quartiere ben preciso della città, la via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano; ora avevano aperto le loro attività ovunque, compreso viale Ungheria dove abitava. Si guardò intorno, vecchio retaggio della sua precedente esistenza, un ricordo sempre più labile. Non ravvisò pericoli evidenti né tra le automobili parcheggiate lì davanti e nemmeno tra i pochi pedoni che incrociò. Dopo qualche minuto giunse a destinazione. Il locale non era poi così orribile come aveva immaginato. Certo, necessitava di una ristrutturazione profonda a partire dal pavimento; e poi le sedie potevano essere più comode e moderne, le pareti avevano bisogno di una mano di pittura fresca, i tavoli potevano essere più puliti e la musica più decente, però puzzava meno di altri bar. In quanto alla clientela, meglio lasciar
stare, non valevano la feccia di Milano ma potevano benissimo dargli del tu. A servire era una ragazza, cinese ovviamente. Era giovane e aveva un look molto stravagante, degno dei cartoni animati giapponesi. Si era truccata con un rossetto tanto acceso da fermare il traffico; i capelli erano rasati sulle tempie, per il resto erano raccolti in ciocche attaccate con il gel e sparati per aria come antenne televisive. Beata gioventù. Ma a lui i giovani piacevano e li invidiava pure un po’. Ordinò un Campari che gli fu servito con delle patatine tristi e stantie, e delle enormi olive verdi dall’aspetto poco invitante. Evitò di mangiare e si concentrò sul drink. Sollevò il bicchiere e osservò il locale e la gente attraverso il filtro rosso del liquido. Dopo aver bevuto un primo lungo sorso, cominciò a sentirsi meglio. Sentì la tristezza dissiparsi, tuttavia per sicurezza ordinò un secondo giro. Per raggiungere lo stato di stordimento necessario, fu costretto a ordinare altre due volte. Quando si alzò per pagare, sentì la testa girare e le gambe cedere, e quando mosse il primo passo sbandò quel tanto che lo costrinse a fermarsi e reggersi alla sedia. Si sentì osservato dalla ragazza, così si sforzò di sorriderle per rassicurarla, però lei non ricambiò il sorriso. Pagò e salutò, rendendosi conto di aver biascicato quelle due semplici parole. Forse per una volta aveva superato il limite stabilito di alcol. Per sua fortuna il freddo improvviso e soprattutto la pioggia, che ora cadeva in gocce più consistenti, riuscirono a dargli un’immediata scossa. Non a sufficienza, però. Un’auto, per evitare d’invadere la corsia riservata ai mezzi pubblici, svoltò al di qua dello sparti traffico all’ultimo istante. Lui se ne accorse giusto in tempo per evitare l’impatto; lo stesso non poté fare con l’acqua sollevata dallo spericolato autista, così si ritrovò inzuppato dalla vita in giù. Maledisse l’automobilista e la pioggia, poi si guardò attorno con maggiore attenzione nel timore di qualche altro mezzo in arrivo, e attraversò. Inciampò nel binario del tram, ma recuperò l’equilibrio solo un attimo prima di finire disteso sull’asfalto bagnato. Nuovi improperi si mischiarono alla pioggia. Qualche istante più tardi si ritrovò al sicuro dall’altro lato di viale Ungheria; gli restavano pochi metri da percorrere per arrivare a casa e contò, con un po’ di fortuna, di arrivarci incolume. Quando giunse al suo indirizzo si sentì meglio, ma non troppo, gli era rimasta la spossatezza. Si augurò servisse ad addormentarsi in breve tempo.
Lo sguardo gli cadde per abitudine sulla cassetta della posta e, nonostante la vista fosse annebbiata, si accorse della busta. Fu tentato di lasciarla dov’era e rimandarne il recupero all’indomani, ma poi cambiò idea e la ritirò. Nessun dubbio che fosse destinata a lui. Stampato sotto la dicitura Destinatario, il suo nome, Rolando Ferri, però per non interrompere l’incantesimo, decise di non aprirla e quando fu in casa, non accese nemmeno le luci, lanciò la busta sul tavolo e si spogliò in sala, lasciando sul pavimento scarpe e vestiti bagnati; avrebbe anche rinunciato a passare dal bagno se non avesse avuto i boxer inzuppati. Rinunciò però a lavarsi i denti e si diresse dritto in camera da letto. Era stordito e ringraziò Mr Campari per l’aiuto; mentre gli occhi cominciavano a chiudersi. Si sentì scivolare verso il basso, nel profondo del sonno; trasalì un paio di volte a causa delle contrazioni nervose, poi crollò. Quella notte sognò, e non furono visioni gradevoli. *** Alla fine si arrese. Dopo cinque tentativi terminati tutti allo stesso modo, una decina di squilli prima di sentire la voce registrata della segreteria, rinunciò alla telefonata quotidiana. “Lo sto perdendo” si disse. Poi si diede della stupida perché lo aveva già perso, poco per volta, a ogni compleanno festeggiato, a ogni abito dismesso, a ogni anno scolastico terminato. Una lacrima le rigò il viso. Si diede della stupida una seconda volta, perché lui stava solo crescendo e seguiva la propria strada. Stava diventando un uomo, anzi lo era già, eppure un’altra lacrima scese lo stesso, fottendosene delle sue riflessioni e percorse la guancia attraverso il solco scavato dalla precedente. Quant’era difficile accettarlo, però. E pensare che fino a poco tempo prima faceva fatica ad accogliere i cambiamenti che il tempo aveva portato al proprio corpo; invece, aveva scoperto che era ancora più difficile sopportare che un figlio crescesse e si allontanasse, che avesse una vita propria, indipendente, da un’altra parte e con un’altra donna a prendersi cura di lui, e godere dei suoi baci e dei suoi abbracci. Che cosa ne sapeva lei, l’ipotetica e futura donna del figlio, di com’era da piccolo? Cosa ne poteva sapere dei suoi sorrisi sdentati? Che cosa sapeva dei suoi primi passi e delle prime parole? La vera memoria dei primi anni di vita non appartiene a un figlio o alla sua compagna, ma a chi lo ha conosciuto e visto crescere, ossia la madre.
Si asciugò le lacrime e cominciò a spogliarsi, lì in salotto. Indossava ancora la divisa, evento raro e riservato a situazioni particolari. Mentre si toglieva la giacca, la targhetta con il suo nome si staccò e finì sul pavimento; si chinò a raccoglierla e quando fu nel palmo della mano, la studiò, leggendo il suo stesso nome, Francesca Costa, come se quel pezzo di plastica potesse darle conferma di essere sempre lei, malgrado i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. La lanciò sul divano e quando ebbe finito di spogliarsi, si avviò verso la camera da letto dove indossò il pigiama, maledicendosi per non averlo posato sul calorifero prima di uscire di casa. Si diresse in cucina per prepararsi una tisana che, forse, l’avrebbe aiutata a dormire. Aveva avuto una giornata pesante, per di più cominciata troppo presto, dunque era stanca e il sonno non sarebbe tardato ad arrivare. Quel giorno aveva perso un collaboratore in pensione, l’uomo che aveva sostituito in commissariato. Aveva sessantadue anni ed era ancora in forma e, a quanto ne sapeva, in salute. Aveva continuato a far visita ai vecchi colleghi, perché, come diceva il detto, chi è stato poliziotto, lo sarà per sempre. Negli ultimi tempi le visite, però, si erano diradate. Tutti avevano pensato che fosse normale e giusto così, perché poco per volta ci si abitua alla nuova condizione. Poi avevano scoperto che il motivo di quel distacco era stata la depressione causata dalla separazione dalla moglie. Una vita spesa a raccontarle scuse per ogni imprevisto, ogni serata o fine settimana saltato. Una vita consumata tra promesse di tempi migliori, ad aspettare la pensione per regalarle la felicità che il servizio aveva sempre costretto a rinviare, come la gita in barca con gli amici, la vacanza dall’altra parte del mondo, la crociera, un’intera estate al mare, il Natale in baita. Infine scoprire che lei ne aveva avuto abbastanza di aspettare e lui non aveva retto al dolore e, forse, alla vergogna e si era suicidato impiccandosi. Quella sera erano ancora troppo vivide le immagini di morte della mattina, quando era stata impegnata nella perquisizione in casa dell’ex collega, una casa ordinaria come lui. Le era rimasta impressa, però, la fotografia sulla scrivania che lo ritraeva abbracciato, felice e sorridente alla moglie, e allora si chiese quanti uomini di sua conoscenza conservassero la foto con l’ex sulla scrivania. Ricordava il malessere che aveva provato continuando a guardare quell’immagine, la malinconia che l’aveva colta e le parole dell’ispettore Maggio quando l’aveva raggiunta e le aveva chiesto se avesse trovato
qualcosa d’interessante; la sua risposta era stata solo rimpianti e tanta tristezza. A pensarci, anche quello era stato causato dal tempo. L’amore che finisce, la vita che finisce. Lei ne sapeva già qualcosa, almeno per quanto riguardava l’amore. Un tempo aveva avuto un marito; si erano amati, però poi erano arrivati, come per tutti, i primi contrasti che poco per volta si erano trasformati in problemi. I problemi, però, fanno paura e allora aveva deciso di comportarsi come i bambini, che quando pensano di aver visto un mostro sotto il letto, chiudono gli occhi credendo che in quel modo sparirà da solo. Per cui lei non aveva voluto parlare dei suoi problemi con il marito; se non ne parlava, il problema non lo vedeva, se non lo vedeva, il problema non esisteva o sarebbe scomparso. Il male esiste e ha molte facce, e tanti modi per mostrarsi. Il male provoca dolore e se arriva da chi ami, da chi ti avrebbe dovuto amare e proteggere, diventa distruttivo. Ma, così come esiste il male, esiste il bene; alle ingiustizie si contrappone la giustizia, ai mostri e ai demoni si contrappongono gli angeli. Anche loro sono in grado di restituire le sofferenze ricevute. Sono gli angeli vendicatori e quando decidono di vendicarsi, diventano implacabili.
CAPITOLO 8 Lunedì Si svegliò con l’incessante ritmo metal della suoneria del telefono. Ci mise un po’ a capire che era quella abbinata al numero dell’ufficio. Non sopportava quel genere di musica, la considerava un disturbo alla quiete pubblica, un fastidio per le orecchie, per questo l’aveva collegata al lavoro. Si accorse anche di essere in compagnia di un gran mal di testa, che aveva la bocca secca e un alito pestilenziale, fresco ricordo, per modo di dire, della serata appena trascorsa in compagnia di un collega. Era da tempo che lui l’aveva invitata a uscire, però lei aveva sempre rimandato, trovando scuse più o meno plausibili; il tipo non le dispiaceva, ma era sposato e lei non aveva nessuna intenzione di cacciarsi in situazioni complicate e, soprattutto, non era nel suo stile destabilizzare l’equilibrio familiare di altri. Veniva da un matrimonio fallito e non voleva essere la causa del fallimento altrui. Alla fine aveva accettato, tuttavia con la ferma convinzione che il momento più scabroso della serata sarebbe stato lo scambio di due casti baci sulle guance per augurarsi la buona notte. In realtà, non le era stato necessario imporselo, perché lui aveva fatto di tutto per farle passare ogni fantasia. Non gli mancava l’intelligenza, ma a quella erano risultati decisamente superiori l’arroganza e l’ego spropositato. Il protagonista della serata doveva essere lui: lui che aveva una soluzione per tutto, lui che di ogni argomento ne sapeva sempre più di tutti, lui che raccontava le avventure vissute dentro e fuori la polizia, le imprese automobilistiche, le conquiste femminili, i trionfi sportivi e lavorativi, le decorazioni ricevute, le capacità di memoria, di guida e infallibilità in generale, e che potevano essere avvicinate solo dai membri maschili della sua famiglia, padre e figlio adolescente. Logorroico all’inverosimile, si considerava l’unità di misura del genere umano. Era stata tentata di dirgli di riprendere fiato ogni tanto e di troncare la serata o addirittura farla terminare in rissa, ma aveva dovuto desistere
solo per il fatto di non essere uscita con la propria auto e non aveva nessuna intenzione di chiamare un taxi a quell’ora. Rientrando a casa, naturalmente dopo aver respinto al mittente le scontate avance di fine serata, tanto per essere sicura di addormentarsi subito e non essere costretta a rivivere i momenti più tristi della stessa, si era bevuta un paio di grappe. Le faceva schifo, la conservava in casa solo per eventuali ospiti, però era l’unica cosa che poteva toglierle di bocca il brutto sapore della cena e l’amarezza della serata, oltre che stordirla. Aveva fatto il suo dovere, anche fin troppo bene, tanto da impedirle di sentire la sveglia e tanto da chiedere a Maggio di ripetere ciò che le aveva appena detto al telefono. «È stato ritrovato un cadavere lungo il viale Caterina da Forlì, zona Bande Nere, in un punto tra il viale e il parco omonimo. Noi siamo già in strada» le aveva detto l’ispettore. Era a Milano da non molto tempo, ma abbastanza per essere stata nel quartiere ebraico, attiguo al parco. «So dove si trova. Vi raggiungo presto.» Dall’altra parte provenne una lunga pausa. «Sta bene commissario?» le chiese Maggio all’improvviso. Restò in silenzio per un momento, il collega doveva aver capito che non era in piena forma, forse aveva pronunciato quelle poche parole biascicando come una vecchia o come… un ubriaco, si disse. «Sì, Maggio, è tutto a posto. Ci vediamo tra poco» confermò. In realtà, decise di prendersi il tempo necessario per presentarsi in condizioni decenti. Non le andava di offuscare l’immagine professionale con cui era arrivata in città, costruita con oltre vent’anni di servizio e sacrifici alle spalle. Pertanto, mise su una moka e intanto, andò in bagno a lavarsi, per poi passare a un accurato controllo dei danni lasciati dall’alcol; infine si dedicò al trucco che risultò più impegnativo del solito, soprattutto a causa delle occhiaie scure. Per fortuna possedeva dei correttori miracolosi, inoltre la caffeina fece subito effetto, agevolata da una sigaretta. Mentre si vestiva, mise su una seconda moka e quando ritenne di essere ben sveglia e presentabile, uscì di casa. Il luogo le era familiare, anche se offuscato dalla pioggia. Arrivò con la sua automobile fin dove le fu possibile, ad accoglierla un paio di agenti. Scese dall’auto e infilò un piede in una pozza, regalo di quei primi giorni d’autunno.
«Merda!» imprecò quando tirò fuori la scarpa. Il tacco era affondato e il fango le aveva sporcato anche l’orlo dei pantaloni. Aveva pensato di essere stata furba e parcheggiare lontano dalle pozze d’acqua, invece si era tuffata direttamente nelle sabbie mobili. Un agente, colto dalla pietà o ansioso di compiacerla, le si avvicinò per proteggerla con il suo ombrello. «Buongiorno commissario Costa, l’accompagno.» Si mossero tra i colleghi già sul luogo e non le sfuggirono le occhiate e gli sguardi prolungati di qualcuno. Non le dava fastidio, anzi, aveva smesso di chiedersi se i colleghi uomini la guardassero per semplice curiosità o solo per ammirarla. Notò Maggio. Come sempre l’ispettore era vestito di nero, in una mano teneva una sigaretta e nell’altra una cartelletta, il capo chino. Era in disparte sotto un lampione, la cui tiepida luce gialla, unita all’alone di umidità che saliva dal terreno, alla pioggia sottile, al suo abito scuro e al ritrovamento di un cadavere, completavano una perfetta cartolina di morte. Quando la vide arrivare, si mosse dalla sua parte. Lei, intanto, salutò e ringraziò il suo accompagnatore. «Ciao Maggio.» «Buongiorno commissario» rispose lui in maniera più formale. Si accorse che la stava osservando. «Che cosa ha fatto alle scarpe?» chiese, infatti. «Niente, me le sono impanate» rispose con un sorriso di scherno. Sorrise anche lui. «Nottata pesante?» s’informò con la sua consueta espressione pacifica in grado di consolarla. «È colpa di questa pioggia. Sarò meteo qualcosa» si giustificò. Poi diede un’occhiata attorno per sfuggire al suo sguardo. «Dopo la pioggia arriva sempre il sole» commentò lui. «Tranne che a Milano» rispose lei con sarcasmo. «Non sia così pessimista, commissario. Anche la notte più buia ha termine» aggiunse l’ispettore. Francesca si voltò di nuovo a fissarlo. «Dovresti scrivere i messaggini dei Baci Perugina.» Lui sorrise. «Ha già fatto colazione?» Stava già per chiedergli cosa c’entrava la colazione, quando lui specificò: «La mia l’ho già vomitata un paio di volte.» Francesca inarcò un sopracciglio. «È conciato tanto male?» «Abbastanza, a ogni buon conto vedrà da sé.» Indossarono dei calzari e dei guanti in lattice, Maggio si tolse la giacca e s’infilò la cravatta nella camicia. Superarono lo sbarramento messo su per tenere lontani i curiosi, precauzione superflua a causa dell’ora e della
pioggia; gli unici curiosi osservavano la scena dalle finestre delle case che si affacciavano sul parco. Salutò un paio di facce conosciute, fino a raggiungere il luogo del ritrovamento. Il corpo era riverso ai piedi di una panchina metallica, riparata dall’ombra di un solo albero, uno di quelli che danno la malinconia solo a guardarli, un salice piangente. Il cadavere si mimetizzava tra l’erba troppo alta e la tanta spazzatura abbandonata sul viale. La panchina stessa era coperta di rifiuti di ogni genere. Intorno al corpo vide muoversi i tecnici della scientifica che, a causa delle loro tute bianche e della foschia, sembravano dei fantasmi. Poi si accorse di Patrizio Gatti, il medico legale, chino in mezzo all’erba. Aveva superato i cinquant’anni, però era ancora in ottima forma. Malgrado la situazione, Francesca non poté fare a meno di ammirarne i capelli ancora fluenti. Era un medico legale atipico per la sua esperienza, forse figlio dei tempi moderni: fisico curato, capelli lunghi, tatuaggi in vista e abiti attillati. «Buongiorno commissario» la salutò quando la vide arrivare. «Buongiorno a lei, dottore» rispose Francesca e si avvicinò di più. Il medico le fece cenno di chinarsi al suo fianco: come prevedibile, stava esaminando il cadavere. Si trattava di un uomo senza alcun dubbio. Era vestito o, quanto meno, indossava ciò che erano stati degli abiti maschili. Erano strappati, anzi, ridotti in brandelli. Attraverso gli strappi nel tessuto s’intravedevano le lacerazioni che gli erano state inflitte; altre ferite, molto profonde, si trovavano sulle parti scoperte del corpo. Il naso era stato tranciato quasi di netto, così come un orecchio e parte di una guancia, lasciando intravedere il bianco delle ossa. Poi c’erano le ferite sugli avambracci e sui polsi. Il commissario non vomitò il caffè, ma benedisse il suo proverbiale scarso olfatto. «Ha cercato di ripararsi il volto, poveraccio» spiegò il medico. «Da cosa, secondo lei?» «Da qualcosa di molto affilato» le rispose rimanendo vago. «Quando pensa di eseguire l’autopsia?» «Domani mattina di buon’ora. Vuole farmi compagnia?» le chiese, voltandosi a guardarla con un sorriso malizioso. Su Patrizio Gatti circolavano voci riguardanti la sua sfera privata: il suo matrimonio entrava regolarmente in crisi e si diceva avesse avuto diverse amanti; qualcuno raccontava che non disdegnasse avventure omosessuali. «Allora? L’aspetto?» chiese ancora. Francesca si ridestò. «Sì, sì, ci sarò» rispose, e Patrizio reagì con un sorriso.
In quel momento furono raggiunti da Maggio. «Commissario, poi c’è questo. È stato lasciato ai piedi del cadavere» disse mostrandole un sacchetto trasparente. Pensò di aver capito di cosa si trattava, tuttavia aspettò di studiarlo da vicino prima di parlare. Era uno di quei santini o immaginette religiose molto comuni, di quelle che vengono distribuite in chiesa in cambio di un’offerta; rappresentava i sette angeli biblici; tre si trovavano al centro dell’immagine e, pur non essendo una religiosa praticante, capì che si trattava degli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele. L’arcangelo Michele, armato di spada, schiacciava con un piede la testa di quello che doveva essere il diavolo. La figura centrale, che la scritta indicava come Gabriele, stringeva in una mano un lungo corno e nell’altra un fiore. La terza figura, l’arcangelo Raffaele, era rappresentato con una specie di penna e un calice luminoso. Voltò l’immagine e trovò stampata una didascalia: “Uno dei quattro esseri viventi diede ai sette angeli sette coppe d’oro colme dell’ira di Dio che vive nei secoli dei secoli. Il tempio si riempì del fumo che usciva dalla gloria di Dio e dalla sua potenza: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli. Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: "Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio”. Terminato di leggere, si rivolse a Maggio. «Chi ha trovato il cadavere?» Lui le indicò l’uomo che stava parlando con un collega, l’ispettore Raho. Il commissario lo osservò. Era un ragazzo sulla trentina, uno di quelli che portano con disinvoltura una barba lunga e nera sul modello di certi musulmani, indossava abiti da runner. «Stava correndo lungo il perimetro del parco, poi ha attraversato per raggiungere l’altra parte del viale, dove ha parcheggiato l’auto ed è passato davanti alla panchina, scorgendo il corpo» le spiegò Maggio. Lei annuì di nuovo, in realtà si chiese quale fosse lo scopo di correre con un tempo simile; considerava importante l’attività fisica ma senza esagerare; correre sotto la pioggia era davvero troppo, roba da ritrovarsi acqua piovana perfino dentro le mutande una volta tornati a casa. «Vuole fargli qualche domanda?» le chiese Maggio ridestandola. Lei annuì. Maggio si avviò verso il collega. Dopo un cenno d’intesa, Raho si allontanò, permettendo a Francesca di parlare al runner. «Mi racconti tutto» gli disse senza preamboli. Non le sfuggì l’esasperazione che per un attimo si formò sul volto dell’uomo; lo comprendeva, non era piacevole per nessuno di loro trovarsi lì, eppure ognuno aveva un ruolo e dei doveri in quella faccenda.
In ogni caso, l’esasperazione del runner durò solo il tempo di un respiro. «Come ho detto ai suoi colleghi, da queste parti ci aspettavamo che accadesse una cosa simile, ormai è diventato impossibile vivere» attaccò l’uomo. «Si riferisce a qualcosa in particolare?» Sorrise appena. «Ha avuto modo di guardarsi intorno? Ha visto lo scempio che ci circonda?» Si voltò per mostrarle le condizioni in cui versava il parco. In effetti la situazione era difficile. Aveva notato i cestini stracolmi di rifiuti, le bottiglie di vetro e le lattine abbandonate in mezzo all’erba, così come le panchine sporche o divelte. «Quando l’abbiamo fatto presente ai vostri colleghi della locale, ci hanno risposto che avevano una sola pattuglia in zona, così ci hanno consigliato di rivolgerci al Consiglio di zona, come se non l’avessimo già fatto… denunce per gli assembramenti, per gli schiamazzi, per l’abbandono di rifiuti, per gli atti di vandalismo. Non c’è niente da fare, esiste la Milano di quelli che rispettano le regole, che si mettono i guanti monouso e le mascherine, che si mettono in fila per farsi misurare la temperatura e controllare il green pass, e poi c’è quest’altra Milano» continuò a raccontare il runner. Francesca annuì, sorbendosi il suo sfogo, comprendeva anche quello, però aveva altro cui pensare, a parte il fatto che tutto ciò di cui si lamentava accadeva in ogni altra parte del paese. «Posso capire la sua amarezza, ma torniamo a questa mattina.» «Sono venuto a correre come faccio ogni giorno, sempre alla stessa ora prima di andare a lavorare. Parcheggio l’auto sul viale e corro per tutta la perimetrale, da piazza Tripoli a Bande Nere» spiegò. «Ha notato qualcosa di diverso dagli altri giorni?» Scosse la testa. «Niente, tutto uguale a ogni mattina, le stesse facce, gli stessi alberi e perfino la stessa pioggia.» «Altri corridori abituali?» «Non solo. Ci sono anche quelli con i cani, ormai ci conosciamo tutti di vista.» «Per cui, non ha notato volti nuovi.» Negò di nuovo. «No, nessuno.» «Come si è accorto del cadavere?» «Ci sarei passato sopra se non ci fosse stata la panchina… tra la fretta, la pioggia e l’erba alta, era davvero difficile scorgerlo. Inoltre era ancora piuttosto buio. Ho notato la scarpa che spuntava, così mi sono fermato e solo da vicino ho capito che si trattava di una persona.» «Neanche allora ha notato qualcosa? Un’auto che si allontanava, qualcuno di fretta…»
«No, le ripeto, era tutto tranquillo e sembrava uguale alle altre mattine.» Lei annuì. «D’accordo. I colleghi si metteranno in contatto con lei per la deposizione e, ovviamente, se le venisse in mente qualche altro particolare, non si faccia problemi a segnalarcelo» disse Francesca, che poi si rivolse a Maggio. «La vittima aveva documenti?» Il collega annuì e diede uno sguardo agli appunti sulla sua cartelletta. «Giacomo Musso, trentotto anni, di Rozzano ma originario di Torino. Nel portafoglio c’erano anche dei soldi, ottanta euro e spiccioli.» «Per cui non si è trattato di rapina.» «Infatti, non credo sia questo il movente» confermò lui. «Avete già controllato se risulta schedato?» «Direi che il tizio avesse abbastanza precedenti da mettere su una collezione: possesso e spaccio, risse, lesioni aggravate, rapine e furto, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Tutto sommato un pesce piccolo, un delinquente di quartiere, un merluzzo in mezzo agli squali, comunque molto conosciuto nell’ambiente della malavita milanese.» Il commissario rise all’espressione ittica usata da lui, solo i campani sapevano essere tanto coloriti ed efficaci. «Abbastanza grave da giustificare un’esecuzione del genere?» chiese infine. Si strinse nelle spalle. «Chissà. Negli ultimi tempi sono entrati in gioco bande di stranieri e con loro le regole sono cambiate. A proposito, era soprannominato Otello.» «Non credo avesse un bel colorito nemmeno da vivo.» «No, in effetti, si è meritato questo appellativo non per la pelle scura, ma a causa della sua gelosia, pare che fosse addirittura un tipo ossessivo.» «Allora scambieremo due chiacchiere con la sua Desdemona.» «Maria Elena. Convivevano da parecchi anni. Niente figli.» «Voglio che visionate le immagini delle telecamere in zona» richiese lei. L’ispettore rispose con una smorfia. «Che c’è Maggio?» «Chi ha sistemato Otello ha scelto con cura il luogo perché questo tratto del vicolo non è video sorvegliato.» «Cazzo!» sbottò lei. Poi si rese conto di aver esagerato. «Chiedo scusa, Maggio.» «Ci mancherebbe commissario.» «Vorrà dire che faremo a meno delle immagini della videosorveglianza. Manda qualcuno nel palazzo di fronte, non si sa mai che un insonne abbia assistito alla scena dalla finestra» gli disse. L’ispettore annuì guardando verso l’edificio e la sua espressione non mostrava ottimismo. Tanti alberi coprivano quel tratto di viale.
CAPITOLO 9 Finalmente riemerse dall’incubo. Il cuore gli era risalito fino in gola e stava continuando a pompare senza sosta. Aveva il fiato corto e sentiva le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte e le mani; gli era rimasta anche la sensazione di angoscia tipica dei sogni cattivi. Si sollevò sulle braccia poi, una volta resosi conto di trovarsi al sicuro della sua camera, si appoggiò alla testiera del letto; poco alla volta il respiro tornò normale e trovò il coraggio di allungarsi per accendere la luce. Appena la stanza fu illuminata, non si mise a cercare mostri o spettri perché i suoi incubi erano affollati di esplosioni, detriti, spari, veli neri, pianti e disperazione e di marce funebri. Deglutì. Il sogno era sempre lo stesso, anche se lui quel giorno in auto non c’era, la sua mente lo collocava lì in ogni caso. Era seduto sul sedile del passeggero e alternava lo sguardo tra il panorama alla sua destra e il volto rilassato del compagno di viaggio: il suo collega, nonché migliore amico, Ludovico Tortora. Era una giornata bellissima, piena di luce e di colori, come il blu dello Ionio alla loro destra. Stava rivivendo uno dei loro spostamenti. Quel giorno erano partiti da Isola Capo Rizzuto, avevano superato Crotone e stavano percorrendo la statale 106 in direzione di Sibari. Gli sembrò di riudirne la voce roca da fumatore incallito. «Lo sai che gli abitanti della vecchia Sibari avevano la fama di essere inclini ai vizi?» gli aveva detto Ludovico. Era sempre stato un uomo di cultura, e Ferri amava ascoltarlo mentre condivideva le sue conoscenze. Non era saccente, ma amante del sapere e per lui era un piacere condividerlo con chi gli stava a cuore. «E tu come fai a saperlo?» aveva ribattuto Ferri. «Sono vecchio, ma non troppo da dire che c’ero» rispose Ludovico. Nell’abitacolo risuonò la sua risata argentina, Ferri poteva vedere i baffi folti e scuri dell’amico, forse un po’ fuori moda. «La leggenda dice che amavano ogni tipo di piacere, dal cibo agli abiti, dai gioielli al sesso. I sibariti amavano vivere nel lusso e