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All’inizio del XVI secolo Matteo da Scandiano, un letterato idealista e coraggioso, accetta di svolgere una missione per conto del duca Ferrante d’Este. Viene così inviato come governatore a Castelnuovo di Garfagnana, una terra aspra e inospitale dove vige ancora la legge del più forte e tutti, persino i rappresentanti del clero, agiscono al di fuori di ogni regola, spinti soltanto dal desiderio di prevalere sugli altri, al soldo di chi può pagare meglio i loro servizi. Presto si pente di avere accettato quell’ingrato compito, anche perché ha dovuto lasciare in città la sua innamorata, la bella Lucrezia, che in sua assenza viene insidiata da un lussurioso e feroce cardinale, fratello del duca d’Este, che cercherà di vendicarsi per essere stato respinto dalla donna. Sullo sfondo della vicenda si muovono non soltanto i grandi personaggi dell’epoca, da papa Leone X all’imperatore Carlo V d’Asburgo, passando per il Doge di Venezia e il Granduca di Toscana, ma anche le idee che sconvolgono, in quel frangente storico, le fondamenta stesse su cui la società si è fino ad allora basata, dalle 99 tesi di Martin Lutero, alla visione copernicana del mondo che si allarga a dismisura oltre l’oceano, grazie alle recenti scoperte dei grandi navigatori europei.

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Published by redazione, 2024-02-13 07:19:39

Concerto furioso andante, Ignazio Basile

All’inizio del XVI secolo Matteo da Scandiano, un letterato idealista e coraggioso, accetta di svolgere una missione per conto del duca Ferrante d’Este. Viene così inviato come governatore a Castelnuovo di Garfagnana, una terra aspra e inospitale dove vige ancora la legge del più forte e tutti, persino i rappresentanti del clero, agiscono al di fuori di ogni regola, spinti soltanto dal desiderio di prevalere sugli altri, al soldo di chi può pagare meglio i loro servizi. Presto si pente di avere accettato quell’ingrato compito, anche perché ha dovuto lasciare in città la sua innamorata, la bella Lucrezia, che in sua assenza viene insidiata da un lussurioso e feroce cardinale, fratello del duca d’Este, che cercherà di vendicarsi per essere stato respinto dalla donna. Sullo sfondo della vicenda si muovono non soltanto i grandi personaggi dell’epoca, da papa Leone X all’imperatore Carlo V d’Asburgo, passando per il Doge di Venezia e il Granduca di Toscana, ma anche le idee che sconvolgono, in quel frangente storico, le fondamenta stesse su cui la società si è fino ad allora basata, dalle 99 tesi di Martin Lutero, alla visione copernicana del mondo che si allarga a dismisura oltre l’oceano, grazie alle recenti scoperte dei grandi navigatori europei.

In uscita il 29/2/2024 (14,50euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2024 (2,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


IGNAZIO SALVATORE BASILE CONCERTO FURIOSO ANDANTE ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ CONCERTO FURIOSO ANDANTE Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-647-6 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Febbraio 2024


Dedico il romanzo al genio italiano, espressosi in tutti i campi e in ogni secolo, con particolare riferimento al genio letterario e poetico del cinquecento. Ringrazio la casa editrice e i suoi collaboratori per la fiducia accordata al mio romanzo


CONCERTO FURIOSO ANDANTE


9 AVVERTENZA Gli avvenimenti qui narrati si svolgono nei primi due decenni del secolo XVI. I personaggi e gli eventi del romanzo, pur ambientati in luoghi reali, sono frutto della fantasia dell’autore. Anche se i nomi possono richiamare, e di fatto, in molti casi, richiamano dei personaggi che si rinvengono nelle cronache e nelle leggende dei luoghi di ambientazione, pur tuttavia le loro azioni, nobili o nefaste che esse possano apparire, non sono riferibili in alcun modo a dei personaggi realmente esistiti e sono da ritenersi quindi pura invenzione dell’autore.


11 CAPITOLO PRIMO La notte prima della sua partenza per Castelnuovo di Garfagnana, messer Matteo aveva sognato di trovarsi in sella a un cavallo scalmanato. Nel sogno lui si sentiva un marinaio veneziano, ma si era deciso a cavalcarlo per compiacere il facoltoso donatore di quel meraviglioso quadrupede. Così, nel tirare all’indietro le redini del destriero pensava di manovrare il timone di una imbarcazione; ma la paura e l’insicurezza gli facevano stringere i piedi speronati sui fianchi del povero cavallo, col risultato che quest’ultimo con la sua cavalcatura non sapeva se ubbidire al comando sulle redini, che gli imponeva di fermarsi, oppure assecondare il morso dello sprone, lanciandosi in avanti. Il risultato di questi comandi schizofrenici di messer Matteo fu di ritrovarsi sbalzato a terra, mesto e dolorante. Il malumore e gli interrogativi che quel sogno gli avevano procurato persistevano ancora quando, dopo cinque ore di viaggio, si fermò alla stazione di posta di Pavullo nel Frignano, per la prevista pausa del pranzo. Cosa rappresentava quel cavallo infuriato? E perché lui, da sempre avversario di Venezia, si figurava un marinaio


12 veneziano in quello strano sogno? E chi era mai quel facoltoso donatore? A questi interrogativi se ne aggiungevano altri che riguardavano il suo incarico di commissario in Garfagnana per conto del duca Ferrante d’Este. Non aveva avuto il coraggio di negarsi a quell’incarico, non volendo correre il rischio di rompere anche con lui dopo che i rapporti con il cardinale Martino, fratello del duca, si erano guastati da tempo. Ed era pur vero che per quell’incarico non si sentiva tagliato, ma proprio per questo voleva mettersi alla prova e misurarsi con qualcosa di nuovo e di diverso che dimostrasse a sé stesso e agli altri che lui non era soltanto un uomo di lettere e di pensiero. Ciò che, però, lo faceva soffrire di più era che, partendo, sarebbe stato lontano dalla sua amata Lucrezia. E a giustificare un eventuale diniego con questo motivo c’era inoltre il rischio che venisse canzonato, lui, quasi cinquantenne, mostrandosi in preda agli afrori amorosi come un giovinetto di primo pelo; senza contare che il disvelamento di quella intima relazione amorosa gli sarebbe potuta costare la titolarità dei privilegi ecclesiastici di cui godeva come chierico. E come avrebbe provveduto, in tal caso, ai suoi nove fratelli e, in particolare, alle sue cinque sorelle, tutte in procinto di maritarsi e bisognose di una congrua dote? L’onere di provvedervi spettava a lui, in quanto primogenito, dopo la morte di suo padre.


13 A ben vedere la vera molla che lo aveva spinto ad accettare quell’importante incarico, non era stato il vile danaro. Certo, lui da quell’incarico di commissario sperava di ricavarne un gruzzolo che gli avrebbe consentito di costruirsi una casetta tutta sua dove ritirarsi a coltivare i suoi studi e la sua passione per la scrittura e la letteratura. E però, dietro quella sua scelta, pur sofferta e contrastata, c’era anche il suo profondo desiderio di giustizia. Conosceva infatti di fama quanto fosse pericolosa quella regione, abitata da uomini rozzi e indisciplinati e infestata da numerose bande armate di fuorilegge. Voleva appagare la sua sete di giustizia riportando l’ordine e la legalità in quel territorio che lui sapeva devastato dalle scorribande di ribaldi e assassini, preda delle sopraffazioni e delle ingiustizie di individui prepotenti e di intere famiglie che si ponevano al di fuori e al di sopra della legge e dell’ordine costituito. Non di meno, intuiva bene che quella missione non era scevra da pericoli per la sua stessa incolumità; a cominciare proprio dal viaggio. C’era persino stato due volte in precedenza, e in entrambe le occasioni era rimasto colpito dalle asperità di quel territorio, accidentato e quasi inaccessibile, tutto anfratti e dirupi. Al momento di formalizzare l’accettazione del suo incarico, il duca lo aveva ampiamente rassicurato sugli strumenti e sulle forze necessarie a combattere il malaffare e le ingiustizie di quella travagliata e remota provincia ducale.


14 Ma come mai, invece, il duca non gli aveva dato neppure una misera scorta armata? E chi avrebbe provveduto a difenderlo in caso di un assalto da parte dei numerosi banditi che infestavano la zona? Fu mentre il suo convoglio stava per lasciare il Frignano e la Vicaria di Camporeggiano, poco dopo Rodea e poco prima di entrare nel territorio della sua futura giurisdizione, che le sue paure sembrarono prendere improvvisamente corpo. Udì uno scalpitio e delle urla forsennate dietro di lui. I suoi accompagnatori lo interrogarono con uno sguardo atterrito. Il suo sangue freddo ebbe però il sopravvento e ordinò al cocchiere di fermarsi. «Messer Matteo da Scandiano?» gli chiese un cavaliere con una faccia patibolare, chinandosi verso la carrozza. Messer Matteo notò che il cavaliere era solo. Forse i suoi accoliti si erano nascosti in attesa di ordini. «In carne e ossa! Cosa c’è? Cosa volete?» rispose messer Matteo con voce ferma, simulando una sicurezza che in quel momento non provava. «Voi non mi conoscete. Sono Pierino Pacchioni, uno dei luogotenenti di Domenico Marotto dei Carpineti per servirla, e volevo scusarmi di non averla omaggiata al suo ingresso nelle nostre terre. Son qui per rimediare!» rispose quello con enfasi levandosi il cappello piumato che gli ricopriva il capo. Messer Matteo sorrise in segno di ringraziamento. Non poté fare a meno di pensare che anche quelle terre erano del duca e che in sua vece le governava il commissario ducale Cesare


15 Cattaneo e che, comunque, quelle non erano le terre dei Carpineti ma, casomai, dei Montecuccoli; tuttavia, non reputò opportuno manifestare queste sue contrarietà e si limitò a ringraziare sorridendo ancora, imitato dai suoi accompagnatori che avevano addosso più timori di lui. «Servo vostro!» disse il bandito accommiatandosi. Quando furono abbastanza lontani il vice notaio camerale Boschetti, che il duca gli aveva voluto affiancare per la sovrintendenza sui registri dei tributi, dei censi e dei livelli del commissariato, ripresosi dallo spavento farfugliò qualcosa sui Carpineti, dicendo che lui li sapeva sul libro paga del papa Leone X. Ragionarono per un po’ sulle fazioni e sulle lotte che caratterizzavano quei turbolenti territori, e delle difficoltà, non certo ignote, di affermare la giurisdizione del loro duca se non con l’indispensabile appoggio delle milizie stanziali. Si chiesero inoltre che senso potesse avere quell’omaggio che comunque, se non proprio sinistro, suonava quantomeno ambiguo. Era forse una minaccia velata? Un avvertimento che dichiarava la loro presenza nel territorio? Oppure una richiesta di tregua? Nessuno poteva avere delle risposte certe; né il vice notaio camerale, né il suo segretario personale, il camerlengo Zoboli. Quel che era certo, anche se i nuovi emissari del duca non potevano saperlo, è che le bande rivali dei Carpineti e di Cato di Castagneto, pur avendo la base operativa nei pressi di Pavullo in Frignano, operavano con i loro uomini anche nel territorio confinante della Garfagnana, e avevano i loro uomini


16 sparsi in tutto il territorio, sino all’estremo limite di Castelnuovo, il capoluogo dov’era diretto Matteo da Scandiano e ove si ergeva, imponente e maestosa, la roccaforte degli Estensi, da tutti ritenuta, sino a quel momento storico, inespugnabile. E non potevano neppure sapere che stavano maturando, da parte dei mandanti di tutte le forze in campo, dei progetti così complessi e grandiosi che andavano ben al di là della loro personale incolumità. Intanto la carrozza si era spinta dentro la Garfagnana, lasciandosi alle spalle il Frignano. Dopo i commenti su quell’incontro pericoloso e misterioso allo stesso tempo, la stanchezza del viaggio ebbe il sopravvento su tutti loro. E subentrò il rilassamento che sempre consegue, tanto più dopo uno scampato pericolo, al volgere di un impegnativo viaggio. Affannati pensieri li accompagnarono sino a notte fonda, quando, dopo oltre dieci ore di viaggio da quando erano partiti da Ferrara, giunsero a Castelnuovo. Messer Matteo si sentiva sfibrato nel corpo e nello spirito, ma, per fortuna, era giunto incolume a destinazione.


17 CAPITOLO SECONDO Il Ducato d’Este era uno dei più piccoli fra gli stati italiani indipendenti. Non il più piccolo, certo; ma era una magra consolazione per il duca Ferrante pensare che ci fossero la Repubblica di Lucca e il Principato di Massa con un territorio meno esteso del suo. Per fortuna il suo ego smisurato, la sua nobile, secolare ascendenza e le sue alleanze, invero alquanto mutabili, gli impedivano di soffrire di claustrofobia, nonostante i suoi domini fossero circondati da elementi ostili: primo tra tutti lo Stato della Chiesa che, non essendo mai stato messo del tutto a tacere, dopo la morte del suocero Alessandro VI Borgia, oltre agli antichi privilegi feudali su Ferrara sembrava avanzare delle pretese perfino sulle città imperiali Modena e Reggio. Poi vi era il Granducato di Toscana, della famiglia Dei Medici, da sempre suoi acerrimi nemici e rivali: erano risultati vincitori persino nelle pretese del soglio papale a danno di suo fratello cardinale; e non erano mai cessate con Firenze le dispute territoriali. Infine la Repubblica di Venezia, la quale, da sempre sua nemica numero uno, da un po’ di tempo minacciava i suoi possedimenti al confine nordorientale. Per fortuna aveva per amico almeno il Ducato di Milano, pur conteso dai francesi agli Sforza, e il Marchesato di Mantova


18 dei Gonzaga; inoltre, grazie alle sue potenti e famigerate artiglierie, si era fatto un alleato prezioso nella Francia. Restavano quei miserabili di Lucca a contendergli i territori al confine occidentale; ma il duca non avrebbe mai ceduto neppure un centimetro della provincia di Garfagnana. Proprio lì, al contrario, aveva le sue mire espansionistiche, con il neanche tanto celato obiettivo di conquistare uno sbocco sul mar Tirreno che, seppure non alternativo a quello sull’Adriatico, raggiungibile dai suoi possedimenti attraverso il fiume Po ma con lo sbocco in territorio di Venezia, avrebbe allentato la sua dipendenza marittima dagli scomodi vicini veneziani. E la Garfagnana era un tassello importante di questo mosaico che gli Estensi andavano componendo. Dal Frignano, provincia modenese in mano loro da tanto tempo, si erano di recente allargati verso ovest, sino a Castelnuovo, grazie alla benevolenza che gli stessi garfagnini avevano mostrato al suo casato; e anche se alcuni paesi della regione erano rimasti fedeli alla repubblica lucchese, non di meno da quel territorio il duca sentiva il mare più vicino. E lì, nel Tirreno, il suo sogno si sarebbe realizzato. Ecco perché avrebbe difeso quella regione di nuova acquisizione con le unghie e con i denti; con ogni mezzo, lecito e anche illecito, se fosse stato necessario. E in quelle terre, nel Frignano e nella confinante Garfagnana erano più efficaci i metodi non ortodossi, dato che entrambe le province erano infestate da bande di briganti e malfattori che, approfittando della


19 conformazione geografica di quei territori e della loro lontananza dal centro, la facevano, o avrebbero voluto farla, da padrone; se non fosse stato che il duca Ferrante si era da tempo alleato con alcune delle famiglie che costituivano l’ossatura principale di queste bande di razziatori e banditi. I papi di Roma, d’altro canto, avevano brigato con le famiglie avversarie a quelle alleate con il duca, così che le zone del Frignano e della Garfagnana erano divenute un campo di battaglia dove le famiglie locali che ambivano al potere si facevano la guerra per interposta persona, le une parteggiando per lo Stato della Chiesa, le altre invece alleandosi con i principi estensi; e gli uni e gli altri finanziavano le diverse bande a suon di ducati d’oro. Chi ci rimetteva di più, in tutto questo, erano gli onesti abitanti delle due province, vessati e angariati da più parti, costretti anch’essi a schierarsi con il più forte ma senza garanzia di risultato e di legalità.


20 CAPITOLO TERZO Qualche tempo prima della partenza di Matteo da Scandiano per le sue terre in Garfagnana, il duca Ferrante aveva convocato uno dei suoi messi più valorosi e fidati. «Accomodatevi messer Rainulfo. Vi abbiamo convocato perché c’è un incarico per voi», esordì il duca. Rainulfo si limitò ad assentire con il capo. Aspettò quindi che il duca entrasse nei dettagli. «Vi ricordate ancora dove sta Pavullo in Frignano, nevvero?» disse quindi il duca venendo al dunque. «Certamente. Se non si fanno brutti incontri, da Ferrara ci si arriva in una mezza giornata. Se avete urgenza anche meno.» Il duca annuì soddisfatto, il suo messo capiva sempre al volo. E nessuno conosceva quella zona impervia come Rainulfo; solo lui poteva portare a termine l’incarico che aveva in mente con successo. «Dovete portare un messaggio verbale urgente a una vostra vecchia conoscenza: quel ribaldo di Cato di Castagneto.» «Dite pure, signor duca. Sono pronto a partire anche subito.» «Dovete informare Cato dell’arrivo del nuovo commissario, messer Matteo da Scandiano, che voi, credo, conosciate almeno di fama. Sollecitategli una vigilanza pronta e attenta, soprattutto nei confronti di Domenico Marotto dei Carpineti,


21 che da fonti certe mi risulta essere transitato dal libro paga del defunto papa Giulio II a quello del suo successore Leone X.» «Sarà fatto Eccellenza.» «Visto che siete là, chiedete a Cato se abbia notizie della banda di Cantello di Frassinoro; anch’essa sconfina spesso nella vicina Garfagnana e non sarebbe male se Cato la tenesse d’occhio o magari la portasse dalla sua parte.» «A quanto ne so io Cantello di Frassinoro è rimasto quel cane sciolto che era; sempre pronto però, in cambio di soldi, a servire chiunque», disse Rainulfo. «Bene. Prendete questi cinquanta ducati e dateli a Cato come anticipo per i suoi futuri servigi. Questi altri cinque sono per le vostre spese e il vostro disturbo. Partite immediatamente e contattatemi subito al vostro ritorno.» Come messo il duca aveva scelto Rainulfo Alberghetto, un suo uomo d’arme coraggioso, ma anche conosciuto dai banditi di Cato per essere stato uno di loro prima che lo inserisse nelle sue guardie con incarichi speciali a seguito di un episodio di valore in cui il giovane bandito lo aveva difeso a rischio della sua stessa vita. La collaborazione del bandito Cato con gli Estensi risaliva al 1510 quando il duca Ferrante si era opposto, con l’aiuto della banda di Castagneto, anche al tempo da lui capeggiata, alle milizie pontificie che, dopo essersi impadroniti di Reggio e Modena, volevano allungare le mani anche sul Frignano e sulla Garfagnana.


22 In quell’occasione, aveva conosciuto e reclutato il giovane Rainulfo, che gli aveva fatto scudo con il suo corpo durante un concitato parapiglia con alcuni papalini particolarmente intraprendenti e focosi. Come ordinatogli, il messo partì immediatamente. A spron battuto, in poco meno di due ore, da Ferrara giunse a Bologna dove cambiò, alla posta, il suo cavallo. Dopo essersi rifocillato a dovere partì per il Frignano. Adesso era a circa metà strada, ma la seconda metà del tragitto era assai più lenta e più ardua da percorrere. Rainulfo decise di procedere attraverso il passo Calderino. Si inerpicò per il versante appenninico senza più spronare il suo cavallo, ma lasciando che fosse l’animale a scegliere la giusta andatura; in certi tratti particolarmente scoscesi e pericolosi, smontava da cavallo e proseguiva a piedi, incoraggiando il valoroso quadrupede a proseguire, guidandolo per le briglie. Sotto i suoi occhi vide il paesaggio mutare gradatamente. Boschi di quercia e castagno si alternavano a siepi, prati e a coltivazioni di cereali. Sui versanti più ripidi trovò estesi terrazzamenti di vigneti e orti con annesse dimore più o meno imponenti a seconda dei terreni circostanti. Vi passò al largo, così come si tenne lontano dal castello dei Montecuccoli; anche se la famiglia era devota al duca, non voleva correre il rischio che si venisse a sapere della sua missione; doveva restare un segreto per tutti. Puntò, invece, direttamente alla locanda del Guercio, in località di Castagnedola. Il guercio in realtà non era il padrone, la locanda


23 era di una mezzana di Guiglia; lui era soltanto l’uomo che l’aveva sottratta all’attività di prostituta che svolgeva nel suo paese quando l’aveva conosciuta. La locanda era frequentata dagli sgherri di Cato e qualcuno lo avrebbe trovato lì di sicuro. Vi stazionavano come parte della loro strategia di controllo del territorio. Si sarebbe presentato e, dopo un buon bicchiere, avrebbe chiesto di essere accompagnato da Cato. Era inutile rischiare di essere assaliti e magari feriti a morte da qualche giovane affiliato che non lo conosceva e lo avrebbe potuto scambiare per uno sprovveduto viaggiatore che si era sperduto in quegli scoscesi territori di nessuno. In tutta la provincia ducale, che comprendeva sia il Frignano che la Garfagnana, particolarmente nelle zone di confine proliferavano, infatti, numerose bande di malviventi. Non tutti, però, erano sudditi del duca d’Este. Spesso accadeva che si associassero tra loro estensi, lucchesi, fiorentini e perfino lombardi. Questi malavitosi erano alquanto smaliziati e conoscevano bene i problemi e i cavilli della diversità di giurisdizione che favoriva un po’ tutti, reciprocamente, nella commissione dei reati in uno stato confinante, in quanto la perseguibilità era correlata a una estradizione difficile, se non impossibile, da ottenere. Per cui, commesso il reato, subito dopo ripassavano il confine e se ne tornavano da dove erano venuti. Il reato risultava così commesso in uno stato i cui organi giudiziari, senza la presenza fisica del reo, non potevano agire;


24 ed erano costretti a chiedere allo stato che li ospitava la cattura e poi la consegna ai propri organi di polizia. Ma se già era difficile la cattura per i reati commessi nello stesso stato, immaginiamo cosa potesse significare per le milizie locali la cattura per dei reati commessi altrove in danno, presumibilmente, di cittadini stranieri. Quei territori erano così diventati una terra di nessuno, dove gli onesti vivevano nella paura, se non nel terrore, e si viaggiava a rischio non soltanto dei propri danari e dei propri beni personali, ma soprattutto a rischio della propria vita. E gli ignari forestieri venivano spesso brutalmente assassinati perfino da banditi che agivano a viso scoperto, incuranti e certi che l’avrebbero fatta franca. Ai tempi in cui Rainulfo Alberghetto faceva parte della banda di Cato, la locanda del Guercio era frequentata anche dagli uomini affiliati ai Carpineti, ma lui li avrebbe riconosciuti dal modo di vestire e di muoversi: gli uomini di Domenico Marotto vestivano quasi come delle guardie regolari, con una camicia bianca con maniche lunghe a sbuffo e un pantalone a mezzo polpaccio; in estate, poi, la loro divisa era completata da una specie di gilet smanicato e delle scarpe basse, mentre in inverno indossavano degli stivali e delle casacche di panno pesante; portavano con sé, senza mai separarsene, uno schioppo con avancarica a pallettoni. Quelli della banda di Cato, al contrario, vestivano in maniera più libera e fantasiosa, anche se tutti o quasi tutti i componenti indossavano dei copricapo di forma conica, agghindati con stringhe di cuoio o


25 talvolta con nastri colorati, avevano le gambe avvolte da fasce di protezione che arrivavano sino alle ginocchia e si proteggevano dal freddo con degli ampi cappottacci di panno grezzo. Al contrario degli altri, questi ultimi giravano quasi sempre disarmati, anche se gli si leggeva in faccia che erano dei pendagli da forca pronti a scannare la propria madre per meno di cinque ducati d’oro. E le armi da fuoco le avevano comunque nascoste nei pressi, sempre pronti a imbracciarle in caso di bisogno, mentre in tasca avevano un affilato coltello, ufficialmente per i bisogni del desinare. Non di meno, anche gli scagnozzi dei Carpineti, nonostante l’apparenza di guardie regolari, quando c’era da menar le mani o tirar di coltello, a danno di qualcuno che difendeva in maniera esagerata i suoi beni, non si tiravano certo indietro. Il capo banda di Castagneto, Cato, fedele al duca d’Este, in realtà non era un comune e volgare bandito di montagna. Egli era piuttosto un soldato d’armi, un mercenario lo si sarebbe potuto perfino definire, non scevro da capacità organizzative e di comando, e non privo di una certa sua cultura. Se non ci fosse stata la famiglia rivale dei Montecuccoli, ai quali non si erano voluti sottomettere, i Castagneto di Cato avrebbero agito alla luce del sole, in piena legalità. Ma anche in quel modo inusuale e atipico essi servivano lo stesso duca estense, il quale apprezzava i servigi offerti dalla famiglia di Cato da Castagneto che, in senso lato, poteva ricomprendere anche Giuliano del Sillico e i Tanari di Gaggio,


26 nella misura in cui essa costituiva un temperamento e un contraltare alla banda di Domenico Bressi Marotto dei Carpineti, rivale di Cato e alleato del papa. Cato di Castagneto accolse con prontezza di spirito e buona predisposizione d’animo il messaggero del duca Ferrante. Con animo lieto e senso di gratitudine s’intascò i cinquanta ducati d’oro. «È sempre un piacere rivederti Rainulfo Alberghetto», esclamò dopo averlo abbracciato e dopo avere intascato i suoi ducati. «E sono altresì lieto di compiacere il nostro amato duca Ferrante. Riferiscigli che per lui sono pronto a gettarmi nel burrone più profondo di Pontecchio, dove le bande di quei gaglioffi, clericali amici del papa, si sono rifugiati!» Rainulfo sorrise per le iperboli del suo antico sodale. Non era cambiato affatto. «Ti fermi per il pranzo? Abbiamo tirato il collo a due capponi niente male, grassi quanto basta per sfamarci tutti quanti in abbondanza, non è vero ragazzi?» disse rivolto ai suoi sgherri, quando ormai si erano accomodati in una roccaforte semi diroccata che fungeva da rifugio e protezione dopo le loro frequenti scorribande. I suoi uomini assentirono con un grugnito di piacere e un ghigno di soddisfazione, senza smettere di giocare chi ai dadi, chi alle carte; qualcuno perfino agli scacchi. «Sua Eccellenza il duca mi ha raccomandato di tornare subito a riferirgli l’avvenuta commissione!»


27 «E tu l’hai fatta! E anche bene! Bevi almeno un altro bicchiere di vino!… Senti», aggiunse ancora Cato mentre il messo beveva il buon vino offertogli, «dirai al duca che quando lui reputi pronta l’occasione decisiva per liberarsi definitivamente della banda dei Carpineti, noi siamo pronti al suo servizio!» «Glielo dirò», disse Rainulfo posando il bicchiere e levandosi in piedi. Sapeva bene che il suo ex sodale Cato non agiva certo per motivi politici o per amore del suo duca. Rivaleggiando con la sua, la banda dei Carpineti lo costringeva a dividere il pingue bottino costituito dalle case e dalle fattorie del Frignano e della Garfagnana, esposte e disponibili a ogni saccheggio e grassazione che praticamente restavano impuniti. Ma certo evitò di dirlo al suo vecchio compagno di soperchierie. «Potrei schiacciarli per sempre con l’aiuto di alcuni fidati alleati; possiamo arrivare a mettere insieme sino a trecento uomini, tutti coraggiosi e opportunamente armati. Glielo dirai al signor duca?» «Stai pur tranquillo che glielo dirò», lo rassicurò Rainulfo. «E che si affaccino pure Mimmo Marotto e i suoi sgherri a tentare di importunare il nuovo commissario del duca nostro padrone! Riferiscigli pure di stare tranquillo che la nostra banda sarà vigile, notte e giorno, sull’incolumità del nuovo commissario e di tutti i suoi interessi, contro le bande rivali e contro lo stesso papa di Roma!» gli gridò dietro mentre quello era già risalito a cavallo per ripercorre al contrario la stessa strada fatta all’andata.


28 CAPITOLO QUARTO Se qualcuno avesse chiesto al re di Francia, oppure all’imperatore, dove fossero Pavullo nel Frignano e Castelnuovo di Garfagnana, costoro, nonostante la loro grandezza, non avrebbero saputo cosa rispondere. Quasi sicuramente sapevano dove fossero Modena e Reggio, dato che le città erano feudi imperiali e, come tali, concesse agli Estensi con quel vincolo. Al loro posto avrebbe risposto con maggiore cognizione di causa il papa Leone X della famiglia fiorentina dei Medici. Ma il duca Ferrante d’Este non ebbe mai timore né riverenza o soggezione nei confronti dei papi, dei re e degli imperatori. Conscio della fragilità e della precarietà dei suoi possedimenti, al confronto dei colossi stranieri e dei molossi italiani, papalini, veneti o fiorentini che fossero, riuscì sempre a difenderli adeguatamente, con delle opportune e strategiche alleanze, soprattutto dalle mire espansionistiche dei papi che avrebbero ingrandito volentieri il loro stato in danno del suo. La forza della diplomazia estense si incentrava su due cardini: l’ambiguità nelle alleanze, che lo portava a continuare a intrattenere rapporti anche con i nemici; e l’acquisizione e il mantenimento di una reputazione che doveva servire a


29 scoraggiare gli stati forti dall’aggressione nei confronti degli stati deboli. Nelle sue vene, oltre a quello dei suoi nobili ascendenti catalani, scorreva anche sangue popolano; sicuramente quello di Gueraldina Carlino, l’amante napoletana di Alfonso V d’Aragona, sua bisnonna. Con quel sangue popolano era transitata, nelle sue mani e nella sua testa, una grande abilità artigianale che il principe estense manifestava nella manifattura di oggetti in legno e ceramica e, soprattutto, mischiandosi all’ingente patrimonio genetico dei paterni avi guerrieri, nella modifica manuale dei cannoni e delle altre armi da fuoco allora in auge. Certamente, come tutti i principi, non gli mancavano l’audacia, il coraggio e l’ingegno militare, ma fu questa sua grande abilità manuale nel potenziamento e nel perfezionamento delle armi da fuoco a fare la sua fortuna politica e a consentirgli di navigare illeso in quel mare periglioso che fluttuava impetuoso nei primi decenni del secolo sedicesimo. A ben vedere questa sua manualità artigianale si addiceva al suo piccolo principato. Al contrario degli altri principi altolocati, che possedevano regni estesi e incommensurabili, talvolta perfino separati dai mari e dagli oceani, e a differenza perfino dei papi, i suoi possedimenti egli poteva toccarli tutti con mano e li misurava con gli occhi. Forse per questo motivo godeva della benevolenza dei suoi sudditi. Alcuni, come quelli della Garfagnana, lo avevano prescelto fra i tanti pretendenti, com’era d’altronde successo


30 anche per il Frignano ai suoi avi che, prima di lui, avevano posseduto quei territori, da sempre provincia agreste e montuosa della città di Modena. E così, il duca artigliere andava costruendo e difendendo il suo principato, pezzo per pezzo, come se fosse un’opera manuale. Gli altri principi potevano osservare i loro feudi sulla carta, lui era fisicamente legato alle sue terre, che conosceva metro per metro e con le quali aveva un rapporto viscerale, stretto e sanguigno. E la gente che vi abitava era il suo popolo, da proteggere, da difendere e da amare. Fine anteprima. Continua…


INDICE AVVERTENZA ............................................................................. 9 CAPITOLO PRIMO ..................................................................... 11 CAPITOLO SECONDO ................................................................ 17 CAPITOLO TERZO ..................................................................... 20 CAPITOLO QUARTO .................................................................. 28 CAPITOLO QUINTO .. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO SESTO .... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO SETTIMO ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO OTTAVO . ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO NONO ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO DECIMO .. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO UNDICESIMO ........... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO DODICESIMO ........... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


CAPITOLO TREDICESIMO .......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO QUATTORDICESIMO . ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO QUINDICESIMO ........ ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO SEDICESIMO ............ ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO DICIASSETTESIMO ... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO DICIOTTESIMO......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO DICIANNOVESIMO ... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTESIMO ............. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTUNESIMO ........ ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTIDUESIMO ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTITREESIMO ...... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTIQUATTRESIMOERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


CAPITOLO VENTICINQUESIMO .. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTISEIESIMO ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTISETTESIMO .... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO VENTOTTESIMO ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


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