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La vicenda narrata in questo romanzo si snoda alla fine del secolo scorso tra Venezia e l’isola fronte mare del Lido in una fitta trama di dialoghi, ricordi, emozioni, circostanze e sentimenti, che s'intrecciano e sgrovigliano nell’ambito di un variegato confronto generazionale. È perciò percorsa da pensieri diversi - filosofia, politica, educazione, mitologia, storia, poesia - amori diversi - filiale, liberatorio, passionale, platonico - ed esperienze diverse, che offrono alla protagonista, una giovane e deliziosa creatura educata al passato, le basi su cui attuare, in luogo di una serena esistenza nella penombra di un pressoché nulla, la propria vita; e a suo padre, insegnante in pensione, il destro per esprimere le dolenze e i rimpianti di un tempo smarrito. Le cicatrici, i ricordi, le note ineludibili del passato alimentano quel processo evolutivo e lo accompagnano fino all'epilogo, che è espressione di almeno due fenomeni del nostro presente: la resurrezione della donna e il tramonto della democrazia.

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Published by redazione, 2024-04-11 07:33:38

Il placido tacere del nulla, Giuseppe Bearzi

La vicenda narrata in questo romanzo si snoda alla fine del secolo scorso tra Venezia e l’isola fronte mare del Lido in una fitta trama di dialoghi, ricordi, emozioni, circostanze e sentimenti, che s'intrecciano e sgrovigliano nell’ambito di un variegato confronto generazionale. È perciò percorsa da pensieri diversi - filosofia, politica, educazione, mitologia, storia, poesia - amori diversi - filiale, liberatorio, passionale, platonico - ed esperienze diverse, che offrono alla protagonista, una giovane e deliziosa creatura educata al passato, le basi su cui attuare, in luogo di una serena esistenza nella penombra di un pressoché nulla, la propria vita; e a suo padre, insegnante in pensione, il destro per esprimere le dolenze e i rimpianti di un tempo smarrito. Le cicatrici, i ricordi, le note ineludibili del passato alimentano quel processo evolutivo e lo accompagnano fino all'epilogo, che è espressione di almeno due fenomeni del nostro presente: la resurrezione della donna e il tramonto della democrazia.

In uscita il 30/4/2024 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2024 (5,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


GIUSEPPE BEARZI IL PLACIDO TACERE DEL NULLA ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL PLACIDO TACERE DEL NULLA Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-661-2 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2024


A Maddalena


Non si può discendere due volte nello stesso fiume. Eraclito


9 PROLOGO Il misterioso o l’inverosimile s’inserisce talvolta oltre il confine incerto della nostra comprensione e, penetrando, dilaga. In un placido tacere del nulla Ancilla, la giovane protagonista di questa storia, contrappone a un’apparenza docile e deliziosa, una personalità degna di Antigone, Elettra, addirittura di Europa, figlia del Re di Tiro. Un’Ancilla con un proprio fardello di bene e di male, che vive un suo mondo minimo, riservato, schivo in apparenza. Sarebbe facile prevedere per lei un’esistenza serena, svolta nella penombra di uno spazio discreto, grande quanto un campiello; un mondo attivo entro i modesti confini di un Lido di Venezia tardo 1900, appena successivo all’esplosione urbanistica del secondo dopoguerra. Non perciò il Lido delle lunghe spiagge zeppe di capanne per gran parte del litorale, dove si riversa un centro storico narcotizzato dal turismo e dal piccolo mondo dedito alle pratiche del malaffare. Ancilla, da quel mondo, non è nemmeno sfiorata. Per questo la vicenda narrata non riecheggia espressioni care alle cronache quotidiane, anzi le evita, per librarsi in spazi diversi di armonie e atmosfere soffuse, ispirate alla normalità dei residenti. Accade però che quel tratto in apparenza cristallino della sua vita sia incrinato dalla magia dell’inconsueto. Se in principio ne sembrerà sconvolta, presto si avvarrà di quel nuovo stato, impegnandosi ed esaltandosi, quasi volesse smentire la curva di quella funzione di densità a campana, detta “diagramma di Gauss”. Interpreti vivaci e onnipresenti del primo tratto sono la madre e poi il padre, alcune conoscenze, le riflessioni e i ricordi della propria esistenza. Pagine del passato, quindi, che si manifestano talvolta come ragioni, talaltra come torti della quotidianità. Pagine che penetrano nel fluire del racconto in maniera solo in apparenza casuale, perché – come refoli improvvisi su una vela – costringono la protagonista a mantenere la rotta agendo solo sul timone. Nel suffragare o sostenere il fluire degli eventi, quegli spunti e quelle riflessioni – appartenenti o appartenute al sogno, alle letture, alle


10 passioni – da un lato tessono la trama e dall’altro – tra presenze, incertezze, sensi ed emozioni – rivelano Ancilla. I pensieri e le sensazioni del suo vivere sono così impeciati nello svolgersi dell’ordito e così vivi nella sua mente che, nel narrare, prevale l’imperfezione dell’imperfetto e più di rado il passato remoto. Nel leggere queste pagine un lettore attento si accorgerà che, già dall’inizio, nelle sabbie mobili dello incipit, il racconto avrebbe dovuto svilupparsi in modo diverso. I protagonisti non avrebbero dovuto essere Ancilla o suo padre, Ireneo, Stefano, Anna Maria o il dottor Berti, bensì la libertà e la sua lenta metamorfosi, dai Sumeri ai giorni nostri, passando da un’attesa a un’altra. Avrei dovuto raccontare – benché l’avesse già fatto molto bene Luciano Canfora e con lui pure altri – il modo in cui sapienti, despoti, eroi, santi e peccatori avevano inteso, imposto o negato quel sommo bene attraverso il tortuoso percorso dei secoli, concedendo solo alcuni spazi a ciò che pensa e chiede la gente più desiderosa di disporne. Il tema della libertà, però, era troppo ambizioso: non avrei mai potuto stilare un saggio di tale portata. Tra il serio e il faceto, ipotizzavo che un bel giorno Theos, Re di tutti gli Dèi, preoccupato del pessimo uso che sul pianeta Terra si faceva della libertà, si tramutasse in gabbiano reale e, dal cielo sovrastante le acque della laguna di Venezia, planasse sulla prora di un cofano a motore, dove un ignaro pensionato era placidamente intento a pescare orate. L’intenzione del padre degli Dèi avrebbe voluto essere quella di affidare al primo essere umano che gli fosse capitato a tiro l’incarico di rilevare gli usi e gli abusi perpetrati dagli uomini di quel preziosissimo bene. Mi bastò scrivere una trentina di pagine per capire che un soggetto di tale portata avrebbe richiesto conoscenze, competenze e luminescenze, assenti in quel modesto protagonista. Lo avevo, infatti, concepito a mia immagine e somiglianza e, proprio per i suoi modesti caratteri, prescelto da Theos. Della mia abissale ignoranza si accorsero subito pure le mie affezionate curatrici editoriali. Non avevano terminato la lettura delle mie prime ventiquattro pagine, che me le resero, negandomi il loro consenso. Che fare? Procedere comunque? Abbandonare il pescatore alle nebbie della sua laguna? Ripensare il soggetto? Non fu una decisione facile, specie se sommata ai miei dubbi e alla consapevolezza che l’unica vera libertà era di rinunciarvi. Accettato con scontento il sopruso della realtà, ho ingoiato il rospo e ho narrato, penna in resta, la storia di Ancilla.


11 Ne è sortita una vicenda impervia, nella quale la libertà appare e si scompone come se il fato la vedesse negli specchietti del caleidoscopio e la ruotasse in un gioco talora insolente, talaltra crudele e curioso. Ed è proprio per la ricerca della libertà che la sua figura, pur apparentemente schiva, s’incamminerà lungo la sua vita di là dei confini solitamente concessi.


13 CAPITOLO 1 «La senti, Ancilla?» le chiese suo padre disteso nel suo letto, la testa appena un po’ sollevata sui cuscini, con un filo di voce, l’indice a sfiorare l’apice del naso. «Sta camminando rasente alle pareti, come se non volesse rivelarsi. Eppure non ne ha motivo, sa bene che la sto aspettando. La senti? Ora è là, dietro la tenda. Non la vedo ma, benché i suoi passi siano lievi, li percepisco e riesco a distinguere i suoi movimenti. È come se la vedessi, ma non abbastanza da potertela descrivere». Taceva ed era un silenzio breve, contratto, lo sguardo rivolto alla finestra, i lineamenti del viso tesi: ascoltava. Ancilla lo guardava incredula, le pareva delirasse. «Credo» proseguì ancora sottovoce, stringendole la mano tra le sue dita fredde «sia venuta a prendermi. Vuole che la segua. È inutile eludere la realtà, raccontandoci speranze: so di non servire più a nessuno, nemmeno a te. Non ho più interesse per quanto fanno, faranno o diranno gli altri. A me importi solo tu, lo sai, vero? Mi piace pensare a una tua vita di soddisfazioni, forte di quanto hai saputo imparare, in parte anche da me; una vita coerente con il tuo giudizio, non con quello degli altri». Il suo sguardo era un po’ smarrito, in attesa di un assenso. Ancilla, però, aveva un nodo alla gola e lacrime incollate alla cornea. Gli rispose solo con la propria mano, movendola per stringere la sua. «Sai di averne il pieno diritto, non è vero?» proseguì. «Non badare al mio desiderio di essere ricordato: è un fatto egoistico che non deve influenzare le tue scelte. Certo mi piacerebbe, anche se è assurdo per uno già preparato a diventare un mucchietto di cenere. Pensa, Ancilla: dalla nuova esistenza ultraterrena potrò vederti, seguirti, addirittura amarti, credo almeno fino a quando mi ricorderai. Tu, però, mi ricorderai?» Ora, nella sua camera mortuaria, Ancilla rammentò ciò che aveva detto un mese prima a casa, nel suo letto. I dubbi di suo padre le erano noti: li ricordò in modo nitido, nel momento e nel luogo. Addirittura li vide. Questa volta, però, poco dopo quelle parole, prese a delirare. Le sue mani abbandonarono il libro sul copriletto verde scuro, trapuntato da


14 motivi floreali, e rimase immobile, gli occhi chiusi in un insolito raccoglimento. Ancilla chiamò l’ambulanza e suo padre fu riportato all’ospedale. Era già successo tre volte ed era sopravvissuto anche a questa quarta. Fu solo per le insistenze pressanti di lei che i medici, un mese dopo, gli concessero di tornare ancora una volta a casa. Sentiva una stretta al cuore nel vederlo così spesso disteso a letto o, quando si alzava, camminare a stento piegato sul bastone fino al salotto o al bagno per tornare poco dopo nella sua camera e abbandonarsi sulle lenzuola con il respiro corto. L’ultima volta rimase a casa quattro giorni, e furono di sofferenza: l’illusione iniziale svanì quasi subito. Fu appena un nulla prima di un nuovo peggioramento. Il medico, un amico di famiglia che, venendo ogni mattina, vedeva e capiva il senso di quel suo brancolare nella luce, tentò di non farlo soffrire. Pure prima di caricarlo nell’ambulanza gli aveva dato un analgesico. Gli infermieri ne attesero l’effetto per alcuni minuti, il tempo necessario a prepararlo. Quando fu pronto, lo misero su una barella e scesero. Una volta a bordo dell’automezzo attrezzato, gli misero sul viso una mascherina per l’ossigeno. Respirò a fatica lungo tutto il tratto, quando lo misero sulla lettiga e lo portarono nell’ambulatorio del reparto di Medicina. Ancilla era confortata dal fatto che l’Ospedale al Mare del Lido fosse considerato migliore del Civile, affacciato su campo San Giovanni e Paolo. Fu un conforto inutile: dopo la sosta in ambulatorio per le misure più urgenti e alcune pressioni sul petto per cercare di farlo respirare in modo autonomo, lo portarono nella stanza a due letti del reparto da dove era uscito, e poco dopo spirò. Lo trattennero solo per gli accertamenti di legge: il corpo, coperto solo da un lenzuolo, fu trasferito in una cella frigorifera dell’obitorio. Ancilla aveva accettato la sua morte con gelida amarezza, e subito si era impegnata a fare il necessario. Affidò all’impresa funebre di campo Santa Maria Formosa l’incarico di occuparsi delle occorrenze più gravose, e provvide lei stessa a scrivere e telefonare a conoscenti, amici, ex colleghi del padre, i pochi con cui era ancora in contatto. Nonostante le sue richieste, la camera mortuaria dell’ospedale dove ora si trovava, fu allestita con una cura che la buona volontà non riusciva a rendere abbastanza confortevole.


15 Misurava quattro metri per quattro, e c’era solo un crocefisso un po’ obliquo, appeso alto sulla parete di fronte all’entrata. Era illuminata da una lampadina smorta, priva di paralume, che ciondolava dal centro del soffitto, sorretta da due fili conduttori intrecciati, grigi di polvere e tenuti assieme da un nastro isolante nero. Alle altre tre pareti, prive di finestre, otto grossi ganci di bronzo attendevano delle corone funebri. Al lato della porta d’ingresso, anch’essa verde penicillina ma di un tono un tantino più scuro, fu posto uno sgabello altro più di un metro, coperto da un drappo nero bordato da una greca grigio argento. Vi erano stati posati un candeliere di ottone con un mozzicone spento di candela, e un quaderno aperto su pagine listate a lutto: qui i visitatori potevano lasciare il loro estremo saluto. Accentuava il senso di desolazione un vasetto con una dozzina di garofani amaranto, flaccidi e meschini, immersi in un’acqua ingiallita. La bara in cui giaceva suo padre era scoperta, posata su un carrello celato da un drappo nero che toccava terra, anch’esso con una greca grigia, stinta lungo l’orlo. Quel catafalco in mezzo alla stanza le ricordò la scena di un rito massonico visto anni prima a teatro, cosa che l’infastidì. Ancilla rimase tutto il tempo seduta accanto alla bara, stretta in un abito grigio scuro, forse un po’ troppo corto per l’occasione. Aveva il viso pallido ed era senza trucco, gli occhi gonfi per il vegliare e per le lacrime frequenti. Per vari mesi aveva contrastato quella malattia con più determinazione del diretto interessato, tra medici, ospedali e notti insonni trascorse a sostenerlo, consolarlo, fingere certezze, dedicargli ogni respiro. Sembrava quasi che volesse farlo respirare con i propri polmoni. Poi la sua tenacia si era spenta: si limitava a trasferire i propri pensieri dal futuro al passato, perché era lì la sua presenza. La madre le era mancata quando Ancilla aveva dodici anni, in un modo talmente tragico da indurre il padre a non parlarne mai, se non per rapidi accenni. Ancilla ne serbava il ricordo ancora vivo della voce, della dolcezza vissuta nella sua prima pubertà e, più in là, delle cose apprese dalla governante o da poche persone conosciute da bambina. Sua madre era ovunque, anche se non ne parlava mai; nei suoi gesti copiati d’istinto, nei suoi insegnamenti. Celava quelle deboli tracce e i propri pensieri in un cassetto della memoria che apriva solo ogni tanto, quand’era sola, quasi di nascosto. Pensò che fosse un bene che la madre non fosse lì a piangere con lei in


16 quel momento. Però era sola. Non le importava di sentirsi debole e indifesa come una garzetta di barena, intenta a sbeccare la sabbia della battigia; si sentiva incredula, incapace di allontanarsi da quel corpo senza vita che l’aveva curata e amata come se al mondo non ci fosse altro. Da bimba, non poteva capire quanto le stava accadendo, però ne visse la realtà. Durante la giornata di visite, ben pochi vennero nella camera mortuaria: un amico d’infanzia che non vedeva da anni, un vecchio professore con cui suo padre aveva insegnato al “Paoluccio Anafesto”, due colleghi dell’agenzia bancaria dove lei lavorava e tre condomini. Davvero niente rispetto a quante persone aveva aiutato, sostenuto, istruito, protetto nel corso della sua vita. Suo padre aveva cominciato a insegnare come supplente al “Paoluccio Anafesto” del Lido, quando ancora frequentava il terzo anno di Matematica e Fisica all’università. Era considerato capace perché quella professione lo appassionava, e non era obbligato come tanti ad avvilire la sostanza della disciplina che praticava. Terminato il servizio militare in Marina, invece di continuare l’insegnamento, s’imbarcò su un mercantile come ufficiale marconista per girare il mondo. Lasciò il mare per riprendere la sua cattedra a Venezia solo quattro lustri dopo, e da allora continuò a farlo per venticinque anni prima di dimettersi. Fu la contestazione studentesca, rappresentata dai pochissimi allievi violenti e maleducati di quel liceo, che si erano arrogati il diritto d’imporre ai loro compagni regole e metodi allora in voga, che lo spinse ad andare via. Lui non volle né accettare né condividere quelle imposizioni, e se ne andò. Secondo lui la causa di tutto ciò era attribuibile in minima parte ai ragazzi: i veri responsabili furono i filosofi da rotocalchi e i giornalisti da osterie televisive, i politici da bar sport, i genitori che non educavano. Dai primi anni del dopoguerra, infatti, molti genitori smisero d’insegnare ai loro figli l’esistenza sia della libertà e dei diritti, sia dei limiti e dei doveri, il che comportò non solo la crescita dell’arroganza e dell’egoismo, ma l’elevazione di un’iperbole libertaria tendente all’infinito. Quando non era a scuola, il padre trascorreva il proprio tempo tra le mura domestiche. Svolgeva i piccoli lavori necessari a tenere in ordine ogni cosa; altrimenti leggeva, studiava, catalogava i suoi libri. Più che una catalogazione, era una rilettura: rileggere – diceva – significa capire


17 non la trama ma il significato, il valore riversato dall’autore in quel testo. Gli piaceva molto dedicarsi ai fornelli: la mattina per preparare le colazioni, a mezzogiorno un boccone abbastanza frugale e la sera, per compiacere Ancilla, curare una cena leggera, gustosa e ricercata. Ci teneva a renderla felice. Da quando lei lavorava a Venezia, non faceva in tempo a rincasare durante l’intervallo dell’una, a pranzare e poi tornare al lavoro: per questo padre e figlia decisero di spostare alla sera il piacere della tavola. Oltre a leggere le novità letterarie e rileggere opere del passato, il professor Domini seguiva i notiziari e, quand’erano di qualche pregio, le trasmissioni sulla storia, le scienze esatte, i film di valore. Sopportava poco le tribune elettorali e, dopo avere spiegato per anni le equazioni della vita, rifiutava i dibattiti tra persone la cui vacuità era palese. Evitava anche gli spettacoli frivoli, le trasmissioni nelle quali pseudo esperti si compiacevano di rimestarsi nel letame, accapigliandosi l’un l’altro, le insopportabili sfilze di messaggi pubblicitari dei Caroselli, le bassezze paludate del calcio. In effetti, più che godersi la pensione, vegetava, appagato dall’affetto di Ancilla e dalle piccole soddisfazioni che gli concedeva la sua casa. Erano trascorsi quattro anni da quando si era ritirato in quel limbo: i suoi dolori all’intestino, sofferti da sempre, negli ultimi tempi si erano acuiti diventando sempre più assidui e intensi. Esami, terapie, ricoveri, dimissioni, rientri erano stati i passi della lenta agonia che lo aveva portato in quella bara nella stanza mortuaria verde penicillina. Vedendolo così immobile, Ancilla si chiedeva se il suo spirito si fosse già involato verso il regno delle tenebre, o se stesse ancora indugiando sulle sue spoglie. Lei aveva toccato davvero le acque fredde dell’Acheronte, anni prima, durante un viaggio che suo padre aveva organizzato nell’Epiro. Era la fine di luglio, e salvo le rocce incombenti all’inizio della gola, l’ambiente non era per nulla terrificante e non c’erano traghettatori simili a dei Caron dimonio con occhi di bragia: solo tavoli per turisti che servivano birra, vino asprigno e i soliti piatti della cucina greca. I ricordi si accavallarono. In quel momento così triste, uno in particolare le attraversò la mente.


18 CAPITOLO 2 L’episodio gliel’aveva raccontato suo padre, diverso tempo prima. Era un bambino quando una domenica mattina di vento e pioggia, andò alla messa delle 08:00 nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Elisabetta. Lì vide Maria, una graziosa coetanea, figlia di un netturbino che abitava nel seminterrato della loro stessa casa. Benché stipati vicino all’ingresso, riuscì a trovare una sedia per la piccola Maria. Al termine della lettura del Vangelo, quando l’officiante stava per iniziare la predica, la futura madre di Ancilla, si alzò e portò la propria sedia a un signore in piedi, poco distante da lei. Questi dapprima si schermì, poi – vista la determinazione di quella bambina – accettò. Il gesto stupì tutti, perché non si era mai vista una bimba offrire la propria sedia a un uomo non abbastanza anziano da meritare tale cortesia. Alla fine della cerimonia quel signore pallido e foresto, con gli occhiali, il naso adunco, lo sguardo severo, le aveva sorriso ed era scomparso tra la gente. Usciti pure loro e diretti verso la riviera San Nicolò per tornare a casa, i due bimbi osservavano quel tale che, riparandosi alla meglio dalla pioggia con il giornale, si dirigeva verso l’approdo della motonave per San Zaccaria. «Mi spieghi perché hai ceduto la tua sedia a quel signore?» aveva chiesto lui a Maria. «Quel signore è Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio» gli rispose. «Scusa, come fai a saperlo?». «Perché ho visto più volte la sua fotografia sul Gazzettino». Maria era una bimba molto bella, di corpo e di spirito, e con un cuore grande. Dovette lasciare la scuola molto presto per andare a lavorare, e da tanti anni ormai non c’era più. Aveva lasciato in Ancilla una traccia profonda. Maria poteva comprendere solo in minima parte cosa fosse un Presidente del Consiglio, però aveva sentito che quella persona meritava il suo gesto.


19 Nelle nuvole della politica suo padre si perse spesso, anche se mai e poi mai si sarebbe iscritto a un partito. Quelle convinzioni, che ogni tanto confidava ad Ancilla, erano un po’ bislacche: era convinto, per esempio, che solo negli anni successivi alla guerra, la politica fosse stata gestita da persone oneste, colte e laboriose, indipendentemente dal partito al quale appartenevano. A lui importava solo che avessero una morale. Allora la maggioranza dei politici abitava in case modeste, faceva studiare i propri figli nelle scuole pubbliche. Di destra, sinistra o centro, gli eletti di allora vivevano e di solito si comportavano come gli altri, ossia senza aureole, privilegi, macchine blindate, scorte o accompagnatori forzuti e palestrati con le teste rasate e senza un orecchino piazzato a destra o a sinistra in base alle loro inclinazioni. Gli eletti di allora erano onorevoli non soltanto di nome: erano alla mano e, se s’incontravano per strada, si poteva salutarli e magari prendere un caffè insieme. Erano persone che davano del proprio a chi ne aveva bisogno, togliendoselo dal piatto e non rubandolo alla Stato. Pure loro a quei tempi dovevano fare economia. Quegli esempi – sosteneva suo padre dal pulpito della sua inflessibilità – avevano illuso la nazione che i loro successori sarebbero stati della stessa schiatta: colti, integri, intelligenti, capaci di fare dell’Italia uno Stato alla stregua dei più eminenti d’Europa. Era certo che pure loro agissero per fede, svolgessero il loro incarico con passione e non allo scopo di arricchire. Molti cittadini, con quegli esempi e quelle certezze, li avevano sostenuti e rispettati, e solo verso la fine degli anni ’50, quei signori cominciarono a pretendere per via quasi legale diritti e tornaconti. Le legislature successive non triturarono più farine dello stesso grano e ancor meno lo fece l’accolita di collaboratori, figli, nipoti, amici e altri effetti del do ut des che anno dopo anno cominciò ad attorniarli. A ogni nuova legislatura volevano di più, perché si sentivano elevati più che eletti: per questo presero ad avere solo diritti, a pretendere di tutto. In breve sia gli eletti sia le loro compagini divennero pretenziosi, allontanandosi sempre più da quelli che – per un malriposto atto di fiducia – rappresentavano. All’inizio degli anni ’60, grazie alla ricostruzione e al miracolo economico, la politica divenne una miniera di opportunità da sfruttare. Vi si buttarono personaggi di ogni statura, spesso perché rifiutati da altre


20 accolite e spinti da quella brama che, secondo la Sacra Scrittura, è la radice di tutti i mali e per san Basilio lo sterco del diavolo. Qualunque fosse il loro credo, gli eletti di ogni taglia, presenti al vertice o alla base, si ersero a pontificare, sostenuti da una cricca pronta ad applaudire chi tra loro sapeva parlare, sparlare, sferzare, comandare e soprattutto ripagare. Ancilla passava ore ad ascoltarlo, i primi anni persuasa più dalla sua passione che dalla sua dialettica, poi solo a tratti, pro bona pacis più che per convinzione. Tra le molte domande ad esempio che il padre le poneva, ce n’era una il cui senso era pressappoco questo: «Molti di quei presunti “signori” non si rendono conto che il latte succhiato dal generoso seno della nazione è sottratto ai cittadini, tra i quali vi sono poveri, malati, anziani, ragazzi ai quali, invece, occorrerebbero non solo cure, conoscenze, istruzioni e strumenti adeguati, ma anche esempi e maestri preparati, capaci di esprimere il meglio nell’educare e migliorare le nostre comunità». Con quelle parole voleva farle capire che quei “signori”, resi sordi dall’ovatta della loro amoralità, erano ben consci delle loro azioni, però se ne infischiavano; e se qualche interlocutore al di fuori della loro cerchia non li avvantaggiava, lo escludevano. La colpa di tutto ciò, sempre secondo suo padre, era dei votanti. Furono gli elettori, infatti, a metterli su un piedistallo, ad applaudirli, idolatrarli, far loro credere di essere indispensabili, semidei con un’immunità che consentiva di fare e prendere qualsiasi cosa. Fu la passione giovanile a indurre l’uomo a lottare per i suoi principi, a battersi anche quando non aveva armi per difenderli: senza riscontri, prove, alleanze e appoggi dal proprio mondo – la scuola, le amicizie, gli ambienti che frequentava – le sue opinioni contavano però come scarpe vecchie, logore, sfasciate. «Per confonderci le idee» disse una volta ad Ancilla «hanno sostituito le parole Stato, nazione e patria con il lemma “paese” al solo scopo di intorbidire le acque. Sì, “paese” con la “p” minuscola, come “pipì”, “popò”, “puzza”. Un uomo di Stato, giacché tale, dovrebbe pur sapere quanto le differenze tra Stato, nazione e patria siano sostanziali e, per certi aspetti, antitetiche. Molti di loro però quei distinguo non li facevano, sebbene già le scuole elementari insegnassero che lo Stato è un’entità giuridica riferita a una comunità politica, composta tanto da una popolazione residente entro confini riconosciuti a livello internazionale quanto da un’organizzazione strutturata in potere sovrano, e che ha l’autorità e la facoltà di usare ogni mezzo per garantire l’ordine


21 pubblico, la difesa del territorio, il funzionamento delle istituzioni, degli enti e delle imprese che ne fanno parte». Pressappoco a quel punto, s’interrompeva per guardarla a lungo negli occhi e poi chiederle quasi per interrogarla: «Oggi, secondo te, in Italia succede questo? E in quale maniera? Corretta o corrotta? Non succede che molti parlamentari e burocrati lo chiamino “paese”, e non più Stato, soltanto per minimizzare i loro intendimenti o per nascondere il loro accrocco d’interessi personali?» Giunto a quel punto, taceva. Era una pausa a effetto, durante la quale reclinava il capo per concentrarsi e quindi riprendere con il fare proprio del professore: «Altra cosa, mia cara, è la nazione, entità storica e culturale, insieme di persone che condivide una stessa storia, lingua, sapere, risorgimento, rivoluzione, flessibilità. Non importa se oggi in Italia, con migrazioni in entrata e in uscita, quell’insieme ringiovanisce e si rinnova. Nazione deriva da natio, nascita: la terra, quindi, dove sono nati i figli e i nipoti di altre immigrazioni, integrazioni, lotte, usi, costumi, gusti, esperienze, tradizioni, scienza, conoscenza, credenze, cromosomi, tecnologie, vizi, interessi. Non è facile la fusione di esseri provenienti da terre, caratterizzate da loro storie, culture, vicende e civiltà, che hanno forgiato piccole e grandi nazioni da noi diverse. Alcune sono nazioni da secoli, come Francia e Spagna, altre da giubilei, come Italia e Germania. I nostri politici evitano però di chiamare l’Italia “nazione”, perché temono che i cittadini facciano valere – come sarebbe giusto – i loro valori, altrove riconosciuti e rispettati. E, con questo, tolgono e distolgono il diritto individuale di voto». Pallido e freddo nella sua bara, ora suo padre non poteva più portarsi la cattedra a casa, passare dall’insegnamento della matematica in aula, alle lezioni di vita tra le mura domestiche. Ora era lì, dinanzi a lei, le labbra e gli occhi chiusi per sempre. Eppure bastava che li chiudesse pure lei per udire di nuovo la sua voce dalle stesse inflessioni, gli stessi accenti, le stesse pause e passioni di ieri. «C’è infine un’entità» diceva «che sublima il senso di nazione ed è la “patria”, la terra dei padri, un luogo da onorare e rispettare, da consolidare in Stato, ossia in una comunità civile, retta da un Governo capace di darle stabilità, tranquillità e sicurezza. Patria non è un concetto dotto ma superato: è un valore che da millenni ha ispirato nei popoli più evoluti – Cina, Olanda, Francia, Svezia, Polonia, Ungheria, Egitto – non un senso di servaggio o dipendenza al principe del momento, come vorrebbero alcuni, bensì di libera appartenenza e di devozione a quella civiltà, cultura, educazione, tramandate nel bene e nel male dai padri ai


22 figli. Patria è rispetto per la terra delle loro madri, oltre che dei loro padri, una forza tale da spingere la comunità a sacrificare la propria vita per il bene comune. Siamo o no debitori nei confronti di chi si è immolato, ha sofferto anni di carcere o di esilio, ha usato il proprio genio per dare alla sua comunità una terra, per farne una nazione, oppure preferiremmo essere ancora per metà austriaci e per metà veneziani o, se vuoi, colonie o possedimenti di peraltro rispettabilissimi sloveni o croati come qualcuno voleva per il Friuli e la Venezia Giulia nell’ultima guerra? Ci rendiamo conto che senza il credo di quei padri, la nostra esistenza avrebbe perso membra non trascurabili della propria identità?». Ancilla non sentiva dentro di sé tutto quel bisogno d’identità nazionale, però non aveva nemmeno argomenti per controbattere la sua certezza. Suo padre era convinto che, applicando per l’Italia il lemma “paese”, alcuni nostri politici intendessero velare il senso del loro pensiero, fossero convinti di poter usare lo Stato per se stessi, trascurando i loro doveri verso la nazione; che lo facessero, consci di non adempiere obblighi riconosciuti e dimostrando in ogni atto che il loro amor di patria era morto per assenza verbale inconscia o, peggio, consapevolmente voluta. Convinzione, quella di suo padre, difficile da smontare. «Si può essere europei o cittadini del mondo» terminava «ed essere insieme orgogliosamente lidensi, veneziani, veneti e italiani. Così come possono essere francesi i cittadini di Aix en Provence o i finlandesi di Lappeenranta». Era chiaro che disprezzava il contegno arrogante e furbesco di troppi nostri “onorevoli” seduti in Parlamento. Gli ricordavano il pesce palla, che in determinate circostanze si gonfiava per apparire più grande. Nel corso del loro mandato troppi “onorevoli” arraffavano quanto potevano, fino a rimpinzarsi di privilegi, scorte, autisti, commessi, portaborse, amanti, case, barche, vitalizi, pensioni. Ciò accadeva a livello sia centrale sia locale, e ad Ancilla la cosa sembrava inammissibile e ripugnante.


23 CAPITOLO 3 «I nostri eletti» sosteneva ancora il professor Domini quasi con rabbia «arraffano quanto alla maggior parte degli Italiani è negato, se non addirittura vietato. Altro che nazione: per quei signori i cittadini sono massa anonima. Per i nostri eletti noi siamo la “gente”, la mandria da mungere, da escludere dai benefici. Come scriveva Machiavelli, noi siamo “vulgo”, che ha una patetica fiducia nelle istituzioni e una tale capacità di sopportazione da rasentare quella degli schiavi incatenati ai banchi delle galee o degli individui legati agli scranni della caverna nella celebre parabola di Platone1». In quella camera ardente, quelle accuse feroci riecheggiavano alte, amare e lapidarie. «Dall’altro verso» riprendeva «i cittadini sanno davvero di esserlo? È chiaro che un neonato non ha consapevolezza, ma nel corso della sua infanzia e adolescenza, i genitori dovrebbero in qualche modo educarlo ad avere una coscienza. Purtroppo, invece, non sempre succede: le famiglie e le scuole non si preoccupano di rendere le loro creature coscienti dei loro diritti e doveri. Se questo accadeva ai tempi in cui Berta filava, quando molti cittadini raggiungevano sì e no la licenza elementare, era ammissibile che non tutti comprendessero la dignità del loro ruolo. Non oggi, però. Oggi che siamo stati capaci di andare sulla Luna, questo non dovrebbe succedere. E invece…» A quel punto il padre s’interrompeva, non solo per sospirare ma perché consapevole di aver bollito uova già sode. Lasciava che le sue osservazioni si spargessero nell’aria e poi sedimentassero almeno un poco prima di sintetizzare quanto aveva detto e concludere: «Eppure, come ricorderai, già il Diritto Romano si preoccupava di considerare cittadino chi era originario, abitante o residente in uno Stato: era proprio quell’attributo a consentirgli di avere diritti e doveri. Sì, pure 1 Il mito della caverna è narrato da Platone nel libro VII di La Repubblica.


24 doveri, sebbene sia una parola poco amata, a cominciare dai personaggi più potenti. Una nazione, Ancilla, è formata da cittadini, individui dotati della volontà e capacità di farsi carico di quei doveri, perché deliberati dallo Stato in cui sono nati a tutela di tutti. Quando manca questa consapevolezza, che è anche tutela, lo Stato non è espressione dei cittadini, bensì di chi gestisce il potere. Quando i cittadini ignorano i loro obblighi e non li praticano, il loro Stato funziona male e non solo: se una persona non conosce i propri diritti e doveri, potrà eleggere solo rappresentanti inadeguati, incapaci e talvolta indecenti, che faranno virare i benefici verso loro stessi e la loro cerchia di nipoti, di amici e di servi». Nel dire quelle cose il professor Domini s’inalberava, faceva riemergere l’insegnante del passato, diventava irruente, un fiume in piena, quasi volesse annegare quella gentaglia, mentre Ancilla lo seguiva solo un po’ prima di perdersi nel vuoto. «L’appetito delle nuove leve di eletti e dei loro scagnozzi non si placa con i vantaggi e le prebende che si attribuiscono da soli o mediante accordi stipulati sotto banco. La loro ingordigia pretende altri abusi per ottenere un’ampia piattaforma di voti, favoritismi e introiti a vantaggio loro e dei loro fedelissimi. La soddisfano, trasferendo compiti dello Stato a una miriade di comitati, consulte, cooperative, appaltatori, subappaltatori e fondazioni che controllano e – grazie alle loro posizioni di privilegio – regolano con leggi e decreti ad hoc. Per pagare il tributo di gratitudine a chi le ha create o scelte, quelle entità piccole e grandi dovranno rifarsi e lo faranno alzando i prezzi dei loro prodotti, servizi o prestazioni. Le aziende oneste e professionali, contrarie a prassi concussive o induttive, dovranno tacere per non essere escluse a vita da ogni trattativa con la cosa pubblica, anche se quel restare a bocca asciutta le porterà ben presto prima alla cassa integrazione e poi al fallimento. Per gli eletti piccoli e grandi non ha alcuna importanza se i lavori delle entità loro amiche saranno fatti male o volutamente sospesi a metà strada per prevedibilissimi imprevisti o interruzioni dovute a brogli, inadempienze, costi esorbitanti, eccesso di rialzi. Com’è noto, molte gare sono fatte da persone in grado di favorire Tizio anziché Caio; troppe leggi, decreti o loro applicazioni danneggiano gravemente sia i lavoratori ignari sia la comunità destinataria dell’opera o del servizio in questione. La fiducia nella Magistratura, vantata da certi personaggi, ha cattive ragioni, giacché spesso riescono a uscire indenni dai processi nei quali sono implicati, grazie a validi cavilli giuridici o – in barba all’evidenza – per non aver commesso il fatto o per scadenza dei termini».


25 Simili ragionamenti erano antichi e tediosi. Eppure Ancilla capiva che in quelle filippiche c’era sofferenza; sapeva quanto l’educazione che aveva dato dalla sua cattedra fosse morta. No, non era stata solo la protesta giovanile a fargliela lasciare, perché le sue filippiche continuavano contro un’altra barbarie: l’attualità. «Molti dei nostri “onorevoli” nazionali, regionali, provinciali sono così arroganti da infischiarsene del disprezzo che li circonda: forti sia del loro potere, sia delle mura elevate dalla cerchia dei loro scudieri e della validità dei meccanismi concepiti e costruiti per essere votati, continuano a fare ciò che più li aggrada. La loro commistione con altri forze – incluse quelli avverse – li protegge da ogni rivolta e li mantiene in sella. La colpa, però, Ancilla mia, non è soltanto loro, è anche nostra. Forse solo nostra. Siamo stati noi a convincerli della loro superiorità e inviolabilità, noi a dar loro spazio per essere avidi e vanitosi. Dovremmo essere noi ad agire, se davvero vogliamo restituire alla nazione e allo Stato quel senso della decenza che merita. Noi, invece, quando Polizia e Magistratura li portano sul banco degli imputati per rispondere dei loro reati, non facciamo nulla: restiamo in silenziosa attesa, lasciando che siano assolti». C’erano troppa politica e tanto passato nelle sue parole. Tuttavia, quella sua fede, almeno i primi tempi, la commuoveva. «Per riportare i loro piedi per terra, per salvare ciò che resta di buono, non ci vorrebbe molto. Basterebbe, per esempio, indire un referendum per azzerare con un piccolo voto tutti i privilegi di quei signorotti. Basterebbe quel piccolo voto ad affrancare la nazione dai soprusi e riportare per davvero i tre poteri del nostro Stato al servizio dei cittadini che assolvono i loro doveri e non abusano dei diritti di chi ogni giorno lavora con impegno, coscienza, coraggio e altruismo. Se vuoi, aggiungici pure capacità e competenza». Povero vecchio padre, pensava Ancilla, così illuso di esaltare valori ormai sciolti nella calce viva, qualità nelle quali i cittadini del presente ormai non credevano più o, peggio ancora, facevano di tutto per cancellarle. Nato alla fine di una guerra che era stata una delle più lerce e disastrose, da qualsiasi fronte si guardasse. Ancilla aveva dimenticato alcuni discorsi di suo padre, forse perché erano i più banali. Altri, invece, li ricordava parola per parola, anche perché – specie negli ultimi tempi – tendeva a ripetersi. Nel ricordare, talvolta non distingueva se nel profluvio delle sue parole – spesso monologhi, parabole o comizi – intendeva essere narrativo o educativo. Lo vedeva attendere il momento più adatto per svilupparli e


26 presentarglieli in forme diverse, allacciandosi a una parola, a un oggetto o a un articolo emerso dal suo quotidiano. Lo faceva da anni, da quando lei era adolescente e ne poteva comprendere, seppure non sempre appieno, il significato. Prima, quand’era ancora una bambina, a chiarirle i concetti più oscuri, c’era sua madre, che gliene mostrava la sostanza con parole semplici, deterse dagli spunti più aspri o polemici. Sua madre sapeva mettere a fuoco soprattutto gli aspetti più attraenti per le sue orecchie e il suo cuore. Sebbene fosse sempre stata impaziente di apprendere, le interpretazioni dei fatti che le narrava il padre e le adattava la madre non sempre la convincevano, specie quando non ne aveva piena consapevolezza. Però si accorgeva delle differenze tra due versioni dello stesso evento. Certo, doveva meditare un po’, riflettere su luci e ombre dell’una e dell’altra, scavare. Alla fine, però, riusciva a trarne un’idea propria. Quando, adolescente, poté cogliere i significati del loro dire e non sempre condividendolo, preferì i più recenti dialoghi con sua madre alle conversazioni paterne più filosofiche o logiche. Quando lei mancò, Ancilla aveva compiuto da poco dodici anni. Provò un dolore immane, fu una lacerazione che rimase aperta per molto tempo, con la sensazione che niente avrebbe potuto lenirla o sostituirla. Nel momento in cui quell’anello – il più importante della loro breve catena – si spezzò, capì di aver perduto la propria pace interiore. Suo padre, per quanto burbero e misantropo, fece di tutto affinché non soffrisse, cercò addirittura di esserle anche madre. Il suo, però, era un obiettivo impossibile: non riuscì a sostituirla, ma Ancilla non l’amò di meno per questo. Per natura era un uomo ruvido e poco espansivo, un professore d’altri tempi. Eppure con Ancilla riuscì a levigare il suo modo di educarla, a essere dolce, discreto, a esprimere un affetto adulto e tale da trasformarle ogni momento, per quanto personale e difficile, in gioia, ogni loro contrasto in palpito o in sorriso. Nel ricordarlo in quella stanza disadorna dove attendeva si consumasse il loro distacco, Ancilla provava riconoscenza per tutto ciò che negli anni le aveva dato. Avvicinò il proprio viso al suo: le parve di vederlo mutato rispetto il giorno prima, e temette che un anello della catena che li legava si fosse spezzato. In quell’attimo, però, vide quanto suo padre avesse avuto occhi, mente e cuore solo per lei. Se a dodici anni era stato un estraneo, ora sapeva di aver ricambiato il suo affetto e di amarlo.


27 Lo capì con chiarezza nel silenzio di quella bara, così bianco, immobile, senza respiro, senza parole. Dopo la perdita della madre, specie nei momenti delicati della prima adolescenza, Ancilla era stata seguita da zia Betta, un’insegnante amica di entrambi i genitori. Non c’era alcun rapporto di parentela tra loro, salvo il fatto di abitare nello stesso condominio. Sovente era lei a salire nel loro attico, specie quando suo padre era a scuola, anche se solo di rado Ancilla scendeva da lei al secondo piano. Zia Betta aveva un modo antico di vivere, di vestire, di arredare la casa e ciò la incuriosiva: le sembrava il personaggio di un romanzo inglese di fine ’800 che contrastava per certe note con quello di Ancilla, che era più spartana. Zia Betta non aveva figli e più volte – da quando Ancilla rimase orfana – aveva dimostrato di provare per lei quel sentimento di amore filiale, che gli antichi Greci chiamavano storge. Di là dei loro rapporti, scambiati con reciproca empatia, quella vicinanza le era stata di aiuto e di consiglio: le aveva concesso di respirare quelle brezze femminili difficilmente presenti nelle case e nelle cose degli uomini. Non era nemmeno da escludere che suo padre – sapendo di non possedere alcun attributo femminile – fosse un po’ geloso di zia Betta. Ancilla lo capiva dal suo modo di parlarle distaccato e burbero, anche se attento a non provocare conflitti o a frapporsi tra lei e la figlia con antagonismi o gelosie. Quella comunione durò comunque solo quattro anni, perché zia Betta fu promossa preside a un liceo di Treviso. Quando si trasferì, Ancilla stava per compiere sedici anni ed entrambe, nel lasciarsi, piansero. Se suo padre, severo perfino in tali occasioni, non lo fece, ci mancò poco. Per alcuni anni si scrissero, poi si limitarono agli auguri per le feste comandate. Quando Ancilla le scrisse per annunciarle di avere preso la maturità, zia Betta non rispose. Quando si perde la madre in tenera età o nella prima adolescenza, si cresce in modo diverso, perché manca un elemento basilare, insostituibile. Tra madre e figlia il cordone ombelicale non si stacca con il parto ma più tardi, molto più tardi. O forse mai.


28 CAPITOLO 4 Quando cominciò a imbrunire, Ancilla ebbe l’impressione che sua madre si fosse seduta vicina a lei, a vegliare quella salma dai capelli radi e grigi, smagrita, inerte e inespressiva come non lo era mai stata. La madre aveva una personalità penetrante, plasmata da una dolcezza perduta, la stessa che le aveva trasmesso. Non la vedeva però la sentiva. Pensò che intendesse prendere per mano il padre per portarlo con sé. Erano molto diversi l’uno dall’altra, anche nel modo di amare la figlia. Quello di suo padre, per quanto generoso, aveva sempre una nota, uno sbuffo, un colore mancante. Da vari anni quei vuoti le facevano sentire il bisogno prepotente di colmarli, di trovarli in sé o altrove, di capire chi era, benché nei confronti con le proprie coetanee sapesse di avere una risolutezza, una costanza, dei teoremi mentali che a loro mancavano. Perché quelle differenze? Erano domande alle quali non sapeva rispondere: né i sermoni di suo padre né gli insegnamenti della scuola erano riusciti a farglielo capire; provocavano, anzi, nuove domande. Si chiedeva per esempio la ragione per la quale il padre, insegnante al liceo classico, l’avesse iscritta a ragioneria. Forse la responsabilità non era da attribuire tutta a lui: era stata lei, infatti, a chiedergli di essere iscritta a una scuola che la facesse restare a Venezia. Allora la città non offriva grandi opportunità di lavoro. A quel tempo, per realizzare ideali o ambizioni, bisognava trasferirsi a Milano o a Torino: una scelta impensabile per il loro rapporto così stretto. Ancilla conosceva ben poco delle altre scuole di Venezia: del Nautico sapeva che i suoi pochi allievi, tutti maschi, non avevano i piedi per terra; mentre il liceo scientifico era frequentato dai figli dell’intelligenza veneziana, e da chi aveva ampi orizzonti. Quei ragazzi però guardavano poco le ragazzine di famiglia operaia o piccolo borghese dell’istituto di ragioneria, perché puntavano più in alto.


29 C’era poi il liceo classico nel quale aveva insegnato suo padre, anch’esso frequentato dai figli di papà più ricchi, destinati ai ruoli importanti; e, infine, l’istituto di formazione di tante future maestre e forse di pochissimi maestri. Di scuole pubbliche e private, a Venezia ce n’erano parecchie altre: il liceo artistico e la scuola d’arte, il linguistico, il commerciale e un liceo frequentato da figli di papà ricchi e con la puzza sotto il naso. Con i ragazzi di quelle scuole, a lei ignote o quasi, i rapporti erano pressoché inesistenti, sia perché appartenevano a mondi lontani sia perché arte, lingue e caste si sviluppavano oltre gli orizzonti di un’adolescente, nata in quella striscia di sabbia piccolo borghese che è il Lido: utile solo a difendere Venezia dal mare in un tempo lontano, quello archiviato nell’ormai nulla della Serenissima. Ancilla rimestava, chissà perché, ricordi della scuola. Pure i propri rapporti erano stati scarsi con le compagne, rari con i compagni. In quel processo di reminiscenze si arenò sulla classe di terza ragioneria per un episodio accaduto alcuni anni dopo la perdita di sua madre, dove giunse una nuova compagna di origine fiumana. I suoi genitori erano sfollati a Cordenons, prima che finisse la guerra, e da tre anni si erano trasferiti al Lido. Si chiamava Libera: su confini alquanto martoriati, quali erano quelli orientali di allora, era frequente vedere il bisogno di libertà allignare nei nomi delle persone. A Terni o a Campobasso accadeva più di rado. Era Libera a ritenersi amica di Ancilla, non viceversa. Era Libera a seguirla, a porle domande su materie scolastiche e non, a ripetere le sue frasi, a copiarne gli atteggiamenti e i compiti a scuola. In effetti, essendo la sua compagna maggiore di un anno, sarebbe dovuto accadere il contrario: un anno di differenza, quando si è ragazzi, conta. Per Ancilla la sua compagna era “libera” di nome ma non di fatto, perché il suo bisogno di essere guidata, consigliata, aiutata in ogni aspetto e momento della sua esistenza, era prevalente. A scuola Libera non riusciva a eccellere, perché faticava ad apprendere. Penava soprattutto per quel suo italiano intriso di elementi dialettali e costruzioni sassoni: per questo le chiedeva di continuo spiegazioni sulle cose che non capiva. Era certa di non riuscire a ottenere la sufficienza in due o tre materie e così Ancilla le aveva consigliato di prendere lezioni private da un professore in pensione, amico di suo padre. Purtroppo a casa di Libera non c’era nessuno che la aiutasse nelle cose importanti del suo quotidiano. La madre era stata gettata in una foiba dai


30 titini, quando lei era piccina, e la donna che suo padre aveva sposato per amore, e affinché seguisse la figlia, trascorreva i suoi pomeriggi in un locale elegante all’inizio del Gran Viale, dove le signore bene giocavano a canasta, bevevano il tè e si raccontavano fatti e misfatti della buona società lidense. Libera si vide arrivare in casa quella matrigna quando aveva nove anni, e non riuscì mai ad accettarla. Dal canto proprio, la matrigna, che figli invece non ne aveva né voleva averne, la ricambiava di un’analoga antipatia. Riguardo a suo padre, direttore di macchina nella Marina Mercantile, c’era da dire ben poco, giacché trascorreva negli oceani otto o dieci mesi l’anno. Grazie al Cielo, in famiglia avevano una governante, ex maestra alle elementari, che si occupava della casa: grazie al suo piccolo sapere, aiutava Libera ad affrontare la vita. Purtroppo non sempre lo faceva in maniera sufficiente ed efficiente. La piccola solitaria cenerentola fiumana, insomma, aveva scelto motu proprio di diventare amica di Ancilla, di pendere dalle sue labbra e di esserne dominata. Se Ancilla fin dall’inizio non le avesse posto un freno, se la sarebbe trovata in casa per fare i compiti, chiacchierare, ascoltare musica, mangiare e dormire. Il professor Domini, però, il pomeriggio, quando non aveva impegni scolastici, era spesso a casa. E quando in casa c’era lui, spazi per le compagne non ce n’erano proprio. Quel rapporto di amicizia un po’ a senso unico aveva assunto una piega melodrammatica nel momento in cui Libera s’innamorò di un compagno belloccio e birbantello. Da quando le fece la prima dichiarazione, a ogni sviluppo successivo, Libera non mancò mai di confidare i dettagli ad Ancilla per essere istruita su ciò che avrebbe dovuto dire, rispondergli, comportarsi e, nel progredire del rapporto, come avrebbe dovuto reagire ai suoi approcci sempre più incalzanti. Ancilla cercava per quanto possibile di darle dei suggerimenti, evitando però di esprimere giudizi. Si proponeva cioè di far ragionare Libera con la propria testa, di spingerla a fare scelte proprie, non di altri. Solo dopo infinite insistenze le suggeriva non quanto lei stessa avrebbe fatto ma quanto a suo avviso sarebbe stato corretto. Quel ruolo non le piaceva, ed era certa che alla fine sarebbe stata biasimata per averle dato un’indicazione inadeguata o non compresa. Insisteva dunque nel farle capire che certe decisioni doveva prenderle da sola.


31 Per mesi si sorbì ogni particolare più intimo di quella relazione: se ne fosse stata la protagonista, l’avrebbe troncata già alle prime battute. Libera non aveva accolto nemmeno il suggerimento di parlare della cosa con la matrigna e così, alla fine, l’inevitabile accadde. Aveva da poco compiuto sedici anni quando il medico curante diede a Libera la lieta, seppure non a tutti gradita, novella. La matrigna voleva farla abortire, ma la ragazza si rifiutava, decisa a mettere al mondo la propria creatura. Il padre di Libera, interpellato via radio su un cargo in navigazione nell’Oceano Indiano, aveva appoggiato il desiderio della figlia: se lei voleva tenere il bambino, si doveva ascoltarla, indipendentemente dalle decisioni del compagno che l’aveva messa incinta, un ragazzo di buona famiglia, però superficiale e imprevidente. Stordita da quelle esperienze ed emozioni, Libera, alla fine dell’anno scolastico, era stata respinta sia dalla piccola società cui apparteneva, sia a scuola dai propri insegnanti. I suoi contatti con Ancilla si erano diradati, perché era prevalente la necessità di trasferire i suoi interessi dagli studi di ragioneria alla vita presente nel suo grembo. Durante le vacanze estive, visite e telefonate non ce n’erano state, mentre le notizie sugli sviluppi della vicenda le furono fornite dalle compagne più pettegole solo a settembre, alla riapertura della scuola. Seppe così che a prevalere su tutto fu il giudizio fermo e deciso del padre di Libera. Non si limitò, infatti, a sostenere la volontà della figlia: al primo porto cui approdò la sua nave – pare in Australia – sbarcò e rientrò in aereo a Venezia. Qui minacciò di agire per vie giudiziarie nei confronti dell’imprenditore edile veneziano, padre del bulletto. Questi, temendo uno scandalo che avrebbe danneggiato l’immagine della sua impresa, convinse il figlio a sposarla. Donò loro un appartamento a Mestre e Libera partorì un maschietto a detta di tutti bellissimo. Negli anni successivi il maritino maturò al punto di diventare un padre valente e affettuoso. Si diplomò e laureò quasi contemporaneamente ad Ancilla, e collaborò con la giovane sposa nel mettere al mondo prima un altro maschietto e poi una bambina. Non solo: Libera trovò il tempo di frequentare una scuola privata e diplomarsi. Con Ancilla però, dato gli impegni richiesti da tre figli, non si vide più. In barba a tutte le previsioni e alle chiacchiere ormai sparse come cenere al vento, da un incidente di percorso ne era sortita una storia controcorrente e per nulla banale. Parte del merito era senz’altro dei genitori, che avevano dimostrato di essere all’altezza del loro ruolo.


32 Ancilla non capiva perché quell’episodio le fosse tornato in mente e si fosse accavallato al greve ragionare di suo padre su questo o su quel tema. Era successo per una ragione alla quale lei aveva cercato di dare delle risposte: se fosse capitato a lei quell’incidente, e se ne avesse parlato con suo padre, che avrebbe detto? E lei come si sarebbe comportata? Avrebbe tenuto il bambino? Avrebbe sposato quel ragazzo? E se suo padre le avesse chiesto di sposare quel suo compagno, lo avrebbe fatto? Non lo sapeva, però ne dubitava. Nella camera mortuaria dell’ospedale, al Lido, Ancilla vide svanire pure il ricordo della madre, lasciando che il tempo scorresse più lento, come le maree ai quarti di luna. Seduta accanto al feretro seguiva gli impercettibili passi di quella morte ormai priva di memorie. Lo guardava e con la mano gli sfiorava il braccio, le labbra, le palpebre. Erano trascorse molte ore, eppure non riusciva ad accettare la sua morte. A tratti tentava di sorridergli, sperando lo percepisse. Ancilla non assomigliava per niente alla sua compagna fiumana: con quel ragazzo lei si sarebbe comportata altrimenti fin da primi passi, avrebbe reagito in modo diverso ai suoi approcci, quell’incidente di percorso non le sarebbe capitato. Tutta quella vicenda, riapparsale senza ragione, aveva interrotto il fluire delle sue rievocazioni, dei credo del passato più cari a suo padre, delle certezze che i cittadini del presente preferivano disconoscere o abbandonare tra i rifiuti. Tra questi, i libri, i ricordi, le testimonianze, i valori. I pensieri le tornavano di nuovo alla mente, sovrapponendosi ai ricordi di scuola. Quand’era di malumore, suo padre aveva più volte sostenuto la necessità di fare un po’ di pulizia nella selva oscura dei partiti italiani. Per farlo però sarebbe servita una rivoluzione, non soltanto un voto referendario. Quei tanti o pochi che spadroneggiavano nelle stanze dei tre poteri, nelle cui vene scorrevano irruenti le tossine della vanità e della cupidigia, non avrebbero mai autorizzato un’espressione popolare volta a sopprimere i vantaggi concessi sia a loro sia ai loro cliens, a quelle persone cioè che, presso gli antichi latini, avevano obblighi ai limiti della sudditanza nei confronti del loro patronus. Se però un eccezionale miracolo avesse consentito l’affermazione di una vera autoritas, se un divino incantesimo avesse liberato i cittadini dal cancro del nepotismo o del vassallaggio, se qualcuno avesse concesso


33 loro la forza di esserne degni; se fossero stati davvero dei rivoluzionari, qualcosa si sarebbe potuto fare. Sarebbe bastato, infatti, che le fazioni in campo si accordassero per delegare il potere a un comitato super partes, in grado cioè di sottoporre a probiviri veramente probi, scelti dal popolo e approvati da magistrati indipendenti dalla politica, l’idoneità dei candidati cui affidare il mandato parlamentare e tutti gli altri ruoli di pubblica utilità. La loro idoneità avrebbe dovuto basarsi sull’eccellenza dei comportamenti dimostrati nel loro settore, su una comprovata onestà, su competenze documentate. Nel pensare ciò, Ancilla sentì riemergere quel latino che suo padre aveva voluto insegnarle in privato, perché riteneva necessario lo imparasse. Se lo fosse stato davvero, però, ancora non lo sapeva. Le erano davvero necessarie quelle sue reprimende che, seduta accanto alla sua bara, stava ricordando? Esisteva un cilindro dal quale la nazione avrebbe potuto estrarre i cittadini super partes? E, infine, ammesso che quei cittadini esistessero, per quanto tempo sarebbero rimasti tali?


34 CAPITOLO 5 Quelle del professor Domini erano senza dubbio aspirazioni oscillanti tra il romantico e il reazionario. Ancilla, chiudendo gli occhi, lo rivedeva mentre parlava e poi si alzava per andare a prendere una sigaretta in salotto. Dopo averla accesa, conscio di essere più duro che severo, affondava la lama della sua oratoria in sanzioni ancora più micidiali: «Solo i candidati emersi da un severo vaglio preventivo potrebbero, una volta eletti, essere di esempio alla nazione, rinunciando a tutti i privilegi di cui godono le attuali istituzioni. Solo così, infatti, grazie all’effetto trainante e dilagante della loro sobrietà, il bilancio dello Stato potrebbe essere risanato in tempi contenuti. In seguito quel nuovo Parlamento avrebbe dovuto analizzare, studiare e individuare le esigenze reali dei cittadini a cominciare da quelli più bisognosi, per porre rimedio a disparità e ingiustizie. In modo da mostrare che c’è la possibilità di essere governati da persone trattate allo stesso livello economico e con gli stessi diritti e doveri della maggior parte dei loro elettori. Sono certo, Ancilla, che la congiunzione diretta, anche se autoritaria, con l’elettorato potrebbe essere agevolata da una misura semplice e trasparente: ricevere una retribuzione pari a quella degli insegnanti». Ancilla sorrise e gli fece notare: «Come ex insegnante è logico che tu pretenda tale parità di retribuzione». Fu allora che la risolutezza visionaria del padre assunse le vesti bellicose del giudice ultraterreno: «È o no compito della scuola essere la fucina formativa e educativa più importante, insostituibile ed elevata di una nazione? Se fosse così, agli eletti, lo Stato dovrebbe riconoscere l’onorario degli insegnanti della scuola primaria, figure elette che spesso compiono miracoli nella formazione dei ragazzi. Agli eletti nelle province e nelle regioni il compenso dovrebbe essere quello degli insegnanti dell’istruzione secondaria; mentre ai parlamentari o ai magistrati dovrebbe spettare quello dei docenti universitari. Per evitare, infine, di premiare vizi invece che virtù, non si dovrebbe riconoscere nulla a chi ricoprirà incarichi di Governo, di commissione, di presidenza


35 della Repubblica e dintorni. Tali mansioni sono già di per sé valori così elevati e qualificanti da non poter essere sviliti col fetore del denaro». Ancilla lo rammentava, mentre si passava lentamente il palmo della mano sui capelli radi, bianchi anzi tempo, quando le sembrava un censore della Roma repubblicana o un tribuno della Serenissima prima del 1418. Era il momento in cui di solito si concedeva una pausa ieratica, a occhi chiusi, forse per smorzare il ribollire della sua foga. Poi riapriva gli occhi e riprendeva con rinnovato vigore, plateale: «Sono convinto, mia cara, che non interessi né ai cittadini italiani né alle autorità straniere lo sfarzo settecentesco esibito dalle cariche più rappresentative, né piacciano i riti tribali delle manifestazioni svolte dagli pseudo grandi dello Stato con un indegno codazzo di uscieri e buttafuori. In Nuova Zelanda, Ancilla mia, la nazionale di rugby, al termine di ogni partita, cura la pulizia degli spogliatoi: non è un esempio che merita essere capito e seguito anche dai nostri onorevoli? Non dovrebbe essere tolto loro il novanta per cento dei privilegi di cui godono, destinandoli in parte a sanare il bilancio e in parte ad aiutare chi non ha il necessario per vivere? Oppure i nostri “eletti” sono prostitute a livello calciatori?». A questo punto si concedeva una breve pausa a effetto, durante la quale la guardava fisso, come se attendesse una risposta. «In ogni loro atto» continuava, una volta certo di avere ottenuto la sua attenzione «le istituzioni dovrebbero dimostrare un’eccellenza comportamentale e non solo formale, degna del loro ruolo. Alla fine del secondo millennio a cosa serve un Presidente della Repubblica o del Consiglio comparabile a Enmebaragesi, penultimo Re sumero di Kish, vissuto cinquanta secoli or sono? Ha senso retribuire funzionari dello Stato con cifre cento volte più elevate di quelle di un elettore operaio? Non ti pare che già dieci volte sarebbe un’esagerazione?», Al professor Domini piaceva aggredire verbalmente i tenutari del potere. Lo faceva però solo con lei, perché l’unica disposta ad ascoltarlo. E lei ne sorrideva. «Sono certo» aggiungeva con una vena di malinconia, amareggiato dalla propria impotenza «che le mie idee, figlie dell’etica e della logica, troveranno qualcuno pronto a ostacolarle. Di sicuro ci saranno eletti che rifiuteranno un trattamento così severo, pur sapendolo necessario. Eppure basterà ricordare loro che geni indiscussi come Foscolo, Meucci, Modigliani, Ligabue e tanti altri, pur lavorando giorno e notte e perdendo sonno e salute, hanno terminato la loro esistenza in povertà. Se qualche eletto dovesse rifiutare le misure che ho citato, nessun problema: potrà


36 dimettersi, cedendo il proprio posto al primo, al secondo o al terzo dei non eletti. Sarà una vera fortuna per l’Italia perdere governanti non disposti ad accettare misure attente all’interesse nazionale; e per la nazione sarà una grande vittoria non essere più soggetta alla saccenteria, boria, arroganza, avidità, spudoratezza, brama sfacciata di denaro e di potere di personaggi indegni, così come appaiono i nostri onorevoli. Non ti sembra che staremmo tutti molto meglio se a governarci o a gestirci ci fossero donne sagge e rispettose dei ruoli loro assegnati o uomini semplici e coraggiosi, come avveniva prima del 1418, quando Venezia era “la dominante”?». Ancilla lo rivedeva innalzarsi in quelle iperboli un po’ troppo ingenue per la sua età, riudiva quelle parole condivise da molti cittadini sfortunati ma non compromessi con il potere. Eppure, nonostante quelle opinioni donchisciottesche, suo padre le piaceva. «Rifletti, Ancilla» sillabava con toni meno irruenti per non perdere la sua attenzione: «secondo te, con la capacità sempre dimostrata di saper risolvere le situazioni più difficili grazie al loro sacrificio quotidiano, il corpo docente delle elementari e delle medie, che continua a studiare e si tiene aggiornato per tutta la vita, non meriterebbe ben altro rispetto? Allora, perché non votare in futuro una classe politica fatta di persone dotate di quel tipo d’integrità e di onestà? Il rispetto e la stima dovuti agli insegnanti, non dovrebbero, a tuo avviso, spettare anche al volontariato, a chi ogni giorno e in ogni situazione opera con spirito di sacrificio, sensibilità e capacità? Salvo le solite eccezioni che confermano la regola, gli eletti dei partiti civici o di opposizione sono tacciati con sprezzo di “inesperienza” dai partiti di Governo. Inesperienza di che cosa? Della perfidia? Dell’ingordigia? Della frode? Sempre salvo le solite eccezioni, molti eletti privi di esperienza della nostra Prima Repubblica spesso si sono dimostrati migliori di quelli che sono loro succeduti. Allora perché noi cittadini non mettiamo alla prova persone nuove, in grado di sostituire chi non è all’altezza del compito assegnato?». A questo punto si fermava e la fissava, quasi volesse una risposta. Ancilla, però, sapeva che non gli sarebbe stata gradita. Quanti incapaci, imbecilli, disonesti, furbi, falsi e ruffiani di ambo i sessi cercano a ogni tornata elettorale di farsi eleggere, fingendosi dotati di quell’integrità e onestà di cui parlava suo padre? Grazie a quali requisiti avrebbero potuto sostituire chi non si fosse dimostrato all’altezza del suo compito? E quale giudice, scelto da chi, avrebbe potuto fare quella scelta?


37 No, era fuori strada: per questo preferiva tacere e mostrarsi attenta alle sue illusioni. «Gli eletti agli adempimenti pubblici, data la cronica congiuntura economica e l’enormità del debito statale di cui sono responsabili, dovrebbero sentire il dovere di rinunciare a qualsiasi tipo di rimborso spese, concessione, facilitazione, assicurazione e a tutti quegli ammennicoli che i cittadini di modeste condizioni non ricevono. Sai anche tu quanti sono i cittadini che, per una passione o missione da compiere, sacrificano le proprie nottate e i propri beni. Non lo fanno forse gli insegnanti, i poeti, gli inventori, i medici, gli umanisti, le madri, gli uomini di fede, i volontari, gli scrittori, gli atleti? È perciò doveroso che chi ha delle responsabilità svolga il proprio compito con l’abnegazione di un cittadino impegnato e onesto, ricevendo una retribuzione analoga a quella della classe insegnante, la più rappresentativa della nazione. E per te, Ancilla mia, è accettabile che una persona votata da migliaia di cittadini possa comportarsi in modo indegno, usando grimaldelli o cercando scorciatoie allo scopo di arricchire? In quale modo un eletto che non viva al livello economico dei cittadini meno abbienti potrebbe capire, sentire, affrontare e risolvere i loro problemi?». A quel punto dell’arringa il professor Domini taceva sia per reprimere la collera interiore sia per dare maggiore enfasi alle proprie domande, vere e proprie denunce di opportunismo e amoralità degli eletti. Lo faceva poco prima di chiudere il proprio dire con parole come queste: «Se un eletto fosse scoperto ad approfittare del proprio status, intascando o accettando in dono, che so, una penna biro, il cui inventore, tra l’altro, morì in miseria; se un eletto ricorresse a mezzi o mezzucci di corruzione per avvantaggiare se stesso, la sua cricca e i suoi nipoti, la legge dovrebbe essere severissima, giacché quell’eletto dimostrerebbe di essere un misero profittatore e opportunista. Il giudice dovrebbe punirlo indicando anche le misure rieducative da adottare nei suoi confronti. Potrebbe per esempio farlo lavorare a vantaggio delle persone fisiche e giuridiche che ne abbiano bisogno: pulire le latrine nelle scuole, negli ospedali e nelle carceri, recuperare alle prime luci dell’alba le immondizie abbandonate fuori dei cassonetti, insegnare la nostra lingua e le nostre leggi a immigrati e rifugiati, assistere i malati e gli anziani meno abbienti, svolgere attività utili al prossimo, all’ambiente, al paesaggio. Se dovesse essere messa in dubbio l’onestà di un eletto, gli dovrà essere concesso per difendersi solo un avvocato d’ufficio, in modo da fargli capire cosa capita di continuo a cittadini non abbienti. E se al


38 termine del suo processo, da tenersi per direttissima, fosse condannato, l’eletto indegno della fiducia dei suoi sostenitori dovrà essere sollevato per sempre da ogni incarico o rapporto futuro con la cosa pubblica. Per l’infrazione accertata il tribunale dovrebbe infliggergli non solo il massimo della pena anche rieducativa, senza sconti nemmeno per buona condotta; ma anche impedirgli di comparire nelle immagini pubblicitarie e d’intervenire su qualunque mezzo di comunicazione. Se, infine, da condannato, scriverà dei libri sulle sue avventure o disavventure politiche, i diritti d’autore spetteranno allo Stato e, dove possibile, a tutti quelli che avrà danneggiato con i suoi comportamenti». Ancilla ricordava bene le parole che enfatizzava pronunciandole ad alta voce. Sapeva che i comizi privati e le soluzioni radicali, che suo padre ipotizzava per impedire ai cialtroni di prevalere, erano sfoghi gratuiti. La sua quiete attuale, grigia e immota, sulla quale più volte aveva celiato con proverbi di sua invenzione quali “la calma è la virtù dei morti”, non le pareva per niente spiritosa ma solo cupa e amara. Aveva sospirato e sollevato lo sguardo al soffitto, quasi per emergere dalle sconfitte paterne e riprendere coscienza di quella stanza, di quegli oggetti tristi, di quel volto pallido e teso, di quelle mani gelate, di quegli occhi chiusi per sempre. Sapeva da mesi che lasciarlo non sarebbe stato facile. Aveva nutrito per lei un affetto tenero e prioritario allo stesso tempo, le cui radici erano penetrate ovunque, fin negli angoli più recessi della sua mente e del suo cuore. Fu quella certezza a farle perdere il gusto delle amiche, dei compagni, delle feste, degli impegni che caratterizzano l’età in cui spuntano le ali. Aveva ricambiato il suo attaccamento dedicandosi a lui, specie negli ultimi tempi, ossia da quando, mentre lei frequentava Economia e Commercio a “Ca’ Ferraro”, aveva cominciato a invecchiare. E ancor più, dal momento in cui aveva preso a lavorare. L’affetto di Ancilla, però, non era né poteva essere lo stesso che l’aveva legata a sua madre: lui era troppo diverso. Lo capiva bene ora, in quella stanza, dinanzi alla sua morte. Il professor Domini era stato un orcio traboccante di raziocini e cognizioni, di parabole e d’insegnamenti ma non aveva la sensitività di una madre. Ogni giorno che trascorreva con suo padre era occasione per una lectio o per esercizi, avventure, inviti a crescere nel corpo e nello spirito, nel pensiero e nell’azione, a realizzarsi, a diventare ciò che stava diventando. Ogni nuovo giorno la rendeva sempre più diversa da quand’era bambina.


39 FINE ANTEPRIMA Continua…


INDICE Prologo ............................................................................................ 9 Capitolo 1 ...................................................................................... 13 Capitolo 2 ...................................................................................... 18 Capitolo 3 ...................................................................................... 23 Capitolo 4 ...................................................................................... 28 Capitolo 5 ...................................................................................... 34 Capitolo 6 .............................. Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 7 .............................. Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 8 .............................. Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 9 .............................. Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 10 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 11 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 12 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 13 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 14 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 15 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 16 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 17 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 18 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 19 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 20 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 21 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 22 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 23 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 24 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 25 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 26 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito.


Capitolo 27 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 28 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 29 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 30 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 31 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 32 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 33 ............................ Errore. Il segnalibro non è definito. Nota finale ............................. Errore. Il segnalibro non è definito.


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