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Leonardo Pantè testo esame 3D

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Published by lapazienzadiercolino, 2019-05-20 11:27:31

La Corona ferrea

Leonardo Pantè testo esame 3D

La Corona Ferrea

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Questa storia è ambientata a Monza nella metà del IX secolo,
dopo la morte della regina Teodolinda. In quel tempo, al posto
del duomo che conosciamo oggi, c’era una basilica imponente -
in cui venne seppellita la regina Teodolinda – ed un monastero
che si affiancava al palazzo della regina.

Durante quel periodo alcune voci narravano insistentemente di
un fantasma che “viveva nel monastero e di una magia molto
potente legata ad un oggetto molto speciale, in grado di dare
tanto potere”

Già da molto tempo l’arcivescovo monzese aveva segnalato al
papa alcune storie che riguardavano il fantasma. Quest’ultimo
veniva coinvolto addirittura in un evento che aveva creato tanto
scompiglio nella Chiesa: la tragica sparizione di alcuni frati.

Quando la notizia di queste sparizioni arrivò alle orecchie del
Papa, egli ordinò di porre fine a questa storia del fantasma e di
svelare il mistero.

Il papa decise di mandare a Monza un vecchio monaco che si
chiamava Luigi Cordella e che, già in molte altre occasioni, era
stato il suo investigatore di fiducia.

Luigi Cordella era un monaco dell’ordine dei benedettini. Era alto
e robusto, aveva la pelle chiara, i capelli castani, gli occhi neri e
una folta barba.

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Era vestito con una tunica bianca che gli ricopriva tutto il corpo
legata con una corda alla vita, indossava un paio di sandali, un
mantello nero, e una collana di fattura modesta ma con al centro
un oggetto strano di forma triangolare che sembrava un
amuleto.

Il monaco era arrivato il 21 giugno nel tardo pomeriggio dopo
un lungo viaggio in carrozza.

L’aria era fresca e il cielo era ricoperto di nuvole che
sembravano minacciare, da un momento all’ altro, l’arrivo di un
acquazzone.

Quando la carrozza arrivò, ad accoglierlo c’erano due frati: frate
Silvano, un tipo molto modesto ed educato e frate Carlo, un
uomo anziano, dall’aspetto buono, con occhi vivi, da cui
traspariva un’evidente serenità interiore.

La struttura era formata da un palazzo di tre piani e da 4 torri a
forma circolare che conducevano ai livelli superiori e a quelli
inferiori. Per costruirla erano stati usati mattoni e pietre comuni;
alcune parti erano state impreziosite con immagini sacre,
realizzate, nel corso del tempo, con la proverbiale pazienza e
cura dei monaci.

Dopo un saluto fraterno, frate Silvano chiese a frate Giglio di
accompagnare l’ospite nel suo alloggio.

Giglio era un frate di 50 anni con una faccia paffuta. Era grasso
e aveva una barba bionda come i suoi pochi e corti capelli.

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Luigi iniziò subito a raccogliere informazioni, quindi iniziò a
interrogare il frate.

Luigi gli chiedeva se avesse mai visto il fantasma girare o se gli
avesse mai parlato. Gli rispose che una volta, mentre passava
per la biblioteca, aveva visto una scritta rossa su una porta con
scritto sopra “SE PASSI DA QUESTA PORTA TE NE PENTIRAI”.

Luigi gli aveva chiesto che cosa avesse fatto e lui gli rispose che
era scappato a gambe all’aria perché si era così spaventato che
gli sembrava di morire.

Gli raccontò che il giorno dopo era tornato con gli altri frati, la
scritta e la porta magicamente erano scomparse ma dai muri
provenivano voci sconosciute.

Mentre Giglio raccontava si avvicinarono a una struttura con una
forma di un parallelepipedo situata a 20 metri dalla basilica e
composta da due piani.

Quando arrivarono il frate gli disse che quel palazzo era il
dormitorio.

Le celle del dormitorio erano molto piccole e tutte erano fornite
di un letto e di un armadio.

La cella del monaco Cordella si trovava al secondo piano e si
affacciava sulla piazza del mercato.

Il tempo di sistemarsi e per l’investigatore si era già fatta ora di
cena.

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Gli ecclesiastici si erano riuniti tutti nel refettorio, attorno ad un
tavolo rettangolare con sopra un enorme lampadario con 20
candele accese. Poco fuori della stanza c’era il lavatorium per
lavarsi prima di sedersi a tavola.

Il tavolo era ricoperto da una tovaglia sfiziosa di colore bianco
con i margini dorati; sopra di essa era apparecchiato e in mezzo
c’erano tante portate appetitose. Il monaco era seduto vicino a
frate Silvano.

Silvano era un uomo alto, robusto e magro. Era calvo, aveva gli
occhi verdi ed era vestito con una tunica bianca con sopra
disegnati delle immagini di piante di un colore verde intenso ma
con profili dorati e teneva in testa uno strano cappello cilindrico
che Luigi non aveva visto mai.

Mentre mangiavano, Luigi chiese all’arciprete di elencargli tutte
le vicende riguardanti il fantasma e dei fatti strani che
accadevano nel monastero.

Silvano gli raccontò di aver sentito dire più volte che, certe notti,
le candele nella basilica si accendevano da sole, poi d’un tratto
si spegnevano e poi si riaccendevano e continuavano così finché
il lume non terminava. Gli parlò anche di quella volta in cui il
campanaro, di prima mattina, asserì di aver incontrato il
fantasma mentre saliva sul campanile ed era scappato. Gli
raccontò anche di quando il fantasma apparse improvvisamente
davanti agli occhi di tutta Monza durante una celebrazione di una

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funzione religiosa. La conversazione fu interrotta da un brindisi
al monaco Luigi Cordella per festeggiare il suo arrivo.

Dopo la cena, prima di andare a dormire Luigi decise di fare un
salto nella basilica per ammirare il suo splendore anche con la
luce delle candele. Per sua fortuna la basilica era confinante con
il monastero e quindi la strada da fare era poca.

Le facciate esterne erano ricche di statue ed erano ornate da
tante altre decorazioni. All’entrata principale c’erano due statue
di leoni poste sui due lati del portone. La leggenda dice che quei
leoni raffiguravano i protettori della basilica dalle anime
malefiche.

L’edificio era diviso in tre navate, due laterali e una centrale,
suddivise da due file di colonnati paralleli tra loro. Ogni colonna
aveva un capitello jonico, ciò vuol dire che era formato dai
caratteristici riccioli che si avvolgono a spirale. Il soffitto e le
pareti erano ricoperti da affreschi e quadri di scene di vita
quotidiana della regina Teodolinda.

In fondo alla basilica c’era un altare dorato ricoperto da una
tovaglia bianca che si trovava in uno spazio quadrangolare
rialzato da terra chiamato presbiterio. Dietro di esso c’era una
parte semicircolare, l’abside, che ospitava il coro e andava a
completare la chiesa. Sopra l’altare c’era il ciborio, ricco di
decorazioni che ne esaltavano il suo straordinario valore.

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Sotto il presbiterio c’erano delle scale che conducevano alla
cripta.

La cripta era una piccola cappella dove si tenevano le reliquie
del santo protettore.

Per illuminare la chiesa durante il giorno c’ erano le finestre
monofore, le bifore e le trifore e con queste c’era anche il rosone:
un’ampia finestra circolare decorata da colonnine che si
irradiavano dal centro e si legavano alla cornice tramite archetti.

Lì l’investigatore ebbe l’impressione che le candele si
spegnessero e riaccendessero da sole come gli aveva detto
Silvano, in modo però da non lasciare mai la chiesa al buio; ben
presto però realizzò che si trattava solo della sua
immaginazione; si stava lasciando suggestionare e questo lo
intristì.

Incontrò anche il frate Giglio, si trovava nelle prime file e stava
pregando con gli altri fratelli. Giglio lo salutò con un abbraccio e
gli presentò il padre Nicola.

Il padre Nicola era un monaco stolto, poco intelligente, ma
conosceva molte lingue.

Nicola aveva gli occhi neri, era calvo ed era vestito con tunica
marrone dotata di cappuccio, un paio di sandali che si
agganciavano intorno le caviglie e portava un bracciale di legno
che simboleggiava il legame tra l’uomo e la natura.

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Tutti e tre pregarono, poi ognuno di loro andò a dormire nel suo
letto.

Passano le ore e i monaci dormivano quando un grido
potentissimo proveniente dall’interno rianimò il monastero
svegliando tutti.

I monaci corsero a vedere e trovarono il monaco Mario morto
nel pozzo che si trovava al centro del chiostro.

Un monaco disse: “IL FANTASMA è TORNATO”, un altro disse:
“SE RESTIAMO QUA MORIREMO TUTTI”.

Il cadavere del monaco Mario galleggiava sull’ acqua con il capo
rivolto verso la profondità del pozzo.

La sua pelle era pallida, bianca e il suo cuore ormai non batteva
più.

Il corpo aveva addosso tracce di una strana melma di color
verdastro e appiccicaticcio.

Due confratelli tirarono fuori il corpo del povero monaco dal
pozzo. Il cadavere venne portato nel ben mezzo della stanza in
cui il monaco Adolfo, il medico dell’abbazia, lavorava. Il corpo
venne spogliato dei i vestiti, ripulito da tutto lo sporco e dagli
insetti che gli si erano appiccicati.

Adolfo era il monaco che, tra i suoi vari incarichi, si incaricava
anche di custodire e di gestire la farmacia insieme al suo
assistente Carlo, un giovane novizio di diciassette anni.

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L’infermeria si trovava in una casetta accanto agli orti, delimitata
da un recinto.

In questa casetta c’erano due camere, una rettangolare e una
triangolare. Nella prima camera c’erano due file di letti dove
riposavano i malati e un corridoio dove passavano gli infermieri.
Nell’altra stanza c’erano molti preparati medici che, se ben
combinati insieme, permettevano di dare un po’ di sollievo ai
malati.

Adolfo era alto quanto Luigi, era grasso, aveva una barba molto
lunga grigia e aveva i capelli e gli occhi marroni.

Dal corpo fu estratto un campione di melma verde. Il campione
venne osservato con cautela. Luigi chiese ad Adolfo se fosse un
veleno e lui gli rispose che si trattava di semplice muschio, che,
mescolandosi con l’acqua del pozzo aveva formato quella melma
dal colore così sgradevole. Il corpo non presentava ferite e non
aveva segni di avvelenamento. Probabilmente frate Mario era
morto per cause naturali proprio in prossimità del pozzo e vi era
caduto dentro inciampando sul bordo; questo poteva spiegare
perché venne ritrovato con il capo rivolto verso il basso.

Al giovane Carlo non sfuggì però un dettaglio: c’era un foglio
nascosto in una tasca dei vestiti del defunto; lo prese e lo diede
a Luigi mentre Adolfo cercava altre possibili tracce sul cadavere.

Nel foglio era riportato un messaggio che parlava di 4 porte
situate in 4 luoghi dell’abbazia.

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“Queste porte sono tutte sincronizzate e portano tutte ai
sotterranei…” e poi ancora

“State attenti alla morte; lei vi aspetta ma se non avrete
paura il potere troverete”.

Il messaggio era incompleto. Così Luigi lo prese, lo mise nella
busta e conservò la busta nella sua tasca. Successivamente
andò alla messa. Lì erano presenti tutti i monaci. La messa fu
celebrata da frate Silvano e, alla fine della funzione, fu
annunciato l’inizio degli interrogatori. Alcuni frati chiesero il
motivo degli interrogatori e Luigi disse che gli servivano per
scoprire di più sui sotterranei del monastero.

Dopo l’annuncio Cordella, prima di incominciare, decise di fare
un giro completo del monastero per avere le idee chiare sulle
parti che non aveva ancora visitato e così chiese a frate Silvano
di assegnargli un frate che gli avrebbe potuto illustrare i dettagli
del luogo.

Frate Silvano prese la richiesta molto seriamente e gli affidò
frate Mauro, un uomo pacato e serio, uno tra i monaci più anziani
del monastero.

Frate Mauro era alto e, nonostante l’età, era ancora forte; la
barba era grigia e dagli occhi neri traspariva la luce di
un’intelligenza acuta.

Il frate si dedicò a questo incarico con molta cura. Mentre
procedevano con la visita, Luigi gli rivolgeva domande

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sull’abbazia fino a quando gli chiese di portarlo nei sotterranei
e, in quel momento, lui si girò improvvisamente ed iniziò a dire
cose senza senso. L’unica cosa che si capì veramente fu la parola
“scriptorium”. All’improvviso, il suo corpo cominciò ad essere
scosso da forti fremiti, il suo sguardo si trasformò in una smorfia
di terrore, le sue mani di aprirono e si irrigidirono
all’inverosimile, i suoi occhi vispi ed intelligenti persero quella
luce intensa che tanto aveva colpito Luigi, una strana schiuma
cominciò ad uscirgli dalla bocca e, con essa, le parole si
esaurirono e vennero rimpiazzate da gemiti di dolore:
quell’uomo aveva paura; si trattava di un paura autentica, del
tipo che ti fa perdere il senno o che ti uccide. Così accadde al
povero frate Mauro: la paura lo uccise. Luigi pensò che fosse
svenuto e chiese aiuto per portarlo subito dal medico.

I monaci e Luigi lo presero per portarlo in infermeria. Intanto
Carlo, che si trovava affaccendato in tutt’altro, corse dal suo
maestro Adolfo per avvisarlo dell’arrivo del paziente. Così Adolfo
preparò un letto. Vennero fatti tanti tentativi per rianimarlo;
Luigi aiutava meglio che poteva perché, in fondo, si sentiva
responsabile per l’accaduto. Non ci fu nulla da fare. Frate Mauro
si era spento per sempre e ora la sua anima riposava felice in
cielo.

I monaci piangevano tutti, ma Luigi Cordella non cedette alle
emozioni e, più determinato che mai, si diresse verso lo
scriptorium; quella era l’unica traccia che gli era rimasta e non
intendeva perdere altro tempo.

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La sala dello scriptorium era formata da numerose file di banchi.
Ogni banco aveva un ripiano inferiore pieno di libri mentre sopra
c’erano centinaia di pagine di libri ricopiati con penna a
inchiostro.

Luigi capì subito che doveva cercare un passaggio segreto o
qualcosa di simile. Non trovata nulla e si innervosì; cominciò a
spostare i banchi, a curiosare negli angoli dei muri, tra un
mattone e l’altro e niente, non trovò nulla. Ad un tratto non si
accorse di una decorazione in pietra che i frati avevano posto a
mezza altezza e, nella frenesia del momento, vi sbatté contro.
Cadde a terra e la vista gli si annebbiò per qualche istante.
Quando tornò ad essere più chiara vide davanti a sé una porta;
era sicuro che prima non ci fosse. Guardò meglio e vide una
scritta su di essa che diceva “SE PASSI DA QUESTA PORTA TE
NE PENTIRAI”. Era la scritta che aveva fatto scappare via frate
Giglio e, forse, frate Giglio aveva fatto bene perché era ancora
vivo, pensò Luigi.

Probabilmente era una delle 4 porte sincronizzate di cui parlava
il messaggio ritrovato nella tasca di frate Mario. Si ricordò che
quel messaggio diceva che dietro la porta c’era qualcuno ad
aspettare e ricordava di non aver paura, pena il rischio di trovare
la morte.

Luigi aprì la porta. Intorno a lui si creò un buio fitto. Esitava ad
avanzare, avrebbe preferito avere prima il conforto di una luce,

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un suono, qualcosa che lo potesse guidare, invece solo buio e
silenzio.

Improvvisamente si materializzò davanti a lui una creatura
spaventosa. Sembrava il fantasma di cui tanto aveva sentito
parlare; solo che lui si era fatto l’idea che fosse un fantasma
giocherellone, che faceva spegnere e riaccendere le candele,
mentre quello che aveva davanti a sé indossava un’armatura da
guerra ed era grosso ed armato.

Era un cavaliere nero con la spada, con un’armatura spessa
e una spada lunga e tagliente e con uno scudo rotondo e
imponente.

Non aveva volto. Aveva sguainato la spada e la faceva roteare
e, mentre lo faceva, Luigi la sentiva avvicinarsi sempre di più al
suo corpo. Se fosse rimasto lì senza far nulla probabilmente lo
avrebbe colpito ed il suo corpo non avrebbe resistito e si sarebbe
spezzato. Nonostante la paura Luigi stette immobile, pronto a
lasciarsi colpire; pensò che il monastero e la basilica erano
luoghi di pace e non aveva senso che al loro interno si potesse
celare un simile mostro. Restò fermo anche quando sentì la lama
della spada che gli sfiorava il volto ed anche quando la lama
passò così vicino da tagliarlo leggermente. Chiuse gli occhi e
quando subito dopo li riaprì vide che il cavaliere nero non c’era
più; si era accesa la luce e vide che c’erano 3 monaci seduti di
fronte a lui. Non li aveva mai visti prima. Doveva trattarsi dei

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monaci scomparsi, quelli per cui lui era stato mandato al
monastero.

I monaci lo guardarono profondamente negli occhi, uno alla
volta. Poi si consultarono tra di loro. Se anche solo uno di loro
avesse visto in quegli occhi un cuore “crudele” lo avrebbero
abbandonato per sempre nei sotterranei del monastero; invece
tutti furono concordi nel giudicare Luigi degno di proseguire con
loro.

Lo accompagnarono lungo i sotterranei e Luigi li seguì tra vicoli
angusti e polverosi; attraversò vari passaggi segreti e, ad un
certo punto capì di essere arrivato nei sotterranei della basilica.
Continuò con loro e arrivò ad una stanza segreta, dove
probabilmente nessuno era entrato da tantissimo tempo. Qui
trovò una corona che risplendeva al centro della stanza. Non era
appoggiata; volteggiava sospesa da terra, appoggiata su un
cuscino.

I monaci dissero a Luigi: “questa è la corona ferrea, forgiata con
uno dei chiodi che servirono per crocifiggere il nostro Salvatore;
portala all’esterno della basilica e fai in modo che il mondo la
conosca. La corona non è portatrice di ricchezze e di potere ma
il suo grande potere è quello di essere un simbolo di pace vero,
che si può toccare. Anche se, inizialmente, i potenti del mondo
non lo comprenderanno e faranno di tutto per farsi incoronare
con essa, il suo valore sarà compreso nel tempo e solo allora il
suo potere sarà pieno.

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Leonardo Pantè
Classe III D

Istituto Teresa Confalonieri - Monza anno 2109

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