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Published by lapazienzadiercolino, 2019-05-30 16:12:25

IL CARAVAGGIO SEGRETO-1880 G.Sciffo

IL CARAVAGGIO SEGRETO-1880 G.Sciffo

Il Caravaggio
Segreto-1880

Giorgio Sciffo
3^D





2

IL CARAVAGGIO SEGRETO-1880

I due detective entrarono nella buia
cripta. Myenne prese una candela e
la accese con un fiammifero.
Gualtieri gli si fece vicino e lo
esortò: “Veloce, sbrigati. Non
abbiamo molto tempo!”
Myenne si affrettò ad accendere il
lume e i due iniziarono a perquisire
la piccola stanza. “Un quadro grande
non può essere nascosto tanto
bene”, pensò il francese. Gualtieri
esclamò con felicità: “Eccolo qui!” e
si chinò vicino a un tavolo. Myenne
si avvicinò e si abbassò.

Il custode era inquieto nella sua
casetta dietro alla chiesa. Stava
riponendo nel suo armadietto il
vestito di gala che aveva utilizzato
quel pomeriggio. Si chiedeva come
mai due persone distinte e
rispettabili volessero visitare la

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chiesa alle sette di sera. Ad un
tratto, mentre si accostava al tavolo
per mangiare, si illuminò
d’improvviso: “Il quadro!” Si diresse
verso l’ingresso principale, ma un
soldato era di guardia di fronte ad
esso. Imprecando, corse verso
l’ingresso secondario, ma si accorse
di essersi dimenticato le chiavi.
Ritornò nella casa e le prese dal
gancio. Poi corse verso la porta, la
aprì e si diresse attraverso la navata
verso la cripta.
I due investigatori se ne accorsero e
portarono la tela all’esterno tramite
il lucernario. Gualtieri urlò ad un
tratto: “Sta arrivando, veloce!”
Myenne stava cercando di issare il
quadro tramite la stretta finestra.
Quando giunsero all’aria aperta,
Gualtieri notò un particolare che lo
fece riflettere. Myenne arrivò e i
due riuscirono a chiudere il
lucernario appena in tempo. Corsero

2

verso l’esterno e raggiunsero il
soldato che li aspettava. “Antoine,
veloce. Sta arrivando!” I due
s’affrettarono verso una casa poco
distante. Un vecchio signore aprì
loro la porta e li fece entrare,
seguiti dal soldato Antoine. Sempre
lo stesso uomo li introdusse in un
sudicio scantinato, freddo e umido.
Un elegante gentiluomo arrivò poco
dopo. Gualtieri si alzò e disse
cerimoniosamente: “Buongiorno,
segretario Roland. Spero che ritenga
questo rifugio perlomeno decente.
So che c’è di meglio ma…”; il
segretario lo interruppe: “Non c’è il
minimo problema. Come vedo, la
vostra missione ha avuto ottimo
fine, e quindi posso dire che il
nostro ruolo in Bretagna si conclude
qui. Domani mattina saliremo su un
comodo treno verso Parigi e lì
potremo discutere tranquillamente
di quanto è stato fatto e quanto

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ancora c’è da fare. Detto questo, vi
auguro una buona serata. Se avrete
bisogno di me, sono alla caserma in
Rue de Bertrand-Guillot.
Ovviamente, due guardie
sorveglieranno tutta questa casa per
questa notte. Spero che non siano
chiamate ad intervenire, ma
comunque sono pronte a reagire a
qualsiasi problema. Arrivederci.”
Detto questo, s’allontanò dai due e
uscì dalla casa. Una delle tre guardie
che stazionavano di fronte al
portone si staccò dalle altre due e
seguì il commissario per le strette
vie del borgo francese.

La mattina seguente i tre si
incontrarono davanti alla stazione
della vicina città di Montpellier. “Il
quadro sta bene?” chiese
preoccupato il segretario Roland. Le
due guardie si avvicinarono con in
mano la tela e, con un gesto

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teatrale, Roland tolse il velo che la
copriva. Il Caravaggio compariva in
tutta la sua imponenza e maestosità.
L’espressione della Vergine, triste
ed addolorata, contrastava con
quello degli Apostoli, che
apparivano distesi e sereni. Lo
sfondo del Calvario senza croci era
aspro e brullo, e una magra
pianticella si ergeva alla ricerca di
acqua. Constatato che fosse proprio
quello, Roland ricoprì il quadro e
disse: “Ottimo, è proprio lui. Al
binario 4 ci aspetta un treno.”
Mezz’ora dopo erano nella carrozza
di prima classe: davanti a loro un
bel caffè e biscotti. Roland prese
dalla sua valigetta alcuni documenti
dell’ambasciata e li mostrò ai due
detective. Riportavano l’interesse
della Spagna borbonica per il
quadro che avevano appena
recuperato dalla misteriosa cripta.
Myenne chiese a Roland come quel

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quadro fosse finito in quella chiesa.
Il segretario iniziò a raccontare:
“Tutto ebbe inizio nel 1797.
Napoleone aveva invaso Venezia e
Milano, quando un giovane nobile
lombardo gli chiese udienza, per
segnalargli la presenza del quadro in
un capannone poco fuori Milano.
Ovviamente egli chiedeva in cambio
un elevatissimo compenso in
denaro, e Napoleone si assicurò
personalmente della presenza del
quadro prima di procedere con il
pagamento. Jacques-Louis David, il
pittore di corte napoleonico, scrisse
in una lettera al visconte Clauncy:
<<quando potrò mettere le mani su
quel capolavoro magnifico, riuscirò
finalmente a capire quanto io sia
piccolo e insignificante rispetto alla
Grande Pittura, l’arte Suprema che
rinfranca i nostri cuori>>.
Così il quadro giunse in Francia,
nell’atelier del pittore di Napoleone.

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Dopo quasi due anni venne esposto
nel Salon Murejet e poi venne
conservato negli appartamenti di
Napoleone a Versailles fino al 1835,
quando venne portato via dal
Marchese Grouchon, che lo
conservò nella sua residenza a
Calais. Poi gli eredi di Grouchon lo
spostarono dove lo abbiamo
trovato, pronto per essere spedito in
Italia.” Myenne prese la parola: “E
poi arriviamo noi”, disse con un
sorriso. “Esatto! Alla fine di una
grande storia arriviamo noi”, ribadì
Gualtieri, che era stato in silenzio
fino a quel momento.
Il viaggio procedeva tranquillo.
Roland era silenzioso e scrutava gli
altri passeggeri, mentre Myenne
dormiva. Gualtieri osservava il
paesaggio che scorreva nel
finestrino e contemporaneamente
pensava alla sua terra, il Veneto,
che era stato sconquassato dagli

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austriaci e che adesso sembrava non
stare meglio con gli italiani. La
campagna francese era deliziosa, ma
qualcosa stonava con questa
perfezione: in lontananza si
scorgevano le scure sagome di
ciminiere, torri e capannoni. La
modernità, pensò amaramente,
inghiottiva tutto come la scura
corrente del mare soffoca le rocce e
gli scogli della costa. Poi le sue
riflessioni si spostarono a Marta,
che aveva lasciato a Codezzo, e ai
suoi splendidi occhi ….
L’uomo ossuto s’avvicinò a Roland
e gli sussurrò: “Monsieur Roland, un
signore in seconda classe ha chiesto
di lei.” Roland prese tempo e
domandò: “Come si chiama questo
signore?” Il controllore rispose in
tono di deferenza: “Ha detto che è
una questione di massima urgenza, e
non mi ha comunicato quale sia il
suo nome.” Roland gli chiese di

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mandarlo lì, e poi esclamò con
disprezzo: “Questi rozzi e scorbutici
ritengono di poter chiedere favori
da chicchessia, senza nemmeno
presentarsi!” Myenne, annoiato dallo
snobismo del segretario, rispose con
una semplice frase, per troncare di
netto la conversazione. Passò quasi
un quarto d’ora, quando lo stesso
controllore tornò e disse: “Lo
abbiamo cercato per tutto il treno,
ma sembra essere scomparso. In
quel momento, Gualtieri si spostò
sul sedile accanto a quello del
segretario, occupato solo dalla sua
valigetta. Si girò in modo da vedere
il lato opposto della carrozza e
scorse un movimento pochi metri
dietro di loro. Il controllore stava
giustificandosi con Roland, quando
nella carrozza rimbombarono due
spari secchi. Roland si spostò nel
sedile e il controllore si girò di
scatto verso il fondo del vagone.

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Myenne s’alzò in piedi. Gli altri
passeggeri urlarono istericamente e
si strinsero nei loro sedili.
L’investigatore francese si lanciò
verso gli ultimi posti sul corridoio,
da dove era stato sparato il colpo.
Gualtieri guardò sul sedile di fronte
al suo: un piccolo strappo sul bordo
mostrava il sottostante rivestimento
in piume. Roland non era stato
colpito e tranquillizzava tutti
mostrandosi come un grande
comandante scampato a un
attentato. La presunzione del
segretario era talmente
insopportabile che il ritorno di
Myenne consentì a Gualtieri di
abbandonare il suo sedile. Mentre
Roland si circondava di ammiratori,
i due ricostruirono la scena
dell’attentato. L’ignoto attentatore
era seduto sei file di sedili dietro di
loro, verso la coda del treno.
Centrare il bersaglio sarebbe stato

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piuttosto semplice, se il misterioso
uomo fosse stato in piedi. Da seduto
sarebbe stato molto più difficile, ma
per un tiratore di buona esperienza
non sarebbe stato impossibile. Il
capotreno, informato di questa
situazione, decise di far fermare il
treno alla stazione successiva, a
circa 25 km da Parigi, nella località
di Morichenne. A nessuno venne
permesso di scendere dal convoglio,
eccezion fatta per Myenne e
Gualtieri. Il locale comando di
polizia venne allertato e in breve
tempo diversi agenti arrivarono sul
posto. Tutti i passeggeri vennero
identificati e perquisiti, fino a
quando venne il turno di un uomo
sulla trentina. Sin da subito si
mostrò sospettoso e nervoso.
Quando giunse davanti all’ispettore,
le sue risposte ai quesiti rivoltigli
furono sfuggenti. Cercò due volte di
evitare la perquisizione, ma alla fine

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si arrese all’ispettore. Dopo poco,

venne ritrovata la pistola che aveva
sparato a Roland. Questi stava

intanto narrando l’accaduto agli
astanti della saletta d’attesa della

piccola stazione, i quali reagivano
alla accalorata descrizione con
gemiti, sospiri e estasiati urletti.
Myenne e Gualtieri appurarono le
generalità dell’attentatore, che
aveva dichiarato di aver sparato al
segretario. Gli agenti lo condussero

verso la prigione locale, mentre
Myenne stava parlando con il suo

collega italiano: “Ma come hai fatto
a capire cosa sarebbe successo

prima che accadesse?” Gualtieri,

guardando la sua pistola senza un

colpo, rispose: “Da quando avevo 5

anni maneggio armi da fuoco e mi

trovo molto spesso in situazioni

estremamente pericolose;

comprendere cosa sta per accadere

può salvare la vita. La prima volta

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è stata sotto casa mia: i francesi
stavano arrivando e mio padre
voleva difendere a tutti i costi la
nostra terra, ma reagire alle loro
sordide provocazioni avrebbe voluto
dire morire.”
Myenne guardò negli occhi il suo
collega e ridacchiò amaramente. Poi
se ne tornarono sul treno, insieme a
Roland e agli altri passeggeri.
Roland era al culmine della sua
vanità, e questo faceva indispettire
Myenne e Gualtieri, che sorbivano
mestamente le fandonie del
segretario, abituato più a stare nei
salotti di gala che nei locali dei
sobborghi. Per un funzionario come
Roland essere nel pieno dell’azione
era, oltre che imprevisto, anche
indesiderato.
Due ore dopo erano a Parigi. Il
tenente Gustaune, il Sottosegretario
degli Affari Interni, era sulla
affollata banchina della Gare du

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Nord ad attenderli. S’avvicinò a
Roland e gli rivolse numerosi
complimenti e felicitazioni: “Mi
devo congratulare con lei: il lavoro
svolto è stato semplicemente
perfetto! Senza di lei non saremmo
qui adesso!” Roland ringraziò con
deferenza il suo superiore per quei
complimenti e rispose: “Immagino
che sia a conoscenza del fatto che
grazie al mio coraggio e alla mia
prontezza sono sopravvissuto a un
ignobile attentato durante il
viaggio…” La risposta di Gustaune
fu piena di sdegno: “Davvero? E chi
è il vile attentatore che si permette
di andare in giro a sparare come se
fosse in guerra? Quando è
accaduto?” Roland rispose: “In
treno, vicino a.… un desolato
villaggio, come tanti ce ne sono in
questo meraviglioso Paese, e come
quello che mi ha visto nascere. Le
ho mai raccontato di quella volta

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che…” Gustaune, che conosceva
benissimo Roland, essendo stati
insieme nell’Esercito, lo interruppe
con tatto ma con autorevolezza,
dicendo: “Sono sicuro che ne
potremo parlare a tavola.
Stamattina ho provato un delizioso
ristorantino in Rue de la Bretagne,
a pochi isolati da qui.”
Roland, stimolato da questa inattesa
proposta, replicò: “Ne sarei
lietissimo. Ovviamente monsieur
Myenne e monsieur Gualtieri sono
liberi. Ci troviamo alle 14.30
davanti alla sede del Dipartimento”
e poi, rivolgendosi ai due detective,
li congedò: “Signori, grazie, a dopo.
Buon pranzo.”
Detto ciò, i due “squali da scrivania”
si allontanarono dai due detective
che restarono da soli di fronte alla
stazione. Myenne, che conosceva
benissimo Parigi, suggerì: “Conosco
un posto eccellente a pochi isolati

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da qui. Non è nemmeno troppo
caro”. “Va benissimo, spero solo di
levarmi di torno quel parruccone di
Roland e quell’altro imbellettato di
Gustaune”, rispose Gualtieri. Mentre
si incamminavano verso il
ristorante, Gualtieri commentò
perplesso: “Joseph, quell’attentato
mi puzza troppo di Spagna!
L’attentatore stentava a spiaccicare
due parole in francese, e sembrava
molto teso. Temo che, se noi non
facciamo qualcosa di concreto
adesso, finirà in tragedia. Dobbiamo
andare in ambasciata, e anche
rapidamente! Chissà quanti altri
attentatori sono stati schierati in
tutta Parigi. Dov’è l’ambasciata
spagnola?” Myenne ci pensò per
qualche secondo e poi disse:
“L’ambasciata... si! In Boulevard de
Rangon, abbastanza lontano da qui.”
“Allora, cosa aspettiamo? Una
carrozza, presto!” esclamò Gualtieri,

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guardandosi attorno. Scorta una
vettura sull’altro ciglio della strada,
Myenne esclamò: “Eccone una,
presto!” I due attraversarono la
strada e s’avvicinarono alla
carrozza. Il conducente, vedendoli,
scese e aprì rispettosamente la
porta della vettura.
Una volta saliti sulla carrozza, il
conducente chiese: “Dove vi devo
portare, signori?” Myenne gli
rispose: “In Boulevard de Rangon,
grazie.”
Il conducente salì e diresse la
carrozza verso la destinazione. Dopo
pochi minuti, giunti in una piazza,
una figura con un lungo cappotto
s’avvicinò con fare sospettoso;
giunto vicino alla carrozza, estrasse
una pistola dal cappotto e, mirando
al finestrino di Myenne, sparò. Il
colpo ruppe il finestrino e,
sfiorando il detective francese, si
fermò nel tetto della carrozza.

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Subito Myenne si sporse e sparò tre
volte. Il misterioso attentatore si
trovò disteso sul suolo della piazza.
Subito accorsero moltissimi
passanti. La carrozza si fermò pochi
metri avanti e tutti e tre scesero
correndo. Myenne s'avvicinò al
corpo disteso sul selciato. L’uomo
era morto, trafitto da tre precisi
colpi. Poco dopo arrivò la polizia
con un medico. Acclarato che
Myenne aveva sparato dietro
provocazione, i due, dichiarata la
loro identità, salirono sulla stessa
carrozza e ripartirono verso
l’ambasciata spagnola, dove
arrivarono dieci minuti dopo.
Salirono la rampa di scale affollata
di funzionari e portaborse e
giunsero nella reception. Un uomo
allampanato e ossuto, con dei corti
baffetti, li accolse cortesemente: “I
signori desiderano?”

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Gualtieri, profondamente irritato,

esclamò: “È possibile parlare

immediatamente con

l'ambasciatore? Siamo della polizia!”
L'uomo, con una faccia bonaria,

rispose: “I signori comprendono che,
senza appuntamento, è difficile
presentarsi e ottenere un colloquio
con l'ambasciatore. Sa quante
persone vengono qui ogni giorno,
pretendendo di parlare con
l'ambasciatore di questioni del tutto

prive di importanza? Comunque,
vedrò che cosa si può fare.” Detto

questo, salì una rampa di scale.
Nel frattempo Roland e Gustaune

erano comodamente seduti in un
ristorante a pochi passi dagli
Champs-Elysee. Stavano gustando
escargot e champagne in uno
sfarzoso salottino, quando un
cameriere si avvicinò al loro tavolo
e riferì al signor Roland quanto era

accaduto pochi minuti prima ai due

19

detective, che avvertivano di
raggiungerli al più presto
all’ambasciata spagnola. Dopo aver
descritto puntigliosamente i fatti a
Gustaune, Roland riprese a
mangiare come se nulla fosse. In
risposta alle domande dell’anziano
tenente, disse in tono sprezzante:
“Che sarà mai? Tutta questa odiosa
storia non vale nemmeno una di
queste prelibatezze!” e, dopo essersi
sistemato il tovagliolo secondo lo
stile dell’alta borghesia tipica di
quelle zone di Parigi alle soglie
della Belle Epoque, riprese a
mangiare.
Dall’altra parte della città, Gualtieri
e Myenne stavano aspettando in
una piccola anticamera il permesso
di entrare dall’ambasciatore. Dopo
quasi un’ora Gualtieri tornò alla
reception per chiedere qualche
informazione.

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Gli rispose lo stesso uomo di prima,

spiegando che l’ambasciatore si era
trattenuto a pranzo fuori e sarebbe

ritornato a breve. Passò un altro
quarto d’ora, quando finalmente

vennero chiamati dentro. Si

spostarono dall’anticamera

all’ufficio dell’ambasciatore tramite

uno stretto corridoio, arredato con

mobili di ottimo gusto, e giunsero

davanti a un’imponente porta

intarsiata. Il servitore la aprì e li

introdusse in un’ampia stanza dalle
pareti bianche con decorazioni

arricchite di piante e fiori
variopinti.

Una massiccia scrivania
campeggiava nella stanza; dietro ad
essa vi era una grande sedia, mentre
altre due più piccole erano per gli
ospiti. Ai lati della scrivania si
trovavano due tavolini più piccoli
ma di uguale pregio, sui quali erano

conservate da una parte una

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bottiglia con diversi bicchieri,

dall’altra molti documenti e libri
disposti ordinatamente. La stanza

era illuminata con due grandi
finestre in corrispondenza dei due

tavolini. Numerosi candelieri erano

posizionati con cura, mentre una

lanterna ad olio era appesa vicino

alla porta, che si trovava alle spalle

della grossa scrivania.

L’ambasciatore era un uomo sulla

trentina, alto, snello, con i capelli

chiari pettinati corti e all’indietro.
Vestiva un elegante completo nero,

con papillon nero e camicia bianca.
I pantaloni, abbinati alla giacca,

erano anch’essi neri e di ottimo
taglio. Le scarpe in cuoio seguivano
la monocromia degli altri capi. Con
movimenti solenni e raffinati,
l’uomo si rivolse agli investigatori in
un francese molto fluente: “Sono
sorpreso che non abbiate parlato

con il caro Mernis. Sarebbe

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sicuramente stato più conveniente.
Ciononostante, penso che sia meglio
avere una testimonianza diretta. Il
Commissario Degaus mi ha
informato anche dei fatti recenti. Ci
tengo a specificare che questi vili
attentati non hanno nessun legame
con il governo spagnolo e voglio
prenderne fermamente le distanze.”
Questa affermazione, diretta e
decisa stroncò le speranze di
Myenne e fece infuriare ancora di
più Gualtieri. Notando le espressioni
sui volti dei due uomini,
l’ambasciatore Ruiz riprese il suo
discorso, spostando dei documenti
sulla scrivania: “Tuttavia, io so
molte cose al riguardo. E sono
disposto a dirvele a una condizione.
La nostra richiesta è quella di avere
in Spagna il primo proprietario del
quadro. Quel farabutto è riuscito a
scappare a tutte le polizie d’Europa,
ma adesso lo abbiamo in pugno. Se

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voi accettate, entrambe le parti
saranno accontentate. Se volete
qualche minuto per riflettere, c’è
una stanzetta qui vicino”, ed indicò
con un ampio gesto la porta.
Roland e Gustaune erano appena
usciti dal ristorante e si
incamminarono verso Place de la
Concorde, conversando come amici
di lunga data. Gustaune era
inquieto. Ad un tratto si rivolse a
Roland: “Uno dei due detective,
l’italiano, aveva un’aria pensosa.
Secondo me ha visto qualcosa che
lo ha insospettito, forse nel quadro.”
Roland, che sembrava estasiato
dopo il pantagruelico pranzo, disse
con aria solenne: “Che fortuna, mio
caro amico: ho giusto qui una
stupenda riproduzione del quadro.
Prego, guarda qui” e porse all’altro
il foglio di carta che aveva estratto
dalla tasca della giacca. Gustaune
indossò gli occhiali da vista e iniziò

24

ad analizzare il disegno. Nonostante
i particolari non fossero chiarissimi,
il nome scritto nel libro posto in
secondo piano era chiaro:
VERNIER.
Roland, incuriosito dalla strana
espressione del collega, osservò
l’incisione. Il segretario,
illuminandosi, esclamò entusiasta:
“Si, ho capito!” Gustaune chiese
agitato dove fosse il quadro. Roland
rispose che era stato portato nel
commissariato di Belonguy, in pieno
centro. L’anziano signore si era già
precipitato verso Rue de la
Camargue, la strada più veloce per
raggiungere il commissariato
indicato da Roland, che lo seguiva a
passo svelto nella strada affollata.
Passò qualche minuto e, quando
Roland arrivò insieme a Gustaune
alla stazione di Belonguy,
quest’ultimo chiese di diramare
alcuni messaggi urgenti.

25

Myenne e Gualtieri erano ancora
indecisi su cosa fare, quando il
segretario entrò. Annunciò che
Roland chiedeva all’ambasciatore e
a loro due di raggiungerli nella
stazione di Belonguy, nel centro
città. Pochi minuti dopo erano in
strada, seduti sulla lussuosa
carrozza dell’Ambasciata. Quando
arrivarono al commissariato
indicato loro, videro Roland,
Gustaune e un anziano, che aveva
tutta l’aria di essere un professore,
ad attenderli. Dopo i cerimoniosi
saluti, raggiunsero il quadro in una
ampia sala quadrata. Gustaune fece
sollevare il dipinto e annunciò: “È
qui presente monsieur Felix
Marquès, rinomato critico d’arte e
professore universitario.” Tutti gli
sguardi si focalizzarono sul vecchio,
che sorrise bonariamente. Il tenente
riprese il suo discorso con enfasi:
“In seguito ad una serie di fortunate

26

coincidenze, siamo giunti a uno
snodo cruciale nelle nostre indagini.
Infatti, monsieur Marquès ci
mostrerà un prodigio della chimica
che potrebbe risolvere il nostro
caso. Prego, professore”. L’uomo
aprì la grande valigia che era sul
tavolo e prese una boccetta, un
panno e un contagocce.
Mentre apriva la boccetta, illustrò
che cosa avrebbe fatto: “Quello che
vedete qui è l’ultimo ritrovato della
chimica al servizio dell’arte. Infatti,
attraverso questo procedimento, si
possono ritrovare segni di pittura
coperta da strati posti in tempi
successivi, senza nemmeno dover
tagliare un simile capolavoro.”
Detto questo, con il contagocce
prelevò poche gocce del liquido
trasparente della boccetta e le fece
cadere una ad una sulla zona del
quadro che era interessata. Poi
prese il panno e lo passò con un

27

colpo secco ma delicato sulle gocce,
rimuovendo la pittura più recente.
Dopo averlo ulteriormente ripulito,
il professore appoggiò il contagocce
ed il panno sul tavolo e annunciò
con enfasi: “Et voilà!” Roland,
l’ambasciatore e Gualtieri
s’avvicinarono; sulla tela era scritto
il cognome RONETI. Gustaune si
rivolse al professor Marquès e disse:
“Professore, è sicuro che questo sia
lo strato originale della pittura? Non
può essere anch’esso una aggiunta
successiva?” Marquès rifletté
qualche secondo e poi rispose
solennemente: “Si, sono sicuro. È
impossibile che sia uno strato di
pittura successivo”. Gualtieri era
stupefatto: il suo sospetto era
fondato. Quindi, cogliendo lo
sguardo di Gustaune, iniziò a
parlare: “Signori, siamo arrivati
dunque alla conclusione del caso;
segretario Roland, sarebbe così

28

gentile da correggermi in eventuali
errori, durante il mio
ragionamento?” Roland rispose che
non ci sarebbe stato nessun
problema a farlo, e quindi Gualtieri
spiegò: “Tutto ebbe inizio tre giorni
fa, quando io ed il mio collega
Myenne arrivammo a Butchy, per
recuperare dalla cripta di una
chiesetta il quadro che adesso
vediamo davanti a noi. La stessa
notte del recupero, mi accorsi di un
particolare che al momento non mi
sembrò rilevante: il nome sulla tela,
inciso nel libro: VERNIER. In
origine non vi prestai molta
attenzione, ma gli episodi che
accaddero mi fecero giungere alla
seguente conclusione. Prima di
tutto, il nome della chiesa: Notre
Dame du Revinel. Questo nome mi
suonava familiare, ma in origine
non riuscii a trovare il collegamento
giusto. Il secondo indizio mi

29

convinse ancora di più della mia
idea: l’attentato sul treno non era
contro il segretario Roland, bensì
contro di me! Qualcuno ci aveva
visto quella notte e il giorno
successivo mi aveva sparato sul
treno. E anche sulla carrozza, poche
ore fa!

Myenne si era seduto dove di solito
mi siedo io, ed è stato fortunato a
non essere stato ammazzato!” Fece
una breve pausa per riprendere
fiato, poi ricominciò a parlare: “La
conferma definitiva giunse quando
assemblai insieme i pezzi del
rompicapo, pochi minuti fa.
Ricordate il caso VERNIER? La
donna tradisce il marito, ma poi
viene uccisa dall’amante pentito
delle sue azioni. Il cognome da
nubile della donna era proprio
Revinel. Quindi la famiglia Revinel
ha fatto aggiungere quel nome e poi

30

ha nascosto il quadro fino a tre
giorni fa, e, quando esso è stato
sottratto, ha cercato in tutti i modi
di non far trapelare la notizia.
Secondo me, i Revinel intendevano
mostrare il quadro al pubblico alla
morte di Vernier, che ormai ha
quasi ottant’anni; tutti i giornali
europei avrebbero allora parlato del
Caravaggio del Destino, che
conteneva il nome di un assassino
morto nel 1880.
Gustaune aveva assistito alla
spiegazione in silenzio,
compiacendosi e osservando con
attenzione Gualtieri.
Finalmente aveva trovato un suo
degno erede, pensò tra sé.

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