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Published by lapazienzadiercolino, 2019-05-20 11:26:43

La vita di Giacomo Leopardi

lavoro esame Micu

La vita di
Giacomo Leopardi

Micu Stefania

1



La vita di
Giacomo Leopardi

Micu Stefania

2

Introduzione:

Come Francesco Petrarca, anche Giacomo Leopardi
rappresenta un modello per la lirica italiana.
Rientra cioè nel canone, ovvero nell’insieme dei poeti, che
da Petrarca a Eugenio Montale costituiscono un punto di
riferimento, sia per i contenuti che per le strutture
stilistiche, di tutti gli autori italiani di poesia.
Leopardi più fu un animo sensibile e inquieto, e seppe
indagare l’uomo con profondo spirito d’osservazione,
creando testi senza tempo.
Quello che maggiormente stupisce di lui è la straordinaria
capacità di riflettere e di ragionare in versi.
Fu così un grande che è difficile definirlo: egli fu un
“classicista”, nel senso che preferì la tradizione della poesia
antica, ma fu anche il nostro poeta “romantico”, come
dimostrano le sue accorate invocazioni alla notte e alla
luna.

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Giacomo Leopardi

Era la sera del 29 giugno
1798 e a Recanati, un
piccolo paese delle
Marche, in una piccola
famiglia aristocratica, la
famiglia Leopardi, nacque
Giacomo Taldegardo
Francesco di Sales
Saverio Pietro Leopardi.

Giacomo era piuttosto basso e magro aveva i capelli neri,
gli occhi azzurri e la carnagione pallida e fin dalla nascita
aveva una forte scoliosi, in poche parole non era il più bello
del paese.

Chiamato semplicemente Giacomo Leopardi era il figlio
primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide
degli Antici.

Nel 1799 nacque il fratello Carlo e nel 1800 la sorella
Paolina, negli anni successivi nacquero gli altri sette
fratelli.

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Giacomo sin da piccolo non venne mandato a scuola ma
venne istruito insieme ai fratelli Carlo e Paolina da
precettori casalinghi.

La maggior parte della sua istruzione se l’aveva fatto da
solo, appena aveva iniziato a leggere, quando il padre non
era a casa si recava nella sua biblioteca composta da
quindicimila libri e iniziava a leggere e ha scrivere, molte
volte non si accorgeva che ore sono e dimenticava di
andare a pranzo o a cena e addirittura alcune volte lo si
trovava anche addormentato su massi di libri che aveva
già letto, tra i fogli sparsi per tutta la camera.

Da questo i genitori avevano scoperto la sua passione per
la scrittura.

In quegli anni Giacomo era ancora un bambino come gli
altri: era prepotente, amava vincere ai giochi, si divertiva,
gridava di felicità correndo per il grande giardino della sua
casa… Ma ben presto le cose peggiorano.

Carlo e Paolina nonostante fosse il loro fratello più grande
li chiedevano di uscire fuori a giocare con i loro amici, ma
lui preferiva restare in casa a leggere un buon libro.

Se io fossi a quel tempo direi che Giacomo aveva preso la
decisione giusta, infatti la situazione economica della

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famiglia Leopardi era precaria e la madre aveva iniziato a
gestire i beni della famiglia, imponendo al marito e ai figli
una vita più austera, risparmiando fino all’osso anche sul
cibo.
Giacomo faceva così ì quasi tutti giorni, infatti arrivo all’età
di dieci anni bravo a scrivere versi in latino, italiano e brevi
trattazioni di argomento filosofico.
Nel 1813 Leopardi scrive l’Astronomia.
Il padre vedendo alla fine il suo talento gli fece leggere
queste prime opere nelle riunioni letterarie che organizza
nel suo palazzo: di fronte a visitatori d’eccezione, nobili ed
ecclesiastici, Giacomo si esibisce come un enfant prodige.
Un giorno il padre gli fece conoscere la figlia del cocchiere
di casa, Teresa Fattorini, anche lei intelligente e studiosa.
Insieme facevano progetti e speravano nella generosità
della vita.
Dopo circa due mesi, Teresa mori di tisi e Giacomo gli
dedicò un grande idillio che in realtà, nella finzione poetica
è l’immagine simbolica dei sogni e delle illusioni giovanili.

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A Silvia

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo

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E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto

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Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?

9

Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

Da questo idillio oggi noi possiamo capire che, in realtà
Leopardi utilizza questo testo come una scusa per parlare
di sé stesso come Petrarca aveva fatto con Laura, da tutta
colpa alla natura perché la natura gli aveva fatto pensare
che potevano avere una relazione e si chiede: Perché ci
mette al mondo se alla soffriamo. Perché? Ma la natura non
gli risponde, egli utilizza la natura perché viveva nello stato
del vaticano e a quel tempo c’erano controlli rigidi, quindi
utilizza la natura al posto di dio.

Giacomo essendo un classicista, anche lei aveva passione
per la mitologia, l’arte classica infatti in questo canto è
presente un momento che fa riferimento al poeta Omero
più preciso a Penelope, “percorre un filo e poi si stacca”
riferimento alle parche.

Dallo stesso idillio Giacomo realizza che la sua vita non è
proprio un luogo felice.

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Partendo da questo periodo fino ai sedici anni Leopardi si
dedica completamente allo studio, dimentica dei fratelli
sorelle e dei lavori che deve compiere e inizia un periodo
di studio matto e disperatissimo in solitudine, trascorre
giorno e notte sui libri della biblioteca del padre: acquisisce
un’erudizione straordinaria e ben presto dimostra una
piena padronanza della filologia, delle lingue antiche (dal
greco all’ebraico), della filosofia, ma a prezzo
di irreversibili danni alla sua salute fisica come un
aggravamento della sua deformità e un affaticamento della
vista.

La sua meditazione filosofica lo porta così a elaborare una
teoria del pessimismo, che va nel tempo modificandosi, a
seguito del lacerante susseguirsi di dolorose esperienze e
di rapporti umani difficili e infelici.

Il pensiero di Leopardi può così essere diviso in quattro
fasi:

1. Fase del pessimismo individuale. Il poeta ritiene di
essere destinato all’angoscia e all’infelicità e di poter
godere, come unica fonte di consolazione, della
contemplazione della natura.

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2. Fase del pessimismo storico. Il poeta ritiene che non sia
il destino, ma l’uomo steso la causa della propria infelicità,
poiché ha scelto di allontanarsi dallo stato di natura
primitivo e di fare un uso eccessivo della ragione.

3. Fase del pessimismo cosmico. Leopardi giunge a
ritenere che la ragione dell’infelicità dell’uomo sia la natura
stessa, quindi essa si rivela una matrigna, cioè una forza
inesauribile e indifferente.

4. Fase del pessimismo eroico. Nella fase finale del suo
pensiero, leopardi in qualche modo rivaluta la ragione
come strumento in mano all’uomo per svelare l’inganno
della natura ma soprattutto per permettergli di vivere,
rifiutando false illusioni e consolazioni che si possono
condividere con gli altri il dolore e la morte.

Il suo vero desiderio rimane lo stesso per anni: lasciare la
casa paterna e conoscere il mondo degli intellettuali, quello
vero.

In questo periodo scrive le prime canzoni civili e le pubblica
a Roma.

Nel 1819, avventurosamente, giacomo cerca di scappare
di casa ma viene scoperto e fermato dal padre.

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Sentendosi prigioniero cade in uno stato depressivo.
Finalmente, nel 1822, il sogno si avvera e i genitori gli
permettono di compiere il suo primo viaggi a Roma, qui per
un certo periodo abita con dei parenti che poi iniziarono a
diventare un po’ “insopportabili” e inseguito decise di
comprarsi una casa fra la via Mario dei Fiori e la via
Condotti.
Una sera del sabato 1822 Giacomo si reca alla festa della
città, dove tutte le persone erano invitate, qui il suo
pensiero inizia un po’ a cambiare, le persone erano
vanitose, una si credeva più ricca o più bella dell’altra e
Leopardi che non era il migliore per l’aspetto stava un po’
più a disparte.
Cosi gli venì la solita idea in testa, si recò al di fuori della
festa e inizio a scrivere, scrisse il sabato del villaggio,
anche questo ambientato un giorno di festa.

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Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,

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Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E' come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

Questo idillio si basa soprattutto sulla natura, parla di una
donzelletta che si prepara per il dì di festa.

La domenica era il giorno più felice per Leopardi, lui diceva
come aveva detto un altro filosofo che in questo giorno
bisogna stare in mezzo alla felicità, ma in questo caso egli
scrive il sabato perché era il giorno più gradito.

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Leopardi fa un riferimento a Petrarca, la “vecchierella”, uno
a Virgilio, uno a Schopenhauer e chiude l’idillio con una sua
riflessione.

Questo è l’unico idillio che segue una struttura circolare, si
apre con il dì di festa e la ragazzina che si prepara e si
chiude con un consiglio sulla festa a un bambino.

Appena aver finito di scrivere gli venne incontro una
persona, era un affascinante scrittore napoletano, che
aveva abbandonato Napoli per l’epidemia di colera.

Gli chiese che cosa stia facendo li, perché non era alla
festa, Giacomo aveva detto che non era fatto per lui, non
era troppo il suo stile, dopo aver fatto conoscenza
abbandonarono la festa.

Decisero di fare un giro per Roma e questa fu una
possibilità per conoscere non rimase molto impressionato.

A mezza notte i due amici si salutarono ma giacomo si rese
conto che Ranieri non aveva un posto dove andare e quindi
lo invitò a casa sua.

Durante la vita di Giacomo Taldegardo Leopardi, Antonio
Ranieri fu il suo unico amico.

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Qui a Roma, nel convento di Sant’Onofrio Giacomo visito
la tomba del poeta Torquato Tasso (1544-1595), che tanto
amava.

Giacomo vi soggiornò sino all’aprile del 1823 senza mai
gioire davvero di questa parentesi romana; anzi Roma
deluse molto il giovane Poeta, e da tutti i punti di vista: lo
delusero le persone, i parenti, i luoghi. I mesi che vi
trascorse restarono impressi nella memoria di
Leopardi come il periodo più mortificante e penoso della
sua esistenza.

Nello stesso anni ritorno a Recanati, il suo paese natale, a
nessuno non poteva raccontare la sua sofferenza, quasi
tutti i suoi fratelli si erano sposati così una sera si recò sul
monte Tabor, a parlare con la luna, unica silenziosa
ascoltatrice delle sue meditazioni tristi e malinconiche.

Egli si chiede: Perché nulla è cambiato? Perché la vita resta
triste e dolorosa?

La luna fredda e lontana continua a illuminare la
campagna, al poeta non resta che seguitare il suo mesto
soliloquio.

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Alla Luna

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

Questo idillio assomiglia a quello di Virgilio, Leopardi parla
prima della luna e poi di sé stesso, utilizza due temi
importanti, la natura e la memoria.

Per memoria utilizza due termini molto importanti,
rimembrare, legato alla memoria affettiva quindi narrare e
ricordare, legato alle vicende vere felici e non felici.

Negli anni successivi fece dei viaggi prima a pisa e poi a
Recanati.

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Il poeta ritorna volentieri sulla sommità del colle, sfiorato
dal vento, dove rimane solo e pensieroso.
Una siepe impedisce a suo sguardo di vedere l’orizzonte,
ma contemporaneamente permette alla sua fantasia di
elevarsi oltre quel confine e di vagare, libera, nel silenzio e
nello spazio, alla scoperta dell’eternità.
L’infinito di cui parla il poeta non ha un senso religioso o
metafisico, ma afferma la fantasia, dono straordinario,
capace di far affievolire le sofferenze e il dolore e di aprire
allo sguardo dell’uomo dimensioni e universi alternativi.

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Infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

In questo idillio Leopardi parla degli affetti e utilizza
elementi visivi e uditivi.

Esso rappresenta qualcosa di indefinito.

Nel 1833 Leopardi si trasferisce a Napoli con Ranieri, tra il
1836-1837 si trasferiscono a Torre del Greco per sfuggire
dall’epidemia di colera che si sta sempre di più
sviluppando.

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Nel 1837 Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio
Pietro Leopardi muore tra le braccia del caro amico Antonio
Ranieri.
Dalle opere scritte possiamo capire che per Leopardi la
poesia è fondamentalmente musica: per questo utilizza
usa lo schema metro libero, cioè senza schemi.
Vocaboli di uso comune e alcuni ricercati e colti creano
atmosfera e musicalità.
Secondo me lo studio a quel tempo era come una “droga”,
come un’ossessione che non ha potuto mai fermare ma
contemporaneamente anche un rimedio per quando
rimaneva da solo o non aveva il coraggio di raccontare
qualcosa a qualcuno, scriveva.
Penso che fosse uno spirito profondamente tormentato, sin
dalla sua intelligenza che dal suo fisico gracile.
In molti dei suoi versi sento un’eco delle mie emozioni,
forse è per questo che mi piace così tanto.

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I canti:

A Silvia
Il sabato del villaggio
Alla luna
L’infinito

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La vita, il pensiero, le opere e
il linguaggio di Giacomo
Leopardi raccontati in breve.

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