IL LEGAME
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di Alice Ballabio
IL LEGAME
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di Alice Ballabio
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Sono in chiesa, di solito non vengo mai. Non sono credente, non
più, non da quando ho perso mio figlio. Sono rimasta incinta
quando avevo ventitrè anni, ho lasciato l’università, il mio
lavoro e la mia famiglia, che non aveva accettato quello che mi
stava succedendo, che mi ha cacciata di casa. Il mio ragazzo mi
ha lasciata. Mi sono trasferita in un’altra città dove ho ricreato
la mia vita, dove mi sono presa cura di mio figlio al meglio.
Poi, un giorno, mentre lo andavo a prendere a scuola, l’ho visto
cadere in mezzo alla strada, una macchina gli è passata sopra.
Sono corsa il più velocemente possibile verso di lui, l’ho preso
in braccio, l’ho cullato fino a quando non si è spento. Non ho
pianto, mia mamma diceva che era da deboli, anche quando
ero bambina non mi lasciava piangere per niente, se cadevo, se
mi sgridava.
Ho avuto dei genitori severi, quello che facevo non era mai
abbastanza, dovevo essere prima a scuola e nello sport. Hanno
sempre preso loro le mie decisioni anche su dove andare
all’università, ho dovuto litigare molto per convincerli a
pagarmi i corsi che volevo seguire.
Domani saranno sei anni dalla morte del mio bambino. Sono
qui per ricordarlo. Dopo aver cambiato di nuovo città ho deciso
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di adottare un bambino, della stessa età che aveva Matias
quando se ne andò.
Quando esco dalla chiesa mi sento tremare le gambe, non sono
più sicura di quello che sto per fare. E se non fossi all’altezza?
Mi dirigo verso il supermercato, sulla strada trovo un fazzoletto
rosso di stoffa con sopra dei piccoli dinosauri, questo mi ricorda
che anche Matias ne aveva uno simile. Lo raccolgo e lo metto in
borsa.
Entro nel negozio e inizio a fare la spesa, ho bisogno di tenermi
occupata, sono troppo nervosa. Esco e vado in farmacia, ho
bisogno dei sonniferi o questa notte non dormirò. Li prendevo
a causa degli incubi riguardanti mio figlio che sono cessati
qualche tempo fa, ma continuo perché mi sento più tranquilla
e sicura come se adesso quei sogni schifosi non riuscissero a
raggiungermi neanche se volessero.
Arrivo a casa, mi tolgo le scarpe e inizio a preparare il pranzo,
l’orologio segna le due di pomeriggio, non pensavo che fosse
così tardi. Mentre cucino sento l’orologio ticchettare, quel
suono mi dà sui nervi.
Finisco di mangiare e mi metto sul divano con il computer,
guardo un po’ di foto e poi inizio a lavorare.
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Quando finisco sono ormai le sei di sera così mi costringo ad
alzarmi e vado a farmi una doccia. Accendo l’acqua e mi ricordo
che non ho l’acqua calda, non funziona mai niente in questo
cavolo di palazzo. Esco dalla doccia e decido che passerò la sera
sul divano guardando un film.
Mi addormento. Vedo qualcosa, una sagoma, davanti a me
non capisco cosa sia; mi avvicino sempre di più fino a quando
non capisco che la sagoma è quella di mio figlio che si deforma
sotto al peso della mia vista. Urlo. È proprio lui che si contorce
dal dolore. Cerco di urlare di nuovo ma dalla mia bocca non
esce alcun suono. Mi accorgo che sono legata e che non riesco
a muovermi. Non respiro. Mi si appanna la vista e non vedo
più niente. In lontananza sento qualcuno che grida, ma a me
quel suono pare più un sussurro. Tante voci che mi chiamano
sussurrando. Le pareti si fanno sempre più vicine, tanto da
schiacciarmi in un angolo. Sento i battiti del mio cuore, o
forse quello di qualcun’ altro, che rallentano fino a cessare. Mi
sveglio.
Respiro a fatica, vado in cucina per prendere un bicchiere
d’acqua e trovo l’orologio per terra. Le lancette si sono rotte
ma c’è ancora quel fastidioso ticchettio che mi dà sui nervi.
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Rimetto l’orologio sulla parete. Mentre scaldo il latte prendo il
telefono per vedere le ore. Sono le tre di notte.
Cerco la scatola dei sonniferi ma non la trovo, sono davvero
esausta e non ho voglia di cercarli. Pace, cercherò di dormire.
Bevo il latte che mi scotta la gola e che mi provoca una piacevole
sensazione di tranquillità, come quando ero piccola e lo bevevo
la sera per riuscire a dormire meglio.
Decido di non andare in camera da letto e rimango sul divano.
Sento le gocce che picchiettano sulla finestra, che mi cullano
mentre mi addormento.
Mi sveglio alle dieci. Cavolo, ho solo mezz’ora per prepararmi
prima che arrivi Ethan, il bambino che ho adottato.
Faccio la doccia, che è ancora fredda il più velocemente
possibile, decido che mi asciugherò i capelli dopo che mi sarò
vestita. Scelgo una camicia a fiori e dei jeans. Mentre mi lavo i
denti sento suonare il campanello. Oddio. Sono arrivati.
Mi precipito ad aprire. Sulla porta trovo l’assistente sociale
e di fianco a lei vedo Ethan. Rimango pietrificata. È identico
a Matias, i suoi occhi mi guardano freddi, e mi scrutano con
curiosità. Mi martella la testa.
<Possiamo entrare?> mi chiede la donna e io faccio cenno di sì.
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Beviamo un caffè mentre lei mi spiega tutte le varie procedure
dei documenti, ma io non l’ascolto. Sto ripensando a quanto
Ethan somigli a Matias. Hanno gli stessi occhi, la stessa forma
delle labbra, due piccole fossette nello stesso identico punto e
lo stesso modo di guardare le persone.
Finita la conversazione mi affretto a salutarla. Mi dirigo verso
il bambino e mi accorgo che non si muove da quando si è
seduto. Anche il mio bambino faceva così, era così tranquillo.
Gli chiedo se vuole fare un giro al parco ma non mi risponde.
Non parla neanche dopo qualche ora. Gli ho proposto di tutto
ma non ne vuole sapere, continua a fare cenno di no. Soltanto
quando gli domando cosa vuole da mangiare mi risponde con
un sussurro.
Hanno lo stesso timbro di voce. Lo osservo un po’ e mi rendo
conto che indossa la magliettina a righe e i pantaloni che aveva
Matias il giorno dell’incidente.
Sono troppo simili. Tende una mano verso di me. È il primo
gesto di affetto che mi dimostra. <mor> mi chiama. Il nostro
solito modo di chiamarci.
“mor” significa madre in danese. La mia bisnonna era danese,
così è diventato un gioco tra di noi, lui mi chiama “mor” e io
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lo chiamavo “sødme”, dolcezza. Matias mi sorride e con un
sussurro mi dice <Du er nødt til at komme væk med mig>.
Devi venire via con me.
Cosa? Da quando Matias sa parlare danese? Poi mi rendo conto
che non è Matias, ma Ethan che parla. Il che è ancora peggio.
Mi giro verso si lui che ha iniziato a ridere e a sussurrare il mio
nome velocemente <mor, mor> mi dice, voglio aiutarlo e così
vado lì vicino, ma inizia ad urlare. Si aggrappa a me. Inizia a
graffiarmi le braccia. I suoi occhi sono completamente neri.
Sento il suo braccio che piano piano si stringe attorno al mio
collo. Qualcosa si spacca vicino alla mia nuca. La testa mi sta
esplodendo. Tutto diventa scuro. Poi mi sveglio.
Vado in camera sua e controllo che ci sia. Fortunatamente è lì.
Prendo il secondo sonnifero della giornata.
La mattina seguente mi preparo in fretta. Cucino le uova
strapazzate e il bacon. Sveglio Ethan e vado a cambiarmi,
mentre mi tolgo la maglietta del pigiama noto dei piccoli graffi
vicino al gomito.
Mi guardo allo specchio e osservo che vicino al collo ci sono delle
tracce rosse, sembrano segni di dita. Ho anche un bernoccolo in
testa. Mi prende il panico. L’incubo. Annaspo. È stato lui. Deve
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essere stato lui. Non può esserci altra spiegazione. Nessuno è
mai entrato a casa mia.
Devo uscire di qui, ho bisogno di aria.
Non riesco a guardarlo in faccia. Voleva uccidermi. Io gli ho
dato una casa e lui come mi ripaga? Cercando di uccidermi.
Quello schifoso. Adesso vede cosa gli faccio. Già. Adesso vede.
Lo porto a scuola. Non parla per tutto il tragitto. Ma io so
perché non parla, sta progettando tutto, sta organizzando, ma
io sarò più veloce. Eccome. Lo batterò sul tempo. Lo lascio a
scuola e torno a casa.
Mi bruciano le braccia quando ci metto sopra il disinfettante, il
suo odore mi riempie le narici, mi ricorda l’obitorio dove hanno
portato mio figlio per accertare la causa della morte.
Ripenso a tutti i momenti felici che abbiamo passato, a quanto
ci divertivamo quando eravamo io e lui, insieme ma da soli, e a
quante occasioni ho rinunciato a causa sua.
Sempre per colpa sua, il mio ragazzo mi ha lasciata, i miei
genitori mi hanno diseredato e, ho provato più dolore con lui
che in tutta la mia vita.
Avevo soltanto ventidue anni, cavolo. Ventidue. Non ho mai
fatto niente di male nella mia vita. Mai. Poi è arrivato lui e ha
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stravolto tutto. Completamente.
E adesso è qui per finire quello che ha iniziato. Mi vuole
rovinare.
Ma io non gli darò questa soddisfazione. No.
Dalla mia bocca esce un suono disgustoso, una risata isterica,
incontrollata. Mi spavento di me stessa.
Come ho fatto a pensare a quelle cose? A essere così cattiva?
È mio figlio dopo tutto. Sì, dopo tutto.
Quando finalmente ritorno alla realtà sono ormai le quatto e
devo andare a prendere Matias, no Ethan, a scuola.
Il tragitto dura poco più di dieci minuti e quando arrivo lo trovo
da solo. In mezzo alla strada.
“che cavolo stai facendo?!” gli urlo addosso. Non risponde. Mi
fa impazzire.
“ti ho fatto una domanda” sta ancora zitto. “rispondi”.
Non ne vuole sapere. Quel piccolo… lo prendo per un braccio e
lo trascino in macchina. Se non mi vuole parlare con le buone,
lo farò parlare a modo mio.
Accendo la macchina e lo porto in un incrocio, l’incrocio più
trafficato della città. Lo faccio scendere e lo lascio in mezzo alla
strada.
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Lo guardo mentre scoppia a piangere. Non si piange. Solo i
deboli lo fanno. Io non piangevo alla sua età.
Lo ricarico su e andiamo a casa. Arrivati lo trascino di sopra lo
schiaffeggio. Piange. Non deve piangere. Lo spintono. Ora non
piange più. O almeno non lo sento. Sento solo la mia risata che
rimbomba per tutta la casa. La stessa risata di prima. Quella
che mi fa gelare il sangue.
Mi accorgo di quello che ho appena fatto. Il mio bambino è
a terra, ha un segno rosso sulla guancia. Sono stata io. L’ho
picchiato.
Mi affretto a tirarlo su. Sta ancora piangendo. Cosa ho fatto.
Lo faccio sedere e gli porto un po’ di ghiaccio e un bicchiere
d’acqua. È ancora scosso. Cosa ho fatto.
Appena si inizia a calmare lo porto in camera sua. Dopo qualche
minuto si addormenta.
Come ho potuto? Ho appena picchiato il bambino che ho
adottato qualche giorno fa.
“ho appena picchiato il bambino che ho adottato qualche
giorno fa” lo ripeto ad alta voce fino a quando non mi accorgo
che sono come in trance. Mi rendo davvero conto di quello che
ho fatto?
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“ho appena picchiato il bambino che ho adottato qualche giorno
fa” lo ripeto ancora una volta. Chi sono io per farlo? Come ho
potuto.
Quella frase continua a frullarmi in testa. Sempre più volte. Sto
impazzendo. Questa non sono io. No. Non sono io.
“no” sussurro. “no,no,no” lo ripeto per non so quante volte.
Non sono in me. Mi temano le mani. Devo calmarmi. Vado a
farmi una doccia.
Mi siedo sul fondo della vasca. L’acqua mi lava via ogni
pensiero. Proprio tutti. Rido. Rido perché sono entrata vestita
in doccia.
Come ho fatto a ridurmi così?
Rido perché è l’unica cosa che io posso fare. Rido fino a quando
non mi fa male la pancia. Poi mi accorgo che le risate si sono
trasformate in singhiozzi. Io. Io. Io sto piangendo. Mi tiro uno
schiaffo. Non si piange. Ma non riesco a smettere. Non posso
smettere. Non ora. I miei singhiozzi riempiono il bagno. Le mie
lacrime aggiungono solo acqua a ciò che è già bagnato.
Io sono debole. Debole. Sono sola. Sempre. Ovunque. Anche
quando sono con qualcuno, io sono sola.
Spengo le luci, mi cambio e vado a dormire. Anche se so già che
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non dormirò.
Sono in una stanza nera, completamente buia. Sento un liquido
freddo aumentare sempre di più. Sale lungo la mia gamba. Si fa
sempre più su. Lo sento vicino al collo. Si accendono delle luci.
Mi accorgo che la stanza è molto piccola, è fatta di vetro e fuori
c’è lui. L’acqua mi riempie la bocca e io prendo l’ultimo respiro
prima di vedere tutto sfocato.
Tossisco, sputando acqua e un po’ di sangue. Perché del
sangue?
Sono in camera mia, era un incubo, poi vedo Matias vicino
al mio letto. Lui si avvicina sempre di più. La porta inizia a
sbattere come le finestre.
“perché non dormi? Dovresti dormire, è tardi” gli dico. Cerco
di ignorare il rumore.
“no. Oggi mi hai fatto tanto male. E tu non ti sei fatta niente”.
Oh no.
Mi sveglio. Sto sudando. Mi sono dimenticata di prendere il
sonnifero. Ancora.
Quando scendo in cucina per prenderlo sento un bisbiglio
che viene dalla camera di mio figlio. Entro e trovo Ethan che
mormora qualcosa. <Matias>. Dice Matias.
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Esco dalla camera quasi correndo. Prendo il sonnifero e mi
addormento sul divano. Questa volta non sogno niente. La mia
mente è vuota.
Finalmente arriva sabato. Passo tutta la mattinata a lavorare.
A volte mi fermo, guardo il soffitto e riprendo a lavorare. Passo
più di tre ore continuando questo circolo vizioso.
Preparo il pranzo che so che non mangerò ma che devo fare lo
stesso per Ethan.
Prendo il tagliere e sei pomodori e inizio a tagliarli. Si affettano
molto facilmente. Idee malsane si affollano piano piano nella
mia testa. Quanto sarebbe bello potere affettare della carne.
Non carne normale, carne umana. Vedere se è morbida, vedere
il sangue che sgorga su di essa. Non ho mai tagliato della carne
umana. Poi un qualcosa dentro di me decide di provare e,
lentamente, affondo la lama dentro alla mia pelle.
All’inizio non fa male, poi avverto un fastidioso bruciore che si
tramuta in dolore. Faccio cadere qualche goccia sul tagliere poi
mi sposto sui pomodori. Stesso colore, stesso sapore. Metto il
braccio, che è ancora segnato dai graffi di quella notte, sotto
l’acqua fredda e prendo una benda che mi metto attorno al
taglio.
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Un rumore di vetri rotti mi allarma e corro a vedere cos’è
successo.
Ethan è seduto per terra che cerca di raccogliere i pezzi
rimanenti del piccolo salvadanaio di Matias. L’unica cosa che
mi rimaneva di lui.
Il dolore si fa strada nel mio petto. Inizio a urlargli addosso,
parlo automaticamente senza registrare le parole che escono
dalla mia bocca. Questa volta non si mette a piangere, ha
imparato la lezione. Vediamo di fargliela imparare anche
questa volta. Mi alzo e vado a prendere i suoi vestiti, i suoi
giochi e una bottiglia di whisky. Esco sul balcone e bagno tutti
i vestiti con l’alcool. Prendo un accendino e gli do fuoco. Tutto
brucia. Troppo. Non si respira quasi più. Prendo un secchio
d’acqua e spengo tutto.
Lo guardo e rido. Ora non ha più niente da mettersi. Lo
mando in camera e gli porto da mangiare. Ha un’espressione
spaventata. Forse non ha capito quello che è appena successo.
Gli do il cibo e l’acqua e me ne vado.
Qualche ora più tardi sento squillare il telefono.
Quando rispondo mi si gela il sangue, la persona che mi parla
dall’altro capo è l’assistente sociale. Vuole venire a prendere il
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mio Ethan. Dice che alcune persone del mio palazzo l’hanno
sentito piangere e che poi quando hanno visto il balcone pieno
di fumo hanno contattato la polizia che l’ha chiamata per
portarlo via da me. Dalla sua casa, la sua unica famiglia.
L’assistente sociale dice che non si fida a lasciarmi il mio
bambino. Ma lui è tornato per me. Dice che non mi merito di
avere avuto questa possibilità. Ma lui è qui, per me.
Sarà qui in poche ore, giusto il tempo di preparare il mio Ethan,
di fargli le valigie e di salutarlo. Ma lui deve stare con me, è
il suo posto. Poi non ha più vestiti. Non mi accorgo quando
attacca. Passo troppo tempo ad ascoltare il suono dell’orologio.
È già passata un’ora.
Chiamo Ethan, più e più volte, urlando, chiamandolo con
dolcezza ma quel piccoletto non ne vuole sapere. Perché non
arriva? Vado in camera a cercarlo e lo trovo steso sul letto con
gli occhi chiusi, sta dormendo.
Quando mi rendo conto di quello che sto per fare è ormai
troppo tardi, ma questo è l’unico modo per tenerlo qui con me.
Per averli vicini per sempre.
Il suo bel visino non cambia espressione quando il suo cuore
piano piano rallenta per poi smettere di battere, trafitto dal
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coltello con cui gli ho preparato il pranzo poche ora fa.
Trascino il suo corpo freddo e sanguinante fino alla cucina.
Dalla camera a qui c’è una scia molto evidente di sangue. La
pulirò con la candeggina dopo. Prima però che arrivi quella
rapitrice di un’assistente sociale.
Lo posiziono sul tavolo e inizio ad incidere con il coltello la sua
carne. Essa si taglia con molta facilità e il suo sangue scorre
abbondantemente sulla sua pelle.
Il suo corpo è freddo, le sue labbra perdono colore e i suoi occhi
non sono più gli stessi. Ma è qui con me, è questo quello che
conta, Con molta velocità in qualche dozzina di minuti è pronto
per essere posizionato.
L’ho diviso in sei parti, sei quanti gli anni che ho dovuto passare
da sola, sei come i giorni che ci sono voluti per riavere Matias
tra le mie braccia. Finalmente resterà con me.
Il mio lavoro è quasi terminato. Così decido di mettere il suo
corpo in un contenitore di legno con dentro il fazzoletto rosso
che ho trovato per strada il giorno prima di rincontrarci, quello
che mi aveva fatto ricordare il mio bambino prima di poterlo
riabbracciare.
L’unico spazio vuoto e non visibile disponibile è una botola
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vicino alla parete della cucina. Quando scendo le scale per
posizionarlo noto un’altra cassa di legno, è sigillata con un
lucchetto, non posso aprirla.
Posiziono la scatola sotto quella bloccata. Salgo di sopra per
cercare qualcosa con cui bloccarla. Non trovando niente inizio
a mettere a lavare le lenzuola, pulisco il tavolo e il pavimento e
faccio un giro per controllare che tutto sia a posto.
Suona il campanello. È l’assistente sociale. Mi affretto a
mettere il grembiule imbrattato di sangue in lavatrice. Non
posso rischiare che lo veda o mi porterà via il mio bambino.
Quando suona per la seconda volta mi precipito ad aprire,
noncurante del mio aspetto. L’assistente sociale chiama subito
Ethan. Ma lei non sa che non arriverà, la ragazza mi fissa senza
dire una parola e prova a richiamarlo. Lui rimarrà con me. E,
come se lei mi avesse sentito, si precipita subito in quella che
era la camera del mio bambino. Lo cerca, lo chiama ma nessuno
risponde. E come potrebbe. Ad un certo punto inizio a ridere e
allora lei prova a cercarlo in altre stanze. Ma non c’è.
Il ticchettio dell’orologio si ferma, e il chiodo che lo teneva
appeso al muro cede. Quando cade lascia un segno ben evidente
sul pavimento. Dove c’è la botola. Se si guarda con attenzione
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si nota una piccola apertura che rivela la mia stanza segreta.
L’assistente sociale incuriosita dal mio sguardo nota quello
che non avrebbe dovuto vedere nessuno. Subito va ad alzare
la botola. Appena alza il coperchio di legno rimane inorridita,
subito un odore acre si diffonde in tutta la stanza. L’ha trovato.
Lo porterà via da me. Ma nonostante i miei pensieri non faccio
niente per impedirlo.
Inizia ad urlare ma io non mi muovo. In preda al panico cerca
il telefono. Quando finalmente lo trova io non sento niente.
Neanche un’emozione.
Vedo la ragazza che chiama la polizia, poi svengo e non vedo
più niente.
Quando mi sveglio sono in una cella, fredda e silenziosa. Le
sbarre grigie, dello stesso identico colore del muro, non mi
permettono di uscire. Ma io devo andare dal mio bambino.
Due poliziotti si avvicinano e mi dicono che tra pochi minuti
ci sarà il mio interrogatorio. Esattamente due minuti dopo li
rivedo arrivare. Mi mettono le manette e mi portano in una
stanza nera illuminata da una luce fioca. Mi comunicano i miei
diritti e danno il via all’interrogatorio. Dopo svariate domande
personali mi chiedono cosa è successo il giorno che il mio
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angelo ha deciso di stare con me per sempre.
Successivamente alle mie risposte vaghe e poco precise mi
riportano, a quello che pare, il mio posto temporaneo. Senza
nessuno.
Sento i due poliziotti che parlano del mio caso. Duplice
omicidio. Io non ho ammazzato nessuno, volevo solo avere il
mio bambino con me. Per sempre.
Rifiuto il cibo che mi portano e mi sdraio sulla mia branda.
Non voglio dormire. Mi ci vogliono più di trenta minuti per
addormentarmi. E di nuovo sprofondo in un altro incubo.
Questa volta sogno qualcosa di diverso. Apparentemente reale.
È il giorno della morte di Matias. Sono davanti a scuola. La
mattina mi aveva fatto arrabbiare, aveva pianto perché lo avevo
schiaffeggiato, non mi aveva dato il bacio prima di andare a
scuola. Mi aveva dato della malata. Mi aveva sbattuto la porta
in faccia. Non l’ho educato così. Una macchina si avvicina al
mio bambino. La mia macchina. Al volante ci sono io. Gli passo
sopra. Metto la macchina il più lontano possibile e fingo di
essere appena arrivata.
No. Non posso essere stata io. Non è possibile. Corro verso la
mia macchina e mi butto contro un palo della luce.
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Mi sveglio. Io sapevo cosa era successo ma l’avevo dimenticato.
Ho ammazzato due bambini. Si saranno fatte ormai le sei
ma da qui non riesco a vedere l’orologio. Sono in piedi da
tre ore. Come una bambina piccola mi cullavo, cantavo delle
canzoncine incomprensibili agli altri e per punirmi mi sono
graffiata le braccia fino a farle sanguinare. Non posso restare
qui. Non riesco.
Non percepisco più il tempo che scorre. Non percepisco più
niente. Sento soltanto le voci delle persone attorno a me. Voci
che dicono qualcosa che non riesco a capire.
Mi prendono e mi portano in una macchina. Il viaggio dura
qualche ora, poi vedo un edificio grigio chiaro, abbastanza
grande da sembrare un carcere. Ma quando ci avviciniamo
la scritta manicomio sulla facciata principale mi fa drizzare i
capelli.
Perché mi portate qui? Provo a parlare ma dalla mia bocca non
esce alcun suono. I due poliziotti mi guardano come se fossi
qualche rifiuto. Perché?
Si alzano e vanno a parlare con una dipendente del posto. Le
consegnano una cartelletta e scompaiono.
Dopo vari minuti li vedo ritornare. La ragazza mi sorride e mi
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dice che qui mi troverò benissimo. Bugiarda, io devo stare con
i miei bambini.
Finalmente arriviamo alla mia stanza. Aprono la porta e mi
lasciano entrare, poi la richiudono. All’interno è completamente
bianca.
Sento solo il silenzio e il mio battito del cuore. Il mio respiro
viene raggiunto da altri due che provengono da dietro di me.
Mi giro lentamente e vedo due bambini. Uno è Matias e l’altro,
che assomiglia un po’ a Matias ma ha dei tratti diversi, deve
essere Ethan.
<mor> mi chiamano in coro. < kom med os, vi får det fint>
vieni con noi, staremo bene.
E, senza pensarci due volte li seguo nel loro mondo.
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