Quando anni fa, durante gli studi universitari, mi capitò di imbattermi nei principi basilari di etnologia, mi colpì profondamente una tecnica denominata “osservazione partecipante”. Si tratta di un metodo di ricerca etnografica reso famoso dall’an- tropologo polacco Bronislaw Malinowski e che si basa sul principio secondo cui l’osservatore/ricercatore deve vivere e partecipare attivamente all’interno del gruppo oggetto di studio.
Se, dalla nascita della disciplina e fino alla prima guerra mondiale, l’antropologo era più un teorizzatore che basava la sua attività soprattutto sul creare delle tesi studiando dati raccolti da qualcun altro, con la rivoluzione malinowskiana si trasforma in un ricercatore sul campo, per trovarsi a stretto contatto con il suo oggetto di studio.
Secondo Malinowski, il ricercatore deve trascorrere un lungo periodo di tempo direttamente fra gli individui di quel dato gruppo sociale; deve comprenderne la lingua e le sue sfumature sociologiche, decodificare le gerarchie sociali e qualsiasi altro fattore che ne caratterizzi la struttura. Un lavoro di osservazione e studio, svi- luppando una forte empatia con il nativo, senza la quale ogni comprensione rischia di essere un’interpretazione e, in quanto tale, possibile di fraintendimento. Mali- nowski invita il ricercatore a sviluppare una capacità mimetica, quasi da diventare parte integrante del gruppo stesso.
Tuttavia il suo prendere parte al gruppo e partecipare alle attività dei nativi non deve “trasformare” il ricercatore in membro integrante, perché questo inficerebbe il fine del suo lavoro: mantenere costante il giusto distacco emotivo e “partecipare per osservare”; da qui, comprendere, decodificare e, infine, teorizzare con oggettività e metodo scientifico.
Si tratta dunque di un notevole passo avanti per l’evoluzione della disciplina verso un più “onesto” metodo di interpretazione di gruppi sociali ben distanti dall’uomo occidentale. E, a pensarci bene, questo modus operandi etnologico può essere reso universale, tanto da adottarlo come principio base per l’osservazione e la conoscenza di un qualcosa che si presenta lontano dal nostro bagaglio culturale.
Se questo metodo etnologico risultò interessante ai miei occhi sin da subito durante quegli studi della disciplina, tanto appunto da farne quasi un insegnamento di vita, un punto su cui riflettere con ancora maggiore curiosità, fu l’evoluzione di questo approccio di ricerca.
Così come successivamente l’antropologia postmoderna avrebbe confermato, già lo stesso Malinowski, nei suoi diari scritti durante i periodi di ricerca sul campo (pub- blicati solo postumi, a 25 anni dalla morte), metteva indirettamente in evidenza anche i limiti che questo metodo presentava. Se proviamo ad analizzare i due ter- mini “osservare” e “partecipare”, ci rendiamo allora conto della divergenza e opposi- zione di queste due azioni: “osservare” implica la necessità di guardare dall’esterno, in modo da poter vedere pienamente l’insieme della scena; al contrario “partecipare” ci obbliga a prendere parte e a mescolarci agli elementi del gruppo, con il rischio di perdere quella visione d’insieme che si ha durante l’atto dell’osservare.
Tutto questo per dire cosa?
Quello che sto scrivendo non vuole essere un’affrettata e polverosa sintesi di ricordi di etnologia.
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Quando mi sono approcciato a questo lavoro fotografico, avevo un’idea ben precisa. Sebbene ancora non avesse preso forma nei miei pensieri, l’idea di partenza era provare a interpretare il concetto di “confine”, concetto tanto fisico quanto meta- forizzato, attraverso il metodo dell’astrazione: riuscire a guardare da una “distanza” talmente diversa da quella da cui siamo abituati a vedere, da perdere ogni comodo riferimento e costringere il nostro occhio/mente a mettersi in discussione e a porsi delle domande per capire cosa stia guardando.
Come cambiano i confini in base alla distanza dalla quale si osserva? Riusciamo ancora a identificare tali separazioni? Quanto è grande un confine? La sua grandezza e anche la sua stessa esistenza variano al variare della distanza?
Detto così, credo che tutto questo ragionamento, astratto appunto, serva solo per un possibile concreto mal di testa.
Proviamo allora a immaginare qualcosa di concreto: immaginiamo un liquido biologico, il sangue, tanto comune e prezioso al tempo stesso.
Se proviamo a osservare a occhio nudo una goccia di sangue su un classico vetrino da laboratorio (immagine alquanto comune nel nostro archivio mentale), non vediamo altro che una banalissima goccia di sangue di un bel rosso intenso.
Possiamo contarla, è una. Una goccia con una forma abbastanza rotondeggiante, una curvatura volumetrica e una certa viscosità. Una goccia che ha nel suo perimetro il suo stesso confine. Oppure è forse il vetrino il confine che la separa da tutto il resto? In questo senso, personalmente non saprei rispondere, ma diciamo per il momento che un suo confine ce l’ha.
Se adesso proviamo a immaginare di osservare la goccia di sangue poggiando il vetrino su un microscopio da laboratorio e guardiamo attraverso gli oculari, ci accorgiamo che, grazie all’alto fattore di ingrandimento delle lenti, il nostro punto di vista cambia incre- dibilmente: riusciamo ad avvicinarci talmente tanto al liquido rosso da non riuscire più a vedere il perimetro che lo delimitava precedentemente. Adesso possiamo vedere molti più elementi; la goccia si è trasformata in un insieme di componenti, ben delimitati e identificabili.
La mia domanda però rimane la stessa: è il loro perimetro il rispettivo confine oppure il liquido plasmatico nel quale sono sospesi?
Ecco! Questo è quanto volevo rappresentare: delle entità e il rapporto che si instaura fra queste e lo spazio in cui si trovano. Entità che a tratti appaiono ai nostri occhi ben defi- nite, con un loro perimetro che ci permette di identificarle e, se comuni, riconoscerle e chiamarle con il loro nome, così come abbiamo sempre fatto, per convenzione e natura sociale.
A volte isolate, sospese e obbligate a gravitare nello spazio indefinito e impalpabile, oppure immerse in liquidi. Altre, entità pressate, ammassate, confuse e mescolate, tanto da non riuscire bene a vedere la loro separazione, almeno da quella distanza da cui stiamo osservando.
Questo è il mio concetto di confine: se fisico, relativo; se metaforico, di comodo. Poi ci sono i confini imposti, le separazioni, gli isolamenti, ma quelli esistono solo nei limiti della natura umana.
E in tutto questo, cosa c’entra Malinowski e la sua “osservazione partecipante”?
Nulla! O quasi. È solo un ulteriore concetto al quale amo fare riferimento, proprio come la metafora dell’astrazione e la distanza di messa a fuoco, per rendere relativa una com- prensione che pretendiamo di possedere come certezza.
Osservare ci permette di soffermarci su quel qualcosa che coglie il nostro interesse. Per farlo però è necessario decidere da che distanza vogliamo osservare, perché in funzione di tale distanza ciò che vediamo cambierà. Se poi vogliamo avvicinarci così tanto da perderci all’interno del nostro oggetto di analisi, “rischieremo” di diventare quasi parte integrante dell’elemento stesso. Ogni distanza ci porterà più vicini o più lontani; ci por- terà a vedere più o meno elementi; ci porterà a confini che si formano o svanisco.
L’ambizione non di trovare certezze ingabbiate in rigidi confini, ma il privilegio delle ipotesi, sempre disponibili a essere relativizzate.
LOST IN RED