The words you are searching are inside this book. To get more targeted content, please make full-text search by clicking here.
Discover the best professional documents and content resources in AnyFlip Document Base.
Search
Published by Florio “SetiroN // Hypnotoad” Alagna, 2018-04-03 09:24:37

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

split_Apri gli occhi - Rita Lopez

L’Erudita



© 2018 L’Erudita

L’Erudita
è un marchio di Giulio Perrone Editore S.r.l., Roma
I edizione Febbraio 2018
stampato presso Cimer S.n.c., Roma
ISBN 978-88-6770-***-*
www.lerudita.it

Apri gli occhi

Rita Lopez



1

Era sempre quello l’incubo ricorrente. Sempre lo stesso.
La città sonnolenta, avviluppata nel buio della notte, e io
che non riuscivo ad addormentarmi. Di tanto in tanto senti-
vo un rumore di passi frettolosi allontanarsi per la via, schia-
mazzi di ragazzi ubriachi, il portellone di un’auto che veniva
chiuso con troppa forza. E poi più nulla. Il silenzio più totale.
Mi giravo e mi rigiravo tra le lenzuola. Sistemavo per l’enne-
sima volta il cuscino.
«Chiudi gli occhi e dormi» mi dicevo.
Ma i miei occhi restavano aperti, invece. Sbarrati. A fissa-
re il raggio di luce lattiginosa che dal lampione della strada
penetrava nella stanza, attraverso le imposte accostate della fi-
nestra. Era una linea dritta e sottile come la lama di una spa-
da, che andava a posarsi sul viso di Carolina, la mia bambola
preferita, adagiata ai piedi del letto. Riversa sul dorso, con i
lunghi capelli neri e lucenti sparsi a raggera sulla coperta a
quadri, le gambe e le braccia di plastica rosa, rigide, rivolte
verso l’alto, Carolina sembrava implorarmi di prenderla, di
metterla sotto la coperta, vicino a me. L’avrei ignorata molto
volentieri, ma come avrei potuto mai sopportare, il giorno
dopo, che mi chiamasse «Mamma! Mamma!» con quella sua
vocina trillante e metallica, senza sentirmi tremendamente in
colpa e inadeguata come madre? Era una bambola strepitosa
Carolina. Aveva un’apertura dietro la schiena, un piccolo

5

scrigno segreto, che ospitava due pile. Due semplici pile, na-
scoste sotto la blusa rosso scarlatto col colletto inamidato,
perché il miracolo avvenisse. E poi un pulsantino bianco, sul-
la pancia, che ogni volta che lo schiacciavi, Carolina parlava:

«Mamma, ho fame!».
«Mamma, ti voglio bene!».
«Mamma, ho mal di pancia!».
E per intenerirti, si metteva anche a piangere Carolina.
Piangeva, anche se la bocca continuava a sorridere, con quelle
labbra lucide color rosa confetto rivolte all’insù.
I suoi occhioni blu, blu come il cielo, puntati dritti nei miei.
«Adesso la prendo» pensavo tra me, temporeggiando.
In fondo quanto ci avrei impiegato? Dovevo soltanto sol-
levare la coperta e allungarmi all’estremità del letto. Dovevo
soltanto afferrarla con la mano e tirarla verso di me. Questio-
ne di due secondi.
Se ci fosse stata ancora mia sorella Enza, non avrei avuto
tutti quei tentennamenti che la paura del buio mi incuteva. E
invece il letto di Enza era vuoto, accostato alla parete di fronte,
e mio fratello Saverio dormiva nella stanzetta piccola, in fondo
al corridoio. Avevo chiesto a mamma, ora che Enza si era spo-
sata ed era andata ad abitare col marito, nel bilocale al terzo
piano di via Manzoni, se Saverio poteva stare con me. Mamma
però mi aveva detto che non sta bene che fratello e sorella dor-
mano insieme e il discorso era stato chiuso, una volta per tutte.
Mentre rimuginavo su questi pensieri, mi sembrava al-
l’improvviso di udire un lamento lontano, come il pianto
soffocato di un bambino. O lo stavo sognando? Forse era
l’idea di Carolina tutta sola, con le sue braccia rigide sollevate
verso il soffitto, a condizionarmi a tal punto che la immagi-
navo lamentarsi?

6

Scostavo risoluta la coperta a quadri. Il fresco della notte
mi avvolgeva le braccia e le gambe nude. Mi allungavo per
agguantare Carolina per un piede e ritornavo giù con un ton-
fo, ricoprendomi veloce, fino al collo. Infilavo il naso tra i
suoi capelli lunghi e cercavo di calmare quel battito un po’
accelerato del mio cuore.

«Dormi ora» mi dicevo. «Chiudi gli occhi e dormi».
Ed io li chiudevo gli occhi e avevo l’odore dei capelli finti
di Carolina nel naso. Ma eccolo, ancora il flebile lamento che
mi era parso di sentire poco prima. Non lo avevo immagina-
to quindi. Era un gemito ovattato, simile al miagolio di un
gatto. E poi silenzio.
«Dormiamo Carolina, dormiamo». Gli occhi chiusi, striz-
zati, e di nuovo il lamento lontano.
«Dormiamo Carolina, dormiamo». Questa volta più for-
te. Più nitido.
«Dormiamo Carolina, dormiamo». Qualcuno piangeva.
Qualcuno stava chiedendo aiuto.
Era sempre così che iniziava l’incubo, con un guaito sof-
focato nel cuore della notte. Una lamentazione che giungeva
alle mie orecchie, sempre più insistente, sempre più pressan-
te. Tanto da non poter essere ignorata. Tanto da indurmi a
girarmi e rigirarmi tra le lenzuola, in preda ad una smania fa-
stidiosa e prolungata.
Basta!
Mi alzavo dal letto con Carolina tra le braccia e percorre-
vo a piedi nudi i pochi metri che mi separavano dalla finestra.
La lama di luce lattiginosa del lampione, là fuori, strisciava ri-
salendo lentamente sulla mia camicia da notte dai minuscoli
fiorellini gialli. Un passo dietro l’altro e la lama di luce mi
scivolava addosso, su per il corpo. Su per la pancia, il petto,

7

le spalle, il collo, fino a colpire metà della mia faccia quando
raggiungevo la finestra. Spiavo attraverso le imposte e scruta-
vo la strada, trattenendo il respiro, affinando l’udito. Eccolo,
di nuovo, il lamento. Non potevo non andare a vedere. Chi
se ne sarebbe accorto? Dormivano tutti. Dovevo solo scende-
re in strada e capire chi fosse, o cosa fosse, per poi ritornare
a dormire, con l’anima rappacificata.

Con la stessa risolutezza improvvisa con cui avevo afferra-
to Carolina, animata da un coraggio che non mi riconoscevo,
mi infilavo una vecchia maglia sopra la camicia da notte e mi
mettevo le scarpe. Se Enza fosse stata lì con me, sicuramente
si sarebbe sollevata sui gomiti, strofinandosi gli occhi carichi
di sonno e mi avrebbe chiesto sbalordita:

«Che diavolo stai facendo? Dove credi di andare?».
Ma mia sorella non c’era e nessuno mi avrebbe fermato.
Uscivo dalla mia stanza e percorrevo il corridoio, facendo at-
tenzione a non mettere i piedi sulle mattonelle sconnesse del
pavimento, che avrebbero fatto rumore. Sapevo esattamente
dov’erano posizionate. Ce n’erano due, proprio oltre la soglia,
e poi altre tre, verso il centro. Passavo davanti alla camera da
letto dei miei genitori. Sentivo mio padre russare debolmente.
In fondo al corridoio, proprio sopra la porta di casa, le piccole
lucine giallognole che illuminavano il tabernacolo di legno scu-
ro, con la statua di san Nicola all’interno, mi infondevano si-
curezza. Un passo dietro l’altro. E san Nicola si avvicinava sem-
pre di più. Un passo dietro l’altro. E san Nicola diventava sem-
pre più grande. Portava, adagiate sul palmo della mano solleva-
ta, tre palle d’oro lucenti. Un passo dietro l’altro. Ogni palla
d’oro rappresentava un sacchetto di denaro, un regalo inaspet-
tato lasciato cadere, per tre notti consecutive, attraverso le grate
della finestra di una casa in cui abitavano tre ragazze povere.

8

Stringevo Carolina tra le braccia. Un passo dietro l’altro, lenta-
mente, come in una processione. Il padre delle ragazze aveva
deciso di metterle su una strada, perché si prostituissero e por-
tassero un po’ di soldi a casa. E allora san Nicola, con la sua in-
dole da Babbo Natale, lasciò cadere di nascosto dalla finestra
una palla d’oro per preservare la castità della prima ragazza. E
la notte seguente fece la stessa cosa per la seconda. E infine per
la terza. Un passo dietro l’altro. Trattenendo il respiro. Ogni
palla d’oro un atto d’amore concreto da parte di quel santo dal-
la pelle scura, per salvare ciascuna delle tre fanciulle dalla vio-
lenza, dal sopruso, dallo sfruttamento della carne. Così mi ave-
va raccontato nonna, tante volte. Perché perdessero la loro ver-
ginità solo per amore. Per nessun altro motivo. Un passo dietro
l’altro. Raggiungevo finalmente la porta. La aprivo pianissimo
e la accostavo lentamente alle mie spalle. Indugiavo a lungo sul
pianerottolo. Scendevo per quelle scale che di giorno rimbom-
bavano delle voci, e delle urla, e delle risate, e dei pianti, e dei
litigi delle famiglie numerose che vi abitavano, ma che adesso
erano impregnate di un silenzio surreale. Che di giorno sprigio-
navano odori di sughi e fritture di pesce e che adesso emanava-
no un leggero tanfo di umidità. Aprivo finalmente il portone,
accostando anche quello, il più piano possibile, in modo che
non si chiudesse. Rimanevo qualche istante immobile, lì sul
marciapiede, in attesa. Incredula, io stessa, di quello che stavo
facendo. La luce del lampione illuminava, dall’alto, me e Caro-
lina. Eravamo due figurine chiare nel buio della notte. Due
piccoli fantasmi abbracciati e timorosi. Ed eccolo. Il solito
guaito lamentoso. Ancora più distinto adesso. Ancora più niti-
do. Anzi, stavolta ne riuscivo a cogliere una sfumatura di dispe-
razione. Era dalla mia destra che proveniva. Ed è lì che decide-
vo di dirigermi. A destra.

9

Un passo dietro l’altro. Carolina sempre stretta al mio pet-
to. Il mio naso sempre affondato nei suoi capelli vaporosi. Su-
peravo adagio le auto parcheggiate sui marciapiedi, le saraci-
nesche abbassate dei negozi, e il lamento continuava. Sempre
più forte ormai. Sempre più vicino. Passavo davanti al bar,
dove di giorno i vecchi giocavano per lunghe ore a scopone
scientifico. Le sigarette tra le labbra sottili. Le carte sbattute
con forza sul tavolino di ferro. E il lamento era lì, proprio lì.
Davanti al bar della strada dove abitavo. Un lamento flebile e
nello stesso tempo agghiacciante. Mi fermavo. Era da un’auto
che proveniva. Sì, un’auto bianca parcheggiata proprio sotto
il lampione successivo a quello che illuminava la finestra della
mia stanza. Un’auto bianca, quindi. Una 127 per la precisio-
ne. Una 127 che piangeva. Avevo freddo alle gambe, ma or-
mai dovevo scoprire la causa di quel gemito così straziante. Il
lamento, nitidissimo, giungeva senza dubbio dal portabagagli.
C’era qualcuno là dentro, qualcuno che era disperato, che sof-
friva, che voleva essere salvato.

Spostavo su un fianco Carolina e sollevavo il braccio in
direzione del portabagagli. Lo ritraevo quasi subito indietro,
colta da un presentimento sgradevole. Aspettavo ancora
qualche istante e poi, con testarda determinazione, lo proten-
devo nuovamente in avanti. Avevo la bocca completamente
secca, priva di saliva. Premevo quindi con il pollice il pulsan-
te della chiavetta. Clic!, faceva. Era aperto. Ancora attimi so-
spesi, ancora silenzio. C’era della roba all’interno, ma non
riuscivo subito a capire cosa fosse, perché lo sportellone che
avevo sollevato formava una zona d’ombra conica, facendo
deviare tutto attorno a me la luce bianca del lampione. Man
mano che i miei occhi si abituavano all’oscurità però, potevo
distinguere due grandi sacchi di plastica nera, come quelli

10

dell’immondizia. Erano pieni, contenevano qualcosa. E an-
che degli stracci c’erano, ammucchiati qua e là, alla rinfusa.
E delle coperte. Non c’era nessuno quindi. Ma allora cosa,
chi, si era lamentato fino a quel momento?

Scostavo titubante l’orlo di uno dei sacchi di plastica,
quello sulla sinistra del bagagliaio. Conteneva qualcosa di
grosso, di davvero ingombrante. Con le dita sfioravo una ro-
ba fredda e bagnata. Sollevavo la plastica ancora un po’, per
vedere meglio. Con orrore realizzavo di aver toccato dei ca-
pelli, intrisi di sangue. Capelli, su una testa di cui non scor-
gevo il viso, ma solo la nuca. C’era il corpo di qualcuno là
dentro, immobile. Ritraevo inorridita la mano. Ansimavo
senza riuscire più a muovermi. Avevo le gambe pietrificate.
Volevo scappare e non potevo. Volevo urlare e non avevo vo-
ce. E all’improvviso mi accorgevo che qualcosa si muoveva,
impercettibilmente, ma si muoveva, all’interno dell’altra bu-
sta di plastica nera, quella sulla destra del portabagagli. Sbu-
cava prima una mano e poi un’altra, dalle dita lunghe e sotti-
li, ricoperte di sangue, col sangue nelle unghie. E due braccia,
anch’esse lunghe e sottili, anch’esse lordate di sangue. E poi
una testa. Quasi una maschera. Il volto tumefatto e sconvolto
di una ragazza. Gli occhi sbarrati. Un ghigno di dolore sulla
bocca. I riccioli dei capelli induriti da tanto sangue rappreso.
Sentivo le gambe che mi si piegavano e un senso di nausea,
irrefrenabile, salirmi dallo stomaco fino alla gola. Gli occhi
della ragazza erano puntati su di me e mi fissavano, spalanca-
ti, come quelli di Carolina quando mi chiamava mamma! Re-
stavamo così, immobili, una di fronte all’altra, per un tempo
che mi sembrava infinito, io paralizzata dalla paura, lei con lo
sguardo vitreo puntato sulla mia faccia, come quello di chi
aveva appena visto l’inferno. Soltanto quando la ragazza sol-

11

levava il braccio esile e insanguinato, per stenderlo nella mia
direzione, qualcosa scattava dentro di me. Una sorta di istin-
to primordiale, di animalesca volontà di sopravvivenza da
tutto quell’orrore, da tutta quella bruttura. Un ridestarsi re-
pentino da un sogno raccapricciante, una disperata voglia di
salvarsi a tutti i costi. Mi voltavo all’improvviso e in preda al
terrore, all’angoscia, correvo in direzione del portone di casa.
Correvo più che potevo, con tutta la forza che le gambe mi
consentivano. Con l’avvilente consapevolezza di essere male-
dettamente troppo lenta. Il braccio di Carolina serrato nella
mia mano, il cuore che mi batteva all’impazzata e il portone
di casa ancora troppo lontano. I polmoni che mi scoppiavano
nel petto, la camicia da notte che si sollevava, ad ogni balzo,
sopra le ginocchia nude, e la sensazione, penosa e opprimen-
te, di essere prigioniera di un film che andava al rallentatore.
Dopo un tempo interminabile, raggiungevo finalmente il
portone di legno, dalla vernice vecchia e scrostata, del mio
palazzo. Lo spalancavo, lasciando che si richiudesse con forza
alle mie spalle, provocando il rumore terribile di un boato in
tutto quel silenzio notturno. Mi precipitavo nella salvezza
dell’androne buio. Salivo i gradini due alla volta e ogni scali-
nata mi sembrava senza fine, lunghissima, ripida, impervia.
Ci mettevo un tempo infinito per arrivare al primo piano e
poi, ancora, un’altra scalinata senza fine, lunghissima, ripida,
impervia, prima di raggiungere il pianerottolo di casa mia.
Entravo chiudendo con forza la porta, senza neanche riuscire
a respirare per l’affanno. Finalmente ero sotto le rassicuranti
lucine giallognole del tabernacolo di san Nicola. Finalmente
il corridoio con le mattonelle del pavimento sconnesse, che
calpestavo senza preoccuparmi minimamente del rumore che
avrebbero provocato. Finalmente la stanza dei miei genitori.

12

Mio padre continuava a russare. Finalmente la stanza piccola
dove dormiva mio fratello, e la mia camera, e il letto vuoto di
Enza, e il mio, completamente sfatto. Se Enza fosse stata lì con
me, mi sarei stesa accanto a lei e avrei pianto a dirotto, con la
testa nascosta tra i suoi seni floridi. Ma mia sorella non c’era e
io mi infilavo sotto le coperte che, durante la mia assenza, erano
diventate fredde, ansimando, con il cuore impazzito per l’acca-
vallarsi dei battiti troppo accelerati, con un nodo, alla base della
gola, che avevo trattenuto per troppo tempo e che invece voleva
sciogliersi, fino ad esplodere in un pianto dirotto. La luce latti-
ginosa del lampione continuava a tagliare il buio come la lama
di una spada fino a colpire l’estremità del mio letto, nel punto
in cui prima c’era Carolina. La stringevo forte tra le braccia e
coprivo le nostre teste con la coperta a quadri, per scacciare la
vista di tutto quell’orrore, di tutto quello scempio, di tutto quel
massacro. Ma quel lamento era ancora nelle mie orecchie. Quel
lamento non riuscivo a zittirlo. Mi tappavo le orecchie con le
mani, e lo sentivo ancora.

Mi svegliavo dall’incubo di soprassalto. Mi svegliavo con
l’affanno nel petto, le lacrime che mi rigavano la faccia, la
fronte madida di sudore freddo. Mi svegliavo. Cercavo con
lo sguardo Carolina e la trovavo per terra, di fianco al letto.
La prendevo e me la mettevo vicino. Inavvertitamente schiac-
ciavo il bottoncino che aveva sulla pancia.

«Mamma, mamma ho sonno!» implorava. Sembrava ur-
lasse, in tutto quel silenzio.

«Chiudi gli occhi» sussurravo, asciugandomi le lacrime.
«Chiudi gli occhi e dormi!».
Il mio incubo lo conoscevo a memoria ma, ogni volta, mi
scuoteva, lasciandomi nel letto da sola, senza Enza. Treman-
te. Spossata. Con gli occhi spalancati.

13

2

«S’ ptèvn stà a la cas!». Potevano starsene a casa loro!
«Chi glielo ha detto di accettare l’invito di due sconosciu-
ti? Chi glielo ha detto di salire in macchina con quei ragazzi,
di cui non sapevano niente?».
«Se fossero tornate dalle loro famiglie, tutto questo non
sarebbe successo. Invece, a volte, i guai sei tu che te li vai a
cercare».
«Ma dico io, Crist’ mè!, se sei una ragazza seria, una ragaz-
za per bene, e c’è uno che conosci appena e che ti dice “Mèh!
vin cu mmè!”, che fai? Tu ci vai? Te lo dico io che fai. Tu non
ci vai. Non ci devi andare. Tu gli rispondi: “No, grazie!” e te
ne torni a casa tua, dove tuo padre e tua madre ti stanno
aspettando per la cena».
«Ma oggi le ragazze si sentono moderne… Oggi le ragazze
vogliono decidere loro... E ci uè fà? Che ci vuoi fare? Questo
è quello che succede. E poi si lamentano. E poi accadono le
disgrazie. E quei poveri sciagurati dei genitori devono pian-
gere per il resto della vita loro».
Non si parlava d’altro nel quartiere Libertà di Bari. Nelle
vie, nelle case, nelle botteghe, tutti commentavano le notizie
del telegiornale sull’agghiacciante massacro del Circeo.
«Ma addò iè stu Circé? Addò sta?».1

1. «Ma dov’è questo Circeo? Dove si trova?».

14

«Vicin a Rròm, sta! Sop u’mar».2
Ne parlavano le donne tra un balcone e l’altro, mentre
stendevano i panni. E i venditori ambulanti, al mercato del
pesce. Ne parlavano i contrabbandieri di sigarette all’angolo
della strada, passandosi una Peroni. Sputando per terra. E i
pescatori, mentre riparavano le reti, seduti nelle loro barche
dondolanti, al porto vecchio. Ne parlavano a bassa voce i
miei parenti, preoccupati per le proprie figlie, sempre più
convinti che il compito di un buon genitore fosse quello di
essere più severo possibile. Meno permissivo possibile. Più
intransigente possibile. Soprattutto con le ragazze, che stava-
no diventando troppo fuori dalle regole, troppo fuori dagli
schemi. Troppo fuori.
«E che? Non lo vedi con che minigonne vanno in giro?».
«E che? Non lo vedi quanto sono strette le camicette?
Tutto si vede!».
«E i pantaloni? Si può andare in giro coi pantaloni così at-
tillati? Nun s’accapisce cchiu’ nudd, sora mè!». Sorella mia, non
si capisce più niente!
Rimbalzavano, i commenti, da una bocca all’altra, in un
passaparola lungo come un’interminabile catena di sant’An-
tonio, monotono come una cantilena che, giunta alla fine, ri-
cominciava daccapo. Dall’inizio.
Era il 1975. I primi di ottobre, i giorni della riapertura
della scuola. Erano i miei dieci anni. E furono letteralmente
sconvolti dall’atroce storia di Rosaria Lopez e Donatella Co-
lasanti. Sfogliavo e risfogliavo la rivista Oggi, a casa di nonna,
mentre lei preparava la pasta per fare le orecchiette. Una
grande montagna di semola giallognola sul vecchio tavoliere
di legno. Un buco nel centro della montagna, dove versava

2. «È vicino a Roma. Sul mare».

15

acqua tiepida e sale. E la montagna diventava un vulcano che
fumava dalla cima.

Non riuscivo a staccare gli occhi dalla foto in bianco e nero
di Rosaria. Era sicuramente la foto di un documento di iden-
tità, perché si vedeva chiaramente il timbro del comune di Ro-
ma, in alto a sinistra. Rosaria aveva gli occhi ingenui, stupiti,
privi di trucco. Un sorriso timido sulla bocca semiaperta, che
lasciava trapelare gli incisivi bianchi. Gli unici vezzi che si era
concessa consistevano in un filo di rossetto sulle labbra e in
una fascia di stoffa nera, attorno al collo. Come poteva, la ra-
gazza che sorrideva nella foto, essere quello stesso cadavere nu-
do, con i capelli intrisi di sangue, accartocciato nel portabaga-
gli della 127 bianca? Avrebbe mai immaginato, Rosaria, in
quel momento che il fotografo le scattava la foto, che quell’im-
magine sarebbe stata sbattuta su tutti i giornali, su tutte le ri-
viste, in tutti i telegiornali della sera, accostata, come in un ma-
cabro gioco di “trova le differenze”, con la sua testa maciullata,
con i capelli fradici, ciondolante in un sonno perenne?

Quando l’acqua veniva versata nel cratere della montagna
di semola, rivoli, come fiumiciattoli, sfuggivano verso il bor-
do del tavoliere e nonna li riacchiappava prontamente, con il
palmo della mano, e li riportava al centro.

Dal 29 al 30 settembre Donatella, di diciassette anni, e
Rosaria, di diciannove, subirono ogni tipo di violenza. Il
giornale diceva che i tre aguzzini, Angelo Izzo, Andrea Ghira
e Gianni Guido, più o meno della stessa età delle ragazze,
avevano abusato di loro ferocemente, senza risparmiare nes-
suna parte del loro corpo. Le avevano picchiate a sangue, con
pugni e calci. Sulla faccia. Sul seno. Sul ventre. Le avevano
violentate più e più volte, in un delirio di sadismo e onnipo-
tenza. Bestialmente. Rosaria anche quando agonizzava.

16

Nonna piegava e ripiegava la pasta e di tanto in tanto inu-
midiva le dita nell’acqua calda, all’interno del pentolino di allu-
minio. La stendeva, usando la parte interna dei polsi, dapprima
piano, delicatamente, quasi accarezzandola, per poi fare ricorso
alla forza e alla veemenza dei pugni chiusi. Segni delle nocche
delle dita rimanevano impressi, per qualche istante, nell’am-
masso odoroso. E di nuovo carezze. E poi ancora pugni.

C’erano anche le foto dei tre aguzzini su Oggi, figli di ricchi
professionisti della Roma bene, educati nella scuola più esclusi-
va della città. Uno, biondiccio, aveva il volto quasi angelico, gli
occhi innocenti da bravo ragazzo, le guance paffute di quando
era bambino. Quanti baci avevano ricevuto, in passato, quelle
guance? Quanti pizzicotti? Quante carezze? E quanti ceffoni? Il
secondo era serio, compassato, sembrava quasi infastidito dagli
scatti dei fotografi. Alto, magro, faccia pulita. Anche un bel ra-
gazzo. Persino rispettoso della famiglia, timoroso dei genitori
tanto che, tra una violenza e l’altra, aveva sentito il dovere di tor-
nare per la cena, dal Circeo a Roma, perché altrimenti papà e
mamma si sarebbero preoccupati. Il terzo era sconvolgente. In-
quietante. Gli occhi spiritati. Fuori dalle orbite. E rideva. Veni-
va trascinato via con le manette ai polsi, e rideva. Rosaria era sta-
ta da poco sfracellata, e lui rideva. Donatella era in ospedale con
la testa spaccata, il naso fratturato, un occhio completamente
pesto, il volto tumefatto. E lui rideva.

«Vin dò, iàlz sti mmaniche». Vieni qui, tirami su le ma-
niche.

Lasciavo per un attimo il giornale sul tavolo e andavo ad al-
zare le maniche della maglia nera di nonna. Un po’ di semola
era andata a finire sulle lenti dei suoi occhiali. Era buffa con
quegli occhiali sporchi che le scivolavano continuamente sulla
punta del naso. Le sistemavo bene le maniche, arrotolandole

17

sulle braccia sollevate e tornavo a sedermi. C’erano parole che
non capivo. “Sodomizzate”, per esempio. Oppure “Pariolini”.
“Odio di classe”. “Rossi e neri”. Quello che mi era assoluta-
mente chiaro invece, era che Donatella e Rosaria, due ragazze
di borgata, erano state vittime, per ore e ore, di interminabili
costrizioni, di soprusi indicibili. Erano state lo sfogatoio delle
perversioni peggiori. Due prede sottoposte ad un sadismo
inaudito. Spostavo continuamente gli occhi dalla faccia d’an-
gelo di Andrea Ghira, al naso rotto di Donatella. Potevo udire
le risate agghiaccianti di Angelo Izzo, lo psicopatico, e le urla
strazianti delle due ragazze martoriate, ridotte allo stremo. Os-
servavo lo sguardo schizzinoso e infastidito di Gianni Guido,
da una parte, e i capelli insanguinati di Rosaria, dall’altra. Non
riuscivo a non pensare alla sua bella testa immersa violente-
mente, più e più volte, senza la minima pietà umana, nella va-
sca da bagno piena d’acqua. Rosaria morì. Donatella fu presa
a sprangate in testa, ma non moriva. Le fu allacciata una cin-
ghia attorno al collo, trascinata nuda e sanguinante per le stan-
ze della villa. Ma non moriva. E allora Donatella, che voleva
vivere disperatamente invece, vivere con tutte le sue forze, capì
che doveva morire. E così fece. Finse di morire.

Sentivo il rumore rassicurante del coltello che batteva sul
tavoliere di legno, simile al ticchettio di un orologio. Nonna
prendeva un pugno di pasta e lo lavorava sotto i palmi delle
mani, fino a ridurlo ad un lungo serpentello, della circonfe-
renza di un centimetro. Toc, toc, toc, toc faceva il coltello sul
tavoliere. Tagliava un tocchetto di pasta alla volta e dal cuore
che i suoi due indici disegnavano sul legno ruvido, veniva
fuori un’orecchietta, e un’altra, e un’altra ancora. Un cuore,
un’orecchietta. Un cuore, un’orecchietta. Con un gesto svo-
lazzante delle dita l’orecchietta appena prodotta veniva quasi

18

lanciata all’angolo del tavoliere. Diventavano dieci, venti,
trenta, cento orecchiette.

I corpi di Rosaria e Donatella furono caricati nel portaba-
gagli della 127 e i tre fecero ritorno a Roma. Parcheggiarono
l’auto in una delle vie del loro quartiere elegante, con le pa-
lazzine basse circondate da siepi di bosso, ben curate, e anda-
rono a mangiare una pizza, perché gli era venuta fame. Come
se niente fosse stato. Tanto, per finire il lavoro, c’era tempo.
I morti non scappano. Non sapevano che Donatella era an-
cora viva. Che qualcuno avrebbe sentito i lamenti provenire
dalla 127. Che sarebbero arrivati i carabinieri. Che lei avreb-
be raccontato tutto. E se non avesse finto di morire, se avesse
chiuso gli occhi per sempre, di quella storia efferata, di quella
mattanza inaudita, non si sarebbe mai saputo nulla. Il massa-
cro del Circeo non sarebbe mai esistito.

Nonna sistemava le orecchiette distanziandole l’una dal-
l’altra.

«Avàst a lescie mo. Vinm ad ajtà». Basta leggere ora, vieni
a darmi una mano.

Mi alzavo di nuovo e l’aiutavo a trasportare il tavoliere sul
vecchio comò di legno di noce, nella camera da letto, dove le
orecchiette sarebbero rimaste tutta la notte ad asciugare. Il
giorno dopo sarebbero diventate abbastanza dure e secche da
poter essere cotte.

Tornavamo insieme in cucina e nonna accendeva il tele-
visore. Era appena cominciato Carosello.

«Hai fame?» mi chiedeva.
«No, tra poco vado a casa» rispondevo.
Ma lei, come se non avesse sentito, prendeva due frise di
grano duro e le bagnava sotto l’acqua del rubinetto. Tagliava
quattro o cinque pomodori pachino e li strizzava bene sopra,

19

facendone uscire tutto il succo e i piccoli semi. Cospargeva
poi le frise con sale, olio e origano.

«Mè, vid Carsìdd e po’ vattìnn». Vedi Carosello e poi vai.
Mi piaceva Carosello. E mi piaceva stare da nonna. Man-
giavo le frise e guardavo la televisione.
«Nella pampa sconfinata, dove le pistole dettano legge, il cabal-
lero misterioso cerca la bellissima donna che ha visto sul giornale.
S’ode un grido nella pampa: Carmensita abita qui?».
Era la pubblicità del caffè Paulista. Dei pupazzi di carton-
cino bianco a forma di cono, sul cui vertice, che era la testa,
erano stati sistemati gli occhi, i capelli, i baffi, i sombreri, si
muovevano strisciando avanti e indietro, sullo schermo in
bianco e nero.
«Dov’è, dov’è, dov’è la donna?» addentavo le frise senza di-
stogliere gli occhi dalla televisione.
Carmensita, la ragazza che il caballero cercava, lavorava in
un ufficio postale.
«Salta fuori bambolina», diceva lui, all’esterno del bianco
edificio, brandendo in aria la pistola, «o ti buco il finestrino!».
E prima di aspettare risposta, sparava all’impazzata una
raffica di proiettili con la sua dannata pistola, colpendo senza
criterio le finestre dell’ufficio postale, riempiendole di buchi.
«Carmensita dove sta?» ululava il tipo, sempre più arrab-
biato. La pistola ancora fumante.
«Uh! Si calmi, sono qua» arrivava lesta Carmensita. Anche
lei un cono di cartoncino bianco rovesciato, ma con due trec-
ce lunghe, nere e lucenti che le scendevano dal capo.
«Carmensita! Io la amo alla follia. Si licenzi e venga via!» le
diceva lui, sgarbato, tirandole una treccia.
«Pazzo! L’uomo che amo è un uomo molto in vista. È forte,
è bruno e ha il baffo che conquista!».

20

«Amore! Quell’uom son mì» e il tipo con la pistola iniziava
a roteare su se stesso, facendo delle piroette velocissime e si
trasformava in Paulista, con i baffoni spessi e neri, il cappello
scuro e un poncho variopinto.

«Paulista! Amore mio!» esclamava Carmensita, riconoscen-
dolo.

Mi leccavo, una per una, le dita salate.
«Nonna, io vado» dicevo non appena avevo finito.
Mi prendeva il piatto in cui avevo appena mangiato e lo
andava a posare nel lavandino. Aspettavo che aprisse il rubi-
netto e che l’acqua scrosciasse. Allora, senza farmi vedere,
strappavo piano i tre fogli del giornale, quello con l’articolo
sul massacro del Circeo. Tenevo ben ferme le pagine con il
palmo di una mano, e con l’altra facevo strisciare verso il bas-
so i fogli, piano, senza che facessero rumore. Li ripiegavo in
quattro e li infilavo nella manica del maglioncino aderente.
«Iapr l’ecchij!». Apri gli occhi!, mi diceva nonna, asciugan-
dosi le mani con lo strofinaccio.
Me lo diceva sempre. Apri gli occhi! Come a dire “stai at-
tenta”, “stai in guardia”. Un monito fattosi ormai consuetudi-
ne. Al posto di “ciao”, “ci vediamo domani”, o “stammi bene”.
Apri gli occhi! Non dare confidenza a nessuno. Non fer-
marti a parlare con gli sconosciuti.
Apri gli occhi! Non rispondere alle provocazioni. Non
immischiarti in cose che non ti riguardano.
Apri gli occhi! Assumi un’aria dimessa e fila dritto a casa.
“Apri gli occhi!” era il contrario di tenerli aperti, gli occhi.
Era piuttosto un invito a guardare da un’altra parte, a fare
finta di non vedere, a fare finta di non sentire. Ed io, per tut-
ta la mia infanzia, e poi nella mia adolescenza, così mi ero
sempre sentita dire. Volevano che facessi finta di non vedere.

21

Che facessi finta di non sentire. Come se non vedere e non
sentire, mi permettessero di diventare trasparente. Non dove-
vo vedere e non dovevo sentire, quando camminavo da sola
per strada. Come se non vedere e non sentire mi rendessero
inattaccabile. Non dovevo vedere né sentire i ragazzi della mia
età, ma anche uomini che potevano essermi padre, a volte, o
anziani che potevano essermi nonno, a volte, se mi fissavano
in un modo che non mi piaceva, o mi fischiavano dietro, o fa-
cevano battute col doppio senso, o proposte palesemente in-
decenti. In un’escalation di invadenza e molestia a cui ogni ra-
gazza doveva abituarsi, fin da piccola. Questo voleva dire
“apri gli occhi”: cambia strada. E il fatto di dirlo e ridirlo e ri-
peterlo, serviva più a chi te lo diceva e ridiceva e ripeteva, che
a te stessa. Una specie di mantra rassicurante. Se nonna di-
menticava di pronunciare quelle parole nel momento in cui la
salutavo, si affrettava ad affacciarsi al balcone:

«Iapr l’ecchij!» mi urlava, quando già ero per strada.
Camminavo più in fretta che potevo, accelerando il passo,
zigzagando da una parte all’altra della via, cambiando mar-
ciapiede di fronte ad ogni situazione che avesse il minimo
sentore di pericolo. Camminavo come in una giungla. Dei
ragazzini davano calci violenti ad una saracinesca abbassata,
così, senza motivo, solo per produrre quel rumore infernale,
simile a mille mitragliatrici. E io attraversavo la strada. Dal-
l’interno di un basso provenivano le urla e le bestemmie di
uomini che giocavano a carte. E io attraversavo ancora. Dei
giovani ridevano sguaiatamente all’angolo del bar, alcuni
poggiati contro il muro, altri stravaccati sul cofano di un’au-
to. La birra in una mano. La sigaretta nell’altra. E io attraver-
savo di nuovo. Non vedevo e non sentivo. Ed era come se an-
che loro non vedessero e non sentissero me.

22

Arrivavo a casa che la cena era a tavola. Prima però anda-
vo a nascondere, in fondo al cassetto del mio armadio, i fogli
di giornale che avevo preso da nonna.

«È pronto» diceva mamma.
Seduti attorno al tavolo di legno, io, mia madre, mio pa-
dre e mio fratello Saverio, guardavamo il telegiornale della se-
ra. La sigla catalizzava sempre la mia attenzione. Il mondo in-
tero, come un enorme pallone di calcio, girava su se stesso,
nel buio dell’universo sconfinato.
«E il pane? Mangiamo senza pane?» chiedeva mio padre.
Mia madre scattava come una molla dalla sedia e andava
a prendere il pane per portarlo a tavola.
«Non mi piacciono i cavolfiori, non li voglio!». Saverio al-
lontanava il piatto davanti a sé.
«Un uovo? Te lo faccio un uovo?» gli domandava mamma.
«Statv citt! Fatemi sentire» rimbrottava mio padre.
Ancora le facce dei tre mostri. Facce comuni. Facce più o
meno normali. Le avremmo riviste per settimane, per mesi,
per anni.
«E tu? Non mangi?» mi chiedeva mamma.
«Ho mangiato da nonna. Non ho fame».
Le scene in bianco e nero della televisione mi chiudevano
lo stomaco. Tutti i fatti di omicidio erano orribili, ma que-
sto, per me, era orribile al massimo. Neanche i continui e fal-
liti tentativi di evasione di Renato Vallanzasca, l’affascinante
bandito dagli occhi di ghiaccio, riuscivano a farmi distogliere
il pensiero dallo scempio subito dalle due ragazze massacrate.
Dopo cena ero sempre io che aiutavo mamma a sparec-
chiare la tavola. Saverio si alzava e usciva con i suoi amici.
Aveva sedici anni e se tornava tardi, nessuno gli diceva nien-
te. E nessuno gli diceva niente se non studiava abbastanza.

23

Dopo le medie si era iscritto al Vivante, alla scuola di Ragio-
neria. Il primo anno era stato promosso per miracolo. Mio
padre gli aveva detto che poteva fare come gli pareva, ma alla
prima bocciatura lo avrebbe mandato a lavorare come mano-
vale dal suo amico Filippo, che aveva una piccola ditta di co-
struzioni. E così Saverio studiava il minimo indispensabile,
per non essere bocciato e passare ancora un altro anno.

«Non si facènn tard assà!». Non fare troppo tardi!, si racco-
mandava mamma. Ma lui si era già chiuso la porta alle spalle.

A Saverio non lo dicevano “apri gli occhi!”. Iapr l’ecchij lo
dicevano solo a me.

Sarebbe rientrato quando tutti noi stavamo già dormen-
do. Quando solo le lucine giallognole del tabernacolo di san
Nicola, al di sopra della porta d’ingresso, si sarebbero sparse
soffusamente fino a raggiungere le nostre stanze.

«Vado a dormire. Ho sonno».
Prendevo Carolina, indossavo la camicia da notte con i
fiorellini gialli e mi infilavo nel letto. Sapevo esattamente da
quali incubi sarei stata svegliata.

24

3

Mia sorella Enza è sempre stata una bellezza. Io ero solo An-
na, una bambina dinoccolata e sgraziata, se messa al suo con-
fronto. Ma Enza era Enza. E di Enza tutto era meglio. I capelli,
gli occhi, le gambe. Ricordo di non esserne mai stata gelosa, pe-
rò. Era più bella e basta. Era un dato di fatto. Qualcosa di in-
confutabile. Così era. Così era stato sempre. Enza dalla fronte
ampia e liscia, dalle sopracciglia ben disegnate, dagli occhi noc-
ciola. Enza dal sorriso perfetto, dai denti dritti e bianchi, dalla
bella bocca carnosa. Enza vita sottile e fianchi generosi.

In una vecchia fotografia di quando io ero appena nata, mia
sorella è seduta su una sedia impagliata. Non tocca neanche i
piedi sul pavimento. Indossa una gonna a pieghe che lascia in-
travedere le ginocchia e porta dei calzettoni di cotone, bianchi
e traforati, e delle scarpe di vernice, nere. Mi tiene stretta tra le
braccia, quasi rigida, impacciata, per paura di farmi cadere.
Qualcuno le avrà detto di sorridere e lei sorride di un sorriso ap-
pena abbozzato, ma gli occhi lasciano trapelare un’espressione
fiera e preoccupata per l’enorme responsabilità di tenermi tra le
sue braccia, senza l’aiuto di nessuno. C’è anche Saverio nella fo-
to. È in piedi, accanto alla sedia su cui Enza è seduta. Porta dei
calzoni corti e un maglioncino a collo alto. Non guarda l’obiet-
tivo ma fissa me, con un’aria quasi perplessa. Ecco, quando io
sono nata, Enza aveva già otto anni e Saverio sei. Mi sono sem-
pre chiesta se la mia presenza, nella mia famiglia, fosse dovuta

25

a un accidente, a una disattenzione, o a una scelta consapevole
dei miei genitori. Quello che è certo, è che mia sorella fu molto
felice del mio arrivo. Ero la sua bambola vivente, altro che Ca-
rolina con le pile dietro la schiena e il bottoncino bianco sulla
pancia! Enza mi dava da mangiare la minestra col formaggino,
raccogliendo col cucchiaio i piccoli chicchi di pastina che mi ri-
manevano attaccati sulle guance.

«Vuoi un po’ d’acqua?». Mi faceva bere piano dal bicchie-
re, la mano sotto il mento, perché non mi bagnassi.

Mi pettinava e mi legava i capelli formando due codini
stretti e alti, attaccandoli con gli elastici, quelli con le mar-
gherite bianche. Sapeva lavorare con l’uncinetto e con gli
avanzi dei gomitoli di lana confezionava sciarpe e copertine
colorate per le mie bambole.

«Vieni nel letto mio? Solo per un poco!» le chiedevo la se-
ra, quando ero già un po’ più grande.

Enza dapprima sbuffava, poi però scostava le coperte e ve-
niva a sdraiarsi accanto a me. Le stringevo la mano per la
contentezza.

«Mi racconti una storia? Anche corta se vuoi».
Ed Enza mi raccontava la storia di Mezzoculo, una vecchia
orrenda e cattiva, che abitava vicino a una famiglia povera e nu-
merosa. Un giorno, d’inverno, uno dei bambini aveva espresso
il desiderio di mangiare i panzerotti e allora la mamma, per ac-
contentarlo, si mise a impastare acqua e farina. Riempì i panze-
rotti di pelati e mozzarella, ma poi si ricordò di non avere la pa-
della per friggerli. Mandò allora una delle figlie da Mezzoculo,
per chiedere la padella in prestito, giusto il tempo di cuocere i
panzerotti nell’olio bollente. La vecchia mostruosa acconsentì,
ma in cambio si fece promettere dalla bambina che le avrebbe
portato anche un paio di panzerotti. La mamma cucinò e tutti

26

mangiarono con gran gusto. Quando però si accorse che nessu-
no di loro aveva lasciato i panzerotti per Mezzoculo, prese del
mangime per le galline e lo mischiò con l’acqua. Preparò una
specie di pasta dura e la riempì con topi e scarafaggi maciullati.
La bambina ritornò quindi dalla vecchia per restituirle la padel-
la, stringendo tra le mani i panzerotti finti, bene avvolti nella
carta del pane, perché non si raffreddassero. Mezzoculo addentò
uno dei panzerotti e sputò disgustata il boccone per terra. Fu-
riosa per essere stata così derisa e mal ripagata, si avvolse in un
lungo lenzuolo e, con un bastone di ferro in una mano e un
campanello nell’altra, uscì di casa, digrignando i denti, impre-
cando contro il cielo. La mamma e i bambini la videro arrivare
da lontano, scuotendo il campanello, brandendo il bastone per
aria e terrorizzati corsero tutti a nascondersi, chi in un vaso, chi
nel camino, chi nell’armadio, chi nella credenza, chi sotto il let-
to. Mezzoculo spalancò la porta e girò e rigirò per tutta la casa,
pazza di rabbia, fiutando col naso adunco, come un segugio,
finché, uno dopo l’altro li scovò. E, uno dopo l’altro, li uccise.
Solo un bambino si salvò la vita. Quello che si era nascosto den-
tro il vaso. Quando la sera il padre tornò a casa e vide lo scem-
pio della mattanza, fu preso dalla disperazione. All’improvviso
gli parve di udire un flebile lamento: era il piccolo che si era sal-
vato e che piangeva dentro il grande cratere di terracotta. Il fi-
glio, tra i singhiozzi, gli raccontò tutto e allora l’uomo, afferrato
un coltello, con gli occhi insanguinati di rabbia si recò dalla vec-
chia strega e la uccise, pugnalandole il cuore. Tornato a casa,
prese dalla credenza la piccola bottiglietta di vetro in cui era cu-
stodita la manna di san Nicola, il liquido miracoloso che trasu-
da dalla tomba del santo e spruzzò i corpi martoriati dei suoi ca-
ri con quelle piccole goccioline prodigiose, pronunciando que-
ste parole magiche:

27

«Sanda Manne de sanda Ncòle, famm resescetà la mamm c
l fegghiòl».

Santa Manna di san Nicola fammi resuscitare la mamma
con i figlioli.

E san Nicola compì il miracolo e tutti vissero felici e
contenti.

«Ma la colpa non è di Mezzoculo!» facevo osservare a mia
sorella.

«La colpa è di quei tizi che non le hanno lasciato i panze-
rotti, come avevano promesso».

Non riuscivo a capacitarmi di come si potesse essere così
stupidi, di come si preferisse architettare scioccamente un rag-
giro del genere, quello dei panzerotti finti appunto, ripieni di
immondi animali tritati, piuttosto che ammettere, davanti alla
vecchia, di essersi dimenticati di lasciargliene un paio, perché
erano così buoni, ma così buoni che era stato impossibile non
ingozzarseli tutti quanti. Non sarebbe stato più semplice dire
la verità? Sicuramente Mezzoculo non si sarebbe arrabbiata così
tanto. E, d’altra parte, chi non sarebbe andato su tutte le furie
a essere preso per i fondelli in quel modo?

«Ma la storia così è!» rispondeva Enza, stizzita. «E mo’
mettiti a dormire».

Si alzava e andava a sdraiarsi nel suo letto, lasciandomi an-
cora per qualche minuto il calore rassicurante del suo corpo
tra le lenzuola, l’odore dei suoi capelli nocciola sul cuscino.

Fu Enza che mi accompagnò a scuola, il mio primo giorno
delle elementari. Aveva terminato le medie l’anno prima e an-
nunciò ai miei genitori che non voleva più studiare. Non le
piaceva. Aveva quattrodici anni ormai e voleva andare a lavo-
rare. Trovò un lavoro come commessa, da Filmoda, la storica
merceria di via Manzoni. Le piaceva tantissimo lavorare in

28

merceria. Qualche volta ci andavo con mamma, quando capi-
tava che le occorressero una spoletta, o una cerniera, o dei
bottoni nuovi. Enza arrossiva leggermente quando ci vedeva
entrare nel negozio, ma era anche palesemente orgogliosa e fe-
lice. Prendeva da sotto il bancone delle grandi scatole di car-
tone, separate all’interno da tanti piccoli scomparti quadrati.
In ogni scomparto c’erano diversi tipi di bottoni. Di tutte le
forme. Di tutti i colori. Bottoni con le perline, bottoni dorati,
bottoni di madreperla. Mamma tirava fuori dalla borsa un
pezzetto di stoffa, ritagliata dal modello che stava cucendo, ed
Enza vi poneva sopra alcuni bottoni, quelli che secondo lei
meglio si adattavano al colore e alla consistenza del tessuto.

«Questo! Questo qua sta bene, no?» suggeriva mia sorella.
Mi sollevavo con le punte dei piedi e guardavo la superfi-
cie di vetro del bancone, sotto la quale erano esposte fibbie
per capelli, pettinini decorati, merletti di pizzo, fiorellini di
raso. Mi piaceva tantissimo la merceria in cui Enza lavorava.
Sarei volentieri rimasta lì, a guardare, per tutto il pomeriggio.
«Signor Vito, ecco i sei bottoni di mia madre. Sono due-
cento lire» diceva mia sorella rivolta al proprietario, seduto
alla cassa, porgendogli, avvolti in un foglio di carta di giorna-
le, i bottoni acquistati da mamma.
E il signor Vito, un uomo sui cinquant’anni con i capelli
tinti di nero corvino che, sebbene impomatati all’indietro
non riuscivano a nascondere il mezzo centimetro di ricrescita
bianca, la guardava soddisfatto, mentre lei tornava al suo po-
sto, dietro l’alto bancone di legno scuro.
«Prego, che le occorre?» chiedeva quindi alla signora gras-
sa, appena entrata nel negozio.
Enza insistette per accompagnarmi a scuola, prima di re-
carsi al lavoro, il mio primo giorno alle elementari. Portavo

29

una cartella nuova di zecca, color blu cobalto. Percorremmo
insieme via Crisanzio, io e mia sorella, mano nella mano, co-
steggiando la vecchia Manifattura dei Tabacchi. Dagli alti fi-
nestroni, oscurati da spesse grate di metallo, sentivamo le vo-
ci delle operaie che già da un pezzo erano al lavoro. Respiravo
forte l’odore del tabacco, quell’odore che impregnava le stra-
de del quartiere Libertà. Quell’odore a me così familiare.

«Enza, ma quante ore ci devo stare qua dentro?» le chiesi con
gli occhi lucidi, la voce che mi tremava leggermente, prima di
entrare nella scuola “San Giovanni Bosco”, un bell’edificio di
colore rosso mattone, dalle ampie finestre incorniciate di stucco
bianco e il tricolore che sventolava sull’ingresso enorme.

«Solo la mattina. Mo’ impari un sacco di cose qua, che ti
credi? Non ti scocci a stare a casa?». Mi spinse con delicatezza
verso il portone di legno.

«Vai mo’. Va’!».
Avvertivo l’irresistibile impulso di tornare indietro, di im-
plorarla:
«Lasciami venire alla merceria con te!».
E invece entrai. E mi innamorai della scuola. Da quel pri-
mo giorno. Mi piaceva l’odore dei libri nuovi, della gomma
per cancellare, quello dei colori a spirito. Mi piaceva iniziare
a scrivere sulla prima pagina immacolata di un quaderno ap-
pena comprato. Lo annusavo e lo trovavo, ogni volta, estre-
mamente emozionante. Eccitante quasi. Andavo a comprare
l’occorrente per la scuola dal tedesco, il proprietario della car-
toleria in via Crisanzio, all’angolo con via Trevisani. Il tedesco
era un signore di mezza età, alto, con i capelli biondissimi, la
pelle chiara. Non so per quale recondita, strana, fortuita coin-
cidenza della vita, il tedesco fosse stato catapultato, dalla lon-
tanissima Germania, proprio lì a Bari, nel Libertà.

30

«Buonasera, mi date un quaderno a quadretti per piacere?».
«Piccoli qvadretti, o crandi qvadretti?» chiedeva con il suo
terribile accento.
Mi incuteva sempre un certo timore, il tedesco.
«Se passi davanti al tedesco mi compri una penna blu?» chie-
devo a mamma, sperando di farla franca, almeno per una penna.
«Teng da fà. Va’ tu!». Ho da fare, vacci tu! mi rispondeva.
A volte eravamo così tanti bambini ad aspettare il nostro
turno nel piccolo negozio, che era inevitabile che ci mettessi-
mo a parlare tra di noi e a ridacchiare.
«Silenzio!» urlava il tedesco, con il suo terribile accento
tedesco.
E nella cartoleria calava il silenzio più totale.
«Enza, se passi davanti al tedesco mi compri tre fogli pro-
tocollo?» chiedevo a mia sorella, sperando di farla franca al-
meno per tre fogli protocollo.
«Va bene» mi rispondeva lei, mentre si infilava di corsa le
scarpe e si preparava per uscire.
Era bello avere una sorella come Enza. Mio fratello Saverio
non poteva saperlo, perché lui con noi ci stava poco. Passava
tutti i pomeriggi a giocare a pallone con i suoi amici, per strada.
Durante l’estate, per via delle finestre spalancate, sentivamo
sbattere di continuo la palla sulle saracinesche abbassate dei ne-
gozi, o sui cofani delle auto parcheggiate. Risaliva a casa solo per
cena. I capelli neri, arruffati sulla fronte, che quasi gli coprivano
gli occhi. Le guance accaldate. Le ginocchia scorticate.
«Ho fame» era la prima cosa che diceva, entrando in casa.
«Che c’è da mangiare?».
Lo osservavo azzannare con foga il coscio di pollo arrosto
e masticare tutto concentrato davanti al suo piatto. Una leg-
gera peluria nera correva sopra il suo labbro.

31

«Che hai da guardare?» mi chiedeva.
Finiva di mangiare e si alzava da tavola.
«Vado» correva verso la porta, ancora masticando. E scen-
deva di nuovo in strada, a giocare con gli altri ragazzi.
Io ed Enza sparecchiavamo la tavola.
«Non è giusto» dissi un giorno a mia sorella.
«Cosa non è giusto?» mi domandò lei.
«Che lui non sparecchia mai. Che si alza da tavola appena
ha finito di mangiare e se ne va».
Ed io non ricordo cosa mi rispose Enza. A dire il vero non
ricordo neppure se mi rispose qualcosa, ma il fatto che fosse così
normale che a mio fratello non venisse mai chiesto di andare a
prendere un bicchiere, o di mettere a posto una sedia, o di ri-
piegarsi i propri vestiti, o di rifarsi il letto la mattina, mi lasciava
interdetta. E ancora più interdetta mi lasciava il fatto che a Enza
non importasse più di tanto. Che non ci facesse neanche caso.
Sentivo di non piacergli affatto a mio fratello Saverio. An-
zi, ne ero sicura. Litigavamo per ogni sciocchezza. Mi faceva
i dispetti. Mi prendeva in giro. Lo trovavo viziato, fastidioso,
esasperante. Avrei voluto che mi ignorasse, come faceva con
Enza. Ma il fatto di essere molto più piccola di lui, mi ren-
deva il bersaglio di ogni minima sopraffazione. Ricordo come
un incubo quelle volte che andavamo al mare, tutti e cinque
in macchina. Io dovevo sedermi al centro, nel sedile posterio-
re della Fiat 850, tra Enza da una parte e Saverio dall’altra.
Mio fratello non voleva che lo toccassi perché aveva caldo.
Non voleva nemmeno che lo sfiorassi.
«Spostati» mi diceva continuamente.
«Dove mi metto? Non c’è posto!» protestavo.
Mi tirava i pizzichi sulle gambe, lasciandomi dei segni ros-
si. Urlavo di dolore. Mio padre imprecava.

32

«Vai in braccio a Enza» mi suggeriva mamma.
E così mi sedevo sulle gambe di mia sorella. Gli occhi pieni
di lacrime. Il cuore gonfio di risentimento alla vista di Saverio,
sistemato con arroganza a gambe larghe sul sedile, i capelli svo-
lazzanti, la maglietta gonfia di vento, lo sguardo tronfio.
Fu lui, un giorno, a dirmi che la Befana non esiste. Non
avevo neanche otto anni.
«Esiste eccome!» affermai con certezza.
«La Befana è mamma, stupida» replicò Saverio.
«Non è vero» insistetti.
Non poteva essere. L’esistenza della Befana era qualcosa
di indiscutibile. Era il dogma inattaccabile, la fede certa e in-
confutabile. Aspettavo la notte della Befana in uno stato di
totale fibrillazione. Le preparavo la cena sul tavolo, prima di
andare a dormire. Una tovaglietta ripiegata su cui lasciavo
delle noci, due o tre mandarini, un pezzo di pane, un bicchie-
re di vino. Accostata al bicchiere, ponevo la mia lettera ripie-
gata, fatta di pentimenti e buoni propositi. E anche delle mo-
nete lasciavo. Duecento lire, trecento lire, tutto quello che
avevo a disposizione. La notte della Befana era una notte ma-
gica. Anche la cucina aveva una luce diversa. Anche i miei ge-
nitori erano diversi, trasfigurati da un’aura bella e positiva.
Anche il buio fuori dalla finestra era diverso. Col naso attac-
cato al vetro, scrutavo nel nero del cielo in cerca di qualche
segno, di qualche bagliore, di qualche movimento rivelatore.
Quella notte era davvero magica. Andavo a dormire nel letto
di Enza, dalla parte accostata alla parete, per sentirmi più
protetta, stringendomi a lei, perché la Befana era una vecchia
benevola, certo, ma anche permalosa e vendicativa. Nonna
mi aveva raccontato certe storie spaventose di bambini che
avevano deciso di rimanere svegli, per spiarla, e lei li aveva

33

puniti lasciando per terra, vicino al letto, del carbone roven-
te, così che si bruciassero le piante dei piedi. E quando al
mattino chiedevo eccitata:

«È arrivata? È passata la Befana?» ed Enza, gli occhi ancora
chiusi di sonno, annuiva con la testa, saltavo fuori dal letto e
più della calza appesa alla finestra, piena di dolci e caramelle
gommose, più di Carolina, posata sul tavolo della cucina,
con i capelli ancora incellofanati che odoravano di nuovo,
ancora più della lettera di risposta, con tanto di firma, La Be-
fana, erano i resti della cena che avevo lasciato la sera prima,
ciò che più di tutto, più di tutto il resto, mi dava brividi di
eccitazione. I gusci spaccati delle noci, le bucce di mandarino
sparse sul tavolo, le briciole di pane cadute sulla sedia e per
terra, il bicchiere vuoto, una macchia di vino sulla tovaglia,
erano la prova che la Befana da lì era passata. Erano la testi-
monianza certissima che mentre io dormivo, quella misterio-
sa presenza in carne e ossa si era seduta a quel tavolo, su quel-
la sedia. Aveva mangiucchiato e bevuto per davvero, aveva
preso con le sue dita grinzose le monete che io avevo lasciato,
aveva letto con fatica la mia lettera, aveva rovistato nel sacco
e aveva tirato fuori Carolina per me.

E adesso mio fratello diceva che era tutta una balla, tutta
una finzione per bambine piccole e stupide.

«E chi mette la calza alla finestra? Chi mangia il cibo sulla
tavola?» gli chiesi, col desiderio disperato che mi stesse men-
tendo, che stesse farneticando.

«Sempre mamma, scema!» rispose lui, senza possibilità di
replica.

«Vallo a chiedere a lei, se non ci credi» aggiunse.
«È vero?» andai a chiedere a mia madre, mentre lavava le
cime di rape nel lavandino.

34

«È vero che la Befana non esiste?».
E non ci fu neanche bisogno che mi rispondesse. Lo capii
da come mi guardava.
«Scommetto che è stato Saverio a dirtelo» replicò.
Fu un tradimento. Come sarebbe stato un tradimento se
all’improvviso avessi scoperto che quelli non erano i miei veri
genitori. Che ero stata adottata perché una famiglia di zingari
mi aveva abbandonato sul ciglio della strada. E soprattutto,
mi sentii tradita da mia madre, che aveva sostenuto quella
messinscena, alimentandola con tutta la farsa della cena, e
delle bucce dei mandarini, e del bicchiere vuoto di vino, e
delle molliche di pane sul tavolo. Quella sera mi sentii im-
mensamente triste e chiesi a Enza di venire a sdraiarsi nel mio
letto. Anche senza favole, le dissi. Anche senza la storia di
Mezzoculo e della manna di san Nicola. Così, solo per sentirla
vicino e poterla tenere per mano.
Cosa avrei fatto senza la presenza costante di Enza? Come
sarebbe stata la mia infanzia senza la concretezza meravigliosa
delle sue gambe, distese vicino alle mie? O senza il solletico
della peluria sottile del suo braccio, a contatto col mio brac-
cio? I suoi lunghi capelli mi coprivano la spalla. Il suo alito
caldo mi soffiava nell’orecchio. Enza era la roccia salda. L’ap-
prodo sicuro. Il porto accogliente. Se qualcuno mi avesse pre-
detto che, da lì a un paio d’anni, mia sorella non avrebbe abi-
tato più con noi, non avrebbe dormito più nella mia stanza,
non sarebbe più venuta a sdraiarsi accanto a me per raccon-
tarmi le storie, gli avrei riso in faccia. E invece andò così. Enza
conobbe Gino, di tre anni più grande di lei, che faceva il mec-
canico nell’officina vicino alla merceria. Ed io la posso imma-
ginare la faccia di quel ragazzo, con la tuta blu unta di grasso,
quando vedeva passare mia sorella, la mattina, davanti all’of-

35

ficina, con la scamiciata a quadri marroni addosso, quella che
mamma le aveva cucito. Bella. Bellissima, nella sua cammina-
ta felpata, da gatta di razza. Posso immaginare lo sguardo che
si scambiavano, al rallentatore, in quell’attimo che lei percor-
reva quei due metri davanti all’officina, prima che gli occhi di
Gino scivolassero poi sul suo fondoschiena, con meravigliato
piacere, sfiorando quasi il limite del dolore. Posso immaginare
il sorriso sulla bella bocca carnosa di Enza, il cuore in tumul-
to, con la sensazione del peso degli occhi di lui addosso. Me
lo immagino, sì. Eppure, come una sciocca, mi chiedo adesso
come abbia fatto a non essermi accorta degli occhi persi nel
vuoto di Enza. Del suo modo lento, in quei giorni, di sfilarsi
le calze e di far scivolare la camicia da notte sul corpo. Le brac-
cia alzate e i piedi nudi. Solo adesso mi chiedo come abbia fat-
to a non notare il modo in cui si passava la spazzola tra i ca-
pelli, in quelle sere. Di come si guardava allo specchio. Di
fronte. E poi di lato. E poi di dietro. Come una Venere stu-
pita della propria bellezza. Come, come ho fatto a non realiz-
zare la dolcezza della sua voce, in quel periodo, e la lentezza
con cui metteva quel filo di rossetto sulle labbra?

Una sera Enza non tornò a casa, dopo il lavoro.
«E c’ha siccìss? Addò è sciut’ a frnesc!». Che è successo? Do-
ve è andata a finire! si chiedevano mio padre e mia madre, in
preda all’angoscia.
«Sanda Ncòl! Acchiamèndl tu!». San Nicola! Guardala tu!
Qualcuno, sul tardi, suonò il campanello. Accorremmo
tutti ad aprire: mia madre, mio padre, Saverio ed io. Era un ra-
gazzo alto e dalle spalle larghe. Si fermò proprio sotto il taber-
nacolo illuminato, sulla soglia, come se san Nicola, dopo essere
stato chiamato in causa, volesse dare una risposta alle invoca-
zioni di mia madre. Si presentò come il fratello di Gino, il

36

meccanico. Disse che i ragazzi avevano perso la testa l’uno per
l’altra, che avevano deciso di scappare insieme, di fare la “fuga
d’amore”, perché si volevano sposare. Disse che non dovevamo
preoccuparci. Che sarebbero tornati la mattina dopo. Mia ma-
dre scoppiò in lacrime. Mio padre imprecò. E io, a bassa voce,
domandai a Saverio cos’era la “fuga d’amore”.

«Vanno a letto insieme, così poi si devono sposare per for-
za» sussurrò mio fratello.

Avrei voluto chiedergli ancora:
«Ma perché devono sposarsi per forza? Chi li costringe?» e
invece mi salì un groppo in gola e andai a chiudermi nella stan-
za, che fino alla sera prima era stata la stanza mia e di Enza. Mi
buttai sul suo letto e mi misi a piangere sul suo cuscino.
Enza e Gino si sposarono circa una settimana dopo. Era
l’alba di una mattina fredda di gennaio, dell’anno 1974. Nes-
suno doveva vedere e nessuno doveva sapere. Lei diciassette
anni, lui venti. Erano un piccolo corteo sulla strada deserta e
silenziosa, verso la chiesa del Redentore, dove il prete li aspet-
tava. Andarono a riparare il danno. A mettere una pezza alla
vergogna. Loro due davanti, nel loro vestito migliore, che si
guardavano di sottecchi e sorridevano. I quattro genitori die-
tro che, gesticolando, si insultavano e si accusavano a vicen-
da. Non ci fu festa. Non ci furono confetti. Non ci furono
auguri. Non ci fu niente di niente.
E non ci fu più Enza, da quella notte, a sdraiarsi accanto
a me, per farmi addormentare.

37

4

Eravamo nella nostra 850, dalla tappezzeria interna in fin-
ta pelle rosso porpora, diretti al quartiere Poggiofranco. Mio
padre al posto di guida. Mio zio al lato del passeggero. Io al
sedile posteriore. Andavamo a trovare dei parenti, lontani cu-
gini di mio padre credo. Era una domenica sonnolenta e gri-
gia della metà di ottobre, all’incirca. Di primo pomeriggio,
dopo il pranzo devastante tipico dei giorni di festa. La Fiat
850 era un sommergibile che attraversava le strade a scacchie-
ra del Libertà. Strade spettrali e deserte, tristi e malinconiche,
come sono tristi e malinconiche tutte le strade vuote dei
quartieri, al di fuori del centro cittadino, di domenica pome-
riggio. Poggiofranco era un quartiere nuovo, con vie molto
ampie, palazzi alti dotati di parcheggi per gli inquilini, lunghi
viali alberati. Deserti, anche quelli. I parenti di mio padre
erano una vecchia coppia di coniugi, che io non avevo mai
visto. Erano molto contenti di vederci. Prepararono il caffè.
Ci offrirono delle paste di mandorle. Avevano anche un fi-
glio, un ragazzo di una ventina d’anni, estremamente educa-
to e gentile. Scostava di continuo i capelli lunghi e lisci con
le esili dita della mano, sistemandoli dietro l’orecchio, ma i
capelli erano così lunghi e così lisci che gli tornavano di nuo-
vo sulla fronte, a coprirgli gli occhi, dolcissimi. Doveva aver
capito quanto fossi imbarazzata e annoiata di trovarmi là.
Forse gli era bastato osservare il mio sorriso ebete, nel mo-

38

mento in cui ringraziavo la sua vecchia madre che mi porgeva
un’altra pasta di mandorle. O forse si era accorto di come
muovevo nevroticamente le gambe, facendo vibrare il divano
tappezzato di stoffa damascata, color giallo oro, su cui ero se-
duta accanto a mio padre tanto che lui, spazientito, a un cer-
to punto rimbrottò:

«E statt ferm!».
«Come ti chiami?» mi chiese il ragazzo gentile.
«Anna» risposi con un filo di voce.
«Ti piace la musica?».
Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva se mi piaces-
se la musica. Annuii, e mi sentivo le guance rosse.
«Vieni» mi disse, alzandosi. Ed io lo seguii, timorosa.
Mi portò nella sua stanza. Era piena di libri. Tanti libri. E
dischi. Tanti dischi. Tantissimi.
In un grande cesto cilindrico, sotto la scrivania in legno di
cedro, teneva conservati centinaia di poster arrotolati. Ne
prese uno, a caso, e lo aprì sul letto.
«La conosci questa band?» mi domandò.
Guardai. Era un gruppo di quattro musicisti, molto giovani,
molto magri, con i capelli lunghi, in piedi davanti all’immagine
di quello che mi sembrava essere un grande dirigibile.
Scossi la testa. Sorrise.
«E questa cantante? La conosci?» srotolò un altro poster
sul letto.
La ragazza aveva una montagna di capelli e grandi occhiali
da sole. Tondi.
Scossi ancora la testa. Il ragazzo gentile continuava ad af-
ferrare altri poster e li srotolava, uno dopo l’altro. Ed io con-
tinuavo a guardare le immagini, vergognandomi della mia
ignoranza.

39

«Questo! Questo sì, questo lo conosco! È Massimo Ranie-
ri!» esclamai finalmente, puntando l’indice sulla faccia del
cantante.

Il ragazzo gentile mi sorrise:
«Tieni. Te lo regalo» mi disse, porgendomi il poster di
Massimo Ranieri, dopo averlo arrotolato di nuovo e legato
con l’elastico.
Tornammo a casa percorrendo le strade ormai buie. Una
pioggerella sottile sottile bagnava il parabrezza dell’850. I ter-
gicristalli strisciavano sul vetro con un rumore gracchiante.
Mio zio si rivolse a mio padre che guidava e gli disse:
«Cudd uagnòn, co l’ femmn...». Quel ragazzo con le donne...
E mentre lo diceva ruotava la mano da sinistra a destra e
viceversa, tenendo il pollice e l’indice sollevati, come per dire
“niente da fare”.
«Adavèr?». Davvero? Fece mio padre sbalordito.
Mio zio annuì più volte col capo, su e giù, con aria greve.
Gli occhi chiusi. Le sopracciglia arcuate. Si accostò di nuovo
verso mio padre, mise la mano accanto alla bocca perché io
non sentissi e, parlando il più piano possibile, sussurrò:
«Ten la malatì d’ Pasulìn!». Ha la malattia di Pasolini.
Non era la prima volta che sentivo nominare quel nome,
Pasolini, anche se non mi ricordavo bene chi fosse, ma venire
a sapere che il ragazzo gentile era malato e intuire, dagli
sguardi perplessi di mio padre, che doveva certo trattarsi di
una malattia molto grave, mortale probabilmente, mi rattri-
stò molto.
Riposi il poster di Massimo Ranieri che il ragazzo gentile
mi aveva regalato, nel solito cassetto in fondo all’armadio, in-
sieme alle pagine strappate dal giornale, a casa di nonna,
quelle sul massacro del Circeo.

40

Non passarono neanche due settimane da quella domeni-
ca pomeriggio di ottobre, neanche due mesi dalle violenze
inaudite subite da Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, che
il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini fu ritrovato al-
l’idroscalo di Ostia.

Davanti al televisore, seduti a tavola per la cena, io, Saverio,
mia madre e mio padre, mangiavamo la frittata con le cozze:

«Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini è stato assassinato la
scorsa notte, alla periferia di Roma. Un giovane di diciassette anni,
Giuseppe Pelosi, arrestato nella stessa nottata, perché trovato alla
guida dell’auto di Pasolini, ha confessato di aver ucciso lo scrittore.
Il giovane avrebbe sostenuto che lo scrittore voleva avere rapporti
con lui, ma che lui non voleva».

Non riuscii a deglutire il boccone di frittata che avevo in
bocca. Il volto di Pasolini era irriconoscibile. Il tizio alla tele-
visione diceva che il ragazzo era passato più volte con la mac-
china sopra il suo corpo, sfondandogli il torace. Bevvi un sor-
so d’acqua.

«Ha trovato la morte sua» disse Saverio, lanciando il tova-
gliolo sul tavolo e alzandosi di scatto dalla sedia, pronto per
uscire di casa.

«Ma perché dici così?» replicai, senza riuscire a trattener-
mi e poi, ricordandomi di quanto aveva detto mio zio a mio
padre, quella domenica pomeriggio di circa due settimane
prima, a proposito del ragazzo gentile che mi aveva regalato
il poster di Massimo Ranieri, aggiunsi:

«Aveva pure una brutta malattia, quel poveraccio!».
«Ma che malattia, scema!» mi prese in giro mio fratello.
«Era solo nu ricchion!».
«Si dicono ’ste parole davanti a una bambina?» lo rimpro-
verò mia madre, mentre lui aveva già aperto la porta di casa.

41

Mi assalì un moto di rabbia. Avevo le guance in fiamme.
Mi alzai anch’io da tavola. Volevo andare in camera mia e
buttarmi sul letto di Enza. Non volevo vedere più nessuno.

«E che, te ne vai senza sparecchiare?» fece mio padre.
Tornai indietro. Sparecchiai la tavola. Le lacrime preme-
vano, prepotenti, sugli occhi.

***

Avevo strappato le pagine di giornale a casa di nonna e
poi le avevo ripiegate con cura e le avevo nascoste, come al
solito, dentro la manica della maglia. Aprii le ante del mio
armadio e mi inginocchiai sul pavimento. Tirai fuori l’ulti-
mo cassetto in basso. Mi soffermai ancora a guardare le im-
magini, prima di metterle a posto. Pasolini era riverso per
terra. Indossava dei jeans e una canottiera leggermente solle-
vata sulla pancia. Portava, ai piedi, stivaletti scuri con le fib-
bie laterali. I capelli erano spettinati, sollevati in maniera
ignobile dal vento. Il volto irriconoscibile. Un volto che non
era più un volto. Tre uomini erano inginocchiati attorno a
lui. Due in abiti borghesi. Uno con la divisa da poliziotto.
Era un’immagine terribile. Non solo per il corpo martoriato
di Pasolini, o per la pozza di sangue accanto alla sua testa
leggermente voltata. Non solo per il gruppo di uomini in
piedi, chi con le mani sui fianchi, chi con le mani in tasca,
che osservava a testa china la scena, in maniera distaccata
quasi, con un’inspiegabile sensazione di non coinvolgimen-
to quasi. Come se fossero davanti al bar, a guardare un grup-
petto di amici che giocava a tressette. Era un’immagine ter-
ribile perché uno dei tre uomini inginocchiati, il poliziotto,
sorrideva. Non era una mia impressione. Non era un effetto

42

ottico. Avevo preso la lente d’ingrandimento di mio padre e
non mi sbagliavo: quell’uomo sorrideva. Sorrideva chiara-
mente. Sorrideva, come Angelo Izzo con le manette ai polsi,
dopo il delitto del Circeo. Ma mentre il sorriso di Izzo era
quello di un folle, di un alienato psicotico, questo del poliziot-
to era un sorriso di scherno. Di derisione. Come poteva essere
possibile una cosa del genere? Mi vennero in mente le parole
di Saverio quando mi aveva detto: «Era solo nu ricchion!».

Per questo il poliziotto rideva? Perché Pasolini era “ric-
chione”?

Trovavo quell’immagine odiosa. Come avevo trovato
odiose le parole di mio fratello.

43

5

Le donne della mia famiglia avevano un debole per i
propri figli maschi. Li vezzeggiavano e li coccolavano, li
servivano e li riverivano. Esaudivano ogni loro minimo de-
siderio.

«Ho fatto la pasta al forno, ma senza la crosticina sopra
però, perché a Marco non piace. La preferisce morbida. Pri-
ma di mettere la teglia nel forno, la sua parte di porzione l’ho
coperta con la carta stagnola».

Le donne della mia famiglia difendevano i propri figli ma-
schi sempre, in qualsiasi occasione, fino all’eccesso, fino a
raggiungere i confini della cecità più ottusa.

«La maestra si è arrabbiata perché Giovanni ha spinto il
suo amico di banco e l’ha fatto cadere, rompendogli un den-
te. Ma io gliel’ho detto alla maestra però, che mio figlio è so-
lo un po’ vivace. È esuberante il ragazzo. E poi sicuramente
sarà stato pure provocato! O no?».

Le donne della mia famiglia esaltavano i propri figli ma-
schi per ogni idiozia e, al contrario, sorvolavano con leggerez-
za su ogni loro sbaglio.

«Lo sai che ha fatto Lorenzo? Ha toccato le tette all’amica
di sua sorella» ma chissà perché, mentre questa prodezza ve-
niva raccontata, a me sembrava di scorgere una serie di sorrisi
repressi e maliziosi sulle labbra.

«E ci uè fa? Iè nu masque!». Che ci vuoi fare? È un maschio!

44

Era questo, sempre, il solito commento, la constatazione
conclusiva.

Che ci vuoi fare? È un maschio!
Era questa, sempre, la formula magica, la sentenza di as-
soluzione.
«Mamma, Saverio mi ha dato uno schiaffo!».
«E tu perché vai a giocare con i maschi?».
«Zia, Marco mi ha strappato il quaderno di scuola!».
«Lascialo perdere! Vieni, bella di zia, aiutami a sgranare i
fagioli invece».
«Nonna, Luigi mi ha alzato la gonna per dispetto!».
«E tu non stare vicino a lui!».
Che ci vuoi fare? È un maschio! Come se essere maschi
fosse una giustificazione, un deterrente.
Eravamo, maschi e femmine del quartiere Libertà degli
anni Settanta, due mondi a parte. Nella scuola elementare
“San Giovanni Bosco” c’erano le classi dei maschi e le classi
delle femmine. I grembiuli neri per i maschi e i grembiuli
bianchi per le femmine. Accanto alla chiesa del Redentore
c’erano l’oratorio dei maschi da una parte e l’oratorio delle
femmine dall’altra. E poi i giochi dei maschi. E i giochi delle
femmine. Palla prigioniera e calcetto. I libri per i maschi e i
libri per le femmine. I film per i maschi e i film per le fem-
mine. Il professore di educazione fisica per i maschi e la pro-
fessoressa di educazione fisica per le femmine. Il professore di
applicazioni tecniche per i maschi e la professoressa di appli-
cazioni tecniche per le femmine.
Eravamo, maschi e femmine della mia famiglia, due pia-
neti sconosciuti l’uno all’altro. Che mai si incontravano, mai
interagivano, mai condividevano. Che da bambini avevano
contatti solo per deridersi, o per litigare, per prendersi in gi-

45

ro, per scontrarsi. Che da adolescenti non sapevano niente gli
uni degli altri, se non per le storie piccanti raccontate tra le
ragazze, se non per le immagini di qualche giornale porno
che circolava tra i ragazzi.

Eravamo, maschi e femmine, due specie che si scrutavano
a debita distanza.

«È finito il gesso» disse un giorno la mia maestra, dopo
avere cercato sul ripiano della lavagna, sotto il cassino, dentro
i cassetti della cattedra. E poi, rivolgendosi a me, chiese:

«Anna, va’ per favore nella classe del maestro Ennio a
chiedere un pezzetto di gesso».

E a me venne un tuffo al cuore, perché la classe del mae-
stro Ennio era una classe di maschi. Mi alzai dal banco come
una condannata a morte, mentre le mie compagne ridacchia-
vano tra loro, perché quella sfortuna era capitata proprio a
me. Uscii dall’aula e a passi riluttanti mi diressi verso la classe
del maestro Ennio. Indugiai un bel po’ davanti alla porta
chiusa. Udivo la voce potente del maestro che ordinava a
qualcuno di sedersi, un brusio forte, il maestro che batteva la
mano sulla cattedra e intimava di fare silenzio. Deglutii. Do-
vetti bussare più di una volta per farmi sentire.

«Avanti!». La voce del maestro, all’interno dell’aula, mi
sembrò quasi alterata. Aprii la porta e sussurrai:

«Buongiorno» rimanendo rigorosamente sulla soglia. Gli
occhi bassi. Nell’aula calò un silenzio surreale.

«Entra entra» mi invitò il maestro, facendomi cenno con
la mano.

Azzardai tre passi timorosi verso la cattedra. Avevo circa
trenta paia di occhi puntati addosso. Mi sentivo ridicola nel
mio grembiule bianco latte, in un mare di grembiuli neri. Ridi-
cola nella mia gonnellina a pieghe, che lasciava scoperte le gi-

46

nocchia scorticate. Ridicola nei miei calzettoni di cotone trafo-
rati e coi risvolti di merletto, acquistati alla merceria Filmoda di
via Manzoni. Ridicola nelle mie scarpe di vernice, lucide e nere.

«Ha detto la maestra se potete darmi un pezzetto di gesso,
ché lo abbiamo finito».

Non osavo sollevare gli occhi dalle mani del maestro En-
nio, che frugavano all’interno del cassetto, sotto la cattedra.
Avvertivo gli sguardi dell’intera classe pesarmi addosso, scru-
tarmi, dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa. Il maestro En-
nio continuò a rovistare nel cassetto per un tempo che mi
parve interminabile. E per un tempo che mi parve intermi-
nabile, continuai a essere scandagliata, in ogni minino detta-
glio, da trenta paia di occhi acuminati. Perché avevo quei ri-
dicoli codini a fiori sulla testa? Perché?

«Ecco! Tieni» disse finalmente il maestro, porgendomi
due gessetti nuovi.

Rientrai nella mia classe con le guance ancora in fiamme.
Avere un fratello non mi era certo di aiuto, in questo senso.
Saverio era come un estraneo che abitava nella mia stessa casa.
Continuava a farsi vivo soltanto per mangiare e poi spariva.
Rientrava quando già dormivo. Anche Enza vedevo poco, or-
mai. Lavorava mattina e sera alla merceria. Ogni domenica,
però, andavamo tutti a pranzo a casa di nonna. Venivano an-
che Enza e Gino. Guardavo mia sorella e pensavo a quanto mi
mancassero le sue storie, raccontate la sera, sotto le coperte. Gi-
no le sussurrava qualcosa all’orecchio e ridevano insieme, come
due vecchi complici. Ed io non potevo non invidiare quel ra-
gazzo che mi aveva privato di mia sorella, delle sue gambe lun-
ghe stese accanto alle mie, dell’odore familiare dei suoi capelli
sparsi sul cuscino, del ritmo del suo respiro sereno, quando si
addormentava prima di me.

47

Fammi venire a stare con te! – pensavo fissandola, quasi a
voler imprimere nella sua mente un comando telepatico –
Fammi venire a stare con te, Enza, perché io la notte sogno
la testa insanguinata di Rosaria Lopez e la mano di Donatella
Colasanti, che vuole acciuffarmi per il braccio e tirarmi al-
l’interno della 127 bianca. Fammi venire a stare con te, per-
ché io ho paura di tutti gli Angelo Izzo del mondo e se tu
stessi accanto a me, quando spengo la luce, io non sentirei la
sua risata isterica, e quelle urla agghiaccianti, e quel lamento
continuo e disperato. Fammi venire a stare con te, ti prego,
e non guarderò più le foto di Pasolini, riverso sulla sabbia di
Ostia, con la faccia maciullata. Li butto tutti quanti i fogli di
giornale che sono dentro l’armadio! Li prendo e li butto, En-
za. Te lo giuro. Ma tu fammi venire a stare con te, perché io
mi sveglio di soprassalto e sento il cuore scoppiarmi nel pet-
to. Per un attimo penso che tu sia ancora lì, nella stanza, e ho
l’istinto di alzarmi e venire nel tuo letto, ma poi mi rendo
conto che invece tu non ci sei, sei accanto a Gino, nella casa
di via Manzoni. Sei stretta a lui, mentre il tuo vecchio letto è
vuoto, e io non posso rifugiarmi tra le tue braccia e così non
riesco più ad addormentarmi. E allora, ti scongiuro Enza,
fammi venire a stare con te! Fammi venire a stare con te!

E in effetti Enza, all’improvviso, smetteva di scherzare
con Gino e mi guardava, con i suoi begli occhi nocciola, ma
soltanto per dirmi:

«E a scuola, Anna, come va?».
«Bene» rispondevo delusa.
La scuola. Per fortuna c’era la scuola, e il sussidiario con la
storia degli Etruschi e dei Greci e dei Romani, e i quaderni nuo-
vi, comprati alla cartoleria del tedesco, e l’odore rassicurante dei
colori a spirito. Per fortuna c’erano la campanella della mattina,

48

e i rami di pino che si vedevano dai vetri del “San Giovanni Bo-
sco”, e l’odore delle foglie di tabacco della vicina Manifattura.

«Brava Anna. Mettiti a studiare. Sei brava tu. Cosa vuoi
fare da grande?» mi chiese Enza.

«Non lo so» risposi imbronciata, «forse il medico».
«Il medico?», intervenne Gino ridendo, «Sind’a me: sposa-
telo un medico, invece!».
Risero tutti, tranne nonna.
«E perché? Ti facèss schifo se diventa nu medico?».
«Io spero che Enza un giorno non deve lavorare più. Spe-
ro che rimane a casa, a crescere i nostri figli» spiegò Gino.
Guardò Enza, e lei gli sorrise. Complici, come al solito.
«Pure mio padre voleva così» ribatté nonna «ma mamma
era na capa tosta e a fatigà scì u stess. E facì bbun, prcè papà
mrì.3 Quarant’anni ha lavorato alla Manifattura dei tabacchi.
E ha cresciuto da sola sette figli».
Fece prima il quattro con le dita di una mano e poi il sette con
tutte e due le mani, solcate, sui dorsi, da grosse vene azzurrine.
Quindi si alzò da tavola e iniziò a raccogliere i piatti vuoti.
Gino non rispose. E io guardai nonna con gratitudine.

***

L’ultimo giorno di scuola della quinta elementare doveva-
mo presentare, davanti a tutta la classe, la relazione di un li-
bro che la maestra ci aveva assegnato un paio di mesi prima.
I libri erano diversi, da leggere a gruppetti di due, massimo
tre alunne. Il libro che mi era toccato era il Diario di Anna
Frank. Come compagna di studio, scelta dalla maestra, mi

3. Ma mia madre era testarda e a lavorare ci andò lo stesso. E fece
bene, perché papà morì.

49


Click to View FlipBook Version