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La storia di Olivia è incompleta. Trascorre parte della sua vita con la valigia in mano, sempre pronta all’avventura fuori casa, cosciente di spargere briciole di egoismo verso chi le vuole bene a causa di quei viaggi così leggeri e repentini da assomigliare a fughe non dichiarate. Perché Olivia è piena di domande e impaziente di ricevere risposte, ma non accetta l’idea di chiedere. E quando un giorno si ritrova distesa sul pavimento di una stanza d’ospedale, ignara di cosa le sia successo, né quanto tempo sia trascorso, il desiderio di poter essere ascoltata prende forma attraverso i ricordi d’infanzia. Questi ricordi sono l’unica cosa che le rimane durante la sua impasse, l’unica cosa che le fa compagnia oltre al girasole sul comodino accanto al suo corpo addormentato. La sua voce sarà abbastanza forte da scuotere e svegliare quella debole figura che continua a dormire lì accanto a lei o dovrà convivere con il bip del suo cuore segnato sullo schermo di un monitor?

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Published by redazione, 2024-06-11 07:23:14

Tra girasoli e papaveri, Cristina Belluzzo

La storia di Olivia è incompleta. Trascorre parte della sua vita con la valigia in mano, sempre pronta all’avventura fuori casa, cosciente di spargere briciole di egoismo verso chi le vuole bene a causa di quei viaggi così leggeri e repentini da assomigliare a fughe non dichiarate. Perché Olivia è piena di domande e impaziente di ricevere risposte, ma non accetta l’idea di chiedere. E quando un giorno si ritrova distesa sul pavimento di una stanza d’ospedale, ignara di cosa le sia successo, né quanto tempo sia trascorso, il desiderio di poter essere ascoltata prende forma attraverso i ricordi d’infanzia. Questi ricordi sono l’unica cosa che le rimane durante la sua impasse, l’unica cosa che le fa compagnia oltre al girasole sul comodino accanto al suo corpo addormentato. La sua voce sarà abbastanza forte da scuotere e svegliare quella debole figura che continua a dormire lì accanto a lei o dovrà convivere con il bip del suo cuore segnato sullo schermo di un monitor?

In uscita il 28/6/2024 (15,70euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2024 (4,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


CRISTINA BELLUZZO TRA GIRASOLI E PAPAVERI ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ TRA GIRASOLI E PAPAVERI Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-670-4 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2024


Dedico a te questo libro, perché l’hai reso possibile.


L’Amicizia è un po' come un libro: ci sono amici solo per una pagina, altri per un intero capitolo. E poi ci sono quelli presenti per tutta la storia. Anonimo “Nella mia spiccata fantasia, avevo immaginato che se mai fossi finita in coma, ci sarebbe stato qualcuno con me. Qualcuno che mi avrebbe tenuto compagnia, così da ingannare il tempo, finché non mi fossi risvegliata.” Olivia


9 PROLOGO Non ricordo bene quale fosse l’occasione per cui mi venne regalato quel libro. Ricordo solo la punta di amarezza che mi punzecchiò la lingua quando ne lessi il titolo. Manuela mi aveva assicurato che un giorno mi sarebbe servito; avevo sfogliato le pagine fingendo puro interesse, inarcando sopraccigli, aggiungendo qualche «oh» per enfatizzare il tutto, ma in realtà stavo già immaginando in quale angolo della mia libreria avrei deposto quella scelta bizzarra. Non mi sarei nemmeno presa la briga di numerarlo: sarebbe stato il centosei esimo libro letto da quando avevo quattordici anni. Mio padre aveva roteato gli occhi, scuotendo la testa in totale disapprovazione. Il colore giallo della copertina mi fece pensare alla gelosia. Sapevo di sbagliarmi perché la gelosia era difficile da collegare alla morte. Chissà cosa spinse Manuela a scegliere proprio il libro “La morte e il morire” di Elisabeth Kübler Ross, da regalare alla nipote prediletta. Mi aveva pizzicato le guance con le dita fredde dicendomi di non prenderla a male. «Un giorno ti sarà utile» disse. Lo strinsi al petto e feci uno dei miei sorrisi migliori, di quelli che conquistano e ispirano fiducia. «Grazie zia! Non vedo l’ora di iniziarlo». Dietro al vaso di Murano, quello acquistato a Venezia durante le vacanze di Natale, lì potrei nascondere il libro. Nessuno se la prenderà, mia zia dimentica con estrema facilità i regali che fa, e papà sarà felice che sua figlia non legga qualcosa riguardo i sette stadi del dolore.


1 - OLIVIA Primavera 2019 Mi sento come se avessi dormito troppo. Quella strana sensazione di paralisi. Mi accorgo di essere a terra, su di un pavimento che lì per lì non riconosco, mi faccio forza sulle braccia e mi alzo in piedi. Colgo un suono, un bip a intermittenza. Uno schermo nero con delle linee colorate che vanno a ritmo di quella vibrazione; ci sono dei numeri e il disegno di un cuore. La finestra che mi sta di fronte ha le tende legate agli angoli, di un bianco che grida pietà. Non sono sicura che ci sia il sole, il mio cervello non riesce a scollegarsi da quel monitor che ricorda una televisione. So di averlo visto nei film, ma nella realtà mai. Credo. Mi guardo i piedi e sono scalza. Strano. Nemmeno a casa gironzolo senza ciabatte. Riguardo il monitor e comincio a innervosirmi. Cosa stavo facendo prima di svegliarmi qui? Stavo… stavo partendo. Ero in aeroporto. O alla stazione dei treni. Oddio… È tutto così confuso, sprazzi di persone attorno a me che trascinano valige e borsoni, ma non riesco a focalizzarmi mentre trascino la mia di valigia, quella nera, regalatami per i venti anni. Mio padre soffre quando annuncio che sto progettando un viaggio. Due settimane a Barcellona. Due a Istanbul. Un weekend veloce in Toscana. E poi la settimana bianca dopo Natale. Il Messico lo aveva spiazzato. Non si abitua mai al mio andare e venire. Però, ciò non lo blocca dal fornirmi valige di ottima qualità. Quella nera è la mia preferita, la uso per viaggi medio brevi. Dove ero diretta? Il biglietto è rimborsabile? Non ricordo. Credo che mi stia venendo un forte mal di testa, le tempie pulsano, pulsano da farmi male. Ci premo due dita e mi volto verso la porta.


Bianca, chiusa. Dei quadri appesi da entrambi i lati e un letto lì vicino. Vedo una sagoma sotto le lenzuola, dei tubi sottili e trasparenti che fuoriesco da sotto, legati a delle sacche trasparenti agganciate a un’asta. Il mio livello di irritazione ha superato il limite di tolleranza. Cerco di fare piano, in punta di piedi mi avvicino alla porta; oltre, sento un vociferare pacato. Il bip della macchina continua a deconcentrarmi. Poi avverto un bip più forte. L’ho vista la linea aumentare di frequenza. Si sta svegliando? Speriamo che non si metta a urlare. Non sopporto di ritrovarmi in situazioni imbarazzanti. Mi aggrappo a questo pensiero e afferro la maniglia della porta. Sono sicura di aver cacciato un urlo. Di quelli che ti fanno sobbalzare sul posto. Indietreggio per lo spavento, le piastrelle fredde sotto i palmi dei piedi, poi scatto in avanti con decisione per agguantare la maniglia. Niente. Le mie dite oltrepassano la sfera, come se fosse fatta d’aria e non di consistenza solida e artificiale. La mia mano scompare le volte in cui provo a toccarla. Il suono di quel battito sul macchinario mi manda su di giri. Maledizione! La stanza non si muove, mi aspetto che lo faccia, che entri in circolo un attacco di panico o qualcosa del genere, un abbassamento della pressione così feroce da farmi perdere i sensi. Dovrei svenire. Vorrei svenire. Aspetto che accada. Guardo le linee sullo schermo in attesa di vederle sbiadire. La porta si apre di colpo. Un’infermiera entra. Vestita di bianco, pantaloni e casacca di un tessuto poco pregiato, ciabatte grosse che fanno sembrare ogni suo passo una tortura. Ha in mano una di quelle sacche trasparenti. «Oh, grazie al cielo! Mi scusi infermiera … c’è un malinteso. Mi hanno fatto uno scherzo di cattivo gusto». Mi mostro sconvolta, alla ricerca di un contatto fisico con la donna, ma sono aria per lei.


Capisco che non mi ha sentito. Che non mi vede. Sventolo le mani davanti a lei mentre cambia la sacca della flebo. Alzo la voce mentre sistema il lenzuolo del paziente. Mi avvicino al letto, esattamente dalla parte opposta e la imploro di guardarmi. Il suo sguardo si ferma. Ma non su di me. Sulla persona distesa fra noi. I gesti sono dolci e affettuosi. Sistema una ciocca di capelli dalla fronte e accarezza una guancia. «Non mollare, hai capito? Persisti. Sei una combattete». Il suo nome è Dora. È scritto in nero su uno sfondo bianco, un cartellino appeso al taschino della giacca. Ho letto il suo nome prima di guardare il volto della persona a cui ha rivolto parole di incoraggiamento. Dora esce dalla stanza mentre io mi sento mancare. Vorrei fermarla e chiederle aiuto. Ma sarebbe inutile. La mia mente ancora funziona, ciò significa che non sono matta. Questo è importante. Se la mente non ha smesso di funzionare allora ci sono ottime speranze che questo sia soltanto un brutto sogno. Non può essere reale. Respiro a fondo, ascolto il bip della macchina e capisco che è il mio il cuore che continua a battere.


2. Non credo di avere una vera esigenza fisica, credo che sia più una questione di abitudine. Un modo per calmare i nervi e fare il punto della situazione. Mi sono accovacciata sotto alla finestra, spalle e schiena incurvate verso le ginocchia che stringo fra le braccia, guardo verso la ragazza distesa a letto e mi concentro a contare. Conto per dare un ritmo al mio respiro. Chiudo gli occhi e penso che presto tutto finirà. I sogni prima o poi finiscono. Ne ho fatti di peggiori, i classici ma mai intramontabili: essere nuda di fronte a un pubblico, oppure cercare con tutte le forze di correre senza riuscirci. Altri invece erano un miscuglio di ambienti che si interscambiavano fra loro, probabilmente dovuti ai miei viaggi continui. Questa però mi mancava. L’esperienza extracorporea non mi aveva mai sfiorata. Perciò immagino che la durata di questa avventura stia per concludersi. Basterà rimanere al proprio posto, calma e sicura che presto mi sveglierò. Nella mia camera, circondata dalle mie cose e non in questa grande stanza, ma piccola da farmi soffocare. Devo fare qualcosa, devo tenermi occupata. Di alzarmi però non se ne parla. Ho visto abbastanza per quanto mi riguarda. Mi osservo le mani, le dita affusolate e le unghie laccate di rosso scuro. Ricordo che Jenny mi aveva consigliato un color carne. Io avevo accennato uno sbuffo e senza darle retta avevo rovistato dentro l’astuccio degli smalti, cercando proprio questo rosso. Volevo renderle più adulte. Le dissi che le mani sono un ottimo biglietto da visita. Le donne notano lo smalto per capire se l’altra ci tiene alla cura dei dettagli; gli uomini a quanto è sicura di sé.


Per Jenny l’eccessiva attenzione ai particolari equivaleva a insicurezza. Voler apparire era un ottimo modo per nascondersi al mondo. Diciamo che l’essere ignorata a lungo aveva reso Jenny più cinica e scettica di una persona normale. Siamo cresciute assieme, la mia amichetta del cuore e io. Come due antipodi che si attraggono, diversissime ma che si incastrano alla perfezione. Non ci sono segreti fra noi. Uno, perché non riusciamo a mentirci. Due, perché ci siamo promesse di non farlo mai. Il famoso patto di sangue, in terza media, non più bambine, ma nemmeno ragazze adulte. Ci eravamo chiuse in bagno, pioveva forte contro le vetrate, avevamo usato uno spillo da balia. Prima io, perché sono la più coraggiosa. Poi ci siamo strette la mano e abbiamo fatto il giuramento. Certo, ho altre amiche su cui fare affidamento, ma lei è Jenny. Capellona come poche, tutta riccia e scura di pelle, come se fosse abbronzata tutto l’anno. I suoi occhi verdi spiccano, grandi e delineati. In certi momenti la sua bellezza la invidiavo. Quando coglievo lo sguardo dei ragazzi esitare su di lei, invece che su di me. La sua versione bianchiccia, sbiadita dal tempo, come scherzosamente mi definivo. Forse per questo che ho imparato a usare la voce. A usare la testa. Adesso non riesco neppure a rimanere concentrata a lungo senza che quel fastidioso bip mi faccia spazientire. Quello, e la ragazza sdraiata a letto. Mi dà sui nervi la sua immobilità, bella e pacifica senza preoccuparsi di me. Combattente un corno. Se lo fosse davvero io ora non sarei qui. Lascia che siano delle macchine a respirare per lei, lascia che sia la flebo a mantenere il suo corpo idratato. Mi alzo in piedi, cammino avanti e indietro accanto alla finestra. Il sole è assente. Vorrei appoggiare la fronte sul vetro ma temo su ciò che potrebbe succedere. Lo oltrepasserei completamente finendo dalla altra parte? Volerei giù? E poi? Un bip dalla macchina. Lo guardo e non sembra significare nulla di importante.


Da quanto tempo sono qui? Non ci avevo pensato. Ma come potrei capirlo se non ricordo neppure l’ultima cosa che ho fatto. Premo nuovamente i polpastrelli sulle tempie, socchiudo gli occhi, faccio dei gesti circolari per impedire che l’emicrania ritorni. Ma è davvero un’emicrania? Ascolto i miei respiri, mi concentro sulla porta, pregando con tutte le mie forze che qualcuno la apra. Non voglio guardarla nella sua impasse.


3. Il tempo ha un flusso completamente diverso quando si desidera ardentemente che trascorra. Mi sono addormentata senza che me ne rendessi conto. L’ho capito dal cambio di luce nella stanza. Fuori è buio e qui il neon della camera è acceso. Capisco che qualcuno è entrato ed ha premuto l’interruttore e io non me ne sono accorta. Dormivo. Come se quello che sono diventata potesse avere un reale bisogno di riposare. Eppure è successo. Ho staccato la spina e mi sono fatta un sonnellino. Noto dei fiori sul comodino che prima non c’erano. Dei girasoli. Qualcuno è venuto a trovarmi, allora? Sanno che sono qui? Certo che sì. Non posso essere una di quelle sconosciute che vengono soprannominate Jane. Porto sempre dei documenti con me, qualsiasi cosa mi sia successa, l’identificazione non è stata un problema. Mi viene da piangere. Tiro su col naso perché non voglio che accada. Penso che potrebbe rovinarsi il trucco. Dalla gola mi scivola un singhiozzo, perché il trucco dovrebbe essere l’ultimo dei miei problemi. Jenny me lo avrebbe già fatto notare. Ho sognato di essere in viaggio. Seduta accanto al finestrino dell’aereo, osservavo il panorama e pensavo a Thomas. Riflettevo su come ci eravamo salutati, sulla voglia di piangere che avevo soffocato quando mi disse che se ne sarebbe andato. Stavamo bevendo una tazza di tè, seduti sulle sedie di legno sotto al portico, quando Thomas esordì. «Me ne vado, Liv. Sono stanco di vivere qui, arrancando, nell’attesa di trovare qualcosa che mi stimoli sul serio». Si scompigliò i capelli neri, arruffandoseli per darsi un tono drammatico. Strinsi la tazza con fermezza, ma non feci scappare nemmeno una smorfia.


«Te l’ho già sentita dire questa. Sai com’è finita? Con te che ritornavi con la coda di paglia tra le gambe». Ripescò il ricordo di quella avventura e la scaccio via. Se non fosse per le lacrime e il fatto che avesse avuto quindici anni l’aneddoto sarebbe stato ancora divertente. Thomas si alzò dalla sedia e con un piccolo salto di accomodò sul muretto di fronte. Le gambe secche, un tempo tozze e piccole, penzolavano leggere. Guardai Thomas e scossi la testa. «Il diritto di svignartela ce l’hai solo tu?» replicò incrociando le braccia al petto. «Io viaggio tesoro, non me la svigno». «Certo, come no. Chiamala pure come vuoi, ma quando c’è un problema tu prendi il primo mezzo disponibile e te la fili». «Ho perso il conto delle volte in cui ti ho chiesto di venire assieme a me, e tu mi hai sempre dato buca». «Balle». Thomas aveva gli occhi neri, intensi e profondi come un enorme buco nero. Da bambini il nostro gioco preferito era nascondino. Lui contava, io mi nascondevo. Era grassoccio, lento nei movimenti e se qualcuno mi avesse detto che crescendo la sua statura sarebbe cambiata drasticamente, giuro, non ci avrei creduto. Invece l’adolescenza gli era stata fondamentale. Non rotola più quando corre, né ha il fiatone dopo una rampa di scale. Si è slanciato, fisico asciutto con larghe spalle. Va in palestra per definire la muscolatura alle braccia. In estate le magliette sembrano sempre troppo piccole. «E mi lasceresti qui da sola?» domandai nascondendo le labbra dietro la tazza di tè. Leggero e svelto, scivolò dal muretto, si appoggiò ai braccioli della sedia e si chinò su di me. «Non lo farei mai». Invece lo fece. Sapevo cosa si aspettava che facessi. Mi ero imposta di non farlo.


Quel maledetto giorno, avrebbe voluto che lo fermassi, che gli dicessi tra le lacrime di non partire, di non salire su quel treno, oppure di non prenderlo senza di me. Invece ero rimasta in piedi, di fronte a lui, seria, senza dire una parola. Ci guardammo per non so quanti minuti prima che Thomas prendesse la valigia e se ne andasse. Nel suo sguardo avevo colto la scintilla di delusione che si era accesa non appena capì che non avrei fatto ciò che si augurava. Fu difficile non vacillare. Mentre il treno cominciava ad allontanarsi, avevo ripensato a quel pomeriggio d’inverno, quando con la neve ci eravamo messi a giocare al parco. I suoi guanti li aveva dati a me, benché fosse lui quello che si stava prodigando a formare un enorme pupazzo di neve. Io battevo i denti e stringevo le braccia al petto. Thomas faceva rotolare la neve, le mani congelate, i capelli spruzzati di bianco. Ridevamo insieme, augurandoci che la nevicata continuasse. I suoi occhi sono sempre stati un vanto per me. Perché nel corso degli anni non aveva mai guardato nessuna come guardava me. L’avevo visto perdere la testa per molte ragazze, arrossire per avance inaspettate e vincere l’imbarazzo delle prime volte. Ero stata la sua unica confidente, l’amica che mai aveva tradito una sua confidenza. Gli avevo consigliato i ristoranti migliori, fantasticando a voce alta sulle fantasie di noi ragazze perché sapesse come comportarsi. Alla fine le conquistava tutte. Poi le lasciava. Annoiato da non si sa cosa. Era diventata una routine. Io lo aspettavo sotto al portico di casa, seduta con la tazza di tè in mano, mentre lui si apprestava a raggiungermi, nella sua camminata elegante, silenziosa e ovattata, per poi ammiccare a una alzata di spalla. Io sorridevo a labbra strette e gli passavo la sua tazza. Ho notato che sui girasoli c’è un biglietto. Faccio la prova con le dita ma non succede nulla. Come con la maniglia della porta, oltrepasso la carta come se fossi aria. Non rimango troppo a lungo accanto al letto


perché non vorrei rischiare di guardarmi. Temo per quello che potrei scoprire se solo mi soffermassi di più sul mio volto. Il cuore continua a battere, ma non si sveglia. Cosa mi è successo?


4. Credo che sia trascorso un altro giorno. A volte mi perdo nei sogni, scoprendo al mio risveglio dettagli nuovi nella stanza. Mi hanno cambiato la fasciatura alla testa, le braccia sono sopra il lenzuolo, appoggiate inermi lungo i fianchi. Le flebo attaccate agli avambracci mi provocano un senso di nausea. Immagino il momento in cui mi abbiano pizzicato la pelle e inserito l’ago, se fossi stata cosciente avrei fatto mille scenate. Le farei anche adesso se servissero a qualcosa. Niente sole questa mattina, solo nuvole grigiastre che si muovono accompagnate dal vento; non minacciano pioggia ma non credo che se ne andranno tanto presto. Ho riprovato a toccare la maniglia, mi concentro, corrugo la fronte come se lo sforzo potesse essere ricompensato. Vorrei dire che sento scendere le goccioline di sudore per la tensione, ma so che non è vero. È il ricordo di quello che sapevo fare a giocarmi brutti scherzi. Vorrei poter dare un’occhiata fuori da questa stanza. Dare un volto alle voci che sento di tanto in tanto. Credo che ci siano anche dei bambini. Vorrei che spalancassero la porta alla ricerca di un posto tranquillo dove nascondersi. Nell’angolo accanto alla porta c’è una sedia, lì mi siedo rannicchiando le gambe contro al petto, e fisso l’andamento del cuore. «Ti prego svegliati. Fammi uscire da questo posto» dico, nella speranza che possa sentirmi. Comincio a sospettare il peggio. Potrei essere in chissà quale altra parte del mondo, i miei documenti smarriti, riducendomi così a una perfetta sconosciuta. Se solo la mia memoria non fosse un buco nero. Mi sforzo di ricordare i momenti antecedenti a questo ricovero ma rimango nella totale ignoranza. Penso ai treni, e la sensazione di essere nella direzione giusta si accende, ma rimane tutto lì, solo una sensazione.


Dell’incidente non mi torna in mente nulla. Temo di essermi cacciata in una brutta situazione. Nessuno entra da quella porta e io non posso uscire. Il giochetto di attraversare i muri non funziona. Credo. Oppure non ne sono capace, perché quando ci ho provato non sono finita dalla parte opposta, ma sono rimasta nel mezzo della parete. Vorrei tentare quando la porta è aperta, ma le volte in cui avrei potuto ero bella che addormentata. Quando accade non me ne rendo conto. Un momento e sono lì, a guardare il cuore che pulsa e la mia testa fasciata, il momento dopo sono dentro ai miei ricordi tramutati in sogni. Mi sono rivista mentre correvo con la bicicletta. Avrò avuto sette, otto anni. I capelli lunghi raccolti in una coda. Estate. Per tutto il pomeriggio ero rimasta chiusa in casa perché fuori pioveva. Il tipico temporale estivo. Il vento scompigliava il cielo, l’acqua sbatteva contro l’asfalto della strada con insistenza. Rimanevo affacciata alla finestra della camera, il naso schiacciato contro il vetro, seguivo lo scorrere della pioggia tra i gradini del giardino. Veloce e senza ostacoli, ogni cosa veniva pulita e spazzata via. Poi fiacco e scocciato, il vento se ne andava, le nuvole sgonfiate si diradavano e come se non fosse successo niente, il sole riprendeva il suo posto. Fiero e luminoso ridava un nuovo colore, nuova vita a tutto. Era allora che scappavo fuori, con la mia bici a correre per la strada. Veloce sopra le pozzanghere, alzavo le gambe e mi ci fiondavo dentro. Adoravo l’odore dell’aria. L’odore dell’estate bagnata. Mi mancano quei momenti. Il mio essere bambina. Eppure so per certa che persino a quella età, già sapevo che da grande ne avrei serbato il ricordo con estrema dolcezza, gustandone anche la punta di amarezza che immancabilmente mi sarei portata dietro. Nel sogno mio padre era seduta sotto al portico, leggeva un libro, alzando lo sguardo di tanto in tanto per controllarmi. «Papà guardami!» urlavo. Volevo che vedesse quanto veloce fossi. Quelli erano i miei momenti perfetti.


C’è ne sarebbero stati altri nel corso della mia vita, ma mai nessuno di essi sarebbe stato intenso e vero come quello di allora. Di me che correvo spensierata sulla bicicletta dopo un temporale. *** Mi guardo su quel letto, prigioniera due volte, incapace di avvicinarmi più di quanto non faccia, per paura di ciò che potrei vedere. Dove sono tutti? Non sono abituata a stare da sola. Non così. Non a lungo. Dunque è questo quello che accade realmente quando si è in coma? Si sta accanto al proprio corpo per tutto il tempo senza avere la possibilità di allontanarsi? Nessun giretto turistico in paradiso o altro? Nessun incontro angelico? Nella mia spiccata fantasia, avevo immaginato che se mai fossi finita in coma, ci sarebbe stato qualcuno con me. Qualcuno che mi avrebbe tenuto compagnia, così da ingannare il tempo, finché non mi fossi risvegliata.


5. Un bambino ha aperto la porta. Piano. Molto piano. Ho visto la testolina sbucare dentro, la curiosità negli occhi, stringe sotto il braccio una giraffa. Lascia la presa dalla maniglia e fa qualche passo verso il letto. Mi alzo piano dalla sedia, spostandomi con lentezza, quasi temessi che i miei movimenti possano spaventarlo. «Ciao» dico. Lui gira attorno al letto, concentrato, socchiude gli occhi, si avvicina alla mia pallida mano, quella con un tubicino infilato nella vena, e con la zampa della giraffa me la sfiora. Mi aspetto di sentirne il tocco, invece nulla. «Nicolai! Via di lì!» Riconosco Dora. «Quante volte te lo devo ripetere?». Il bambino, Nicolai, nasconde il sorriso furfante dietro la giraffa. «Questo non è il luogo adatto per giocare a nascondino». «Ma l’ultima volta mi hanno trovato subito». Si lagna, imbronciando il labbro. Dora lo prende in braccio, spostandogli la ciocca di capelli e gli sistema il pigiama. «Olivia si deve riposare, non puoi entrare qui e disturbarla, lo sai». Ha detto il mio nome, quindi sanno chi sono. «Quando si sveglia? Dorme da giorni ormai». «Bisogna avere pazienza Nicolai, tanta pazienza. Adesso vieni, ti riporto dai tuoi amichetti». Escono dalla stanza chiudendosi la porta alle proprie spalle, mentre io non smetto di ripetermi che sanno il mio nome. Sono in estasi per una sciocchezza, ma l’idea di non dovermi più considerare una Jane sconosciuta mi fa respirare meglio. Anche i girasoli hanno assunto una colorazione più intensa di prima. Li guardo e penso che sia stato mio padre a portarmeli.


Devo cercare di non addormentarmi. Ho bisogno di vedere qualcuno di loro. Di ascoltare la loro voce. Il cuore continua a battere senza variazioni, eppure ho come l’impressione di avere un’altra frequenza dentro al petto. Appoggio la mano e non percepisco nulla, ciononostante mi sento accaldata, le guance arrossate come dopo una corsa. Se potessi specchiarmi so bene cosa vedrei, il mio pallore scomparso sotto il velo di calore, gli occhi che luccicano vivaci e la sensazione che il cuore si sia ingrandito dentro alla gola. Gironzolo per la stanza, in ansia. Se fossi in camera mia mi comporterei uguale. Un leone in trappola. Avanti e indietro. Le facce delle ragazze stampate sulle fotografie. Ricontrollerei i titoli di tutti i libri letti, sfiorando con l’indice le singole copertine. Le cartoline dei miei viaggi. I ricordi delle mie avventure, che Thomas si ostina a chiamare fughe. Istinto di sopravvivenza, rispondevo io. Ora mi domando se lui sa dove sono io. Se n’è andato da mesi. Non ho avuto più sue notizie. Si è innalzato un muro tra noi quel giorno. A ogni passo che faceva nell’allontanarsi, il mio orgoglio ne risentiva. Mi rincuora il fatto che nel momento in cui verrà a conoscenza di ciò che mi è accaduto, il senso di colpa lo faccia stare male. Sono cattiva, lo so, ma lui lo è stato di più. Ho guardato fuori dalla finestra per un paio d’ore. Le braccia incrociate al petto e l’aria severa in volto. Mi sento come una mamma nervosa che osserva i propri figli mentre giocano in cortile, pronta a scattare se cadono e si sporcano i pantaloni della tuta. Mio padre non mi perdeva di vista nemmeno per un momento. La sua presenza era qualcosa di palpabile, come se temesse che da un momento all’altro mi potessero portare via. Penso che sia una reazione dovuta all’abbandono di mamma. E se un giorno dovesse venirmi a cercare? Domandavo tra le sue braccia prima di addormentarmi. Non la farei nemmeno entrare. Rispondeva lui chiudendomi nel suo abbraccio.


Mi manca l’essere bambina. La preoccupazione di quale gioco fare per primo. La scelta della merenda, coda o codini, guardare un film della Disney o colorare direttamente l’album di Bambi. La decisione se correre in costume in giardino o rimediare calzoncini e canotta per non essere ripresa da papà. E la bellezza del gelato estivo, della piscina improvvisata con una bacinella, dei gavettoni lanciati, quella sensazione di spensieratezza che solo da ragazzine se ne poteva davvero assaporarne l’autenticità. Tutto era più vero, più protetto, più ricco di colori accesi. La vita era per me un girasole. I suoi enormi petali che spiccavano come raggi, lucenti fra cielo e terra, rivolti sempre verso il sole, verso la bellezza di ciò che illuminava le mie giornate. Mi mancano le serate estive. I grilli intenti nel loro canto, le costellazioni che riconoscevo a occhio nudo. Le volte in cui mi sedevo sulla poltrona in camera mia, proprio sotto alla finestra, con le ginocchia al petto e un quaderno su cui mi dilettavo in una scrittura bambinesca Scrivevo del mondo. Di tutto e di niente. Immaginavo di quando sarei stata adulta. Chiedevo a me stessa se mi sarei riconosciuta in seguito, se la donna diventata era quella che sognavo da bambina. Mi manca raccogliere i semi neri di quei fiori Belle di notte. Sono proprio le piccole cose a mancarmi. I dettagli della mia infanzia. Tutto ciò che facevo quotidianamente e che col trascorrere del tempo avevo lasciato andare senza accorgermene. Un’altra infermiera è passata a trovarmi. Molto seria, molto metodica nei movimenti. Mi ha dato l’impressione che non dormisse da giorni. Le ho chiesto se era tutto apposto, ma naturalmente non mi ha risposto. Ha segnato le frequenze del mio cuore sulla cartella appesa al mio letto, ha cambiato la soluzione salina e per un paio di minuti ha lasciato aperta la finestra. L’ho osservata nel mentre delle sue azioni ed ho temuto che sbagliasse la dose di ciò che mi ha iniettato nel


braccio. Ha sistemato le coperte, come se fossi stata in grado di spostarle, e se n’è andata. Mi sono accucciata nel mio angolo, sotto alla finestra, nascondendo la testa fra le gambe, chiedendomi quando tutto questo avrà fine. È estenuante non parlare con nessuno. Non essere ascoltata né vista. Prego che arrivi qualcuno. Il bip continua e quasi vorrei che la piantasse di suonare.


6. Ho sempre avuto la forte convinzione di essere una combattente. Di avere in mano le carte giuste per vincere. Mi sbagliavo. E di molto anche. Ora rivedo i monti che pensavo fossero importanti da scalare e mi accorgo che non lo erano. Ho scalato quelli sbagliati. Non mi sono mai realmente preparata a ciò che contasse davvero. Certo, potevo viaggiare con la fantasia e pormi il dubbio di cosa fare se mai un giorno mi fossi ritrovata incosciente in un ospedale; cosa fare se la mia anima sospesa non fosse stata in grado di oltrepassare le porte; ma vuoi mettere il bello di assistere alla propria morte senza aspettative? È accaduto così, un bip del cuore e poi una lunga linea piatta su quello schermo. Un campanello che fischia stridulo e la corsa veloce verso la sagoma sul letto. Guardo e non guardo. Distolgo la vista mentre tentano di rianimarmi. Un crollo che mai si sarebbero aspettati. Usano le piastre ad alto voltaggio, ci provano per poter dire di aver fatto il possibile. Una scarica. Due scariche. La terza è quella buona. Scuoto la testa, così leggera adesso, privata della preoccupazione di quando mi sarei svegliata. Spengono la macchina. Non ci sono più bip. Solo le parole del medico che lascia andare le piastre e si toglie il sudore dalla fronte con il palmo della mano. 18 aprile 2019 Ora del decesso 15:16.


7. Una volta, insieme a Jenny, avevo fantasticato su come sarebbe stato il mio funerale. «Secondo me non verrebbe nessuno». L’avevo esclamato mentre l’infuso di erbe diffondeva il suo aroma nella stanza. Jenny stava tentando di studiare, io puntavo lo sguardo sull’intonaco del soffitto. «Dai, proprio nessuno non credo. Io verrei». «Intendo dire che non si arriverebbe a riempire un’intera chiesa». «Non è detto». «Non ho così tanti parenti» replicai. «Nemmeno amici, in effetti». Jenny alzò lo sguardo su di me e ammiccò una smorfia. «Sempre così delicata» dissi. Jenny mi passò la tazza di tè. «Prendi, prima che si raffreddi troppo». Il calore si fece strada lungo la gola, finendo col riscaldarmi l’intera cassa toracica. «Stai per morire?» domandò Jenny. Il tè mi andò di traverso, inorridita. «Diamine, no». «Allora perché?» «Mi piace pensare che all’occorrenza tu sappia rispondere a ogni tipo di richiesta. Da come vorrei essere vestita al colore dei fiori». Jenny, tra le due, era sempre stata la più pratica; la tipica ragazza che sapeva risolvere fisicamente il problema, piuttosto che affidarsi alla teoria. Se mai fossi morta per prima, non avevo dubbi che a prendersi carico delle pratiche sarebbe stata lei. «Ah. Capito. Ma da qui ai tuoi novant’anni puoi sempre cambiare idea».


«Giusto. Ma se muoio giovane, ti prego, non farmi vestire da mio padre». «Te lo prometto». «Grazie!» «Ma tu prometti di non morire troppo giovane. Potrei annoiarmi senza di te». «E senza le mie argomentazioni frivole, immagino!» Ci guardammo e scoppiammo a ridere. La verità era che ero io quella che non riusciva a immaginare la mia vita senza di lei. Non riuscivo a vedermi mentre diventavo adulta senza la mia migliore amica. «E tanto per non sbagliare, quali fiori vorresti sulla tomba?» Non ero andata molto lontana sul fatto che non sarei riuscita a riempire una chiesa. Mi stupisce di più il fatto di intravedere volti sconosciuti confondersi tra chi soffre davvero la mia scomparsa. È forse diventato un nuovo passatempo quello di intrufolarsi ai funerali? Almeno hanno la decenza di prendere posto tra le ultime file. Guardo avanti, laddove i banchi sono gremiti di persone. La chiesa è così calda e accogliente che non sembra affatto in procinto di intrattenere un funerale. Scivolo fra la folla, prendendo la briga di non sfiorare nessuno, benché sappia quanto questo sia una delicatezza frivola. Sono morta, non posso più toccare nessuno. Il mio corpo è dentro quella bara sigillata. Lilium e rose color cipria ne aumentano la bellezza. Ho avuto ragione ad affidare le mie richieste a Jenny. Il profumo che credo di sentire è solo il frutto dei miei ricordi, del mio tornare viva per non dimenticare ciò che ormai ho perso. Mi rendo conto di non avere avuto abbastanza tempo per fare ciò che desideravo. L’organo suona le solite note, quelle immancabili che tutti associano alla morte. L’incenso viene sparso nell’aria, lo vedo bene come si divulga fra le persone.


Nessuno mi vede ma io sono lì, ai piedi del feretro a osservarli. Rinchiuso in un guscio a me ben familiare, trovo mio padre, seduto in prima fila, gli occhiali da sole incastonati nel suo volto rigido, invecchiato di colpo. Ha cinquantuno anni, ma potrei dargliene molti di più. Il naso è arrossato, lo saranno anche gli occhi, ma li nasconde dietro il nero delle lenti. Indossa un completo nero, sgualcito. I capelli sono pettinati in maniera pasticciata, ci ha provato ma al secondo tentativo ha mollato la presa. Ero io quella che gli regolava il taglio quando era il momento. Borbottava sempre, ma so che non si sarebbe mai lasciato tagliuzzare da mani differenti. Mi avvicino, piano piano, come se i miei movimenti potessero attirare l’attenzione, vedo la pelle raggrinzita, di un colore che tende troppo all’olivastro. Soffre. La mia perdita non sarà facile da gestire. Vorrei dirgli che sono lì, proprio accanto a lui, come sempre, da quando sono nata. Vorrei dirgli che non mi ha perso davvero, che le cose si sistemeranno, che non deve lasciarsi andare: il tempo per lui non è arrivato. Vorrei dirgli che gli voglio bene e che lo ringrazio per come mi ha cresciuta. La forza di farmi sia da padre che da madre non è qualcosa che poteva trovare impacchettato sotto l’albero di Natale. Ha scelto di farmi da genitore anche quando avrebbe potuto alzare le mani e abbandonarmi. L’avermi avuto giovane gli precluse la strada che stava percorrendo. C’erano stati dei momenti in cui avevo visto l’amarezza per qualcosa lasciato in sospeso, fare ombra nei suoi occhi, soprattutto quando si scontrava con la mia estrosità, con il mio cambiare idea troppo velocemente, senza concludere mai niente. Ma so che non mi ha mai considerato come un rimpianto e che anche in altre mille vite, avrebbe scelto sempre me. Fino a quel momento mi consideravo una brava persona e so che lo sarei stata anche in futuro, perché alla base del mio essere c’era lui. Invece non posso dirgli proprio niente. Posso solo fissarlo e sperare che avverta la mia presenza oltre al suo dolore.


Poco più in là ritrovo la mia amica Jenny. In passato avevo assistito alle sue crisi di pianto, alle scenate disperate di quando veniva liquidata dal ragazzo di turno. Ero certa di aver visto ogni suo lato più drammatico. Non era così. Jenny è un fascio di nervi spezzato. Come mio padre, indossa gli occhi da sole: tenta di nascondere un trucco ormai inesistente. Vedo le lacrime scorrerle lungo le guance e il fazzoletto di carta sporco di mascara. Tra i singhiozzi unanimi, i suoi sono i più sofferenti. Mi piange il cuore esserle a un passo di distanza e non poterla rincuorare. Mi dispiace terribilmente. Non ho mantenuto la promessa. Me ne sono andata troppo presto. Mi viene spontaneo allungare la mano e sfiorarne i lineamenti. «Ehi! Io non lo farei». Mi viene un colpo. Non credo che stiano parlando a me, eppure l’istinto rimane anche dopo morta, quindi a quell’ammonimento, mi blocco e cerco l’origine di quella voce. Una ragazza dai capelli castani, corti sopra le spalle, mi fissa scuotendo la testa. «Tu mi vedi?» Scioglie le braccia incrociate al petto. «Direi proprio di sì». Balbetto. Posso davvero farlo? Non si perdono i difetti una volta divenuta spirito? «Sei solo morta, tesoro, il tuo essere non muta». «Leggi nella mente?» Fa spallucce. «Qualcosa del genere». «Chi sei, scusa? Una sorta di angelo?» «Assolutamente no. Ti sembra che attaccata alla mia schiena ci siano un paio di ali?» Si volta appena per mostrarmi l’ovvietà. «Cosa sei allora? Una specie di spirito guida?» Sorride. Si diverte a vedermi confusa. Vorrei darle un’età ma c’è qualcosa di etereo in lei che me lo impedisce.


«Qualcosa del genere. Ma avremo modo di parlarne in seguito, adesso vieni, non possiamo rimanere». «Perché no?» domando, infastidita. Sbuffa come se fosse già stanca di ripetermi le cose. «Non so nemmeno di cosa sono morta, almeno lasciami assistere a questo». «Ti prometto che torneremo in tempo. Adesso muovi le gambe e seguimi». Mi prende la mano, mi sorprende il fatto di avvertirne il tocco, e mi attira verso il grande portone, verso la luce. L’ultima cosa che sento è l’organo e la musica del lutto. Un dubbio mi oltrepassa la mente, ormai alleggerita. Lui c’era in mezzo a tutti loro? «Come ti chiami?» «Ryana». «Nome insolito». «Celtico per l’esattezza». «Cosa significa?» «Piccola regina».


8 - RYANA BELTRAME Luglio 1986 Quando feci scivolare il foglio d’iscrizione per l’università dentro la buca delle lettere, le mani avevano cominciato a tremare come se già sapessero che qualcosa di inevitabile sarebbe accaduto. Avevo la bocca asciutta e i palmi sudaticci. Miriana mi diede un colpo fra le scapole a sorpresa, incitandomi a mollare la presa. Non ero mai stata propensa a dubitare delle mie decisioni, né a essere troppo riflessiva. Ci rimuginavo il giusto. A volte dominata dalla paura, a volte vittima dell’entusiasmo. «Speriamo tu non faccia così anche quando spedirai i tuoi libri». Il rumore della carta che giungeva sul fondo della cassetta fu come un colpo di grazia. Ecco, l’avevo fatto. «Non succederà». «Me lo auguro». Anche Miriana aveva scelto l’Università di Lingue e Letterature straniere. In verità era stata una scelta presa all’unisono, determinata da ciò che aspiravamo a diventare e condizionate dalla vita che avremmo voluto percorrere per i successivi tre anni. Miriana voleva diventare un’interprete. Viaggiare per il mondo alla scoperta di ciò che solo i libri le avevano permesso di conoscere, mentre io ero corteggiata dall’idea di diventare una scrittrice contemporanea. Il fascino della depressione antica riadattata in chiave moderna. Il progetto dunque, era diventare adulte in un mondo fatto di giovani incoscienti. «Sarà fantastico, vedrai!» Miriana saltellava sul posto, la lunga chioma ondeggiava sulla schiena abbronzata. Il suo colorito era motivo di invidia per me, per il non poter stare sotto il sole senza


diventare un crostaceo a tutti gli effetti. Al contrario di lei, la mia pelle era talmente bianca e delicata da ricordare quella di un neonato. «E se falliamo?» dissi all’improvviso, il terrore della sconfitta che brillava nei miei occhi. Miriana smise di saltellare e com’era suo fare per bloccare le mie paranoie mi prese per le spalle. Il tocco sicuro della fiducia. «Sorella, ricordati che noi non falliamo mai». Settembre 1987 A fine settembre, quando il secondo anno ricominciava a riprendere la sua routine dopo l’estate, capii che il corso di letteratura straniera sarebbe stato il più frequentato. La motivazione era semplice. Il supplente in corso, proveniente dalla nuvolosa ma fortunata Irlanda, la cui età sfiorava all’incirca i trentacinque anni, spiegava le lezioni con le maniche della camicia arrotolate, i muscoli tirati sotto la vista di noi studentesse, il volto ben rasato profumato di dopobarba. Professor James M. Daly. Capitò nella mia aula in un giorno di pioggia, rendendo la sua presentazione carica di scintille. Le ragazze del corso persero la testa per Daly, ringraziando la loro buona stella per il trasferimento improvviso del professore Gemini, ben voluto fino a quel momento, ma decisamente rimpiazzabile in quanto bellezza maschile. Gli inizi furono divertenti, Daly si prestava volentieri alle avance delle ragazze, fingendo di non comprendere fino in fondo il senso velato delle loro battute. Dopo un mese di sorrisi e parole cercate sul vocabolario tascabile, certe di aver trovato un docente permissivo e alla mano, Daly fece marcia indietro con il buonismo e sacrificò l’ammirazione delle studentesse con una verifica a sorpresa, decretando una strage di brutti voti senza precedenti. Il livello era più alto di quanto la classe si aspettava e i caduti furono tanti. Io non fui tra quelli.


Quando Daly mi riconsegnò il compito l’incredulità per il voto mi paralizzò. «Really?» Daly esigeva la lingua inglese durante le sue lezioni. «Crede che abbia sbagliato?» Sgranai gli occhi. Non per la domanda ma per la lingua usata. «Spero di no!» esclamai. Quel trenta in rosso marcato splendeva fiero dinnanzi alla mia perplessità. Daly trattenne un sorriso prima che mi riaccomodassi. Fu la prima volta che udii la voce di Daly parlare italiano.


9 - JAMES M. DALY Luglio 1987 Avrei dovuto essere qualcuno d’importante. Avevo persino il nome giusto: James Micheal Daly. Suonava così armonioso, così adatto alle riunioni a cui mia madre partecipava, che a volte, avevo avuto l’impressione che fosse stato scelto con criterio, così da utilizzarlo come arma di orgoglio verso le proprie amiche, senza risultarne volgare. Le origini della mia famiglia erano in parte italiane, in parte irlandesi. Mia madre mi fece scoprire la sua amata lingua d’origine, assieme ai cibi per il quale la penisola italiana era famosa. Passai i periodi estivi a casa dei nonni materni, annoiato dalla tranquilla vita campagnola. Desideravo passare il tempo dentro i rumori delle città, scoprire l’arte di Firenze, studiare la storia delle mura romane o più semplicemente affogare i dispiaceri mangiando zeppole e babà al rum, ritrovandomi un giorno a borbottare per i chili di troppi e i brufoli che prendevano possesso di ogni centimetro della mia faccia. Fino ad allora ero un ragazzino come tanti che giocava all’essere un uomo, ma che ancora si puliva il moccio al naso. Mio nonno Eugenio, la cui passione per la pittura era riconosciuta con il contagocce, un giorno - stanco di vedermi appollaiato sotto la quercia del giardino con la mia solita aria sognante - mi chiamò in casa e, con il petto gonfio di orgoglio, mi fece entrare nel suo studio, mostrandomi la sua immensa collezione di libri. Ero sempre rimasto affascinato dal concetto del colpo di fulmine – le scintille dentro agli occhi o le farfalle nello stomaco – senza mai averlo provato davvero, ma in quel momento pensai proprio di esserci andato vicino. Quel mondo fatto di parole scritte era ciò di cui avevo bisogno, un mondo dove potermi rifugiare in qualsiasi momento, senza attese, senza scadenze.


Quei libri furono la mia benedizione. Il mio disappunto per le mancate avventure cittadine divenne ben presto un pallido ricordo, anzi, l’abitudine di sedermi sotto quella quercia si intensificò, pronto a catturare briciole di fresco in compagnia dei miei nuovi amici. Era confortante non sentirsi più un ragazzo solo e annoiato. Ero ammaliato da come gli autori di epoche trascorse fossero riusciti a rendere vere storie inventate. Desiderai attingere a quella stessa creatività per diventare qualcuno. I miei genitori premevano affinché il mio nome fosse inciso su di una targhetta d’ottone. James Micheal Daly. Un avvocato per mia madre. Un notaio per mio padre. Dovevo essere qualcuno d’importante. Una persona importante. La sera prima di ritornare in Irlanda, seduti in veranda, il nonno mi domandò se il mio cervello da adolescente sofferente si fosse deciso a intraprendere una reale strada per il futuro. Scelsi di fare l’insegnante. I miei genitori si indignarono. Letteratura. Ero andato completamente fuori strada. Sotto la rigidità di mio padre feci l’esame di ammissione. Mi chiamavano filosofo con scherno. Non mi importava. Amavo i libri, gli autori che mi avevano ispirato durante la mia adolescenza. Nel frattempo mia madre invitava le sue amiche assieme alle figlie a bere il tè nel nostro salotto. Tutte loro erano figlie di notai, avvocati e imprenditori. Volevano accasarmi per togliermi l’idea di insegnare. Avrei preso posto accanto a un ipotetico suocero importante, così che le mie idee balorde – termine con il quale mio padre mi apostrofava a ogni discussione – tornassero a nascondersi dentro il cassetto del mio cervello. Studiai al Trinity College e mi feci notare da più professori possibili. Brillai di intelletto e sapienza. Ore interminabili trascorse sui libri mi avevano aiutato a spianarmi la strada verso una cattedra, proprio lì, al Trinity College.


Avevo la targhetta d’ottone con il mio nome, ma mio padre non si complimentò mai. Ero giovane, affascinante e con un futuro promettente davanti. Per i miei genitori non ero riuscito nel loro intento. L’importanza che avrei dovuto accostare al mio nome tramite una rispettabile professione l’avevo distrutta. Un giorno mia madre cominciò a ipotizzare l’idea che diventare nonna non le dispiaceva affatto. Diventarlo quando lei era ancora abbastanza giovane sarebbe stato un aiuto non da poco per il sottoscritto. Così dopo il dispiacere di non essere una persona prestigiosa, dovetti sopportare i sospiri e le messinscene di mia madre, quando compiuti i trenta il mio statuto non era variato. Ovviamente avevo avuto le mie avventure. Deliziosi incontri notturni, terminati ancora prima che il sole sorgesse durante le mie fughe estive. Andavo ancora a trovare i miei nonni durante le vacanze, ammaliando ragazze con la mia doppia nazionalità. Il più delle volte, dopo una serata romantica, rientravo a casa e mio nonno, in pigiama, aspettava il mio ritorno seduto in veranda, con due bicchieri di mirto selvatico e la sua immancabile domanda: giovanotto… è la volta buona? Mi bagnavo le labbra col mirto prima di rispondere. Scuotevo la testa. Nessuna era stata in grado di attirare la mia attenzione. Era la mente il mio punto debole. Ciò che mi faceva vibrare di eccitazione. Conoscere una persona che riuscisse a mandarmi in tilt il cervello. Stimolare i miei neuroni come una scarica elettrica. Purtroppo benché insegnassi in un’università, dove nelle più fantasiose ideologie quel luogo dovesse fungere da nucleo di giovani menti cariche di sapere, fu amaro constatare che poche erano le persone meritevoli di quel posto. I giovani erano demotivati. Studiavano per inerzia senza sapere quale fosse la strada giusta da percorrere. Le ragazze armeggiavano con la loro giovinezza per ottenere voti alti o privilegi.


A volte rimanevo basito dinnanzi ai loro modi provocatori, al loro vendersi per qualche punto in più. Se fossi rimasto il ragazzino annoiato dalla campagna, probabilmente mi sarei lasciato attirare da qualche tresca. Avrei rischiato la mia cattedra per avventure di poco conto. Ogni giorno ringraziavo il nonno per avermi insegnato l’amore verso ogni forma di arte. Mi ha reso riflessivo. Cosa che non avrei mai pensato di essere. Col tempo constatai che l’adorazione per mio nonno e tutto ciò che riguardasse l’arte faceva irritare mio padre. Era come se aspettasse che da un momento all’altro mi risvegliassi dai miei sogni letterali e decidessi di cambiare vita. Mollare tutto e prendere quella strada che tanto avrebbe voluto facessi. «James, diventa notaio. Apriti uno studio tutto tuo. Hai le capacità per essere qualcuno d’importante. Qualcuno per cui la gente chini il capo in segno di rispetto. Sei ancora in tempo per crearti una posizione. Sei troppo intelligente per sprecarti così». Vedevo mia madre assecondare con lo sguardo le parole di mio padre, vedevo il suo desiderio di un nipote riempirle gli occhi. Ciò mi faceva soffrire. Una parte di me, quella più sensibile i cui libri avevano dato conforto, sentiva di aver dato solo dispiaceri. Non importava se fossi l’insegnante più promettente del Trinity College. Non importava se avessi pubblicato relazioni di un certo spessore. Non ero né avvocato, né notaio. Ero un insegnante di letteratura. Un tizio con una valigia e dei libri in mano. Finì per domandarmi quale significato attribuissero alla parola importante. Avevo accumulato così tanta sofferenza che il mio corpo chiedeva respiro. Dovevo trovare il modo di disintossicarmi. Così cominciai a correre.


Non sempre potevo fare affidamento sugli incontri notturni, perciò l’alternativa ricadde su quanti chilometri potevo macinare prima di collassare al suolo. Correvo in svariati momenti della giornata, arrivando alla conclusione che il momento migliore fosse la notte. Alternai l’appagamento con la corsa. Ci fu un momento, durante il mio percorso accademico in cui mi ritrovai ad assaporare i giorni con lo stesso gusto amaro in bocca di quando ero uno studente annoiato e distratto. Il mio insegnamento cominciava a essere monotono e ripetitivo. Avevo creato una scaletta che seguivo fedelmente a memoria, tanto che non mi crucciavo più le notti nel variare i test di verifica. Sì, qualche punto lo cambiavo, ma non abbastanza da non accorgermi che ormai gli studenti dei vari anni si scambiavano le risposte. Ero come uno scrittore durante i suoi periodi bui. Quei blocchi di cui tanto avevo sentito parlare, dove la pagina bianca era l’incubo di ogni romanziere, esordiente o veterano. La differenza tra loro e me era una metafora di quella facciata bianca con il mio insegnamento lineare. Commisi l’ingenuo errore di confessare a mia madre la svogliatezza di quel periodo, di come i miei studenti fossero un gruppo apatico di adolescenti senza spinte alla vita. Lei, che nemmeno per un momento aveva rinunciato a vedermi vestire i panni di un promettente avvocato, si lasciò andare ai suoi soliti commenti. “Se questo non ti soddisfa più tesoro, nessuno ti vieta di cambiare vita. Lo sai bene quanto io e tuo padre desideriamo vederti a capo di uno studio tutto tuo.” Non volevo sentirmi dire questo. Non volevo sulle spalle la pressione per dei sogni che erano solo il frutto delle fantasie dei miei genitori. Potevo capire se le richieste si fossero intensificate sulla paternità e l’infilarmi quella dannata fede al dito, ma il lavoro, il lavoro non poteva essere motivo di litigio dopo tutti quegli anni. Non potevo credere che le loro aspettative si fermassero solo ed esclusivamente a un ufficio in centro.


In quei momenti l’assenza del mio caro nonno Eugenio e del suo mirto selvatico erano un pugno in pieno stomaco. Avevo un disperato bisogno di ossigeno. Un ossigeno fresco, speciale, che cambiasse l’aria al mio cervello. Accadde in una serata estiva del 1987. Mia madre mi disse che nonno Eugenio non stava bene. L’infermiera personale di mio nonno aveva telefono dicendo che le ultime visite in ospedale non avevano portato buone notizie e che le aspettative di vita si stavano velocemente abbassando. Le capacità motorie si erano ridotte, di conseguenza si consigliava l’utilizzo della sedia a rotelle. Una condanna per un uomo abituato a muoversi senza limitazioni. Ciò che colpì la mia famiglia fu la richiesta di mio nonno. Tra tante, aveva pregato che il suo adorato nipote fosse lì con lui. Ricordo con freschezza il risentimento di mia madre. Non potevo non darle atto. Suo padre preferiva la presenza del nipote al proprio capezzale piuttosto che quello della figlia; qualcosa che faticavo anche io a concepire. «Andiamo insieme, mamma. Non può mica cacciarti» esordii, seduti in salotto, in attesa del tè. Certe tradizioni non potevano essere interrotte a causa di fattori meteorologici. «Hai sentito le sue volontà. Un filo di vita, ma la voce ben forte nel dire che vuole te al posto di sua figlia. Non sia mai che gli tolga quel poco che gli resta con la mia presenza». «Come sei melodrammatica». «Niente affatto. Farò fede alle sue richieste e me ne rimarrò qui fino al giorno del suo funerale». «Mamma, andiamo. È tuo padre». «Non ricordarlo a me. Ricorda a lui chi è sua figlia». Da bambino i contrasti fra mia madre e mio nonno non erano mai arrivati a un livello che ne attirassero l’attenzione. Avevo ricordi annebbiati dei loro battibecchi. Forse perché tra loro la figura di mia nonna era lo spiraglio di tregua che si frapponeva.


Nonna Celeste era buona. Buona a trecentosessanta gradi. Supponevo, da bambino, che ciò che la costituisse non fossero gli organi, come il resto delle persone, ma una massa enorme, morbida, soffice e gustosa al palato. Durante le mie vacanze non l’avevo mai vista arrabbiarsi una volta, né alzare un mestolo contro il nonno quando mi rimproverava con troppa severità. Celeste lasciava che il nonno si sfogasse, continuando le faccende alle sue spalle come nulla fosse; io rimanevo in piedi di fronte a lui, la testa chinata in segno di resa, alzando gli occhi solo nelle brevi pause in cui riprendeva il respiro. Erano in quei momenti in cui la nonna si soffermava su di me e mi faceva l’occhiolino. Poi alzava gli occhi al cielo e domandava a Eugenio un qualsiasi piacere per distrarlo dalle sue paternali. Dopo essersi allontanato, Celesta afferrava uno strofinaccio e me lo lanciava. «Asciuga i piatti, tesoro. Se vede che fai qualcosa a te sgradito si convince di aver fatto un buon discorso». Le obbedivo sempre, anche perché, tra un piatto e l’altro Celeste mi allungava di nascosto un biscotto. Con mia madre questi trucchi non li usava. La memoria si concentrava su mia madre che tentava di non cominciare una litigata con suo padre se nei dintorni c’era Celeste. Un giorno la sentì dire che discutere con nonna presente non fosse un bene. Era capace di annebbiare le menti di entrambi tanto da far dissolvere la voglia di scontrarsi. Questo era un problema per mia madre, che adorava questionare animatamente con suo padre, sfociando a volte verso il melodrammatico, soprattutto quando la lancetta della ragione pendeva dalla sua parte. Ne avevo preso atto da adolescente, quando cominciai a staccarmi dal mio status infantile. Cominciai a notare i commenti a forma di spillo di mio nonno segnare la pelle di mamma quando avevo tredici, quattordici anni. Volevano apparire come accorgimenti, ma non mi erano sfuggite le alzate di sopracciglio di mamma, le stesse che usava con mio padre.


La differenza stava proprio lì. A seconda della provenienza dello spillo, la reazione istintiva era la medesima, ma era la reazione ragionata a differenziarsi. Ero mio nonno il mittente? Bene, che si aprissero le danze all’orgoglio e alla durezza, dunque. Se invece era mio padre, mamma sfociava verso lacrime e autocommiserazione. Un modo come un altro per farlo sentire in colpa. A volte ammiravo le capacità emotive di mia madre. Se delle sue scenate ne avessi fatto un film, probabilmente avrebbe vinto l’Oscar. Solo con nonna Celeste nei paraggi, a far da cuscino agli spilli volanti, mia mamma e mio nonno Eugenio si prendevano una pausa. Oggi non era più così. Tornai in Italia con l’anima divisa in due. Da una parte assaporavo l’amarezza di quel viaggio come qualcosa che comportava dolore e perdita. Dopo le estati trascorse da adolescente in quei luoghi, la mia vita mi aveva condotto a piantare radici in Irlanda, posticipando senza rendermene conto visite che in realtà non avrei mai fatto. Eugenio non aveva smesso di aspettarmi, al telefono mi ripeteva che la bottiglia di mirto era sempre lì, pronta per me. Ero convinto di avere più tempo. Ciò aggravava ancora di più l’altra parte del mio animo. Benché il peso della perdita fosse pesante dentro il cuore, nulla toglieva alla speranza di mantenere una debole luce al suo interno. Pensai che un po' di tempo fuori dalla mia quotidianità mi avrebbe aiutato a ritrovare la voglia di insegnare. Fine anteprima. Continua…


INDICE PROLOGO ........................................................................................... 9 1 - OLIVIA ......................................................................................... 11 2. ......................................................................................................... 14 3. ......................................................................................................... 17 4. ......................................................................................................... 21 5. ......................................................................................................... 24 6. ......................................................................................................... 28 7. ......................................................................................................... 29 8 - RYANA BELTRAME .................................................................. 34 9 - JAMES M. DALY ........................................................................ 37 10 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 11 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 12 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 13 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 14 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


15 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 16 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 17 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 18 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 19 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 20 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 21 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 22 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 23 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 24 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 25 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 26 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 27 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 28 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


29 - RYANA BELTRAME ....ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 30 - JAMES M. DALY ..........ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 31 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 32 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 33 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 34 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 35 - OLIVIA ..... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 36 - MIRIANA . ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. EPILOGO ......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. RINGRAZIAMENTI .............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


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