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FRANCESCO GRASSO L’ARMATA DEGLI ELEFANTI IL ROMANZO DI PIRRO ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ L’ARMATA DEGLI ELEFANTI Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-653-7 Immagine di copertina: Proposta dall’Autore Prima edizione Marzo 2024
5 PROLOGO - MONTE PARNASO, 302 A.C. Il corpo della donna era coperto solo da lunghi capelli scarmigliati, che giungevano alle ginocchia in ciocche irregolari. Aveva un’età indefinibile; la postura delle spalle e il turgore del seno ne testimoniavano la gioventù, ma il viso, gli occhi torvi e le labbra annerite erano di una megera. Tafani dalle ali verdi le ronzavano intorno, sedotti dal fetore delle viscere del cervo, morto da giorni, tra cui la donna stava rovistando. «Cerchiamo la sacerdotessa di Apollo» dichiararono i tre uomini. «Sei tu?». Lei tacque. Dall’alba sorvegliava l’avvicinarsi degli intrusi. Aveva visto il più giovane, poco più di un ragazzo, smontare da cavallo ai piedi del Parnaso, imbattersi nei due adulti lungo il sentiero che saliva da Delfi, e poi affrontare insieme a loro la pietraia che s’inerpicava alla vetta. «Sei la voce del dio?». «Dicono che, tuo tramite, Apollo esaudisca desideri. È vero?». La donna studiò le armi: il giovane esibiva una spada alla cintola; i due adulti impugnavano verghe da mandriani. Affondò la mano nel ventre della carcassa; ne estrasse il cuore. L'osservò con attenzione, poi roteò gli occhi e rivolse al primo dei tre uomini un verso innaturale. «Custode di capre, qual è il dono che desideri?». Il pastore, turbato, si fece avanti. «Sono stanco di crepare di fame. Fammi ricco». Il secondo pastore si segnò. «Io ho la stessa supplica. Cosa vuoi in cambio? Mia moglie? I miei figli? Li avrai». La donna stirò le labbra. «E tu, ragazzo? Perché hai scalato il Parnaso?». Investito dal fiato della donna, il giovane arretrò. Lei rise oscenamente. «Non vuoi dirlo? Non importa: il dio dell’arco è magnanimo, oggi. Soddisferà uno di voi. Il più degno». I tre si scrutarono. «E chi è?». La risata divenne ghigno. «Colui che sopravvivrà». «Che significa?». «Chi, tra voi, taglierà la gola agli altri avrà ciò che desidera». I due adulti si posero schiena alle rocce, estrassero pugnali.
6 «Un momento» protestò il giovane. «Non può essere questa, la volontà del dio». I pastori gli si lanciarono contro. Finì in fretta. La donna smosse col piede i corpi inerti; intinse le dita nel sangue, si tracciò spirali sulle guance. «Sei un guerriero». Il giovane ripulì la spada, fissò i cadaveri. «Uccidere due caprai non mi ha reso onore». La donna si leccò i polpastrelli. «Ora vedo». «Cosa?». «Il tuo desiderio. Cerchi la gloria. Vuoi che ti dica se il tuo nome sarà ricordato». L’altro tacque. La donna raccolse i capelli, li legò col tendine del cervo. S'accostò al giovane, gli sfiorò il petto. Lui non celò il disgusto. Lei rise. «Sei deluso, vero?». «Di che parli?». «Sospetti che io sia solo un’infelice scacciata dal tempio, che ti abbia indotto a uccidere i pastori per depredarne le spoglie». Il ragazzo trasalì. «Vedi i miei pensieri?». «E le tue delusioni. Oggi hai sguainato la spada e sconfitto chi ti avversava. Ma non hai ottenuto quel che volevi. Sarà il tuo destino». «Ti burli di me?». «Non io». La donna emise un verso stridulo. Le mosche ronzarono via. «Ecco la tua risposta. Sarai ricordato, ma non per la gloria. Il tuo nome significherà “vittoria inutile”, da oggi sino alla fine dei tempi». «Non capisco». Lei parve ascoltare il vento. «Sarai re e condottiero. Cadrai in battaglia, e sulla tua morte si conierà un detto, che gli uomini pronunceranno ancora quando Delfi sarà polvere». Tornò a ridere. Snervato, il ragazzo la colpì col piatto della spada. La donna cadde. Non gridò. Al contrario, la sua voce si fece, finalmente, femminea. «Non esitare, guerriero. Colpiscimi». «Che dici?». «Sono stanca di essere la gola di Apollo. Ti ho visto in sogno. Sei colui che mi libererà». Lui incrociò, tra le ciocche scarmigliate e la sporcizia, lo sguardo della donna; vi lesse paura, vessazioni antiche, solitudine. «Non posso uccidere una femmina». «Fallo. In cambio io salverò tuo figlio».
7 «Non ho figli». «Ne avrai. E rischierai di perdere quello che più ti sarà caro. Ascolta…». Ridusse la voce a un sussurro. Il ragazzo prestò attenzione. E credette. «Hai il vaticinio che volevi. Ricompensami». È un gesto di misericordia, si disse l’altro. Alzò la spada. Lei chiuse gli occhi. «Prima di colpire, rivelami il tuo nome». Il giovane indugiò, sorpreso. «Credevo lo sapessi. Le tue visioni…?». «Apollo le sfuma per pietà, affinché io sopravviva: nessun mortale può sostenere la conoscenza di un dio». «Το όνομά μου είναι Πύρρος» scandì il ragazzo, «Mi chiamo Pirro». E colpì.
8 COSTA MERIDIONALE DI APULIA PRIMAVERA 280 A.C. Dita serrate al parapetto, Cinea scrutava la linea della costa. Borea razziava gocce di spuma alle onde dello Ionio e poi le rendeva, in sferze salmastre, al fianco ligneo della triere. L’uomo indossava, sulla tunica, un corsetto di lana stretto alla vita da lacci di cuoio. A ogni spruzzo rabbrividiva e sognava Ambrakia, un braciere acceso e una coppa di vino caldo. Il legno del ponte restituì suono di passi. Cinea si voltò, accennò un inchino. «La notte è stata serena, principe?». Il figlio di Pirro scosse il capo. Nel gesto, il lembo del mantello che copriva i riccioli rossi cadde. Un valletto si affrettò ad accomodarglielo. Il principe additò il servo con aria infastidita. «Chiedilo ad Agapito. Ho vuotato lo stomaco tre volte, e lui ha dovuto mondarmi i calzari. Questo guscio di noce minaccia di inabissarsi a ogni rutto di Poseidone». Cinea valutò se riferire al giovane le parole di Pirro. La promiscuità e le rudezze del viaggio tempreranno il carattere di Alessandro, aveva decretato il re. «Non c’è nulla da temere, principe» disse invece. «Siamo in acque conosciute: ieri vi ho mostrato Capo Iapigio, che taluni chiamano Leuka, e la rada di Callipolis. Prima che il carro di Apollo riposi, tireremo le navi in secco a Taranto». «Abbiamo perso un rematore» intervenne il valletto. «Dicono che le sirene l'abbiano catturato…». «...e condotto nel nero mare, per divorarlo nel profondo dei suoi gorghi» completò Cinea, divertito. Il valletto parve confuso. Cinea gli batté una mano sulla spalla. «Mi hanno già messo a parte di questo prodigio, Agapito. A te chi l’ha confidato? I rematori che lo scomparso aveva sobillato? O il nocchiere, il cui giudizio lo stolto aveva contraddetto?». Il valletto arrossì. «Io... io ho visto il sangue sullo scalmo, la veste...».
9 «...spartita, insieme ai calzari dell'idiota, tra il nocchiere e l'aulete» ricostruì Cinea. «Col benestare del trierarco, suppongo». Si accomodò il corsetto. «Ma non hai citato Omero a sproposito. In quanto è accaduto echeggia l’insegnamento del Cantore: mostri e sciagure attendono chi sfida l'autorità». Il valletto tacque. Cercò, a conforto, lo sguardo del padrone. Alessandro scrollò le spalle. «La pedanteria di Cinea sfinisce anche me. Mio padre lo ascolta, ma quando non riesce a sopportarlo lo spedisce in missione». Cinea annuì. «Il re ama i suoi sudditi persino quando non li tollera: per questo è un buon re». D’un tratto il sole infilò un varco tra le nubi. I tre trattennero il fiato dinanzi allo spettacolo della flotta. Trenta navi da guerra e dieci da carico fendevano le onde. Le insegne di Epiro brillavano nel fulgore del mattino. Le vele si tendevano al vento. I gabbieri, inerpicati sugli alberi, segnalavano con specchi di bronzo. Pesci volanti facevano seguito al convoglio, in cerca di cibo o per curiosità. L'aria era fredda e salata. «Vostro padre ha comandato che in questo viaggio voi apprendiate. Ditemi: quanti opliti ritenete siano al nostro seguito?». «Duemilacinquecento» rispose Alessandro, senza nascondere il tedio. «Tremila, e duecento cavalli» precisò l’altro. «A Callipolis abbiamo imbarcato due squadroni di messapi. Un condottiero attento avrebbe notato il loro arrivo. Per il tanfo dei quadrupedi, se non altro». «Condottiero? Mio padre mi assegnerà un comando?». Cinea ridusse la voce, accennando alle orecchie dei marinai. «Non siete l’unico figlio di vostro padre, come sapete». Alessandro serrò i denti. «Per capire se sono degno, basterebbe che mi mettesse alla prova». «Alla prova? Vediamo, allora… Come si chiamano le isole che abbiamo a prua?». «Quali isole?». Cinea indicò l'orizzonte. Un segno sottile rigava la tela dello Ionio. «Ve ne ho parlato giorni or sono. Chiudono la rada di Taranto. Qual è il loro nome?». «Ricordare una simile sciocchezza dimostrerebbe il mio valore?». «Il Fato è oscuro, principe. Forse un giorno sarà una sciocchezza a salvarvi la vita. O a perdervi». Il giovane esitò. Cinea colse l’occasione. Mostra a mio figlio il mondo e i suoi segreti, gli aveva ordinato Pirro.
10 «Il nome delle isole è "Cheradi", giacché per forma ricordano le corna dei tori. La più grande, Phoebea, è sacra ad Artemide. Dedalo, quando fuggì da Cnosso, si rifugiò sulle sue sponde… La piccola ha nome Elektra, giacché vi si estrae l'ambra. Il vostro monile, principe, proviene da lì». Alessandro, d’istinto, sfiorò la spilla che gli serrava il manto. Cinea ricordava di averla vista indosso a Lanassa: il gioiello, a forma di delfino, era uno dei pochi lasciti che il principe serbava della madre. Proseguì. «…vi nidificano quaglie, gheppi, tortore e cormorani. I tarantini vi raccolgono asparagi, trifoglio, papavero, salvia, narciso. Sui fondali si stendono praterie di posidonia». «Agapito ha una domanda» interruppe Alessandro. Cinea squadrò il valletto. Questi indugiò con aria imbarazzata. «Avanti» esortò il principe. Il servitore deglutì. «Signore... Si dice che, da giovinetto, Demostene l'oratore abbia fatto di voi… sua moglie. È così?». Cinea colse il ghigno sulle labbra di Alessandro. Più che adombrarsi, se ne rammaricò. «Demostene è stato mio maestro. A lui e a Epicuro devo ciò che conosco. E… no, nessuno dei due mi ha concesso attenzioni da erastès. Atena m’è testimone, sarebbe stato un onore». Addolcì la voce. «Non temere, Agapito: hai obbedito al principe, com'è tuo dovere. Ma ho anch'io una domanda. Avete mai considerato quanto vi somigliate?». Alessandro inarcò un sopracciglio. La posa non riuscì a nascondere i tratti che aveva in comune col servo. Cinea attese che una coppia di marinai, alle prese con una giara, si allontanasse. Poi sussurrò all'indirizzo del principe. «Credo che il re abbia posto Agapito al vostro fianco perché, all'occorrenza, il suo aspetto possa tutelarvi». «Parla senza fronzoli, per una volta» protestò Alessandro. «A volte conviene offrire al nemico un bersaglio che possa ricevere la lama destinata a noi. Afferrate?». Il valletto impallidì. «Sono destinato a morire per proteggere il principe?». Cinea scosse la testa. «Non oggi. E neppure a Taranto. Siamo solo un’avanguardia, eviteremo di affrontare il nemico sino all’arrivo del…». S’interruppe, rendendosi conto che l’attenzione di Alessandro era altrove. Seguì lo sguardo del principe e scorse un drappello di pezeteri intenti a spargere grasso di maiale sui propri schinieri. «Il sego protegge dalla salsedine» spiegò d'istinto.
11 Alessandro slacciò la cinta che gli reggeva la spada, la sguainò, la consegnò con fare imperioso ad Agapito. «Va’» disse. Il servo corse dai pezeteri. Riferì il volere del principe. I soldati, sorpresi, esitarono. Poi, il più giovane di loro intinse il cencio e prese a ingrassare la lama di Alessandro. Cinea si corrucciò: il figlio di Pirro si compiaceva nel mostrare ai soldati la ricchezza della sua daga, un oggetto di fattura squisita ma del tutto ornamentale, con un'impugnatura d’argento che in battaglia non avrebbe retto un istante; con l'occasione ricordava loro chi era, e che le sue parole dovevano essere obbedite al pari di quelle di suo padre. Decise di insegnare, a quel vanitoso fanciullo, che al guerriero migliore non difetta umiltà: un paio di notti sui bastioni di Taranto, di ronda sotto la pioggia battente, erano ciò che Alessandro meritava. L’idea gli restituì il buonumore. Si sporse dal parapetto e gustò l'aria salmastra. Cercò a settentrione le prime avvisaglie del promontorio che i locali chiamavano Saturo, e dell'istmo su cui sorgeva la città dei due mari. Ma su quel tratto di orizzonte, come sul futuro, s’addensava la bruma.
12 TIFONE - 1 Udì un canto. Una nenia, forse una filastrocca, intonata da voce femminile. Tifone tentò di aprire gli occhi. Inutilmente: il sangue raggrumato e la sporcizia gli serravano le palpebre. Saggiò le articolazioni. Gli anelli di ferro che lo imprigionavano tintinnarono. Il dolore al fianco, là dove il pungolo aveva affondato, si fece lancinante. Non riuscì a trattenere un gemito, un verso lamentoso di cui provò vergogna. Come della sua debolezza. Avvertì il tocco di un cencio umido sulle ciglia. Sentì che le croste di pus si ammorbidivano, e che le mosche, infastidite, smettevano di banchettare. Raccolse le forze, batté le palpebre, mise a fuoco. Una ragazzina coperta di stracci gli stava mondando le ferite, usando l’acqua di un bacile di rame e un lembo del suo stesso misero vestito. Tifone la fissò senza capire. I piedi nudi della giovane, minuscoli, affondavano fino alle caviglie nello strame del recinto; le gambe erano escoriate al ginocchio; sulle braccia, segni di ustioni s’intrecciavano come serpenti. Di rado Tifone aveva rapporti con umani adolescenti, perciò non riuscì a discernere l’età della ragazza. Tredici? Quattordici anni? Non avrebbe saputo dirlo. Avvertì odore di cibo. Volse il capo per quanto lo consentivano i ferri. Notò, accanto alla ragazza, un canestro di vimini. Distinse pere, fichi dalla buccia grigiastra. Stanco, chiuse gli occhi. Sentì la consistenza del frutto che la ragazza stava accostando alla sua bocca. Tifone non aveva forza di masticare; lo mandò giù intero. Lei ripeté l’operazione tre, quattro volte. Senza smettere di canticchiare. Tifone, più sfinito che sazio, si addormentò. Nei sogni che lo accolsero, gremiti da catene, rivolte e punizioni, continuò a udire la nenia della piccola umana. ***
13 Aprì gli occhi. Lei era ancora al suo fianco. Il sole al crepuscolo allungava l’ombra del recinto. Tra le tende degli odigòs, i fuochi da campo sprizzavano faville contro la volta del cielo. La brezza sollevava cenere di legna e sabbia sottile. La paglia su cui giaceva era pulita: Tifone vide la vanga, il monte di fango ed escrementi alla sua sinistra. Avvertì odore di segatura, muschio e linimento. Capì che la ragazza aveva lavorato per lui tutto il giorno. Si chiese se stesse ancora sognando. Forse - pensò - era morto, e si trovava nel luogo di pace e delizia che - il suo primo istruttore lo aveva giurato - attendeva i buoni elefanti che obbedivano ai loro odigòs. La ragazzina aveva smesso di cantare. In quel momento ciarlava. Senza sosta. Aveva una voce immatura e querula. Tifone rammentò il ruscellare dell’acqua nella radura, in Epiro, ove era nato e aveva mosso i primi passi, tra querce e cespugli di ginepro, finché non era stato separato dalla madre. Dubitava che la fanciulla stesse conversando con lui. Più probabilmente, discorreva con sé stessa. Tifone comprendeva a grandi linee il linguaggio degli umani, ma il torrente di parole della ragazzina era eccessivo, impossibile da fronteggiare; poteva solo subirlo, tollerarlo come giusto prezzo per le cure che lei si compiaceva di prestargli. «Mi chiamo Dafne, figlia di Filonide. Tu invece sei Tifone della Mano Bianca, figlio di Astreo Zanna Ricurva. Così ha detto il sorvegliante… Non è cattivo, sai? Devi capirlo: gli hai rotto il braccio, e lui non vuole più saperne di te… È un bene, così posso accudirti io. Quand’ero bambina sentivo mio padre narrare dei titani, ecco perché vi ho riconosciuti. Al vostro arrivo sono accorsa, mi sono presentata al sorvegliante, ho chiesto se cercava un’apprendista. Sei una mocciosa, ha risposto, cosa puoi capirne di elefanti? Poi però ti ha additato. C’è lui, ha detto, una bestia ingrata, che morirà comunque. Puoi spalare il suo letame, se ci tieni, basta che non mi stai tra i piedi. Io ho accettato. Gli dimostrerò che sbaglia. Giuro su Artemide che ti rimetterai in piedi. Sarai il mio amico titano». Tifone trangugiò a fatica il cibo che la ragazzina gli infilava in bocca. Bevve, empì i polmoni. Saggiò con la proboscide la zampa posteriore, dove il dolore era intenso. Sorpreso, si accorse che la catena era scomparsa: al posto dell’anello di ferro, solo un cerchio di carne scorticata. Svenne di nuovo. Nel dormiveglia, continuò a udire il chiacchiericcio di Dafne. Tronconi di frasi, racconti, ricordi, discorsi interrotti e poi ripresi senza tregua lo cullarono come una cantilena per infanti.
14 «Mio padre è il miglior vasaio della città. Dicono che, quando siede al tornio, Efesto in persona accorra a spiare… Viaggia molto, per fiere e mercati, a vendere anfore e raccogliere commissioni. Mi porta in dono coralli, a volte ciondoli di madreperla, e mi racconta dei borghi che ha visitato. Leuka la bianca, la ventosa Rhegion, Kroton dalle lunghe mura… Ho una sorella maggiore, sai? Andromeda. Mio padre dice che è bella come Afrodite, specie quando si trucca il viso con l’ocra, la polvere di ematite e la crisocolla. Ha mille spasimanti, e credo che abbia già…». *** Le albe seguirono i tramonti. Tifone ascoltava pazientemente i monologhi di Dafne, a volte comprendendone il senso, altre no. Lei gli cuciva le ferite con ago d’osso e filo di canapa, lo strigliava con pietra pomice e gusci di noce; lo nutriva con germogli e fieno fresco; poi gli spazzolava i molari ai lati della bocca; sfregava tizzoni di brace sui peli ispidi del suo ventre, a bruciare i parassiti che potevano trasmettergli infezione... Compiva ogni incombenza necessaria a rimetterlo in salute senza mai, mai smettere di cicalare. Poco a poco, Tifone sentì che la febbre scemava. La quarta mattina si sollevò sulle zampe anteriori, sventolò le grandi orecchie, rivolse attenzione a ciò che aveva intorno. A destra, oltre il recinto, si ergevano mura bianche intervallate da torri; sulla cima garrivano vessilli a lui sconosciuti. Oltre le fortificazioni, il terreno s’alzava in piccole colline. Intravide case, strade, un palazzo in pietra, statue, il colonnato di un tempio. A sinistra baluginava uno specchio d’acqua. Tifone fiutò il salmastro, distinse un bacino di forma circolare gremito di imbarcazioni. Un panciuto mercantile veniva trainato verso il mare aperto. Tifone rammentò la nave ove era stato imbarcato tre settimane prima. L’avevano rinchiuso nella stiva, lui e cinque fratelli, al buio, su ruvide assi di legno, senza un filo d’aria; il rollio delle onde, il caldo, la claustrofobia lo avevano vessato oltre ogni sopportazione. Alla fine, fuori di sé, aveva deciso di ribellarsi. Era stato duramente punito: non ricordava altro. «Ti piace, amico titano? È la mia città. Taranto». La ragazzina agitò le braccia sottili, puntando il dito in ogni direzione. «Vedi l’acropoli? E lassù, il santuario di Hera? Mi piacerebbe portarti oltre l’istmo, mostrarti l’Ercole bronzeo di Lisippo, le sorgenti del Galeso… E la laguna, dove i frutti di mare crescono a pelo d'acqua. Ti
15 piacciono i ricci? Mio padre dice che Poseidone li ha creati in dono ai tarantini». Tifone puntò le zampe posteriori, drizzò le ginocchia. Azzardò un passo, un secondo. Dafne batté le mani, deliziata. «Il sorvegliante scommetteva che non ce l’avresti fatta. Anche il suo braccio sta meglio, sai? Lo ha steccato, ora riesce a usarlo. Non è un uomo rancoroso, credo possa perdonarti. Se ti rimetto in grado di combattere, ha giurato, mi farà nominare stalliere. Dice che ho talenti segreti. Mi ha ribattezzato Circe, come l’incantatrice di Omero. Lui invece si chiama Aderbale. Viene dalla Numidia, lo sapevi?». L’elefante sollevò la proboscide, che era lunga un terzo del suo corpo e terminava in una piega di pelle prensile. Ne strofinò l’estremità sulla fronte. In quel punto, il suo cranio presentava due convessità che lo distinguevano dai fratelli del branco. Annusò l’aria. Sapeva di terracotta, di carbone acceso e di esseri umani in quantità. Si chiese se la città fosse popolosa quanto Ambrakia, la metropoli più grande che conosceva. Dafne sembrò leggergli nel pensiero. «Taranto è grande, ricca e benedetta dagli dèi. A fondarla fu Falanto, figlio di Arato. Mio padre dice che era l’ultimo erede di Eracle. Un giorno, alla testa dei Parteni, decise di lasciare Sparta in cerca di una nuova patria. Gli indovini gli promisero prosperità se si fosse stabilito ove "la pioggia cadeva dal cielo sereno". Il vaticinio sorresse il suo cuore lungo il viaggio sino alla foce del Tara, fiume che prende nome dal figlio di Poseidone. Qui affrontò gli Iapigi e fu sconfitto. A notte, mentre giaceva col capo sul grembo di sua moglie, lei pianse di trepidazione. Falanto, il viso irrorato dalle lacrime, capì che la profezia era compiuta: il nome di sua moglie, Etra, significava "cielo sereno". Stipulò alleanza con gli Iapigi e fondò questa città. La chiamò Taranto perché bagnata dal Tara. E poi…». Tifone, stremato da quel torrente di parole, si accasciò, chiuse gli occhi e finse di dormire. Non funzionò. *** Al risveglio, Dafne non era al suo fianco. Ritrovarsi solo lo stranì: s’era assuefatto alla presenza della piccola duezampe, alle cure che lei gli prestava, al suo odore sottile, persino ai suoi inarrestabili, enigmatici sproloqui. Non comprendeva le sue motivazioni,
16 come del resto gli accadeva con quasi tutti gli umani. Ma era un mistero gradevole. Si levò sulle zampe, finalmente senza provare dolore. Vuotò la vescica sullo strame misto a segatura, fiutò il vento. Il sole era alto. I suoi fratelli, come ogni giorno, avevano lasciato il recinto per compiere l’addestramento. Poteva sentirli barrire e colpire il terreno agli ordini degli odigòs. O kornak, come si faceva chiamare chi, tra i domatori di elefanti, veniva dall’Indo. Dafne giurava che presto lui li avrebbe raggiunti. Tifone ne dubitava. Un animale che si ribella al padrone, gli avevano insegnato sin da cucciolo, non è degno di fiducia: i frombolieri rifiutano di salire sul suo dorso, i vivandieri gli negano il cibo, gli odigòs gli volgono le spalle. Anche i suoi fratelli, dal giorno della rivolta, si erano defilati. Pallante e Iperione, vedendolo incatenato, all’inizio gli si erano accostati per confortarlo. Ma Anteo li aveva fatti fuggire a colpi di zanna. La sua caduta in disgrazia era stata, per il pachiderma più servile coi padroni e feroce coi propri pari, occasione per scalzare Tifone dai vertici del branco. Doveva già ritenersi fortunato: quel giorno, sulla nave, non aveva ucciso o storpiato nessun due-zampe. In quel caso, Aderbale avrebbe impugnato la mazza e gli avrebbe conficcato lo scalpello nella nuca; così, da sempre, il sorvegliante abbatteva gli elefanti fuori controllo. Invece si era limitato a immobilizzarlo con le catene, e poi lo aveva coscienziosamente massacrato, usando la pertica di frassino con lame da scalco fissate all'estremità superiore che gli umani chiamavano “pungolo”. Finalmente avvertì l’odore della ragazza. Sollevò la proboscide, saggiò la brezza. Il sentore di Dafne proveniva dall’esterno del recinto, dalla palizzata che fronteggiava le mura. Avanzò cautamente in quella direzione, aguzzò la vista, senso che in lui era più debole dell’odorato. E la vide. Una dozzina di adolescenti, sporchi e male in arnese, la circondavano. Alcuni le sputavano contro, altri la bersagliavano di sterco e immondizia. «Kotyle, kotyle!» gridavano in tono di scherno. Dafne si tappava le orecchie e cercava di sfuggire all’assedio. Inutilmente: la masnada faceva barriera, la strattonava, la spintonava indietro tra risate e smorfie di spietatezza. Tifone si chiese se ciò cui stava assistendo fosse un rito tra cuccioli duezampe: aveva una conoscenza limitata del mondo dei suoi padroni, e una comprensione ancora minore riguardo alle crudeltà che essi
17 s’infliggevano l’un l’altro. Per di più si trovava in un paese a lui estraneo, di cui ignorava totalmente i costumi. Per questo esitò, disorientato. D’un tratto, uno dei giovinastri afferrò un ciottolo, rise sguaiatamente, lo scagliò contro Dafne. Lei, d’istinto, levò il braccio destro a proteggere il capo. La pietra la colpì alla base del polso. Tifone udì un rumore sordo. Dafne strillò, cadde in ginocchio, prese a piangere. Il giovane, imbaldanzito dal successo, si chinò a raccogliere un secondo proiettile. Gli altri plaudirono di incitamento. Tifone fiutò la paura della ragazzina, l’odore salato delle sue lacrime. D’istinto riconobbe in lei il dolore, la disperazione che lo aveva travolto sulla nave. E decise. Se avesse avuto le forze, avrebbe caricato. Riuscì solo a picchiare le zampe contro il recinto e a barrire furiosamente. I membri della teppa lo fissarono attoniti. Tifone vide il loro sorriso spegnersi. Era la prima volta, capì, che fronteggiavano una creatura della sua specie. Agitò le zanne. I giovani umani fuggirono a gambe levate. Tifone si avvicinò con accortezza a Dafne. Lei restava in ginocchio, scossa dai singhiozzi. L’elefante la circondò delicatamente con la proboscide, la sollevò, la portò all’interno del recinto, la depose su un cumulo di paglia pulita. Raccolse una sorsata d’acqua dalla vasca dell’abbeverata, la spruzzò sul viso di lei, alitò per asciugarla, attese che si calmasse. Il respiro della ragazza, lentamente, divenne regolare. Dafne batté le palpebre, come se realizzasse solo in quel momento quanto era accaduto. Si tastò cautamente il polso, a sincerarsi che non fosse rotto, si ripulì gli zigomi con l’orlo della veste. Poi carezzò la proboscide dell’elefante. «Sono stata disonesta con te, amico titano» mormorò. «Ho mentito, su mio padre, su mia sorella». Il pachiderma si ritrasse, attento. Comprendeva il significato di “mentire”. Piegare la realtà, costruirne false rappresentazioni per trarne vantaggio. Era un’arte in cui molti due-zampe eccellevano, specie chi tra loro deteneva il potere o bramava per ottenerlo. «Tu invece mi hai difeso. Artemide m’è testimone: se non fossi intervenuto, quei farabutti mi avrebbero lapidato. Meriti di sapere la verità». Tirò su col naso. «Ascolta…». E prese a spiegare.
18 SALINE DI TARANTO, PRIMAVERA 280 A.C. L'esercito di Pirro, sbarcato a Brindisi, impiegò una settimana per vuotare le stive delle navi, radunarsi e marciare sino a Taranto. Al tramonto del sesto giorno, allertato dal baluginare all’orizzonte, Cinea montò a cavallo e si diresse al pianoro che si stendeva tra il Mare Piccolo e le saline. Era il luogo che, nel negoziato coi tarantini, aveva ottenuto per l’acquartieramento dell’armata; ospitava già gli elefanti e le avanguardie giunte via mare. Il dolore al fondoschiena gli rammentò perché da sempre odiasse le selle. A peggiorare il disagio, per tutto il tragitto Alessandro non mancò di esternare la malagrazia con cui aveva accettato di accompagnarlo. «Zeus ti fulmini, Cinea! Mio padre poteva lasciare gli uomini all’accampamento e raggiungerci. Il nobile Filocari ci ha riservato le stanze migliori del Palazzo… Per di più, sta per piovere, e non hai lasciato che Agapito prendesse il mio mantello». «È necessario abboccarci col re lontano da orecchie tarantine» tentò di spiegare Cinea. Alessandro si trincerò nella smorfia che esibiva quando gli davano torto. Cinea smise di sprecar fiato. Rintracciarono Pirro tra gli hetairos della guardia. A capo scoperto, il monarca indossava spallacci e pettorale da cavaliere su una veste di lino, calzari di cuoio e speroni. Montava un destriero baio dalla criniera ben curata, che Cinea riconobbe con disappunto. «Vostro padre non si è ancora liberato di Granico» gli sfuggì. «Quell’animale è splendido in parata, ma infido sul campo. Prima o poi…». S’interruppe, rendendosi conto che Alessandro non lo ascoltava. Seguì lo sguardo del principe. L’esercito era uno spettacolo magnifico. I vessilli ondeggiavano nel vento; gli scudi, roridi di umidità, scintillavano ai raggi del sole. I pezeteri marciavano cadenzando il passo al fischio degli auleti. Pariglie di buoi trainavano i carri delle salmerie e le sezioni delle macchine d’assedio. Cinea distinse, tra gli hetairos, il principe Eleno. Interpretò il disappunto sul viso di Alessandro: trovare il fratellastro così prossimo al padre costituiva, per il giovane, una tacita minaccia.
19 Pirro trasse le redini del cavallo. La guardia reale fece altrettanto. Gli auleti zittirono. La marcia della falange, lentamente, si arrestò. Cinea smontò con gesto goffo, rischiando di rovinare nel fango. Trattenne un’imprecazione. Affidò il cavallo a un valletto, si produsse in un inchino all’indirizzo del sovrano. «Benvenuto in Apulia, sire». Pirro replicò con un cenno del capo. «Ti salutiamo, vecchio amico. E salutiamo te, Alessandro. Vediamo entrambi in buona salute. Ci auguriamo che gli dèi abbiano vegliato anche sulla vostra missione». «Così è. Sono qui a riferire». «Molto bene. Ma prima concedici una clessidra: ci spetta fare il re». Cinea si esibì nuovamente nell’inchino. Pirro impartì ordini agli araldi e li fece ripetere per accertarsi che fossero stati compresi; s’informò sulla posizione della retroguardia, chiese se uomini e animali avessero incontrato problemi durante la marcia, comandò di accendere i fuochi e di erigere le tende per la notte. Poi ordinò che gli fossero condotti i cani, che avevano viaggiato legati all’asse di un carro. I due molossi accorsero e fecero festa. Pirro lasciò che gli leccassero i palmi, quindi dispose affinché fossero nutriti e strigliati, al pari di Granico. Alla fine sedette su un seggio da campo, si fece servire un’olla di vino, bevve e ne offrì a Cinea. La pioggia, sottile, aveva preso a cadere sulla pianura. I valletti tesero un telo cerato tra due pali, a riparare il re dal fortunale. «Grazie per la pazienza, vecchio amico» disse Pirro. «Hai la mia attenzione, adesso». Cinea si accostò all’orecchio del sovrano. Senza perdersi in preamboli, riferì sugli abboccamenti con il polemarco Filocari; tratteggiò la situazione politica in Apulia, gli orientamenti dell’Assemblea tarantina, l’umore della popolazione in città. Pirro ascoltò con aria grave. Si carezzò la barba, rossastra come la chioma di Alessandro. «Vuoi spiegarci come siamo arrivati alla guerra?» chiese d’improvviso. Cinea rimase sorpreso: il re conosceva bene i prodomi del conflitto; non capì perché volesse tornare su un argomento di cui avevano già dissertato a lungo. Poi realizzò che la domanda non era rivolta a lui. Si fece da parte. Alessandro esitò, incerto se compiacersi dell’attenzione che suo padre gli dedicava o dolersi perché, ancora una volta, veniva messo alla prova. Alla fine prese fiato.
20 «I romani si sono intromessi nella disputa tra Taranto e la città di Thurii» rispose. «Per spalleggiare quest’ultima, hanno condotto triremi oltre Capo Lacinio, violando il trattato di pace. Il nobile Filocari si è proclamato polemarco e ha attaccato la flotta romana, affondando quattro triremi e catturando una quinta. Ingolositi dal successo, i tarantini hanno saccheggiato Thurii. Poi si sono resi conto di non poter sfuggire alla vendetta di Roma e hanno chiesto aiuto». «…appellandosi alle clausole dell’alleanza tra Epiro e Lega Italiota» intervenne Eleno. «Hanno citato il sostegno prestatoci all’assedio di Corfù, e si sono detti disposti a finanziare la spedizione. Ciò equivale a dichiararsi tributari. Nostro padre dice che è l’occasione di stabilire un protettorato in Apulia... Strano che Cinea non te l’abbia spiegato» concluse in tono affettato. Alessandro strinse i pugni. Cinea squadrò Eleno: il figlio di primo letto di Pirro era un giovane esile, di salute cagionevole ma determinato nel carattere. Cinea non s’era mai illuso di godere dei suoi favori, ma era la prima volta che subiva un attacco diretto, sia pure nella veste di precettore. Fece per replicare. In quel mentre si accorse che Agapito, col pretesto di asciugare i ricci di Alessandro, gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio. Vide che il principe annuiva, poi lo udì ribattere. «Plaudo la tua erudizione, fratello. Suppongo tu abbia studiato i trattati, mentre indugiavi tra le tiepidezze di corte. Io, al contrario, ho dovuto sfidare lo Ionio e vegliare sui bastioni di Taranto. Non me ne rammarico: le esperienze che ho vissuto mi consentono di riferire a nostro padre qualcosa che tu ignori». Cinea intuì: Agapito aveva confidato anche a lui la voce che girava tra i vicoli di Taranto. Era un aneddoto gustoso, che certo avrebbe deliziato il re. E forse gli avrebbe mostrato ciò che, con quella prova, intendeva scoprire su Alessandro. «A causare la guerra non è stata la stoltezza di Thurii o la sicumera di Filocari. È stato un pezzente chiamato Ciotola. Lui e i suoi amici di taverna hanno orinato in testa a Postumio, il romano inviato a riscattare i prigionieri. Mentre vuotava la vescica, il pezzente ha sghignazzato Porta quest'ambasciata a Roma. Postumio ha minacciato Laverò questa macchia nel vostro sangue, ed è tornato tra i suoi. Ecco perché, fratello, oggi siamo qui in armi». Cinea fissò Eleno di sottecchi. Come s’aspettava, era impallidito, e stentava a replicare. Fu Pirro, invece, a tagliar corto. «Il carro di Helios è
21 oltre l’orizzonte. Dobbiamo impartire ancora ordini prima di poterci ritirare. L’udienza è finita: domani torneremo ad ascoltarvi». Cinea si congedò con un inchino. Per un istante, gli parve che il re avesse notato il suggerimento di Agapito ad Alessandro. E che, per qualche ragione che non riusciva ad afferrare, ne fosse rimasto compiaciuto. No, si disse, devo essermi sbagliato. Montò a cavallo e, insieme ad Alessandro e al valletto, riprese la via della città. Alle loro spalle, la pioggia ripuliva il cielo.
22 TIFONE - 2 «Kotyle è la ciotola in cui il taverniere serve il vino. Più la riempi, più in fretta si vuota. Così era mio padre…». L’elefante si accovacciò sul ventre, sventolò le orecchie a scacciare i tafani. «Sino alla morte di mia madre è stato davvero un’artista. Dopo, ha abbandonato il tornio. Lentamente, come una candela nell'ultima cera… Il succo della vigna è divenuto il suo unico conforto. Ha cominciato a passare le notti alla taverna, tra balordi che lo chiamano “Ciotola”, e il giorno nel sonno greve di Dioniso. Io e mia sorella abbiamo dovuto rinunciare al ruolo di figlie e adattarci a fargli da madre». Tifone rovistò con la proboscide, senza troppo interesse, nell'arca che i sorveglianti avevano deposto nel recinto. I frutti erano troppo maturi. Non seguiva il filo del discorso della ragazza, ma fiutava in lei il bisogno di essere ascoltata. Perciò pazientava. «Quando gli opliti tornarono da Thurii col bottino, nell’agorà si proclamò la vittoria, e nelle taverne il vino corse a fiumi. Mio padre non tornò a casa per giorni. Io e mia sorella chiedemmo di lui in ogni bettola. Finché ce lo dissero». L’odore del branco raggiunse le narici di Tifone. Il pachiderma alzò il capo, lanciò uno sguardo all’ingresso del recinto. I suoi fratelli rientravano dall’addestramento. Alla testa della colonna era Anteo; sulle orme del capobranco veniva Pallante, poi Ceto, Taumante, Forco, Iperione, gli altri. Quel giorno le esercitazioni erano durate poco, considerò. Un imprevisto, forse l’arrivo del resto dell’esercito, doveva averle interrotte. Pensò di barrire all’indirizzo del branco e chiedere conto. Rinunciò: Anteo avrebbe impedito ogni risposta. Tifone sapeva di dover affrontare il rivale. La prospettiva non lo allettava: Anteo era alto sei cubiti e lungo, dalle zanne alla coda, quasi il doppio. Doveva recuperare le forze, se voleva sperare di tenergli testa. «Mio padre, ci narrarono, s’era imbattuto nel patrizio che Roma aveva inviato a negoziare. Con in corpo più vino che sangue, lui e una ghenga di ubriachi avevano dileggiato l’ambasciatore per il greco approssimativo in cui s’esprimeva. Non pago, papà lo aveva umiliato con
23 un gesto scurrile, di cui egli stesso s’era pentito il mattino seguente, quando aveva ritrovato la ragione e la strada di casa». Dafne sospirò. «La vergogna di mio padre durò meno di una clessidra. Quell’esibizione aveva fatto di lui una sorta di eroe. Per giorni i tavernieri gareggiarono a offrirgli da bere, i cantori intonarono il suo nome, le donne inneggiarono al suo coraggio… Mio padre era incredulo, ma accettò di buon grado la celebrità, fin tanto che essa gli consentiva di rabboccare la sua kotyle». La ragazza tacque. Frizionò la pelle del polso, che stava divenendo violacea. Tifone schioccò le labbra a testimoniare solidarietà. «Poi, una decade or sono, nell’agorà corse voce che il console Emilio Barbula marciava su Taranto. La notizia destò la città dall’ubriacatura. Con la sobrietà giunse il timore. Chi aveva acclamato l’eroe, d’un tratto cercò il colpevole. E lo trovò nel medesimo luogo». Tifone sentì che Anteo si avvicinava. Il rivale aveva preso l’abitudine, rientrando dall’addestramento, di sfilargli davanti per schernirlo, o per sincerarsi che fosse ancora vivo. In genere Tifone non gli prestava attenzione. Questa volta, però, si rese conto che Anteo non puntava lui, bensì Dafne. Nell’incedere tronfio del suo avversario colse commiserazione. Non ne fu sorpreso: Anteo rispettava i due-zampe solo se riconosceva in essi un briciolo di potere. In caso contrario, il servilismo lasciava luogo al disprezzo. Tifone fiutò l’odore di Anteo: in esso, gli parve di udire il pensiero del rivale. Ti trastulli coi bambini, Tifone della Mano Bianca, anzi Tifone il Ribelle Punito? È giusto: un cucciolo di donna è la compagnia adatta a una nullità come te. Chiedile di istruirti a sollevare tronchi, a trainare carichi di mattoni, a lavorare nei campi. Nessun odigòs ti condurrà più alla carica, nessun arciere salirà sulla tua torre. Saranno altri, più degni, a farsi onore sul campo di battaglia. La provocazione lo fece sussultare. Solo la cantilena di Dafne, che proseguiva il suo sfogo, riuscì a trattenerlo. «Una torma di popolane, che forse si ritenevano già vedove di guerra, aggredì mio padre con ramazze e bastoni. La notte successiva, farabutti dal volto coperto spezzarono le zampe a Nestore, il nostro asino, e diedero fuoco al laboratorio di ceramica. Salvammo a stento il tornio, ma il resto andò in fumo». Dafne trattenne un singhiozzo. «Mio padre non temeva per sé stesso. Chi briga per ricongiungermi con vostra madre, assicurava, merita la mia gratitudine. Per me e Andromeda, però, provava angoscia. Stabilì che la
24 casa dov’eravamo cresciute non era sicura. Chiese al cugino Antiloco di occuparsi di Andromeda, e spedì me dalle sorelle di nostra madre. Poi sparì. Dicono si sia nascosto nelle grotte del Galeso, o si sia imbarcato per Siracusa. Ho sentito canaglie vantarsi di tenerlo prigioniero, altri di averlo consegnato ai romani per una scarsella di monete». La ragazza cedette alle lacrime. «Non posso cercarlo, non posso difendere il suo nome… Le zie tollerano a stento la mia presenza, dicono che porto sfortuna. Antiloco tiene Andromeda segregata, non mi permette di vederla… Sono sola, amico titano. Ho voluto occuparmi di te per dare un senso ai miei giorni, per illudermi di essere più della figlia di Ciotola, l’ubriaco che ha condotto Taranto alla rovina». Si asciugò le guance. «Ora sai. Mi hai salvato e, per Artemide, meritavi di conoscere la verità. Perdonami, se puoi, di averti mentito». Tifone batté le palpebre, lieto che il torrente di parole fosse rifluito. Del lungo discorso aveva colto poco o nulla. L’odore di lei testimoniava che il pianto, se non altro, aveva mitigato la sofferenza. Tifone si chiese cosa poteva fare per aiutarla. Anteo indugiava nei pressi, fissando lui e Dafne con deplorazione. Tifone capì che ignorarlo era inutile. Decise d’istinto. Avvolse la proboscide intorno alla vita di Dafne, la issò sino alla sua nuca. Lei trasalì, sorpresa. Tifone attese che la fanciulla afferrasse le pieghe di pelle dietro le sue orecchie. Quando sentì la presa di lei farsi salda, inspirò a fondo. Il suo enorme torace si empì come il mantice di un fabbro. S’impennò sulle zampe posteriori, drizzò la proboscide ed emise un profondo barrito, che echeggiò da un capo all’altro del recinto. Anteo impietrì: solo elefanti più che abili sapevano sollevarsi in quel modo senza far cadere l’ammaestratore. Nessun odigòs ti condurrà più in battaglia, lo aveva beffeggiato Anteo. Che senso ha la mia vita? aveva singhiozzato Dafne. Potrò mai far sì che i tarantini perdonino mio padre? Riuscirò a tornare al tetto, alla famiglia che ho dovuto abbandonare? Tifone sentì di aver risposto a entrambi. Con un gesto che, nel suo eloquio muto, era una promessa. Un voto pronunciato dinanzi al branco, al mondo e agli umani che si arrogavano di esserne i padroni.
25 MURA DI TARANTO, PRIMAVERA 280 A.C. Un giovane hetairos armato di picca fermò Cinea all’ingresso della torre. «Dove credi di andare?». Il diplomatico additò la vetta dell’edificio. «Mi dicono che Pirro è lassù. Solo Atena sa il perché». Il giovane sembrò piantumarsi sul primo gradino della rampa. «Il re non desidera compagnia». «E il mio ginocchio non desidera affrontare scale» replicò Cinea. «Entrambi resteranno delusi». «Riponi l’arma, Attico. Costui è l’ombra di Pirro e, a volte, la sua voce». Cinea rese grazie al secondo guerriero. L’hetairos più giovane esitò. «Gli ordini sono…». «Di vegliare sul re. Ma quest’uomo lo serve da prima che tu nascessi. E osservagli le braccia: se anche Zeus lo privasse del senno, non diverrebbe una minaccia». «Sei arguto, Megacle» approvò Cinea. «Offendi fingendo di lusingare». Il guerriero sorrise. Aveva spalle larghe e braccia tatuate, collo robusto e chioma fulva, un’aria sveglia e sfrontata. «Hai sentito, Attico? Io e quest’uomo abbiamo conversato solo una volta, anni fa, eppure ricorda il mio nome». «Anche quello dei tuoi sei figli, fecondo Megacle» precisò Cinea. «E di tua moglie, povera donna». Il guerriero sbottò in una risata. «Fallo passare, Attico. Voglia Zeus che migliori l’umore del re come ha fatto col mio». Cinea ringraziò per quell’auspicio e affrontò le scale. I gradini erano malmessi: il tufo si sfaceva solo a toccarlo. Dalle crepe facevano capolino lucertole e scorpioni. L’intero edificio gli parve in pessime condizioni. Del resto, rifletté, gli avevano detto che era in disuso da quando, con la creazione della Lega Italiota, il perimetro difensivo di Taranto era stato ampliato. Restava comunque una delle costruzioni più imponenti della città. Trovò il re assiso sulle macerie del tetto. Indossava un laticlavio di lino bianco ornato da fili d'oro; portava stivali in pelle, bracciali ai polsi,
26 pendenti di bronzo al cinturone, anelli d'argento agli anulari. Il suo cipiglio era severo. Cinea notò i cani che gli sonnecchiavano ai piedi. I molossi, uno di pelo bianco, l’altro nero, avevano il ventre teso e l’aria rilassata. Cinea si stupì che fossero riusciti a salire sulla torre, e che l’altezza non li innervosisse. Non si fidava dei due animali, ma la loro dedizione a Pirro era indiscutibile. «Siedi con noi, vecchio amico. Appagati di questo spettacolo». «Ho nuove dalla flotta, sire» ansimò Cinea mentre riprendeva fiato. Pirro annuì. «Abbiamo visto la triere rientrare in porto. Cosa riferisce Milone?». Il diplomatico si asciugò la fronte con un lembo della tunica. «Ha avvistato una legione in marcia, forse diretta a Metaponto. L’ha bersagliata con archi e frombole. Il nemico ha risalito le alture e proseguito all’interno». Pirro inarcò un sopracciglio. «Abbiamo inflitto perdite?». «Milone è sbarcato per verificarlo. Dice che il nemico aveva schierato, sul fianco esposto, tarantini prigionieri. I nostri dardi ne hanno fatto strage. Milone ha raccolto molti feriti, ma nessun legionario: i corpi dei nostri alleati hanno fatto scudo ai romani». Pirro tacque, la mano destra sul capo di Idaspe, la sinistra a carezzarsi la barba. Il suo viso, come sempre, era accigliato. Un vezzo per il quale veniva considerato arcigno. Pochi, oltre Cinea, sapevano che una malattia giovanile aveva tolto al re buona parte della dentatura: da allora, Pirro evitava di sorridere in pubblico. «Capiamo perché sei qui» mormorò. «Milone è incerto se raccogliere i cadaveri e riportarli a Taranto: vuole che siamo noi a decidere». Cinea assentì. Il dilemma del generale non era semplice: riferire agli alleati la notizia della strage li avrebbe sconvolti; lasciare che lo scoprissero da soli sarebbe stato peggio. Attese il responso di Pirro. Ma il re era tornato a fissare il mare. Le correnti fredde dello Ionio disegnavano spirali di un azzurro intenso. I gabbiani si tuffavano nella spuma in cerca di preda. Un airone compiva cerchi perfetti intorno alla scogliera. Nubi rarefatte come pensieri fuggivano nel vento. «Stavamo considerando la nomea che abbiamo tra il popolo… e tra molti cortigiani. Tra cui forse tu, vecchio amico». «Atena m’è testimone, signore, non so di che parlate». «Lo sai. Il sovrano di Epiro preferisce i campi di battaglia al talamo».
27 Cinea si sforzò di non arrossire. La facezia gli era nota: echeggiava tra i vicoli di Ambrakia e gli opportunisti del palazzo reale; in varie versioni, alcune bislacche, altre triviali. Doveva ammettere di trovarvi un fondo di verità. Quando l’aveva conosciuto, Pirro era un giovane bellicoso e ardente, votato alla conquista del trono rubato a suo padre; era poi divenuto ufficiale, comandante di eserciti, e infine re. Senza mai smettere di impugnare la spada. Tuttavia, Cinea non avrebbe definito il suo signore un guerrafondaio. Lo riteneva, semmai, un uomo vessato dal peso del destino. Perché sono venuto al mondo?, non faceva che chiedersi. Per conquistare la gloria che fu dei tuoi antenati, gli ripetevano i cortigiani. A forza di ascoltare quella piaggeria, il re aveva finito per considerarla un comandamento e per agire di conseguenza. Non fidarti delle parole di chi ti adula, gli ripeteva a volte Cinea. L’Uomo è l’essere più meschino del creato: segue e inneggia il condottiero trionfante, ma non esita a calpestarlo nella sconfitta. Che importa, al re, della doppiezza dei suoi sudditi? replicava Pirro. Per dominare non c’è bisogno di lealtà, solo di una lama affilata e di un cavallo veloce. Cinea si scosse dalle riflessioni. Il sovrano attendeva una risposta. Tossicchiò per nascondere l’imbarazzo. «Sire, la frequentazione dei campi di battaglia non vi ha impedito di farvi onore nel talamo. Il numero dei vostri figli lo testimonia». Pirro continuò a tormentarsi la barba. Uno dei cani sollevò il capo, leccò le dita del padrone. «Eleno e Alessandro testimoniano solo di un padre troppo esigente, che negli anni li ha indotti a detestarsi l’un l’altro». Cinea azzardò una rettifica. «Atena m’è testimone, sire, siete ingiusto con voi stesso. Non state insegnando ai vostri figli a odiarsi. Li mettete alla prova per buone ragioni. Sentirsi rivali li indurrà a migliorarsi». Pirro scosse la testa. «Ieri, uno dei nostri figli ha chiesto a Eurippo un veleno in grado di uccidere senza lasciar traccia. Il nostro medico non ha osato rifiutare. Gli ha consegnato un’ampolla ed è corso a riferirci». Cinea trasalì. Si trattenne dal chiedere se il colpevole fosse Alessandro o Eleno. Il re non aveva certo taciuto a caso: omettendo il nome, sollevava il caso senza accusare colui che un giorno, forse, sarebbe divenuto suo erede. «Abbiamo ordinato a Eurippo di versare un antidoto nel vino dei nostri figli. Per questa volta, impediremo che nuocciano l’un l’altro… Ma
28 domani? Abbiamo una guerra da combattere, non possiamo fronteggiarne un’altra in casa». Cinea mise in ordine i pensieri. Lo sfogo di Pirro conteneva un ordine implicito. S’inchinò per assicurare che aveva inteso, e che avrebbe obbedito. Poi sospirò. «Rammentate, sire, la sera della mia partenza da Ambrakia? La nave per me e Alessandro sarebbe partita con la marea. Mi convocaste per ultime disposizioni, e finimmo per vuotare un’olla del miglior passito di Epiro». Pirro annuì. «Conversare con te è meno noioso di quanto si dica, vecchio amico. Specie dinanzi a un braciere e con un kylix di rosso in mano». «Ricordate, sire, cosa dissi quando il vino finì?». Pirro inarcò un sopracciglio. «Ordinasti ai servi di portarne altro». L’altro concesse il punto. «Senz’altro. Prima, però, vi chiesi cosa avremmo fatto quando l’ultima guerra fosse stata vinta. Rammentate la risposta?». Il re corrugò la fronte, meditò, scosse la testa. «Se la nostra memoria fosse senza pecche, non avremmo bisogno dei tuoi servigi». «Diceste: Quando avremo battuto i nemici ed espugnato l’ultima città, sapremo di aver compiuto il nostro destino, a dispetto della profezia con cui la veggente del Parnaso ci avvelenò la giovinezza… Allora riposeremo con letizia; ogni giorno leveremo le coppe in brindisi gloriosi, e insieme rallegreremo i cuori dei compagni discutendo d’arte, bellezza, amore e facezie». Pirro sorrise senza schiudere le labbra. «Parole ampollose, forse suggerite dal succo di Dioniso. Perché hai voluto ripeterle oggi?». Cinea s’inchinò. «Vi prego di considerare, sire, che il privilegio di vivere rallegrandoci tra arte e bellezza è già nostro. Quanto ai vaticini su cui vi arrovellate, dimenticateli. Non avete bisogno di indovini per conoscere il pensiero degli dèi: essi vi parlano, ogni giorno, attraverso i favori che vi hanno concesso e che continuano a elargirvi». Non aggiunse altro. Pirro rifletté a lungo mentre il cielo incupiva. «Sei un uomo saggio, Cinea» disse alla fine. «Più di quanto si pensi, meno di quanto vorrei» approvò il diplomatico. Poi s’inchinò, prese congedo e discese la torre, riflettendo sul dilemma che Pirro, pur senza pronunciare ordini, gli aveva ingiunto di risolvere. Dal mare dei suoi pensieri affiorava, forse, una soluzione. Ne ringraziò silenziosamente Atena.
29 TIFONE - 3 Tifone valutò che la sua esibizione avesse raggiunto lo scopo. S’inginocchiò sulle zampe anteriori, reclinò il capo e attese che Dafne si lasciasse scivolare a terra. La ragazza prese fiato. Tifone avvertì, nell’odore di lei, che la paura e la disperazione erano svanite. In loro vece, colse un aroma che fiutava di rado nei due-zampe. Speranza. «Grazie» la udì sussurrare. Capì che aveva colto il messaggio: se la gente di Taranto l’avesse vista sul suo dorso, avrebbero smesso di pensare a lei come alla figlia di Ciotola il pezzente; sarebbe stata Colei che Cavalca il Titano. In quel momento udì le urla di Aderbale. Il sorvegliante correva agitando il braccio sano in segni di scongiuro. «Scroto di Zeus! Nessuna femmina ha mai domato un elefante! Con quale maleficio lo hai stregato, Circe, per salirgli in groppa?». Le grida di Aderbale non sembrarono intimorire Dafne. La ragazza additò, ordinati sulla rastrelliera, gli attrezzi con cui Tifone era stato punito. «Gli ho solo parlato. Avete mai provato a farlo, voi maschi? O siete capaci solo di infilzarli con bastoni dalla punta arroventata?». Tifone considerò la battuta con cui Dafne aveva sferzato Aderbale, e trovò in essa più verità di quante lei, probabilmente, intendesse esprimere. Pensò agli undici anni trascorsi nell’esercito epirota: i vocaboli che guerrieri e sorveglianti gli avevano rivolto in tutto quel tempo non raggiungevano la metà degli incitamenti con cui Dafne aveva allievato i giorni della sua prostrazione. Neppure gli odigòs gli avevano mai impartito ordini a voce. In addestramento, a cavalcioni sulla sua nuca, si limitavano a un colpo di alluce sulle orecchie per comandargli "avanti", e a puntargli i talloni sulle spalle per il dietrofront. Così, benché Tifone riuscisse a comprendere il greco meglio di chiunque nel branco, aveva finito per disinteressarsi al parlottio degli umani. Come, del resto, usavano i suoi fratelli, a parte Anteo, che talvolta spiava i discorsi dei padroni per scoprire come ingraziarseli.
30 Le storie di Dafne avevano ridestato in lui il desiderio di comprendere. Com’era accaduto, per esempio, il giorno in cui la ragazza aveva chiesto a Aderbale perché il recinto ospitasse solo elefanti maschi. Le elefantesse sono bestie vili, era stata la risposta del sorvegliante, impossibile farle combattere. E poi, le femmine in estro eccitano i maschi: non riusciremmo a tenerli a bada neppure col pungolo. Il tono disincantato e schietto di Dafne aveva portato Tifone a riflettere. Il pachiderma aveva cominciato a chiedersi se le sbarre che serravano la sua vita fossero più strette delle assi chiodate del recinto. «So che presto affronterete i romani» dichiarò la ragazza. «Verrò con voi». Aderbale sgranò gli occhi. «Tu, sul campo di battaglia? Vuoi prendermi in giro, Circe?». «Chi altri potrebbe salire in groppa su Tifone? Nessuno cavalchi l’elefante che si è ribellato. È il codice, sei stato tu a spiegarmelo. Vuoi che la guarigione di Tifone sia stata vana? Che il tuo re affronti il nemico senza il più forte tra i suoi titani?». «Sei pazza». «Non m’interessa il titolo di odigòs. Continuerò a strigliarlo, nutrirlo e tutto. Ma voglio anche montarlo». Tifone schioccò le labbra. Poi cinse Dafne con la proboscide e la sollevò con delicatezza, a palesare il proprio giudizio sulla questione. Aderbale impallidì, ripeté i gesti di scongiuro, questa volta usando anche il braccio steccato. «Smettila con gli incantesimi, Circe!». Tifone lasciò andare la ragazza. Lei fronteggiò Aderbale. «Mi aiuterai?». «Come? Sono solo un sorvegliante». Tifone fiutò l’odore di Aderbale. Colse imbarazzo, ma anche rimorso. Lo colpì al petto con la proboscide. L’uomo trasalì, cedette. «Va bene, m’inventerò qualcosa. Forse è la volontà di Zeus». «Che vuoi dire?». Aderbale puntò il dito su Tifone. «Sulla nave sembrava impazzito. Se avesse ucciso un marinaio, ne sarei stato responsabile. E poi mi aveva rotto il braccio. Così l’ho punito duramente… Mi sbagliavo. Non è stata colpa sua». «Cosa?». Il numida ridusse la voce a un sussurro. «Prima di imbarcare gli elefanti, al loro fieno viene aggiunta una mistura di erbe che li stordisce. Così non soffrono il mare. La chiamano eurippina, l’ha inventata il medico di Pirro. È il segreto che ci consente di muovere elefanti da guerra dal Ponto Eusino alle colonne d’Ercole».
31 «Che c’entra…?». «Nel ventre degli elefanti, l’eurippina fermenta, e il letame ne conserva l’odore... L’ho sentito, in questi giorni, spalando lo strame del branco». «…ma non in quello di Tifone» indovinò Dafne. «Del suo sterco ti occupavi tu: per questo non me n’ero accorto. Ieri, però, ha defecato con me sottovento. Zeus mi fulmini se capisco come, Tifone non ha mangiato la sua eurippina. Ecco perché, nella stiva della nave, è mutato in furia». Dafne trasecolò. «Perché non lo riferisci all’elefantarco?». «Riferire cosa? Forse che un altro elefante… non so, Anteo… ha rubato l’eurippina di Tifone per metterlo in difficoltà?». Il numida scosse la testa. «Verrei accusato di aver perso una dose di eurippina. O di aver rubato la pozione di Tifone per venderla ai cartaginesi. In entrambi i casi, sarei perduto». «Perché lo confidi a me, allora?». Il numida chinò lo sguardo sui propri calzari. «Non so, Circe. Voglio togliermi un peso, credo… Forse, se vi aiuto, potrò perdonarmi di essere stato ingiusto». Tifone schioccò le labbra. Gran parte della confessione di Aderbale gli era sfuggita, ma nell’odore del sorvegliante v’era troppo rammarico perché l’elefante potesse fraintendere. Il fianco gli doleva ancora; i segni delle catene avrebbero marcato a lungo la sua carne. Rifletté. Aderbale era stato crudele, ma aveva agito in buona fede. Il vero colpevole era un altro, e lui lo avrebbe affrontato presto. Quanto al sorvegliante, poteva metterci una pietra sopra. O qualcos’altro. Torreggiò su Aderbale, allargò i quarti posteriori, vuotò la vescica. Colto alla sprovvista, il numida alzò d’istinto il braccio steccato a proteggersi. Non servì. «Credo che anche Tifone si sia liberato di un peso» commentò Dafne. L’elefante si diresse alla mangiatoia; afferrò un boccone di fieno con la proboscide, prese a masticarlo senza fretta. I due-zampe parlavano di “consumare la vendetta” come si trattasse di un cibo… In quel campo, pensò, le sue capacità superavano di gran lunga quelle degli umani.
32 ASSEMBLEA DI TARANTO, ESTATE 280 A.C. Sulla città il vento soffiava insolitamente gelido per la stagione. Quando Cinea si affacciò alla bifora per scrutare in strada, rabbrividì, e per un istante pensò di trovarsi ancora tra le nevaie di Epiro. Giù nell’agorà, venditori stendevano teli cerati sulla mercanzia; una donna con un infante in braccio contrattava per un canestro di frutta; due anziani inveivano contro un carro che impediva il passo; una masnada di giovinastri tormentava un bue legato al palo del beccaio; muli ragliavano contro i lampi all’orizzonte. Cinea scorse, nella folla, l’ambasciatore lucano da cui aveva appena preso congedo. L’uomo incedeva, a passo claudicante e contro vento, verso le stalle. Poco distante vide il messo dei bruzi, anche lui reduce dall’abboccamento, che gesticolava all’indirizzo di un servo, forse la sua guida in città. Quest’ultimo, disteso sui gradini di un ninfeo, doveva aver atteso il padrone troppo a lungo, perché ronfava a dispetto delle lavandaie che mondavano i panni. Chiuse le tende, rientrò nella sala dell’Assemblea. Considerò distrattamente gli affreschi che ornavano le pareti. Il soggetto dei dipinti erano le fatiche di Eracle: in ogni immagine il figlio di Alcmena era raffigurato di spalle, con le terga nude in primo piano. Il diplomatico si chiese se fosse una scelta del pittore o una richiesta dei membri dell’Assemblea. Sullo sfondo intravide figure animali. Forse la cerva di Cerinea, o il cinghiale di Erimanto. Il tratto non era eccelso, e i colori sembravano sbiaditi. Forse, rifletté, era colpa della giornata plumbea, e delle tende che velavano la luce. Tornò da Alessandro. Il principe sedeva accanto al tripode in rame ove ardevano essenze odorose, e attendeva con aria insofferente che Agapito gli portasse da bere. «Coppia di vigliacchi» lo udì commentare all’indirizzo degli ambasciatori. «Lucani e bruzi sono stati battuti dai romani troppe volte» replicò scrollando le spalle. «Per schierarsi apertamente, attenderanno l'esito del primo scontro». «Che corrano a nascondersi. Chi ha bisogno di loro?».
33 «Hanno eserciti mediocri, lo concedo. Tuttavia, da anni hanno unito le forze, come si confà a popoli dello stesso sangue. Insieme possono farsi valere: il dio della guerra ama coloro che levano lo scudo a difesa dei fratelli». Cinea aveva pronunciato l’ultima frase spiando il viso del principe: una reazione gli avrebbe confermato chi, tra i figli di Pirro, avesse chiesto a Eurippo il veleno. Ma Agapito scelse quel momento per tornare col kalathos delle vivande. Il principe ebbe buon gioco a nascondere le emozioni dietro una coppa di peltro. «Un buon vino. La giornata non è andata sprecata, dopotutto». Cinea tossicchiò. «Nessuno spreco». «Cosa?». «È vero, bruzi e lucani ci hanno negato rinforzi. Ma, come voi stesso osservate, al momento non ci occorrono. Necessitiamo di guide, invece, e foraggio per i cavalli. Che, l’avete udito, hanno promesso di fornirci. Inoltre avremo accesso alle piazzeforti sui monti. Potremo usarle per bloccare il passo ai romani». Alessandro sbuffò. Il boccone che aveva addentato gli sfuggì dalle labbra. Agapito si affrettò a mondargli la veste con uno straccio. «Sentieri di capre e staia di fieno valgono mezza giornata di un principe? E gli sforzi del “più sagace tra i saggi”, come ti appella mio padre? Di questo stupido negoziato potevano occuparsi i tarantini». Cinea corrugò la fronte. Indicò la brocca con un solo manico che in Apulia si usava per servire il vino. «Vedete quel kyathos, giovane Alessandro? Mi ripugna per forma e colore. Rifiuterei qualunque vivanda esso conservi, fosse anche il nettare di Dioniso. Eppure, se ne verso il contenuto in una ciotola, ecco che accetto di bere. Capite?». Il principe socchiuse gli occhi, mostrando più fastidio che perplessità. «Se questo rosso non ti piace, chiedi ad Agapito di portarne altro. Quanto al cinghiale, te lo cedo». Si alzò dallo scanno con aria annoiata, allentò la fibbia che gli serrava la veste, voltò le spalle a Cinea. «Ci sarà pure un’etera, in questo palazzo, in grado di intrattenere un principe di sangue reale» sbottò. E senza un saluto si diresse alla porta. Cinea lo guardò allontanarsi lungo il corridoio. Di certo, pensò, il figlio del re avrebbe preferito trascorrere la giornata esercitandosi coi suoi schenofori. Ma il rischio che Alessandro ed Eleno s’incontrassero, armi in pugno, nel caos della partenza, era troppo alto: Cinea aveva deciso di tenere il principe lontano dal fratello, almeno finché non avesse trovato il modo di riappacificarli.
34 Per buona sorte, il re aveva assegnato a Eleno il comando di uno squadrone di tessali, mentre Alessandro era stato nominato viceelefantarco. Due incarichi di pari prestigio, che avrebbero garantito una distanza di sicurezza tra i fratelli durante la marcia e in battaglia. Ma la partenza non era stata ancora ordinata. Da quanto Cinea aveva udito, il re intendeva affrontare il nemico sulle rive del fiume Siri. Se il fortunale in arrivo avesse proseguito verso occidente, il fango avrebbe bloccato la cavalleria: Pirro, da stratega esperto, sapeva che talvolta le battaglie venivano decise dalle bizze di Eolo, perciò indugiava. Pirro gli aveva anche comandato di far parte della spedizione. Alla prospettiva di tornare su una sella, il fondoschiena del diplomatico aveva preso a lamentarsi. Non sono di utilità sul campo di battaglia, si era sentito in dovere di obiettare. Non pretendiamo che tu impugni una spada, vecchio amico, aveva ribattuto il re. Dovrai cavalcare al nostro fianco e tener memoria degli eventi. Sarai le parole che renderanno eterna la nostra vittoria. Cinea si era inchinato in segno di obbedienza. «Signore?». Il diplomatico si scosse, batté le palpebre. Agapito lo fissava con aria incerta. Cinea rammentò le frasi che aveva scambiato col principe. Suppose che il valletto attendesse conferma di tornare alle cantine. «Non desidero altro vino» chiarì. «La storia della brocca e della ciotola era…». «…una metafora» completò il valletto. «Il kyathos è la città di Taranto, la ciotola siamo noi, il vino sono le proposte di alleanza. Gli italici hanno osteggiato i tarantini per decenni, e ne diffidano ancora oggi. Fosse stato Filocari a chiedere le chiavi delle piazzeforti, bruzi e lucani avrebbero rifiutato. Di noi hanno meno timore». Cinea rimase a bocca aperta. Agapito trasalì, come si rendesse conto solo in quel momento di aver parlato ad alta voce. Si gettò in ginocchio. «C…chiedo perdono, signore. Non so cosa mi è preso. Vi prego, dimenticate le mie sciocchezze». A Cinea sovvenne la scena alle saline, con Agapito che suggeriva ad Alessandro il modo di ribattere a Eleno. Il valletto era poco più di un fanciullo; la giovinezza lo portava talvolta a pronunciare parole ingenue, come era avvenuto sulla rotta per Taranto. Eppure, non v’era dubbio che fosse d’occhio acuto e indole speculativa, capacità in cui Cinea si riconosceva.
35 «Vedo che, mentre fai ombra al tuo padrone, ascolti le lezioni che m’affanno a impartirgli». Agapito arrossì. «Sono il valletto del principe Alessandro. Le mie orecchie devono essere sempre pronte a ricevere i suoi ordini». «Risposta impeccabile» osservò Cinea. Poi indicò il kalathos delle vivande. «La carne sta attirando insetti. Meglio che tu la copra, Agapito: non vorrei che Filocari trovasse il suo palazzo infestato dai calabroni». Agapito si affrettò a eseguire. Poi avvampò, realizzando che l’altro aveva pronunciato l’ultima frase in una lingua diversa dal greco. Cinea sorrise. «Insegnare ad Alessandro il punico è stato un fallimento. Sembra che qualcun altro abbia apprezzato». Agapito chinò il capo. «Mi spiace, signore, a volte dimentico qual è il mio posto. Vi prego di congedarmi: la panoplia del principe dev’essere lustra per la partenza». L’altro scrollò le spalle. «Come preferisci, Agapito. Lascia però che ti dia un consiglio. Se intendi mantenere un basso profilo, bada a lavorare anche sul frasario. Parli poco, è vero, ma usi termini troppo forbiti per un servo». Il giovane batté le palpebre. «Non capisco, signore». «Così va meglio» approvò Cinea. Poi cancellò il sorriso e accennò alla porta. Agapito s’affrettò a sparire. Il diplomatico pensò che il valletto di Alessandro meritava un’indagine. In quel frangente, tuttavia, aveva ben altre matasse da sbrogliare. Archiviò l’enigma nel dedalo delle sue memorie e tornò, col pensiero, alla sella e al poco onorevole dolore al fondoschiena che lo attendeva. Si affacciò alla bifora, scrutò il cielo. Il carro di Apollo era stato inghiottito dalle nubi. I prodromi della tempesta avevano raggiunto il Mare Piccolo. L'aria sapeva di umido, di ambra e di inquietudine. Un tuono fece ondeggiare le tende della sala. Sulla città che palpitava nell'attesa scrosciò la pioggia.
36 TIFONE - 4 Il branco fu l’ultimo a lasciare l’accampamento. Era la consuetudine, e Tifone sapeva il perché. L’odore che lui e i suoi fratelli emanavano rendeva bizzosi i cavalli; perciò i due-zampe che li montavano tendevano a mantenersi il più lontano possibile. Anche le fanterie rifiutavano di dividere il cammino coi pachidermi. Millantavano fosse per il prestigio della falange: Tifone sospettava che, in verità, temessero di essere calpestati. Restava solo la retroguardia. Gli elefanti apprezzavano, giacché attendere il turno per la partenza concedeva loro più tempo per empire lo stomaco. Nessun pachiderma rinunciava a una dose extra di foraggio, consci che non avrebbero ricevuto altro cibo per molto tempo. Tifone avvertì, sul dorso, movimenti scomposti. Dafne continuava a litigare con l’uniforme da odigòs. Il corsetto che Aderbale le aveva procurato era troppo grande per il suo fisico di adolescente, e stringere i lacci serviva a poco. Dafne doveva piegare il tessuto in risvolti per riuscire a muovere le braccia. Il cappuccio, poi, le celava totalmente il viso. L’elefante sapeva che gli umani non s’annusavano ma dovevano riconoscersi a vista. Perciò suppose che Aderbale avesse scelto un’uniforme abbondante affinché nessuno potesse accorgersi che Dafne era una ragazza. Il pachiderma era sorpreso che Aderbale avesse portato a buon fine la cospirazione. Lo aveva sentito vantarsi, coi sorveglianti, di aver trovato a Taranto un ammaestratore non legato al codice degli odigòs, e perciò disposto a cavalcare elefanti ribelli. Il numida era stato creduto sulla parola. Ciò convinceva Tifone, una volta di più, che la presunta acutezza dei due-zampe era sopravvalutata. Quanto ai frombolieri, sembravano disinteressati alla faccenda. Mentre Dafne saliva sul suo dorso, venivano passati in rassegna da un giovane dalla panoplia riccamente decorata. Tifone lo aveva fiutato: sapeva di privilegio e arroganza. «Prestate ascolto al principe Alessandro» lo aveva presentato Enea, l’elefantarco. «Obbeditegli come fareste con me».
37 Il giovane aveva pronunciato un’arringa, attraendo anche l’attenzione di Anteo. Tifone ne era stato lieto: senza quella distrazione, il suo nemico avrebbe certamente colto, nel millantato “ammaestratore tarantino”, l’odore di Dafne. Il pachiderma varcò i cancelli del recinto e si accodò ai suoi fratelli. Anteo guidava la colonna, condotto da un odigòs di nome Oreste. Dietro di lui Pallante, poi Giapeto e gli altri. Tifone sentì che Dafne riprendeva a cianciare, segno che ormai la ragazza non temeva più di essere smascherata. «Se mio padre potesse vedermi…» la udì, e fiutò in lei un’eccitazione che giudicò inopportuna. «Vado alla guerra come Ippolita e le amazzoni, come Atalanta…». Tifone emise un verso rauco per ammonirla a tacere. Non funzionò. «Hai visto che stemma ti ho dipinto sul fianco, amico titano? Aderbale mi ha spiegato come mescolare il gesso con la biacca, ma era la prima volta che impugnavo i pennelli. Spero ti piaccia». Tifone fece schioccare le labbra. Quando, all’alba, la ragazza aveva eseguito il lavoro, si era specchiato nella pozza del recinto, sforzandosi di mettere a fuoco la macchia che Dafne aveva tratteggiato sul suo torace. Aveva riconosciuto, in quella forma incerta, la Mano Bianca, emblema che gli era stato assegnato il giorno dell’arruolamento. L’interpretazione che ne aveva dato Dafne gli era parsa sgraziata. Ma, dopotutto, lo scopo della Mano Bianca non era l’eleganza; non più dei corni d’ocra sagomati sulla fronte di Pallante, della proboscide di Anteo annerita con la cenere, delle arpie tracciate in porpora sulle zampe di Iperione, delle pitture corporali che i suoi fratelli, quel giorno, esibivano. Servivano ad atterrire il nemico, e consentire all’elefantarco di distinguere, nella mischia, lo schieramento del branco. «Temevo che gli arcieri montassero sulla torre» aggiunse Dafne. «Invece li vedo laggiù. Marciano a piedi... Saliranno quando saremo fronte al nemico? Per non stancarti, forse?». Tifone inarcò i fianchi, facendo ondeggiare la struttura di vimini che due attendenti gli avevano issato sul dorso. I tiranti di cuoio, allacciati sotto il ventre, stridettero. Lui e Anteo portavano in groppa le torri più grandi, in grado di ospitare quattro guerrieri e le loro armi. Iperione, Giapeto e gli altri, a seconda della stazza, alzavano strutture più piccole, adatte a due o tre umani. Sentì che Dafne, per non cadere, stringeva la presa. Sperò avesse compreso la risposta: gli arcieri non si curavano di fiaccare gli elefanti; temevano, piuttosto, che i pachidermi li sbalzassero fuori dalla torre.
38 Tifone li aveva visti legarsi prima delle cariche, ma di certo nessun umano avrebbe scelto volontariamente di imbragarsi per un’intera giornata di marcia. L’ingenuità con cui Dafne aveva formulato la domanda indusse Tifone, ancora una volta, a riflettere: i due-zampe non avevano mai riservato, a lui e i suoi fratelli, le attenzioni che la ragazza gli prestava. Per i sorveglianti come Aderbale, i membri del branco erano sacchi da riempire di foraggio e da mondare poi dal letame. Con gli odigòs non andava meglio: il più spietato era Oreste, che sembrava provar piacere a usare il pungolo; ma anche gli altri mostravano solo indifferenza, se non disprezzo. A dirla tutta, considerò, gli elefanti potevano benissimo far a meno dei conduttori umani. L’unico vero talento che Tifone riconosceva agli odigòs era il saper rendere furioso il branco prima di scagliarlo contro il nemico. Se poi, nella foga della carica, i pachidermi minacciavano di travolgere le schiere amiche, gli odigòs non si facevano scrupolo nell’abbatterli piantandogli nella nuca lo scalpello, un paletto di ferro che avevano in dotazione proprio a quello scopo. A Tifone e ai suoi fratelli, da giovani, era stato insegnato che la sottomissione all’Uomo rientrava nell’ordine naturale. Chi non aveva imparato era morto per le percosse o, talmente disperato da rifiutare il cibo, per inedia. Alla fine il branco si era rassegnato. Alcuni, come Anteo, avevano sposato la filosofia dei padroni, e da adulti - proprio come i due-zampe - provavano soddisfazione nel riverire i forti e vessare i deboli. Nell’agire schietto di Dafne, nella sua dedizione, Tifone intravedeva un possibile rapporto diverso tra Uomo ed Elefante. Per questa ispirazione, egli le era grato. O meglio, lo sarebbe stato se lei avesse taciuto. Invece la ragazza insisteva nel suo cicaleccio. Mentre la colonna procedeva lungo la pista, facendosi largo tra campi coltivati a farro, arbusteti, felci e rigagnoli che brillavano al sole, la voce di Dafne molestava le orecchie di Tifone come il ronzio di un insetto testardo. «Guarda sui rami di quel frassino, amico titano. Credo sia un airone. Toccare un nido porta fortuna, dicono. E laggiù, tra i ligustri… Sono fiori di astragalo? Sai che, con le radici, mia sorella prepara un infuso? Mette a bollire l’acqua, aggiunge more di gelso e lascia fermentare. Secondo Andromeda, cura la febbre». Tifone sventolò le enormi orecchie, nonostante l’assenza di tafani da cui liberarsi. Dafne non colse il messaggio.
39 «E quelle spighe? Spelta? Alica? Conosci la focaccia tarantina, amico titano? Si ammollano due pugni di farina; poi si pesta in un mastello, si uniscono tre dita di formaggio, mezzo dito di miele, si mescola e si cuoce. Una delizia». Tifone scorgeva poco o nulla di quanto Dafne s’affannava a descrivergli: gran parte del suo campo visivo era chiuso dai quarti posteriori di Iperione, che lo precedeva nella colonna; per il resto, l’elefante badava soprattutto a dove posava le zampe. Tra i fili d’erba correvano topi e altre creature dei campi, forse spaventate dal passo marziale dell’esercito. Tifone, come la maggior parte dei suoi fratelli, provava ribrezzo per le bestie che squittivano. Sapeva che portavano malattie, e la prospettiva che gli s’infilassero nella proboscide costituiva uno dei suoi peggiori incubi. Per questo, evitava accuratamente di sfiorarli nel cammino. D’un tratto fiutò, nella brezza, un aroma di germogli. In un altro momento ne avrebbe profittato per uno spuntino, nonostante il ventre già colmo. Del resto, da quando era tornato in forze, passava quasi tutto il tempo a masticare, com’era uso della sua specie. In quel frangente, però, rinunciò. L’ansia per la battaglia imminente era cresciuta in lui nel corso della marcia, sino a chiudergli lo stomaco. Tifone tornò con la memoria a otto anni prima, alla campagna di Pirro in Tessaglia. Gli sovvenne il ricordo della prima carica cui era stato condotto. Nella sua mente risuonarono le urla, i tamburi di guerra, il clangore delle armi. Rivide le frecce che oscuravano il cielo; e poi il sangue, il dolore, i corpi di uomini e bestie riversi nel fango. Quel giorno non era stato ferito gravemente, ma il terrore gli aveva quasi fatto perdere la ragione. Tifone non era un codardo: alla pubertà aveva affrontato più di un maschio rivale per stabilire la gerarchia nel branco, e non avrebbe esitato un istante a uccidere un predatore che insidiasse femmine o cuccioli. Ma quel giorno, in Tessaglia, aveva sfiorato la morte senza capirne il perché. Aveva cercato risposte nei comandi del suo odigòs, nelle urla degli arcieri, nelle imprecazioni dei fanti. Finché aveva capito che i due-zampe si scannavano l’un l’altro a migliaia con una ferocia cieca, fine a sé stessa e senza motivi. C’era voluto molto tempo per riuscire a riprendersi. Si chiese se Dafne avrebbe vissuto un’esperienza analoga. Puntò la proboscide verso di lei. L’odore della ragazza rivelava eccitazione, frenesia, sconsideratezza. Di certo non aveva idea di quel che l’attendeva. Sperò che riuscisse a sopravvivere.
40 *** Seguendo il branco, Tifone procedette lungo la pista finché il carro del sole raggiunse l'apice. Poi la colonna traversò il greto del fiume Lato, poco più di un torrente, e piegò verso i monti lucani. Nel pomeriggio, la pista lasciò il fondovalle e risalì le colline. L'erba era alta un cubito, l'aria calda e pastosa. Eolo soffiava dolcemente. In equilibrio precario sul collo degli elefanti, gli odigòs riuscivano a stento a vedersi tra loro; si scambiavano indicazioni sbracciandosi o lanciando fischi, il viso coperto a proteggersi dalla polvere - copiosa giacché il sole di quel primo giorno d’estate aveva asciugato i lasciti della tempesta - e dalla lanugine che turbinava nel vento. «Viene da quegli arbusti» udì spiegare Dafne. «Mio padre li chiama “alberi nebbia”, perché a volte le loro infiorescenze offuscano la vista. Sono sacri ad Artemide, sai? La leggenda dice che…». Stremato, Tifone smise di ascoltare. Le colline mostravano segni di attività umana. L’elefante scorse capanne di paglia, terrazzamenti arati sui declivi, frutteti, animali al pascolo. Sperò che i mandriani tenessero le loro bestie a debita distanza. Pecore e capre gli erano indifferenti, seppure il loro odore lo disgustasse. Ma i maiali gli risultavano insopportabili. Una volta - rammentò - il grugnire di una scrofa, forse malata, lo aveva innervosito al punto da fargli abbandonare la formazione, con grande scorno dell’odigòs di allora. Contadini e pastori, vide, interrompevano il lavoro, impressionati dalla marcia dell’esercito. I flauti degli auleti richiamavano l’attenzione, i vessilli della falange catturavano gli sguardi. Ma Tifone intuiva che, per i due-zampe di quelle contrade, il vero spettacolo era costituito da lui e dai suoi fratelli. D’un tratto Iperione, che lo precedeva, rallentò. Tifone fu costretto a imitarlo. Udendo i fischi degli odigòs, dedusse che il branco s’era imbattuto in un ostacolo. Pensò a una strettoia della pista. Poi vide che si trattava di una carovana di umani, forse mercanti, che procedeva in senso contrario, e che si faceva goffamente da parte per evitare di essere calpestata. Tifone contò una decina di carri, alcuni trainati da asini, altri da buoi. Allungò la proboscide, sfiorò il barroccio più vicino; fiutò ortaggi, cesti di lumache, frutta. Il quadrupede legato alle stanghe ragliò terrorizzato. Tifone si affrettò a ritrarre la proboscide.
41 All’improvviso sentì che Dafne si sporgeva dalla sua nuca. Temendo che la ragazza cadesse, Tifone arrestò il passo, pur sapendo che rischiava di perdere contatto col resto della formazione. Udì Dafne rivolgersi ai mercanti. «Andate a Taranto?». Gli uomini del carro esitarono. Tifone fiutò il loro sgomento. Non dovevano mai aver visto un elefante, intuì: la sua presenza bastava a togliere loro il fiato. Dafne si sforzò di rassicurarli. «Siamo qui per difendervi dai romani. Di certo avrete sentito il nome di Pirro, il re che ci comanda». Uno dei mercanti si fece avanti. Era un uomo magro, curvo, con una barba ispida, color calce, lunga sino al ventre. Tifone lo sentì deglutire per darsi coraggio. «Sappiamo chi siete, giovane guerriero». «Siete diretti a Taranto?» ripeté Dafne. Il mercante annuì con fare nervoso. «A vendere il raccolto dei nostri campi, una miseria che certo non può interessare il vostro sovrano. Ti prego di trattenere il mostro che cavalchi, guerriero, mentre umilmente ti cediamo il passo». Tifone udì un fruscio. Capì che Dafne si era tolta il cappuccio, rivelando che era una ragazza. Vide i mercanti impietrire, sbalorditi. «Guardatemi, brava gente. Quando sarete in città, raccontate ai tarantini che avete incrociato la figlia di Filonide il vasaio. Dite loro che l’avete vista andare in guerra, e che cavalcava il più forte dei titani». Tifone sentì che la ragazza riguadagnava posizione sulla sua nuca. Scartò, si rimise in marcia, raggiunse Iperione, gli sfiorò la coda con la proboscide. Per una volta, le parole di Dafne gli erano state comprensibili. E avevano confermato ciò che già sospettava. L’ingenuità di Dafne, in quel frangente, si stava mutando in sconsideratezza. La ragazza viveva una suggestione, e il risveglio non sarebbe stato piacevole. Tifone si dolse di averle imboccato, quel giorno nel recinto, il ruolo che adesso sembrava entusiasmarla. «Vedi quell’altura?» la udì mormorare con voce ovattata, e capì che aveva calcato di nuovo il cappuccio sul viso. «Mio padre mi ci ha portato, una volta… C’è una cittadina, in cima, con un tempio dedicato ad Apollo. Sul versante opposto si apre la valle del Siri». Tifone udì gli odigòs fischiare. Era l’ordine di fermarsi. Questa volta non c’erano ostacoli: dovevano essere giunti a destinazione. «La cittadina si chiama Herakleia» aggiunse Dafne. Senza capirne la ragione, Tifone provò un brivido.
42 CAMPI DI HERAKLEIA, MATTINO Cinea si svegliò prima dell’alba. Liberò l’intestino ai margini del campo. Poi allacciò, sopra la tunica, il pettorale che l’armiere aveva adattato al suo magro torace. Calzò fasce di cuoio al ginocchio, strinse il cinturone alla vita. Ignorò il cibo offertogli dal vivandiere. Si limitò ad attingere, da un orcio, acqua sufficiente a inumidirsi le labbra. Il cielo era terso. Gli uccelli mattutini tacevano, l’aria fremeva nel tepore del dopo tempesta. Cinea non sapeva quando Pirro gli avrebbe comandato di raggiungerlo, e l’ansia rendeva insopportabile l’attesa. Per ingannare il tempo scaldò il vasetto della cera, poi spalmò quest’ultima sulla tavoletta destinata a riportare gli eventi della giornata. Annotò la data: era il nono giorno del mese di Sciroforione, secondo il calendario attico, cui Pirro gli aveva ordinato di attenersi. Elencò la consistenza dei reparti e la disposizione dell’accampamento. Prese nota delle condizioni dei cavalli e delle truppe, non trascurando la completezza dell’armamento, come gli aveva raccomandato il re. Vostra maestà sa bene, aveva obiettato Cinea, che trascrivere ciò che vedo è un esercizio inutile: la mia memoria conserva ogni dettaglio. Conosciamo le tue doti, aveva replicato Pirro. E vogliamo disporne prima della battaglia. Solo gli dèi sanno se potremo farlo dopo. Quando l’araldo giunse con l’ordine, il carro del sole era alto. Cinea montò su una giumenta di nome Europa, che aveva scelto tra gli animali del recinto per l’indole mansueta. Chiese all’araldo, un ventenne segaligno che si era presentato come Lisimaco, dove fosse il re. L’altro additò la collina che dominava la riva orientale del fiume. Cinea annuì, spronò Europa, risalì l’altura. Trovò Pirro in sella a Granico, intento a scrutare oltre le acque del Siri. Fece per salutarlo, ma il sovrano lo prevenne. «Che ne pensi, vecchio amico?». Cinea cercò una posizione meno dolorosa, rinunciò. «In questo momento, sire, penso che Poseidone avrebbe potuto creare il cavallo più comodo, prima di donarlo agli uomini». L’altro mantenne un contegno impassibile. Additò la sponda occidentale del fiume. «Ci riferiamo ai barbari. Vedi come sono asserragliati?».
43 L’aria, limpida, consentiva allo sguardo di spaziare. Cinea notò il fossato scavato dai romani, la palizzata, il terrapieno ben livellato, la disposizione geometrica degli acquartieramenti. Ne restò colpito. «Sire, le opere di questi barbari sembrano tutt'altro che barbare». «Ne conveniamo». Cinea esitò. Poi schiarì la voce. «Dovremmo saperne di più, sui romani». Pirro inarcò un sopracciglio. «Suona come una critica, vecchio amico». Il diplomatico accennò un inchino. «L’uomo saggio rende ogni lacuna un’opportunità… Alessandro studiava i nemici sconfitti, e da loro ha appreso meraviglie. Anche per questo è divenuto Gran…». Pirro tagliò corto. «In fanti e cavalieri ci equivalgono. Annotalo, Cinea: non si dica che abbiamo vinto in forza del numero». «Naturalmente no, sire. Sarà il vostro acume a darci il trionfo». Pirro distolse lo sguardo dal campo romano. «Due tentativi di adularci, uno più insolente dell’altro… Attento, vecchio amico: potremmo farti frustare». «Come vi aggrada, sire: confronto a questa sella, la sferza sarà un sollievo». «Riserva la tua arguzia a momenti migliori, Cinea. Ti abbiamo fatto chiamare per un motivo». Il diplomatico annuì. Smontò dalla giumenta, sciolse i lacci della sacca, ne trasse pergamena e carboncino. Sedette su una roccia, tracciò una panoramica della valle. Raffigurò le schiere romane che si andavano disponendo in formazione. Aggiunse dettagli curando che fossero comprensibili a chi, in futuro, avesse esaminato il disegno. Non si sorprese a trarne piacere: in gioventù era stato un promettente ritrattista. A volte si rammaricava che il Fato lo avesse condotto su una strada diversa. Completò l’opera, passò a una seconda pergamena. Riportò la posizione della tenda consolare, riconoscibile a dispetto della distanza, e vi affiancò il nome del condottiero romano: Publio Levino, secondo quanto gli aveva riferito Filocari. Tratteggiò coscienziosamente il profilo delle torri di guardia e le insegne delle legioni. Finché l’artista che era sopito in lui prevalse, e perse la cognizione del tempo. Fu Pirro a interromperlo. «Basta così» ordinò. «Dobbiamo andare». Il diplomatico distolse controvoglia l’attenzione dalla pergamena. «Andare? Dove?» Il re indicò alle proprie spalle. Cinea vide che dal campo epirota si levava fumo, in un filo sottile come l’argomentare di un sofista. «Che succede?».
44 Il re lo ignorò. Trasse a sé le redini. Granico, che aveva profittato della sosta per affondare il muso tra l’erba, nitrì di disappunto. Cinea si affrettò a risalire in sella. Europa si accodò al baio di Pirro, ne tenne il passo sino all’accampamento. La pira sacrificale ardeva tra crepitii sinistri. Il diplomatico vide, immersa nei vapori dell’incenso, l’ara in pietra che i muli avevano trainato da Taranto. Scorse la carcassa della vittima, il sangue che colava lungo le caditoie, i sacerdoti che, braccia arrossate fino ai gomiti, frugavano tra le viscere. Il più anziano, un cretese che Cinea sapeva chiamarsi Attalo, s’avvide della presenza di Pirro. Gli si fece incontro con entusiasmo. «Il fegato è ampio, mio re. Nessuna imperfezione». Pirro smontò da Granico, esaminò la frattaglia con severità, annuì. «Annotalo, Cinea» sussurrò. Poi sguainò la spada, la puntò contro il cielo, impostò la voce a beneficio della truppa. «Tornate nei ranghi, figli di Epiro, e riferite a tutti che la vittoria è nostra!». Tra gli uomini esplosero grida di giubilo. Le lance vennero battute sugli scudi, i cavalli nitrirono spaventati dal fragore. Cinea si sentì a disagio. Sdegnava gli olocausti che precedevano le battaglie; per lui, più che rituali di culto, si trattava di cattivo teatro. Non era mai riuscito a spiegarsi perché un fegato di montone, sbandierato come segno di benevolenza olimpica, riuscisse a fomentare i guerrieri. Poteva però testimoniare che, nel frasario della truppa, “fegato” stava ormai divenendo sinonimo di “coraggio”. Udì il re inneggiare ad Ares, e si chiese sino a che punto fosse sincero. Gli sovvennero scene di cui era stato testimone: Pirro che presenziava di malavoglia le celebrazioni al tempio di Zeus; che centellinava ai sacerdoti l’oro per la manutenzione del santuario; che non si faceva scrupolo di redarguire Attalo in pubblico, minacciandolo finanche di tagliargli la lingua, quando il cretese eccedeva nel criticarlo... Ma ricordò anche occasioni in cui Pirro gli era apparso come il più devoto degli uomini; rammentò quante volte lo aveva visto implorare un segno divino, prendere decisioni basandosi su voli di rondini e sogni di notti affannose. Cinea ricordava ogni scena. Pirro era incoerente, se non addirittura ondivago. Ma Cinea riteneva che i sovrani avessero diritto alle contraddizioni almeno quanto i filosofi. Mise da parte i pensieri, rendendosi conto che il sovrano gli faceva cenno. Si affrettò a raggiungerlo. «Mio signore?
45 «Ares si è espresso» sancì il re. «Non c'è motivo di procrastinare l'attacco». Indicò il cavaliere che giungeva al galoppo. «Ecco Lisimaco. Senz'altro ci informerà che la falange ha preso posizione. Annotalo. Adesso raduneremo gli hetairos, traverseremo il fiume e…». Non terminò la frase. Cinea si avvide che fissava il volto dell’araldo. Fece lo stesso. Lisimaco era terreo. «Mio re, i romani…» ansimò l’araldo, smontando di sella e piegando il ginocchio nella polvere. «I romani?» ripeté Pirro. «Sono qui. Hanno passato il Siri a valle. Un migliaio in sella, ventimila a piedi. I frombolieri di Rodi, che tenevano il guado, sono stati travolti». Pirro batté le palpebre, incredulo. «Loro attaccano noi? Com’è possibile?». Anche il console Publio Levino ha trovato il fegato, fece per commentare Cinea. Riuscì a trattenersi. Pirro sguainò di nuovo la spada. L’arma, dal doppio taglio e l’impugnatura crisoelefantina, sfavillò al sole. «Non importa… Gioite, figli di Epiro» declamò, stentoreo. «L’ora è giunta! Prima che giunga la notte, in un modo o nell'altro, saremo immortali». E rimontò in sella. Granico batté gli zoccoli sul terreno. Cinea, all’improvviso, ebbe paura. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA…
INDICE PROLOGO - MONTE PARNASO, 302 A.C. ........................................... 5 COSTA MERIDIONALE DI APULIA PRIMAVERA 280 A.C. .................... 8 TIFONE - 1 ...................................................................................... 12 SALINE DI TARANTO, PRIMAVERA 280 A.C. .................................... 18 TIFONE - 2 ...................................................................................... 22 MURA DI TARANTO, PRIMAVERA 280 A.C. ...................................... 25 TIFONE - 3 ...................................................................................... 29 ASSEMBLEA DI TARANTO, ESTATE 280 A.C. .................................... 32 TIFONE - 4 ...................................................................................... 36 CAMPI DI HERAKLEIA, MATTINO .................................................... 42 TIFONE - 5 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAMPI DI HERAKLEIA, VESPEROERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 6 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TARANTO, 280 A.C. ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 7 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAMPANIA, FINE ESTATE 280 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 8 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. ROMA, FINE ESTATE 280 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 9 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. ROMA, AUTUNNO 280 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.
TIFONE - 10 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TARANTO, AUTUNNO 280 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 11 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TARANTO AUTUNNO 280 A.C. – INVERNO 279 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 12 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. ASCOLI SATRIANO, PRIMAVERA 279 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 13 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. ASCOLI SATRIANO - TARANTO, 279 A.C.ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 14 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. SICILIA, 278 A.C. .......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE - 15 ................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. KATANE, 277 A.C. ......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE – 16 .................. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. PANORMO, 276 A.C. ...... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TIFONE – 17 .................. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. TARANTO, 272 A.C. ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. EPILOGO ....................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.