In uscita il 29/2/2024 (15,00euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2024 (3,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
SIMONE CENSI GLI IMMEMORI DI SANTA DINFNA ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ GLI IMMEMORI DI SANTA DINFNA Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-649-0 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Febbraio 2024
I DIECI MINUTI ALLE TREDICI L’orologio da parete della sala da pranzo segna dieci minuti alle tredici. Proprio in questo momento. Seduto impaziente a capotavola con fare da padrone, una cuffia di lana verdone ben calzata in testa nonostante non faccia poi così freddo per l’attuale stagione, la camicia felpata a quadri bianchi e blu protetta sul davanti da un tovagliolo con ricamato sopra un orsetto ed entrambe le maniche ben arrotolate con lo stesso esatto numero di risvolti. La zona giorno è in stile anni Sessanta, l’arredamento è semplice e funzionale, privo di inutili orpelli. «Ci risiamo» esclama Carlo reggendo con entrambe le mani uno scolapasta verde con alcuni spaghetti pendolanti che sono fuoriusciti dai fori inferiori, in attesa di versare il contenuto sul generoso sugo fumante che ha preparato. «Gli altri dove sono?». Nella sala da pranzo è presente soltanto un commensale seduto al lato corto del tavolino rettangolare. Tobaldi ha entrambi gli avambracci poggiati sul bordo e fissa l’altro dritto negli occhi da sotto la cuffia verde senza dire nulla. Carlo scuote la testa sicuro che non riceverà risposta alcuna e dando le spalle all’unico banchettante, catapulta la pasta nel sugo e la fa saltare in padella con gesti decisi, con una perizia e una facilità che contrasta non poco con la stazza corpulenta dell’uomo reso ancora più ridicolo dallo zinale giallo canarino che lo avvolge e che
richiama il colore della cucina con il paraschizzi bianco alle sue spalle. Il vento sposta le fronde del grande tiglio che sorge solitario nel piccolo quadrato di verde presente nella parte anteriore dell’abitazione a mattoncini rossi. «Piove» annuncia il signor Wouters facendo il suo ingresso nella sala da pranzo. «Ancora no» risponde Carlo senza nemmeno voltarsi, amalgamando sugo e pasta e pulendo le numerose macchie rosso pomodoro disseminate sul piano di lavoro. «Piove» rimarca con fare sicuro il signor Wouters. In effetti dai vetri della finestra compaiono le prime gocce cadute che scivolano via verso il basso. «Io esco lo stesso» afferma risoluto Tobaldi guardando dritto davanti a sé. «Dannata isola, tutta in piano». «Ma se piove?» prova a ribattere Carlo cercando di evitare un inutile quanto infruttuoso muro contro muro. «Se piove esco lo stesso» con tono perentorio. «Le mancano le sue montagne, signor Tobaldi?» chiede Carlo concentrato sulla mantecatura senza alzare lo sguardo dalla padella «magari possiamo organizzare una bella gita come tornerà il bel tempo, ci sono delle splendide montagne non lontano da qui, basta chiedere l’autorizzazione al Direttore». «Come ti pare! Io esco lo stesso» risponde Tobaldi afferrando una forchetta dalla presa agevolata e infilzando il piatto di plastica dura con una generosa porzione di pasta sopra. «Piano ragazzi, mi raccomando. Evitiamo di ridurre male la tovaglia ogni volta, ché con questo tempo il bucato non si asciuga mai» dividendo il pranzo tra i vari piatti già predisposti sulla tavola. «Sembri mia moglie» dice sottovoce il signor Wouters senza alcun accenno di ironia. «Come si chiama sua moglie?» risponde subito Carlo prendendo la palla al balzo «Si ricordi di prendere le pillole per la pressione prima di mangiare, ecco l’acqua».
«Piove» risponde l’anziano sceso in vestaglia per il pranzo, scostando la sedia accanto al Tobaldi che nel frattempo è riuscito a fare un unico grande rotolo con tutti quanti gli spaghetti del suo piatto, «Io esco lo stesso» mugugna continuando imperterrito ad arrotolare. «Certo, oggi piove signor Wouters» asseconda Carlo dall’infinita pazienza, «ma sono fiducioso che presto smetterà. Quando avrà smesso di piovere potremo uscire tutti quanti e fare insieme una bella passeggiata. Queste sono le sue pillole» mentre aiuta Tobaldi a districare l’inestricabile rotolo aggrovigliato intorno alla sua forchetta e porgendogli un bicchiere d’acqua. «Sofia» risponde Wouters di punto in bianco, come appena ridestato da un sogno «mia moglie si chiama Sofia». «Già, Sofia» esclama sconfortato Carlo. «Certo, dimenticavo. Dopo mangiato, finché non smetterà di piovere, possiamo vedere la televisione. Lei, Tobaldi, è dei nostri?». «Maledetta acqua!» esclama di risposta lottando con due spaghetti al lato della bocca, senza alzare lo sguardo dal piatto ma scostando di lato il bicchiere e facendolo traboccare sulla tavola. «Pluridecorato alpino in congedo illimitato» riportando il bicchiere davanti all’anziano «questa è la sua acqua e queste sono le sue pillole per la pressione». «In confino» replica testardo Tobaldi. «Come le pare ma nulla cambia» ribatte Carlo soffocando a stento una risata. «Ecco signor Wouters, è partito il film: Ieri, oggi e domani, il suo preferito». La videocassetta è già pronta per l’avvio all’interno del vecchio dispositivo, lo è sempre. Ogni sera Carlo, una volta portati a dormire gli abitanti di quella casetta a mattoncini rossi, riavvolge il nastro mentre riassetta con pazienza la cucina. Una vecchia VHS che
nonostante tutto ancora resiste, speriamo almeno per qualche altro anno. «Sofia» esclama in estasi il signor Wouters. «Certo, Sofia, io e il signor Tobaldi qui presente avremmo immenso piacere un giorno nel conoscere di persona la sua Sofia. In questo film è davvero brava nell’interpretare il ruolo della venditrice di sigarette di contrabbando. Come si chiama il suo personaggio?». La domanda cade nel vuoto mentre le immagini scorrono nel video. Carlo spera ogni volta di ricevere una risposta, non tanto dall’alpino in congedo illimitato che come un adolescente scalpita per la fretta di poter uscire dopo aver fatto i compiti a casa, quanto dal signor Wouters che oramai è proiettato in quella pellicola d’epoca, perso nello scorrere dei fotogrammi. Ogni volta cresce una vocina in Carlo a suggerire la risposta, qualche volta la vocina gli urla dentro e vorrebbe far uscire forte quel nome anche se sarebbe un po’ come barare, perché il solo ricevere come risposta il nome di Adelina lo ripagherebbe di tanti sforzi. Lo ripagherebbe a pieno dai tanti ceffoni presi e morsi subiti nel corso di una carriera tanto impegnativa da infermiere a contatto diretto con i pazienti, soprattutto da quando ha sposato il progetto attuale dove si evita la sedazione sistematica per ridurre al minimo i problemi e la contenzione nei casi più difficili. Era quello l’aspetto che lo aveva portato a doversi confrontare con la propria coscienza e sull’opportunità o meno di continuare quel lavoro, poi gli fu offerto il posto attuale grazie all’esperienza maturata, un posto nuovo e diverso da tutti quanti gli altri, dove non si emargina e non si preclude, dove non esiste una normalità standardizzata per tutti i pazienti ma una realtà onirica che ognuno può cucirsi addosso, dove ognuno trova la propria personale dimensione. Nonostante oramai siano anni che vivono insieme in quella casetta a mattoncini rossi, non sempre il signor Wouters lo riconosce. Quello che pensa di aver sposato niente meno che la Loren, prima di andare in pensione era uno stimato e irreprensibile direttore di banca e ogni
tanto crede di essere ancora in servizio. A volte capita che incontra Carlo in cucina, mentre questo prepara il pranzo e lo tratta con tutto il dovuto rispetto, in maniera molto formale lo fa accomodare su di una sedia e inizia a impilare sul tavolino i fogli di carta che trova sparsi qua e là per i cassetti. Ne prende uno, lo piega in due ponendo estrema attenzione a far collimare gli angoli, un’operazione forse dettata da tanti anni di movimenti divenuti con il tempo meccanici, poi lo apre dopo aver inumidito l’indice sulla punta della lingua e legge sottovoce con molta concentrazione il foglio del tutto bianco. Lo vidima con un segno della penna a sfera che ha sempre dietro nella tasca della vestaglia a riprova della deformazione professionale e con un cenno di soddisfazione accompagnato da un teatrale sospiro, lo dispone davanti al suo cliente in attesa della firma. Da buon infermiere Carlo capisce subito la situazione, non lo contraddice, anzi sta al ruolo. L’anziano in quel momento è del tutto avulso dal piano reale, imbottigliato in un preciso istante ripescato chissà dove nel suo passato, forse in una giornata qualsiasi della sua lunga carriera lavorativa in banca. I suoi occhi vedono solo quello che la sua mente gli detta, se potesse entrare nella testa del signor Wouters, Carlo non si ritroverebbe più in una cucina ma seduto alla scrivania di un ufficio, pieno di plichi e documenti da firmare. Carlo con calma gli pone delle domande semplici e al tempo stesso pertinenti, vuole riportarlo in maniera graduale al presente e vuole che questo passaggio avvenga in modo controllato, niente bruschi risvegli che possano generare traumi. Alle domande poste il signor Wouters risponde in maniera sensata, con il progredire della malattia anche il suo lessico ne ha risentito in modo importante ma quando si estranea, quando spicca il volo dal piano reale, sembra quasi recuperare il terreno perduto.
Questa volta però il tentativo è fallito, non c’è proprio verso di riportarlo indietro. L’infermiere prende la penna, finge di esaminare per l’ultima volta le clausole scritte in piccolo su di un foglio tutto bianco e poi appone la sua firma in calce. Poco dopo il signor Wouters si appressa a Carlo che subito si alza in piedi, i due si stringono forte la mano e il banchiere sfoggiando un sorriso di circostanza gli dice «La ringrazio per la sua fiducia». Carlo si congeda, a volte fa fatica a credere che simili situazioni possano accadere davvero e lo lascia lì a riordinare con laboriosità tutta la documentazione sparsa sul tavolo. Esce dalla casa a mattoncini rossi e dopo cinque minuti rientra. «Carlo» esclama l’anziano signore indicando intimorito i fogli disseminati sul tavolo e quelli finiti a terra che non è riuscito a sistemare, con quell’aria innocente di chi davvero non sa cosa possa essere successo. «Non si preoccupi, signor Wouters» fa Carlo con un tranquillizzante sorriso «ci penso io». Ora l’anziano bancario è di nuovo ritornato un calmo pensionato che crede di essere sposato con Sofia Loren. L’isola di Santa Dinfna galleggia solitaria in acque placide, protetta da un’insenatura che la scherma dalle correnti marine, lontana dalla terraferma quel tanto che basta per non poterla raggiungere a nuoto ma non così lontana da arrivare a sentirne la mancanza. È un’isola che a vederla potrebbe apparire come tante altre ma a guardarla con la stessa passione con cui un filatelico scruta con la lente il suo bollo nella speranza di avere tra le mani una variante pregiata, si possono scoprire delle cose a dir poco interessanti. Per cominciare l’isola di Santa Dinfna ha un nome difficile da pronunciare ma con il tempo scoprirete che è quanto mai azzeccato. Ha un solo porticciolo adatto all’attracco d’imbarcazioni di piccolo pescaggio che sorge in prossimità della piazza di San Gereberno, unica piazza dell’unico centro abitato.
Per essere corretti quello è l’unico attracco dell’unica imbarcazione adibita a quel tratto di mare, che fa la spola con il molo contrapposto che sorge sulla terraferma. Senza alcun peso nell’economia della vicenda, mi piace annoverare tra le stranezze che quell’unica imbarcazione porta il nome di Damon scritto sulla chiglia. Stramberia, perché le imbarcazioni a quanto ne so, hanno sempre nomi di donne eccezione fatta per quelle militari. Quindi la barca porta un nome maschile di origine inglese ma nel pieno rispetto della tradizione marinaresca è chiamata La Damon. L’isola di Santa Dinfna, nonostante quello che con caparbietà afferma l’alpino Tobaldi, ha un’estensione di poco più di due chilometri quadrati e non è proprio del tutto piatta. Non è possibile fare raffronti con altre isole che sorgono in zona ma il punto più alto arriva ad almeno duecento cinquanta metri dal pelo dell’acqua. È comprensibile che un alpino sia abituato a ben altre altezze e soprattutto per un buon camminatore fare il giro dell’isola sia ben poca cosa e da questo scaturisce tutto il suo evidente risentimento. Il roccioso militare in congedo illimitato vede come una beffa del destino quella di dover trascorrere la restante parte della sua vita in un posto di mare, ma se avete la pazienza di chiedere ai rimanenti centoquarantasei isolani, vi confermeranno che la vita su questa zattera galleggiante non è poi così male. Dico questo e mi assumo le dovute responsabilità, sessantacinque abitanti ogni chilometro quadrato sono di certo pochi anche per litigare. L’unico centro abitato presente sull’Isola è la cittadina di Geel, potrebbe essere un borgo per non catalogarlo per forza di cose come un semplice agglomerato di case. Tutti gli isolani vivono lì, dove si svolgono anche la maggior parte delle attività e dove sulla banchina, proprio su quelle tavole di legno legate a robuste assi e pali ancorati
in maniera tenace nelle acque, proprio in questo momento facendo attenzione, si può notare un’anziana signora di nome Adna. Lei è stata la cento quarantasettesima isolana ma ora è solo la quarantottesima, seduta su di una sedia pieghevole di legno con una coperta stesa sulle gambe e davanti a una tela che con estrema cura sta dipingendo. Il motivo di questo avanzamento di carriera prometto che lo capirete presto, per ora vi basti sapere che Adna è una famosa pittrice di origine tedesca che si è ritirata sull’Isola in un momento della sua vita in cui non avrebbe potuto altrimenti fare. Vedova e senza figli, lontani parenti che mai si fanno vedere, ha trovato una nuova rinascita in questo luogo sicuro che le permette di dedicarsi a quello che più le piace fare, distante dal clamore della quotidianità. Ama sedersi con la sua sedia pieghevole sul porticciolo per dipingere il mare, alcuni scorci caratteristici dell’Isola come la Torre Vecchia e anche i gatti blu. Alla signora Adna piace da sempre dipingere ambientazioni rupestri a ridosso del mare e la rilassa molto lavorare in solitudine, per questo motivo spesso s’isola dal resto del gruppo che invece predilige frequentare gli spazi verdi presenti nel piccolo paese di Geel, con stagni e fontane zampillanti, giardini curati con numerose varietà di fiori e panchine accoglienti per godersi un pomeriggio assolato. L’unico a importunare ogni tanto l’anziana artista è il giovane garzone del piccolo emporio sito nella piazzetta circostante, il quale è abituato ad avvicinarsi circospetto per non interrompere il flusso creativo della donna. Forte del suo corso di laurea, il tirocinante in infermieristica scambia con lei solo qualche breve parola detta soltanto da lui, a volta le porta un bicchiere d’acqua per prendere una pillola, a volte solo uno sguardo, giusto per capire se ha bisogno di qualcosa e poi se ne torna via, ma tenendola sempre sott’occhio.
L’OROLOGIO DA PARETE DELLA SALA DA PRANZO SEGNA DIECI MINUTI ALLE TREDICI. La signora Adna non torna quasi mai a pranzo, lei si sveglia molto presto la mattina e tempo permettendo esce da casa per fare ritorno soltanto a metà pomeriggio. Chi la segue, per preservare la sua incolumità da incidenti o cadute, per evitare che si possa perdere nelle lunghe passeggiate, oltre a portarle la sedia pieghevole in legno, le tele e i colori, è sempre costretto a fare una levataccia. Quando è una di quelle giornate dove le piace dipingere il mare, mangia qualcosa nell’emporio vicino al porto dove il garzone si è organizzato per l’eventualità con un fornelletto da campo piazzato sul retrobottega, se invece è uno di quei giorni da paesaggi rocciosi, anche se in un’isola il mare la fa sempre da padrone, preferisce spostarsi verso la Torre Vecchia. Ubicata lungo la scoscesa e frastagliata costa occidentale, la Torre era stata eretta nel tredicesimo secolo con funzioni difensive e di avvistamento grazie alla sua posizione a strapiombo sul mare, soprattutto per difendere la piccola isola dalle frequenti incursioni piratesche. Un imponente complesso fortificato anche se in parte diroccato a pianta poligonale irregolare per adattarsi meglio al terreno accidentato, con possente basamento a scarpa, una parte di altezza superiore alla rimanente struttura e con una merlatura nella parte sommitale. Quando Adna arriva fino alla Torre Vecchia, mangia soltanto al ritorno a casa quello che Maria cucina e le mette da parte in piccoli contenitori colorati. Se non riceve la chiamata del garzone
dell’emporio avvisandola che è stata a mangiare da lui, Maria tira fuori dal frigo i suoi contenitori colorati almeno cinque minuti prima dell’ora solita in cui l’anziana pittrice ritorna, felice e affamata. In quella piccola casetta a mattoncini rossi arredata in stile anni Ottanta non viene certo meno la presenza di Adna, grazie ai magnifici quadri che ha realizzato da quando è giunta sull’Isola e che sono esposti nella zona giorno. Nessuno si spiega come mai la malattia abbia intaccato solo in maniera marginale la sua capacità di dipingere. Non solo. Chi opera nel campo afferma che l’anziana tedesca da quando è approdata sull’Isola, ha avuto un’evoluzione artistica che procede di pari passo con l’avanzare della sua malattia. Lo dimostra il numero di richieste da parte di studiosi per visitare la donna e capire la connessione esistente tra le due cose, come le proposte di gente dell’ambiente artistico per l’acquisto dei quadri che la donna ha dipinto dal suo arrivo. Gli esperti sostengono che la malattia neurodegenerativa porti con il tempo alla perdita di vaste aree del cervello interferendo così con la memoria e la capacità di linguaggio ma per compensazione aumenterebbe altre zone che sono in maniera maggiore stimolate, come quelle adibite alla creatività o altra teoria afferma che il calo cognitivo avrebbe come conseguenza diretta la disinibizione delle zone legate alla fantasia. Questi studiosi sanno bene che Maurice Ravel mostrava già i primi segni della malattia durante la composizione del Bolero e anche la pittrice canadese Anne Theresa Adams durante la sua ultima produzione artistica, presentava i primi segni di afasia. In quella sala da pranzo aperta sulla cucina, con linee molto decise e colori sgargianti, la fanno da padrone i materiali come il legno, il metallo e il vetro. Tutto è molto funzionale e facile da pulire e sistemare, un’ampia zona tv con un morbidissimo divano scuro, alcune maschere africane intagliate in legno poggiate su di un tavolinetto basso in vetro dove un lungo braccio metallico tiene sospesa a mezz’aria una lampada.
Maria, una donna non ancora sulla quarantina dal fisico minuto e nervoso, mescola senza sosta una zuppa di verdure assaggiando ogni tanto con il cucchiaio di legno e correggendo una volta di sale o di pepe la pietanza che va preparando. «Karen, forza vieni a tavola. Tutte a tavola signore, è pronto» agitando con forza una campanella che tiene sul piano della cucina. Altre due signore anziane si avvicinano con lentezza al tavolo, Karen invece non risponde. Se Adna alla veneranda età di ottantuno anni è la quarantottesima, Karen che di anni ne ha novanta come il signor Wouters, è la sedicesima. Per non ingarbugliare le carte forse è meglio soffermaci un attimo e non far andare avanti le lancette di quell’orologio da parete. I cento quarantasette abitanti dell’Isola non sono un numero preso a casaccio. Sono i residenti effettivi che le strutture abitative a mattoncini rossi che compongono la città di Geel possono contenere, è un numero chiuso e i nuovi arrivati possono attraccare al porticciolo con il piccolo natante battezzato La Damon solo quando qualcuno già residente si decide a lasciare l’Isola e nel contempo questo mondo. Per questo motivo la signora Adna è ascesa nella graduatoria fino alla quarantottesima e la signora Karen fino alla sedicesima, scalando ogni volta di una posizione. L’orologio da parete della sala da pranzo segna nove minuti alle tredici, adesso. Ci crediate o no, anche quando si racconta una storia, il tempo non si può comandare.
«Forza Karen, alzati dal divano e vieni a mangiare. Oggi abbiamo un sacco di cose da fare insieme signore» dice Maria rivolgendosi alle donne che hanno già preso posto a tavola «prima mi aiutate a riassettare la cucina e poi andiamo insieme al parco. Se smette di piovere si terrà un concerto di musica jazz, altrimenti credo che lo faranno nella sala cittadina». Karen non risponde ma Maria non difetta di pazienza, costanza e determinazione. Alla terza chiamata e al secondo scampanellio, dopo aver disposto i piatti fumanti a tavola, fatto sedere le altre anziane commensali e aver preparato una schiscetta per la signora Adna riposta sul piano di lavoro in attesa che si raffreddi prima di essere messa in frigo, Maria si avvia verso il divano scuro e prendendo sottobraccio Karen la aiuta a sollevarsi e arrivare al tavolo. A Santa Dinfna l’età anagrafica non ha troppo peso, quasi nessuno se ne cura. È molto più importante il numero che si riveste all’interno di questa comunità ed essere sedicesima sta a significare che la signora Karen è approdata sull’Isola parecchi anni prima, molto sopra della media di permanenza. Vedova di un noto banchiere inglese di origine ebraica è stata condotta sull’Isola dalla sua unica figlia Cristina, proprio perché come luogo di cura è singolare nel suo genere. La scelta è stata dettata dal fatto che alle prime avvisaglie della malattia, la figlia si è subito resa conto di non essere all’altezza della situazione. Con la promessa di andarla a trovare ogni giorno, si passò presto a ogni settimana visti gli impegni dovuti alla gestione della banca di famiglia, arrivando infine a ogni mese con la nascita dei primi figli. Si rivedono infine alle feste comandate come d’altra parte fanno molti altri parenti degli isolani, in quei periodi dove la piccola Damon sforza nel fare e rifare quel tratto di mare con tanta frequenza. Cristina arrivando sull’Isola ha i classici rimorsi di coscienza che si possono avere in queste circostanze. Fasciata nei suoi vestiti firmati e con quella borsa di pelle scura dove un cellulare non smette mai di suonare, dietro a quella maschera di risolutezza
imposta dalle necessità professionali, si sente inadeguata e in colpa, si sente impotente e vulnerabile. Quando mette piede a Santa Dinfna prova quelle cose che non sente in nessun altro luogo, quelle sensazioni da cui tutti i soldi del mondo non potranno mai metterla al riparo. Dal suo portamento rigido traspaiono tutte le insicurezze e i conflitti non risolti, insieme alla consapevolezza che rimarranno tali per il resto della sua vita a fronte di una madre che non la riconosce neanche più e che la tratta come un’estranea a ogni nuovo incontro. Sempre più sporadico. Quella di non essere riconosciuti è purtroppo una costante in questa malattia, qualcosa che fa tanto male, qualcosa che ti ammazza dentro e soprattutto che capita sempre. Cristina se lo ricorda bene il momento in cui sua madre per la prima volta le ha chiesto “chi sei?”. Ricorda bene quella percezione incrociando il suo sguardo, la strana sensazione dettata dagli occhi terrorizzati di sua madre che la osservavano, pozzi scuri e profondi, l’atteggiamento guardingo di lei, l’aria diffidente. L’espressione che deformava il viso di sua madre che diventava estranea sotto i suoi occhi, per poi rendersi conto che l’estranea in realtà era diventata lei. A Cristina venne spontaneo esclamare “mamma” e chi non lo farebbe in una simile situazione, come è palese che quel “chi sei?” ripetuto per una seconda volta gelerebbe il sangue a chiunque. Quella semplice domanda all’apparenza innocua, fatta dall’ultima persona dalla quale te la aspetteresti, in un attimo è capace di mettere in discussione tutta un’intera esistenza, riuscendo a far vacillare ogni più intima certezza. È come negare la propria nascita, essere trasparenti agli occhi della propria madre in pratica è come non esistere. Quando viene a trovare sua madre Karen, Cristina si siede accanto a lei, sa di essere ai suoi occhi una perfetta sconosciuta quindi cerca di
evitare anche il contatto fisico che la potrebbe mettere sulle difensive e far chiudere in anticipo l’incontro. Rimangono lì come due perfette estranee sedute sull’unica panchina all’ombra del parco. La figlia cerca prudente di avvicinarsi quanto più possibile, socchiude gli occhi e cerca di respirare forte il profumo della propria madre, ritrovare quel contatto perduto, ricreare quell’antico legame, alimentare quella memoria emotiva che in cuor suo sa che non potrà mai morire. Nonostante la malattia Cristina non rinunciò alla presenza di sua madre nel giorno più importante della sua vita, quello del matrimonio. Visse tutta la giornata con un costante stato di ansia perché in diverse occasioni Karen era stata alquanto bizzarra e con una uscita delle sue avrebbe potuto rovinare la funzione o il ricevimento. Eppure nulla di tutto questo accadde, tutti vissero felici quella splendida giornata a eccezione di Cristina alla quale rimase soltanto lo stato di ansia che essa stessa si era procurato. Karen ha trovato numerosi vantaggi nella sua permanenza sull’Isola, ha riscoperto cose che in precedenza aveva dimenticato, che voleva ma non poteva avere o cose che non sapeva nemmeno di desiderare. La malattia aveva portato come conseguenza il disturbo del sonno, quindi a fronte d’improvvisi stati di catalessi diurni, soffriva d’insonnia notturna. Era stato compromesso il suo ritmo circadiano quindi sempre più spesso si svegliava di notte vagando per la casa, disorientata, al buio, arrivando anche a cadere per poi essere ricoverata al pronto soccorso. Da quando ha fatto il suo arrivo sull’Isola, sotto le amorevoli ma inflessibili cure di Maria, la donna ha ritrovato un ritmo regolare, un ambiente tranquillo, luci notturne che le permettono di alzarsi senza pericolo di notte, attività fisica, pasti equilibrati e tutta una serie di accorgimenti che vanno in quella direzione. È chiaro che il disturbo ancora tende a ripresentarsi, la malattia non ha cura, ma con i dovuti accorgimenti si può far vivere Karen con quanta più pace possibile. Ora prende meno medicine, quando il suo stato lo permette può muoversi insieme con gli altri nelle zone predisposte per lo svago,
ha scoperto anche di possedere una certa predisposizione per la cura delle piante. Una specifica zona del giardino dinanzi alla casa a mattoncini rossi è stata predisposta da Mike, il giardiniere che cura gli spazi verdi e lì Karen ha iniziato a coltivare svariati tipi di piante. Mike e la sua squadra curano tutto il verde del piccolo centro abitato dell’Isola ma la loro attività non si limita soltanto a pulire, annaffiare e tosare il prato, loro seguono gli anziani in ogni spostamento e in tutte le attività che si svolgono all’aperto. Uno strano modo di impiegare una laurea in medicina. Tant’è.
L’OROLOGIO DA PARETE DELLA SALA DA PRANZO SEGNA DIECI MINUTI ALLE TREDICI. Gino De Rossi a dispetto dei suoi novantuno anni è piuttosto novello sull’isola di Santa Dinfna, non dico l’ultimo arrivato ma è comunque oltre la posizione numero cento. È un ex partigiano, uno di quelli che se la sono vista brutta e che hanno affrontato enormi difficoltà in un periodo difficile. Qualcuno direbbe che è per questo motivo, altri direbbero che la cosa non influisce affatto, comunque sia il buon Gino è rimasto bello arzillo fino all’ultimo, almeno fin quando i suoi cari si sono resi conto che stava incominciando a perdere colpi e per non rimanere senza munizioni di fronte al nemico dal nome impronunciabile, lo avevano convinto pian piano all’idea dell’Isola. Il Gino da buon combattente aveva osteggiato subito la cosa, aveva minacciato di scappare da casa e rifugiarsi in montagna come una volta aveva già fatto, ma assediato da figli e nipoti alla fine aveva ceduto. Salendo sulla Damon aveva percepito per un istante la stessa sensazione che aveva provato molto tempo prima, quando a sei anni era figlio di un attivista del Partito Socialista in un piccolo comune nel reggiano, nel periodo subito dopo la formazione del Partito Fascista. Insomma, aveva la sensazione che si può provare quando ti aspetta davanti un brutto ventennio. Con il tempo poi ha fatto l’abitudine alla cosa, ma non è comunque abbastanza da disinnescare il battagliero ultranovantenne e togliergli dalla testa ogni velleità di fuga. In compenso il mangiare è buono e non è imposto. Gino va a fare la spesa al negozio del paese con Mario, che è sempre preciso e puntuale oltre a essere un bravo cuoco e anche un ottimo ascoltatore, cosa fondamentale se hai a che fare con un
semicentenario partigiano con una vita lunga e avventurosa alle spalle. Gli eventi vengono innescati da ricordi che riaffiorano in ordine sparso, i piani temporali si sovrappongono e spesso le circostanze entrano in conflitto tra loro, ma tutto questo non importa. Anche se Gino riscrivesse da capo l’intera storia mondiale, Mario sarebbe sempre lì a fare domande e seguire interessato il discorso. «Oggi, Gino, ci facciamo cacio e pepe?» dice Mario rubicondo e beato, buttando un’abbondante quantità di mezzemaniche nella pentola dove allegra sobbolle l’acqua salata. Forse la gola è l’unico peccato che si potrebbe imputare a quel grassoccio ometto rassicurante, ma è anche un collaboratore serio e affidabile oltre a essere un professionista molto preparato. «Buono» dice l’arzillo partigiano scostando la sedia e accomodandosi al suo posto sul lato corto del tavolo «e quello che si siede qui?» indicando la sedia vuota alla sua destra. «Bella domanda Gino, ma quello che si siede qui è un nostro amico, ricordi? Quello è il posto del signor Braun. Signor Braun?» chiama Mario a gran voce affacciandosi dalla porta che divide la zona giorno dalla notte di quella casa a mattoncini rossi «lei ha giusto dodici minuti esatti di cottura della pasta per presentarsi a tavola. Né uno di più, altrimenti è scotta, né uno di meno, altrimenti è dura. Guardi che non scherzo per me la cacio e pepe è una religione, le mando su Gino per farla prelevare di forza presso i suoi alloggi» ridacchiando. «Ben detto» dice Gino infilandosi dritto un angolo della tovaglia dentro l’apertura della camicia «stasera però carne». «Accetto ma la scelgo io» risponde Mario andando a predisporre per scolare la pasta e tirando fuori la grattugia con il pecorino e la macina pepe «facciamo un petto di pollo ai ferri e verdure bollite, patate e carote».
«Fascista» risponde sdegnato il partigiano. «Se loro tenevano così tanto alla sua condizione fisica andando a cucinare cose salutari ma gustose, allora sì sono proprio un fascista, ma poi dovremo andare a modificare tutti i libri di storia». «Stasera carne» ribatte il De Rossi come se alla sua richiesta avesse ricevuto un secco diniego. «Certo caro Gino, stasera mangiamo tutti quanti la carne. Petto di pollo e verdure bollite. Intanto qui ci sono le sue pillole» indicando sul tavolo un tovagliolo con due pillole blu per la pressione accanto a un bicchiere d’acqua e facendo saltare la pasta in padella. Altro che le pillole per la pressione ci vorrebbero per Gino. All’epoca il padre era stato in carcere diverse volte perché trovato a distribuire in clandestinità giornali politici vicini alla sinistra e lui in pratica era stato cresciuto dalla madre. La sua famiglia era sotto stretto controllo da parte della Questura e molti per questo motivo avevano smesso di frequentarli anche solo per precauzione, preferendo restare a testa bassa e vivere tranquilli in attesa che passasse la bufera. Tutto ha origine un giorno lontano, Gino era piccolo e sua madre lo portò dal macellaio del paese per comprare la carne. Di quell’evento De Rossi ricorda soltanto che il macellaio disse qualcosa a sua madre che lui non capì bene e un altro avventore che era lì presente rincarò la dose, aggiungendo altro di cui lui non afferrò il significato. Entrambi ridevano della grassa mentre la madre uscì in lacrime dal negozio trascinando per mano il piccolo Gino. Quella sera mangiò fagioli. «Stasera carne» sbottò il partigiano battendo un pugno sul tavolo come a voler scacciare un ricordo che aveva attraversato insidioso la sua mente. «Ho capito Gino» fa Mario cercando di far calmare l’anziano infervorato «ma non è che possiamo mangiare carne tutte le sere. Ci fa male, dobbiamo mangiare un po’ di tutto e in piccole quantità. È per il nostro bene».
«Buttatevi in mare, l’Emden va a picco» entra ansimando Elias creando scompiglio nella sala da pranzo della casetta a mattoncini rossi. Sembra in un eccesso di energia, tutto sudato e rosso in viso. Mario si alza di scatto per sorreggerlo, lo aiuta a sedersi, gli versa dell’acqua e deterge il sudore con un tovagliolo «signor Braun è con noi, si calmi». I suoi occhi sembrano velati, la sua mente è altrove, inciampata su qualche radice sporgente di qualche ricordo passato. «Si riprenda» dice Mario mantenendo un tono calmo di voce, sorreggendolo senza dargli una sensazione di costrizione «beva un po’ d’acqua e si calmi, respiri forte è al sicuro adesso». Rimane un attimo come disorientato Elias, non riesce a capire cosa ci sia intorno a lui, non riconosce Mario ma percepisce in maniera chiara che quella persona è lì per lui, non riesce a capire bene dove si trova ma sente la necessità di spiegare agli altri cosa sta accadendo, cosa sta capitando nella sua testa. «Mi voglio buttare in mare ma lui non vuole» dice a un certo punto dopo aver cercato a lungo le parole «la nave sta affondando ma lui non si arrende mai». «Chi è che non si arrende mai, signor Braun?». «Von Muller». «Chi? » chiede Mario cercando di mantenerlo calmo. «Von Muller è pazzo». «Va bene ho capito ma intanto è comunque riuscito a scendere qui, giusto?» Elias guarda Mario ma non risponde «Guardi intorno a lei, siamo in cucina non siamo più sulla nave, non occorre più buttarsi in mare perché non è in pericolo, adesso è qui con noi, è al sicuro». Elias non sembra capire ma fiaccato appoggia la testa sulla spalla di Mario come a cercare protezione, come un bimbo che nel cuore della notte si sveglia per un orribile incubo e cerca rassicurazioni tra le braccia del genitore.
«Ora stia tranquillo le ho preparato il piatto. Rimanga qui a tavola, il signor Gino le farà compagnia, intanto io vado a parlare con Von Muller. Fate i bravi e non vi finite tutto». Elias si siede tenendo bassa la testa, Gino lo guarda solo un attimo, poi sposta di poco il suo piatto di lato e continua a mangiare. Tra i due non ci sono mai stati grossi battibecchi e se ci sono stati Mario è sempre stato capace di disinnescarli sul nascere, come quella volta che a tavola Gino si rifiutò di sedersi vicino Elias e a richiesta di spiegazioni il partigiano rispose «quello è un crucco, non mi fido». Dopo nemmeno due minuti Mario ricompare con Von Muller, o almeno con quello che l’allucinazione di Elias aveva identificato come il comandante della nave Emden. «Vede signor Elias, è soltanto il nostro amico Grifoni» introducendolo nella sala da pranzo. L’anziano alto e secco che sta accanto a Mario è confuso e non comprende cosa sta accadendo, ma a differenza di Elias che lo è a fasi alterne in base al sopraggiungere delle sue allucinazioni, lui lo è quasi sempre. «Al buio lo deve di sicuro aver scambiato per il comandante Von Muller ma è soltanto il nostro amico Grifoni. Vede, lei non è sull’Emden è a casa sua, al sicuro insieme ai suoi amici, non è in pericolo, non c’è nessun pericolo». In tutto questo Gino non alza nemmeno lo sguardo dal piatto, Elias invece si volta distratto come a cercare di capire con chi Mario stia parlando all’interno di quella stanza, poi indifferente riprende a mangiare come se nulla fosse successo. Mario trattiene a fatica un sospiro e lo trasforma come potrebbe fare soltanto un mago in un sorriso. «Mangiate pure, ora Giorgio si siederà accanto a voi». Giorgio Grifoni, vittima dello scambio di persona con l’ufficiale della marina imperiale tedesca Karl Friedrich Max Von Muller, è un wanderer. Ammetto di avere delle difficoltà non indifferenti nel riuscire a fornire un supporto teorico riguardo questa cosa, ma d’altra parte
anche i professionisti in materia hanno il loro bel da fare per accordarsi su di una definizione comune, come sui fattori responsabili della sua manifestazione. In parole povere il signor Grifoni, vaga. Per la casa soprattutto di notte, ma anche di giorno per la città di Geel, nelle zone comuni come il parco o per le vie del paese sotto lo stretto controllo di Mike e la sua squadra, oppure per tutta quanta l’Isola e allora lì la cosa si fa più ardua e qualcuno deve per forza di cose andargli dietro. Per ora, ma solo per ora, lasciamo il signor Grifoni impegnato a mangiare il suo pasto e prendersi un po’ di riposo dal suo continuo peregrinare, perché come vedremo poi non è proprio senza senso e andiamo invece a raccontare la vicenda del “Crucco”. A quanto si narra, perché la storia del visionario teutonico è ben avvolta nel mistero, Elias Braun è un ricco possidente terriero nella zona della Baviera che ha fatto fortuna ai suoi tempi in un modo non certo lecito, ma di sicuro molto avvincente. La famiglia lo spedì sull’isola di Santa Dinfna quando il vecchio iniziò a sfarfallare di brutto e così la gestione dell’immensa fortuna passò di diritto ai suoi figlioli. A lui, vecchio lupo di mare, non parve vero di poter andare a passare il resto della sua vita in un’isola, come fosse diventato di nuovo un marinaio su di una zattera galleggiante, rispetto al dover vivere in quel Land lontano dove del mare non arriva nemmeno il profumo. Il modo illecito di far fortuna gli capitò ai tempi in cui faceva parte della ciurmaglia del temibile Emden. Varata a Danzica, era una nave a propulsione a carbone capace di arrivare a ventiquattro nodi e coprire fino a seimila miglia. Armata da dieci cannoni da 105 era concepita per quella che veniva chiamata guerra di corsa e la nave corsara tedesca durante la Prima Guerra Mondiale era di certo una
delle imbarcazioni più temibili che si potessero trovare in circolazione. Con alla guida il comandante Von Muller e con una quarta ciminiera fasulla allo scopo di sembrare una nave britannica della classe Yarmkounth, l’incrociatore tedesco fece vittime in tutto l’Oceano Indiano, predando, affondando e soccorrendo i naufraghi per poi rispedirli a casa sulle navi che facevano in tempo ad arrendersi. Arrivava all’improvviso anche all’interno dei porti nemici e con abili manovre gettava scompiglio tra le flotte nemiche affondando un gran numero d’imbarcazioni per poi perdersi all’orizzonte prima che qualcuno potesse reagire, lasciando così alle navi inseguitrici soltanto la propria scia che svaniva. La sorprendente serie fortunata dell’Emden però non poteva continuare certo all’infinito. Il 9 dicembre del 1914, giunta alla baia delle isole Keeling, viene subito riconosciuta nonostante il camuffamento e viene mandato l’allarme dagli operatori del centro radio presente sull’isola. L’allarme è intercettato dalla nave australiana Melbourne che da qualche tempo era sulle tracce dell’imbarcazione tedesca e viene subito inviato contro l’incrociatore Sydney. Von Muller tenta di effettuare operazioni di disturbo sulle frequenze di trasmissione e poi manda anche una brigata di uomini a terra per far saltare le comunicazioni radio ma oramai è troppo tardi, l’Emden salpa così lasciando i suoi uomini a terra mentre la Sydney avanza a tutta forza e inizia a bersagliarla da una distanza dove i cannoni tedeschi da 105 non arrivano, mentre quelli da 152 australiani possono farlo con facilità. L’Emden è centrata più volte fino all’inevitabile resa. Elias Braun era tra i marinai scesi a terra e visto che le cose si stavano mettendo male, s’impadroniscono della goletta Ayesa e con il calar della notte escono non visti dalla rada, direzione Sumatra. Una volta arrivati sono respinti a largo dagli olandesi ma in seguito soccorsi da un mercantile tedesco, il Choising che li porta in Arabia e dopo rocambolesche avventure raggiungono Costantinopoli per poi ritornare in patria.
Il signor Braun visse tutto questo e riuscì anche a tornarsene a casa con una discreta fortuna, grattata chissà dove a chissà chi. Con il suo tesoro acquistò parecchia terra in Baviera e iniziò in questo modo l’impresa di famiglia ma sempre con il rammarico di dover stare lontano dall’acqua salata, almeno fin quando non gli proposero l’Isola di Santa Dinfna. In tutta onestà non si direbbe quanto raccontato guardando in faccia quel vecchio crucco sgangherato ancora rosso in viso e in preda alle allucinazioni, seduto a tavola insieme a Grifoni e De Rossi in quella cucina elegante ma fredda, dai colori bianchi e le linee essenziali.
TRA POCO NON AVRÒ PIÙ RICORDO DI QUELLA VOLTA CHE Seduto guardo il traffico scorrere davanti ai miei occhi. Questa panchina come me ha visto stagioni migliori, solo che lei non sembra lagnarsi per le ossa doloranti. Ogni tanto muovo le gambe per non farle addormentare, altrimenti per tornare a casa mi dovrò far venire a prendere un’altra volta. È già capitato. Sul marciapiede davanti a me le persone camminano in fretta, il rumore dei tacchi delle donne sembra martellarmi in testa e riesce persino a coprire il trambusto del traffico. Un tombino sconnesso poco più in là traballa forte a ogni passaggio delle autovetture. Ogni tanto qualcuno passando butta un occhio, qualcuno mi saluta abbozzando un sorriso, altri un cenno del capo, altri ancora tirano dritto non curanti di niente e di nessuno. Sono tutti sconosciuti. Quei volti ai miei occhi sono delle pagine crittografate. Qualcuno percepisce che sono in imbarazzo, che non rispondo con naturalezza al saluto o lo faccio in palese ritardo. Qualcuno storce il naso ma il tutto dura un istante, il tempo di un passaggio e poi via, ognuno che insegue i propri impegni. Forse sono persone che conosco ma che hanno indossato visi di sconosciuti. Non riconosco nemmeno il viso di quella donna che sta in piedi da un’ora vicino la panchina dove sono seduto, mi guarda impaziente, ha il viso scontroso, tirato, controlla in maniera nervosa l’orologio. Io mi sposto di lato sul bordo della panchina, le faccio posto, se vuole sedersi ha tutto il modo per farlo. Lei però non si siede, rimane lì ferma sui suoi tacchi, non è molto alta e forse li usa per dissimulare la bassa statura, ha un fisico minuto e le gambe nervose proprio come è nervosa lei.
Ha un taglio corto di capelli che non le dona proprio e rende il suo volto ancora più teso, prende un telefono dalla borsa dopo aver frugato un po’ e compone un numero che data la sicurezza nel pigiare i tasti forse conosce a memoria e inizia a parlare in maniera animata. Ogni tanto sembra anche indicarmi. Mi sento un po’ a disagio in questa situazione, forse quella sconosciuta è una squilibrata, magari è anche pericolosa, io sono solo un anziano, solo per giunta. Provo ad alzarmi ma le mie gambe sembrano essersi addormentate di nuovo, provo a muoverle piano, a massaggiarle per riaverne il pieno controllo. Affrontarla non è certo una buona idea, meglio mantenere un basso profilo, come rientro in possesso delle mie gambe provo a tornarmene a casa. Ora la donna stramba sembra allontanarsi di qualche metro, forse è il momento giusto, riesco ad alzarmi a fatica e provo ad attraversare la strada. Nessuno mi fa passare, nemmeno sulle strisce pedonali. Una macchina alla fine rallenta così provo a scendere il marciapiede, intanto un’altra auto proveniente da dietro sorpassa quella che stava rallentando e inchioda per non investirmi. In tutto questo un motorino con una manovra da equilibrista passa tra le due macchine ferme e sfiorandomi quasi mi fa volare via il cappello. Mi volto e trovo la donna dai capelli corti proprio dietro di me, è fuori di sé e sta urlando qualcosa mentre in aria fa dei gesti minacciosi, non capisco se è arrabbiata con me ma io sono vecchio e ho i miei tempi per attraversare la strada. Intanto le macchine in coda sono un’orchestra di clacson. La folle che mi segue si sbraccia, sembra essere lei la direttrice di quell’orchestra di matti, forse li sta incitando a mettermi sotto una volta per tutte. Accelero il passo, si fa per dire. Guadato il fiume di cemento m’inerpico su per la salita che porta verso la mia abitazione, quella con i capelli corti non la vedo più
dietro di me. Forse ha desistito, forse l’ho seminata, forse voleva rubarmi la pensione ma alla fine ha rinunciato. Non ho niente di valore con me, non porto mai niente di valore io, le uniche cose che ho di valore sono mia moglie, mia figlia e anche mia nipote, quindi a quella gli sarebbe andata male comunque perché cerco sempre di non portarmele dietro. Arrivo al cancello della mia casa e me lo richiudo dietro con forza, non entro subito dentro, vado prima nel capanno degli attrezzi e aspetto qualche minuto scrutando la strada. Non vedo nessuno, allora entro dalla porta di dietro. Sento mia moglie in cucina che sta preparando, non le dico niente di tutta questa storia o questa volta mi farà rinchiudere sul serio, raggiungo la sala attraverso il corridoio e mi nascondo dietro la tenda di lato alla finestra per vedere la strada. Poco dopo ecco passare la donna dai capelli corti sui suoi tacchi. È ferma davanti al mio cancello, ha scoperto dove abito, mia moglie si affaccia dalla finestra della cucina, forse la vuole cacciare via, sulla porta si ferma un istante scorgendomi nascosto dietro la tenda. Ora raggiunge la donna dai capelli corti che aspetta ancora in strada e la sento dire soltanto «Tranquilla, è in casa». Fine anteprima. Continua…
INDICE I dieci minuti alle tredici ............................................................... 5 L’orologio da parete della sala da pranzo segna dieci minuti alle tredici. ......................................................................................... 13 L’orologio da parete della sala da pranzo segna dieci minuti alle tredici. ......................................................................................... 20 Tra poco non avrò più ricordo di quella volta che ..................... 28 Ritroso ................................. Errore. Il segnalibro non è definito. Poi non ricorderò più neanche ........... Errore. Il segnalibro non è definito. In punta di lingua ................ Errore. Il segnalibro non è definito. L’orologio da parete della sala da pranzo segna dieci minuti alle otto di mattina. .................... Errore. Il segnalibro non è definito. Perderò memoria dei pranzi in famiglia Errore. Il segnalibro non è definito. Gatti blu .............................. Errore. Il segnalibro non è definito. L’orologio da parete della sala da pranzo segna dieci minuti dopo tredici. ................................. Errore. Il segnalibro non è definito. E quella volta che ................ Errore. Il segnalibro non è definito.
Dei ritorni a casa ................. Errore. Il segnalibro non è definito. Come il gesso dalla lavagna Errore. Il segnalibro non è definito. L’orologio da parete della sala da pranzo segna le dieci di sera. ............................................. Errore. Il segnalibro non è definito. Non ricorderò più le notti .... Errore. Il segnalibro non è definito. Giuro che era geniale .......... Errore. Il segnalibro non è definito. Almeno non ricorderò quel medico ... Errore. Il segnalibro non è definito. Anch’io ho una figlia .......... Errore. Il segnalibro non è definito. Ritorno alle origini .............. Errore. Il segnalibro non è definito. Scorrete tutti di un numero . Errore. Il segnalibro non è definito. Scarpe vecchie .................... Errore. Il segnalibro non è definito. L’equilibrio colpevole ......... Errore. Il segnalibro non è definito. Di carta igienica, foglie e primavere .. Errore. Il segnalibro non è definito. Te faruru.............................. Errore. Il segnalibro non è definito.