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Siamo al sesto episodio della saga con Maura Porcu. Riappare forzatamente al suo paese d'origine, causa un infarto che ha colpito il nonno materno. La Sardegna si chiude subito su di lei come una matrigna cattiva e Maura si ritrova di colpo a dovere affrontare nuovi nemici, accaniti, sordidi, letali. Di nuovo.

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Published by redazione, 2024-01-10 07:57:13

Preferibilmente viva, Walter Serra

Siamo al sesto episodio della saga con Maura Porcu. Riappare forzatamente al suo paese d'origine, causa un infarto che ha colpito il nonno materno. La Sardegna si chiude subito su di lei come una matrigna cattiva e Maura si ritrova di colpo a dovere affrontare nuovi nemici, accaniti, sordidi, letali. Di nuovo.

In uscita il 26/1/2024 (15,50euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2024 (4,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


WALTER SERRA PREFERIBILMENTE VIVA IL RITORNO DI MAURA PORCU ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ PREFERIBILMENTE VIVA. IL RITORNO DI MAURA PORCU Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-643-8 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2024


Dedicato ai miei lettori, la cui passione per Maura e per gli altri romanzi mi fa da sprone per continuare a scrivere


7 PREFAZIONE DELL’AUTORE Non ho voluto sottrarre Maura Porcu dalla tradizione di fare morire almeno una volta il protagonista. Non sarà sfuggita al lettore più attento, peraltro, una voluta narrazione del suo funerale forzato nel finale di “Blood”, quasi inverosimile. Per lasciare un barlume di speranza, e uno scenario futuro con Maura ancora viva e vegeta. Sì, ma lei me lo perdonerà? Perché la aspetta tanto dolore, fatica, paura. Altri assassini sulla sua strada, e ragazze rapite, uccise. Ne vale davvero la pena tornare in vita e affrontare tutto quanto di nuovo, ancora e ancora? Lei risponde a modo suo, io a modo mio: Maura insegue verità personali e intime, che solo andando avanti potrà accettare. Capire il suo passato per affrontare il suo presente. Nuovo episodio, nuovi scenari e personaggi che camminano sulla sottile linea di tiro della protagonista, pronti a colpire o a essere colpiti. Lei stringe i denti per andare avanti, preferibilmente viva.


9 Non so che ne sarà di me della mia vita ma so per certo che non vorrò né potrò continuare a nascondermi per sempre i miei morti stanno chiamando sangue chiama sangue vendetta chiama vendetta e io sto nel mezzo sempre fra un punto di partenza e uno di arrivo senza arrivare mai deve essere il mio destino sempre in movimento mai appagata mai soddisfatta a volte mi maledico per essere stata e continuare a essere Maura Porcu potevo nascere Guglielmina Bortolotti oppure Adalgisa Castrovillari sarebbe stato meglio ma non mi biasimo delle scelte non è dipesa da me la mia vita lavorativa forse quella privata ma non più di tanto molti amori poco calore e per brevi attimi che devo aspettarmi dal futuro proprio non lo so ormai ci ho fatto il callo e me ne faccio una ragione tre figli tre amori tre amori morti la vita passa spesso per quel numero forse avrei fatto meglio a farmi dare un aiuto da quella chiromante di Pietrapertosa ma mi viene da ridere al solo pensiero e ho sempre evitato d’indagare su una cosa che in fondo è proprio stupida poco più di un anno di latitanza di vento nei capelli di pistole di plastica lasciate in giro da Giorgio niente di più anche se ormai mi addormento senza stringere i pugni tremo al pensiero d’un risveglio diverso che sempre più spesso mi aspetto di giorno in giorno perché una tempesta si può manifestare anche in una vasca da bagno e io ho smesso da tempo di farmi illusioni se al serpente non schiacci per bene la testa quello si rialza e ti morde e i miei serpenti hanno ben più di una testa sola e mi stanno aspettando e io sono pronta come non mai a rimettermi in gioco perché se loro non mi daranno respiro io non darò loro pace


CAPITOLO 1 A volte non siamo in grado di definire dove finisce il sogno e dove comincia la realtà. Potremmo risvegliarci sudati e con il cuore in gola, eppure felici di essere scampati a un incubo. Potremmo sognare di essere felici e avere paura di svegliarci. Chi può dire cos’è realtà e cosa il sogno? Il bambino sbuca da una nuvola di luce. Corre fra le gambe della gente, solleva fumetti di sabbia bollente. Ride, la bocca spalancata su dentini regolari, i capelli lunghi che ondeggiano seguendo il suo incedere. Parla, grida, ma è ancora lontano. Si agita, accelera il passo ma sembra non arrivare mai. Ancora sollecita, dà enfasi a quel che sta dicendo ma non si capisce. Maura si drizza, appoggiandosi su un gomito, e aguzza lo sguardo. Quel bambino sembra chiamare proprio lei. Lo guarda bene, conosce quelle gambe smagrite, il viso un po’ sporco e gli abiti sdruciti. Aniellino Locascio… Ha un brivido ma non fa a tempo a pensare ad altro. Il bambino sembra volare sulla sabbia, scansa i passanti. Maura! Maura! Maura! La sua voce, però, è quella di un vecchio. Un vecchio stanco. Maura ha un fremito e spalanca gli occhi. Si alza sulle ginocchia, si fa ombra con la mano sugli occhi per vedere meglio nella calura della spiaggia. Il bambino c’è davvero, è lì, corre verso di lei e chiama. Mamma! Mamma! Mamma! Non è Aniellino Locascio ma suo figlio Paolo. Dario lo tiene per un braccio, ancora non cammina bene. Il bambino si affretta ma i piedini bruciano sulla sabbia e il padre lo afferra con una piroetta e lo prende in braccio. Paolo si lamenta, vorrebbe correre dalla madre, o perlomeno camminare. Due passi e sono arrivati. Dario vede la compagna scura in volto. «Che hai?»


Lei fatica a rispondere. Che dire, che ha avuto una visione? Che qualcosa la sta richiamando dall’altra parte del mondo? Che ha sognato ancora Aniellino Locascio? «Mio nonno. Devo tornare…» Non serve precisare se qualcuno ha telefonato, se sta male oppure se ha solo voglia di riabbracciarlo. Un anno è lungo da trascorrere, portando un lutto che non è tale. È difficile nascondersi per un anno su una spiaggia rovente e lontana, pur di restare fuori dai guai. Si massaggia la cicatrice del cesareo sotto il costume. Il tempo starà cambiando, si dice. Brucia. Come tante altre cose dentro di lei…


CAPITOLO 2 Dario si è lamentato quel tanto che basta per poi cedere di schianto. Lo sa che con Maura non ha mai l’ultima parola. Sua l’idea della falsa morte, del falso funerale, della falsa fuga del compagno vedovo, con un figlio appena strappato alla morte da accudire. Che Maura sia scampata all’agguato da parte di uno dei tre soggetti che le stavano addosso, lo sa solo una manciata di persone: i suoi nonni, Petrucci e il Questore di Bologna, che ha coperto la mistificazione assieme al medico legale, che ha firmato il finto certificato di morte. Il finto funerale si è tenuto a Olbia, e non esiste nemmeno una tomba; c’è solo una misera urna, custodita in soffitta dai nonni. Anche sulla fine di Andrea Vaselli, Ramon Gonzales detto Carlos, o Nicola Casati cui ha rubato i dati, è rimasto il buio assoluto. Sul terreno è rimasto solo Maurizio Pesce, degno figlio di suo padre. Un’altra cicatrice sul cuore per Maura. Scende dal traghetto che la scodella nel porto di Olbia. Ha usato il passaporto solo per arrivare fino ad Atene, dove sa che il suo nome non è molto conosciuto, poi ha sfruttato ogni mezzo di trasporto per il quale non serviva l’identificazione online. Traghetti di bassa lega, treni, autobus, taxi. Ha impiegato due giorni per spostarsi da Kuala Lumpur a Olbia, e il suo anno sabbatico sta per finire. Sa che come metterà piede nel suo piccolo paese il suo ritorno prenderà via via più risonanza, fino a diventare una valanga inarrestabile alle orecchie di chi ancora ha un conto in sospeso con lei. La corriera la lascia ai piedi delle colline. Ci vuole un’ora buona per arrivare a casa dei nonni. Una sola ora di vampe di calore della sua terra natia. L’ha lasciata ormai vent’anni prima, e non c’è tornata per dieci anni almeno. Troppi ricordi, troppo dolore.


Si passa la piccola valigia da una mano all’altra, e s’avvia lungo la stradina che lambisce uliveti e vigneti. Osserva i muri a secco dei confini, i ceppi di mirto, i boschetti ombrosi di sugherete sotto ai quali pastori e greggi si riparano dal sole cocente. Ha un cappello in testa, e indossa occhiali da sole dalle lenti scure e larghe, i capelli tirati su, le scarpe basse. Sa di non passare inosservata, ma spera di arrivare a casa prima di dare troppo nell’occhio. Allunga il passo. Un serpente attraversa veloce la strada, sembra volare sull’asfalto fumigante. Corvi s’involano al suo passaggio e le suole delle scarpe iniziano a bollire. Una macchina arriva alle sue spalle e lei cerca di non farsi notare. Niente da fare, l’auto le si ferma accanto. «Salve, vuole un passaggio?» Non può rifiutare, il paese è distante almeno sei chilometri e non ci sono case lungo la strada. Il suo rifiuto potrebbe destare sospetto o maggiore curiosità. «Volentieri, grazie. Speravo che ci fosse un servizio pubblico per arrivare al paese, ma pare di no» dice con tono neutro. «Va a trovare qualcuno? Sa, non ci sono più di venti famiglie nei dintorni, ci conosciamo tutti.» Maura sa bene chi è, quell’uomo. Non è proprio un amico di famiglia. Confina con i terreni del nonno e ogni tanto le sue greggi sconfinano e combinano casini alle piantagioni. «Sono un avvocato» mente. «Devo passare dalla famiglia Porcu per delle carte che devono firmare.» L’uomo fa un gesto che lei non sa come interpretare. «Non ci sono. Il vecchio ha avuto un infarto tre giorni fa. Sono tutti in ospedale.» Maura trattiene un fremito. «Accidenti. Sa se è grave?» Si stringe nelle spalle. «Non sono molto aggiornato. L’hanno portato via che era ancora privo di sensi.» Deglutisce a fatica, ha un doloroso nodo in gola che minaccia di soffocarla. «È un bel guaio… Avevamo appuntamento e sono venuta da Roma. Non mi hanno avvisata…» «Cosa vuole fare? Siamo quasi arrivati.» «Mi lasci nei pressi della casa. Provo a telefonare. Poi mi faccio venire a prendere da un taxi. In fondo, mi basta anche la firma di uno dei coniugi. La ringrazio.»


L’uomo ferma la macchina accanto al cancello chiuso che dà accesso alla proprietà dei nonni. Maura scende, ma prima che vada via il vecchio richiama la sua attenzione: «Sa, lei mi ricorda una persona…» «Anche lei: mi ricorda un uomo che ho difeso qualche anno fa. Aveva ucciso la moglie.» «Ah, e com’è andata a finire?» «Ho lasciato l’incarico, quell’uomo era colpevole e mi aveva mentito. La ringrazio per la gentilezza. Buona giornata.» Si allontana e prende il cellulare. Si appoggia al muretto di pietra e finge d’iniziare a parlare con un ipotetico interlocutore. L’uomo la guarda ancora per un attimo, poi va via salutandola. Lei attende che sparisca oltre la curva, poi scavalca il muretto e s’addentra nella proprietà. Protetta da una cortina di ulivi secolari, divora la strada fino alla casa. È tutto chiuso. Stringe il pugno e serra la mascella. Allora è tutto vero, non è stato solo un sogno. Il forte legame che la lega al nonno ha avuto come un sussulto, forse nei momenti in cui subiva l’infarto. Si copre la bocca con la mano e soffoca un singhiozzo. Si pente di essere scappata via come una ladra e di non essere stata presente in quei momenti importanti. Forse è ancora in tempo. Lascia la valigia sotto al porticato e si dirige verso il pollaio. Le galline scappano via quando lei apre lo sportello ed entra. Guarda le ceste sospese e le viene in mente la cantilena che sua nonna le cantava ogni volta che andavano a raccogliere le uova. “Un, due, tre, indovina la chiave dov’è?”. Allunga la mano all’interno del terzo cesto da sinistra. Solleva la paglia, scosta un uovo e la trova racchiusa dentro un sacchetto di plastica. «Brava, nonna. Mai perdere le buone abitudini.» Prende anche l’uovo e torna sotto al portico. Il pollaio è pulito, gli animali hanno cibo e acqua. C’è solo un uovo deposto. Qualcuno passa ogni mattina per sistemare. Sorride mentre lava l’uovo alla fontanella per annaffiare il giardino. Non le è mai passato il vezzo di pensare come un poliziotto. Buca l’uovo sopra e sotto e lo beve a occhi chiusi, gustando ogni stilla di quel sapore genuino e antico. Quando riapre gli occhi si ritrova l’uomo di prima davanti.


«Mi sembrava che fossi tu! Sai, a momenti mi prende un colpo, Maura!» L’uomo resta a distanza, indeciso se correre ad abbracciarla o scappare via urlando al fantasma. «Sono proprio io, Vincenzo. Viva e vegeta. Purtroppo sono dovuta ricorrere a uno stratagemma per respirare un po’. Sono quasi morta, l’ultima volta. Non sarebbe bastato girare le spalle e ritirarmi. Solo da morta quelli mi avrebbero lasciato in pace.» Vincenzo sorride. «Capisco. Sono felice di trovarti in buona salute. Vieni, ti accompagno in ospedale.» «Ti ringrazio, ma forse c’è ancora la vecchia Panda di mio nonno nel capanno. Se va in moto, preferisco andare con quella. Ho bisogno di essere indipendente.» «Andiamo a controllare, allora!» propone lui. Il capanno è una vecchia stalla dove venivano tosate le pecore, molti anni prima. La Panda azzurra è ancora là. Il nonno la usava per andare tutti i giorni in campagna. Maura siede e recupera la chiave dall’aletta parasole. Infila e prova l’accensione. Il motore tossicchia ma parte subito, e lei lo fa girare per qualche istante, poi spegne. «Devo rimediare la chiave del cancello, ma prima dovrei fare una doccia. Ti chiedo solo di non dire in giro che sono ancora viva. Fammi questo favore, ti prego» supplica, confidando nella sua discrezione. Vincenzo resta in silenzio per un paio di secondi, poi annuisce. «D’accordo, terrò il segreto. Salutami tanto i tuoi nonni.» «Non mancherò» mente. Apre la porta di casa e lo congeda con un sorriso.


CAPITOLO 3 Maura scivola silenziosa nell’unità coronarica dell’ospedale intitolato a Giovanni Paolo II. Non ha voluto chiedere a nessuno. Ha sbirciato dapprima la lavagna del reparto, ma non ha trovato il suo cognome. Esce e si ferma in una specie di sala d’aspetto, dove le persone sostano in attesa che arrivi l’orario per le visite. Prende il cellulare, indecisa se chiamare la nonna e avvisarla che è lì. Non vorrebbe agitarla e magari peggiorare la salute del nonno. È più di un anno che non li vede e non li sente. Si terge una lacrima, è tutto ciò che rimane della sua famiglia. Persi i genitori quand’era piccola, è cresciuta con loro. I nonni materni non li ha mai conosciuti, non avevano digerito quel fidanzamento e al matrimonio non si erano presentati. Non erano presenti nemmeno al funerale. Sua nonna ogni volta usava parole di fuoco nei loro confronti, che non avevano voluto vedere la bambina. La sua bambina, l’aveva sempre chiamata. Apre gli occhi e la vede passare. La riconosce anche attraverso il velo delle lacrime. Piccola, minuta e con i capelli corti bianchi. «Nonna…» L’anziana oltrepassa lo specchio della porta senza fermarsi. Dopo un attimo allunga la testa e la guarda. Apre la bocca e Maura le corre accanto per zittirla, prima che allarmi tutto il reparto: è sì una donna piccola, ma dalla voce d’un soprano. «Nonna, tranquilla, non ti agitare. Sono qui. Dimmi del nonno.» La donna si stringe al petto la nipote. Le arriva a malapena ai seni, allora Maura s’inginocchia e l’accoglie nell’abbraccio. Piangono senza parlare, tra di loro c’è solo silenzio. Necessario. «Come l’hai saputo?» chiede l’anziana dopo un po’. «Me l’ha detto Vincenzo Sanna, poco fa. Mi ha incontrata lungo la strada verso il paese e m’ha riconosciuta.» «Quel maledetto!» sbotta la nonna. Maura la fa sedere sulle poltroncine. «Lasciamolo perdere. Come sta il nonno?» chiede per la seconda volta.


«Molto male» scuote la testa, triste. «Era in campagna e non tornava per il pranzo. Verso le 13:00 sono andata a cercarlo. Ho preso la Panda. Sai quanto odio guidare, ma ero preoccupata. L’ho trovato lungo il sentiero che dagli ulivi porta ai pascoli alti. Respirava a fatica e l’ambulanza ci ha impiegato oltre un’ora ad arrivare. L’ho assistito come ho potuto, ma non ha mai ripreso conoscenza. I dottori affermano che è presto. È in coma, ma dicono che forse è meglio. Così non si strapazza. Reagisce bene alle cure, ma non sanno se e quanto si riprenderà. Potrebbe morire, restare paralizzato al lato sinistro, oppure guarire del tutto.» Maura la guarda sconvolta. «Ma cosa dicono? Il nonno non soffriva di cuore!» «L’hanno trovato molto sudato e affaticato. Come se avesse corso. Alla sua età gli è stato fatale…» si asciuga le lacrime, passando una mano bianca e nodosa sul viso. Poi tira su col naso e chiede: «Come stanno i bambini? E Dario?» «Bene, nonna. Mancate a tutti loro. Anche al piccolo Paolo, che non avete ancora conosciuto.» Le mostra delle fotografie e un video. La donna sorride con dolcezza, poi si volta verso la nipote per domandare: «Vuoi vedere il nonno? È in terapia intensiva, possiamo entrare uno per volta.» Maura ha un sussulto e resta in silenzio per qualche istante. Le è tornato alla mente quando è stata in una di quelle stanze. Quella volta che ha aiutato Vortice a morire. «Ok, andiamo subito» taglia corto. Si prepara allo strazio della vista della persona amata nel suo letto di morte. Si sente soffocare con la mascherina a coprirle naso e bocca. Osserva il nonno esanime da almeno cinque minuti e ancora non si è arrischiata a toccarlo. Complessi di colpa per averlo abbandonato. «Nonno…» Finalmente si decide. Prende la sua mano, fresca e pesante. L’estate torrida e il duro lavoro fra uliveto e campi ne hanno ispessito la pelle, rendendola rugosa. Ha sempre diffidato delle persone dalle unghie curate e profumate. Meglio quelle che si presentano con il proprio olezzo sincero.


«Nonno…» ripete, carezzandogli i capelli canuti e le guance sbarbate di fresco. Controlla che respiri in modo regolare, sorveglia il monitor che registra le pulsazioni e le fibrillazioni. Buone le prime, non tanto le seconde, diminuite ma ancora presenti. S’inginocchia davanti al letto, poggia la fronte su quella palma che l’ha sempre carezzata con amore. Ne bagna la pelle con lacrime di dolore. Inizia a parlare. Gli racconta della vita che ha fatto, del nuovo figlio, degli amori che ha avuto e perso, dell’ultimo che ormai sente scivolare via, peggio degli altri. Dario è stato affettuoso con lei, ha amato i suoi figli come propri, si è sacrificato per lei e per il suo lavoro. Ma sente che non la ama, che l’ha solo desiderata. Nulla di travolgente, un porto sicuro dopo la tempesta che l’ha sbattuta sugli scogli dopo la morte di Paolo, ma la passione non è ripartita. Quell’anno assieme, lontani dallo stress del lavoro, dai morti, gli inseguimenti e gli agguati, li ha allontanati ancora di più. Notti senza fuoco addosso, giorni senza sguardi ammiccanti. Maura si tira su. Il nonno non si è mosso, non ha dato alcun segno di ripresa, nemmeno un tremore. Controlla l’orologio, i dieci minuti concessi per la visita sono scaduti, deve uscire. Lo bacia sulla fronte, un lungo bacio che avrebbe sciolto anche l’uomo più arcigno, ma suo nonno nemmeno se ne accorge. Sospira e lo saluta con un sorriso. «Ciao nonno, ci vediamo domani.» Lascia la stanza e si avvicina all’armadio dove sono appesi i camici sterili e tutti gli accessori. Getta le babbucce nel cestone e mentre è chinata sente una fitta alla coscia. Si rialza per il dolore e incrocia lo sguardo attento di un uomo che la fissa attraverso occhiali dalla montatura nera. Ha la mascherina sulla faccia, un cappellino gli copre il resto del viso e indossa anche il camice sterile. Vorrebbe urlargli qualcosa, ma si sente risucchiare dentro un vortice in cui gli unici suoni sono il fischio che le rimandano i timpani aggrediti dalla sostanza iniettata. Si sente cadere, ma senza toccare il fondo. Poi, buio e silenzio.


CAPITOLO 4 L’uomo misterioso guida veloce. Nessuno ha fatto caso a lui o alla barella dove ha disteso Maura. Ha preso un’uscita secondaria, quella che conduce alla camera mortuaria, e nessuno si sorprende quando la piccola ambulanza di scorta lascia l’ospedale con il lampeggiante acceso. L’uomo si strappa la mascherina dal volto e la getta dal finestrino. È raggiante. Dopo anni e una manciata d’incapaci al suo soldo, finalmente è riuscito da solo a rapire Maura Porcu. Nessuno può sospettare di lui, tranne il vecchio Bachisio Porcu, che per il momento è fuori gioco e forse non sarà più un problema. Mentre si allontana da Olbia, diretto al porto, si toglie il camice sterile e lo getta alle ortiche. Infila una strada secondaria ed entra in una delle sue tante proprietà. Prende le misure al container e parcheggia l’ambulanza, un piccolo furgone Fiat 238, vecchio di quarant’anni. Il sole ormai è dietro alla casa e il container in ombra. Sale sull’ambulanza per controllare le condizioni della donna. Ne avrà almeno per altre quattro ore, prima della nuova dose. Torna fuori e fa una telefonata. «Tommaso, sono Gavino. Il carico è a posto, vieni a prenderlo subito e imbarcalo. Mi raccomando, che sia messo nella stiva e non venga sbattuto troppo, contiene merci deperibili!» Saluta e chiude la telefonata. Blocca per bene l’ambulanza con freno a mano e ceppi alle ruote. Applica dei tiranti ai vari lati, poi chiude i portoni di accesso e mette i lucchetti. Si guarda attorno per verificare di non avere dimenticato nulla, poi apre la porticina laterale e si chiude nel container. Verifica che le bocchette d’aerazione siano aperte e si mette al posto di guida. Tempo una mezz’ora e arriveranno per portarlo via col suo prezioso carico.


È quasi notte e la campagna attorno è accaldata e odorosa di spezie. Gavino apre la porticina laterale del container e scende. Sorride, è stato un lungo viaggio ma ne è valsa la pena. Avrà così la sua vendetta, magari dopo qualche anno di troppo, ma sente di essere a un passo dall’avverarsi del suo sogno. Questi Porcu sono gente tosta, pensa, e vanno trattati a legnate. Spalanca i battenti del container e lascia che l’aria fresca lo invada. Maura dorme, non si è mai svegliata. Accende il motore dell’ambulanza e la dirige in mezzo alla campagna. Percorre sentieri sterrati che fanno gemere le vecchie lamiere. Giunge a fatica nei pressi della costruzione di pietra, tre torri coniche circondate da muretti a secco, agavi in fiore e cactus all’infinito. I frutti sono maturi e insetti e uccelli banchettano notte e giorno. Da lassù si gode un panorama a trecentosessanta gradi. Un deserto di piante grasse e spinose. Sospinge Maura fuori dall’ambulanza usando la lettiga pieghevole, ma spostarla fra i ciottoli è impossibile. Scioglie la donna e se la carica addosso. È pesantissima e più volte è tentato di lasciarla cadere a terra e attendere il risveglio per poi farla camminare fino al suo alloggio. Brontola per la fatica ma s’impone di proseguire. Non può farsi passare per un debole, lei ne approfitterebbe. Spinge sui sassi del sentiero, sbuffa, stringe i denti e contrae i muscoli. Non è più tanto giovane, ma almeno così potrà assaporare la vendetta come un piatto freddo. Finalmente oltrepassa la soglia e deposita Maura sul materasso sgangherato che sarà il suo letto. Le applica una catena alla caviglia, lunghissima. Vuole che possa uscire dall’alloggio, vedere il nulla che ha attorno e consumarsi nella vana speranza che qualcuno la venga a salvare. Sogghigna, avrà una doppia vendetta: si prenderà gioco della grande Maura Porcu prima di ucciderla. Ma prima, lei dovrà fare una cosa per lui, e fintanto che non la farà potrà restare in vita e mordere quella catena fino a spezzarsi i denti. Solo dopo potrà invocare la morte.


CAPITOLO 5 La nausea aumenta non appena Maura apre gli occhi. Ancor prima di rendersi conto di dov’è e delle sue condizioni, scappa verso la luce della porta, trascinandosi dietro la catena senza farci caso, e vomita non appena varca la soglia di due passi. Siede sullo scalino di pietra e si appoggia al muro. Ha un sapore amarognolo in bocca e un sudore freddo le dà un tremore continuo. Il sole al tramonto la riscalda un poco, e pian piano il respiro affrettato si calma e può riaprire gli occhi e realizzare la cosa. Si massaggia la caviglia dolorante, alla quale qualcuno ha attaccato un paio di manette. Una lunga e robusta catena da lì parte e sparisce nella penombra della costruzione. Alza gli occhi e squadra il torrione tondeggiante di pietra, addossato ad altri due un po’ più bassi. Quello di destra è diroccato. Il pensiero che sia stata drogata e rapita ormai l’ha dato per assodato. Quanto a comprendere chi e perché, è ancora presto. Non ha più cellulare né orologio con sé. Pochi spiccioli nella tasca del jeans, e gli orecchini d’oro che le ha regalato la nonna alla nascita di Giorgio. Sono di discreto valore, quindi anche la rapina o il riscatto sembrerebbero da scartare. Si alza e si guarda attorno. A parte la costruzione alle sue spalle niente le appare visibile a perdita d’occhio. Tira la catena e riesce a raggiungere la parte posteriore dell’abitazione. «Merda! Sono prigioniera di un nuraghe disperso in chilometri quadrati di niente. Non vedo coltivazioni, pascoli o boschetti. Non c’è un fiume né una strada, né un palo della luce o del telefono. E questa maledetta catena che mi tiene legata come un cane!» sbotta alla fine, ad alta voce. «O come una cagna!» le risponde una voce, da qualche parte dietro la struttura. «Chi sei? Fatti vedere, maledetto! Abbi il coraggio di mostrare la tua faccia da testa di cazzo! Come ti sei permesso?» È furente, sarebbe capace di saltargli addosso e strozzarlo con la catena, restando così prigioniera fino a morirne.


«Datti una calmata, signorina. Per il momento non sei in condizioni di pretendere qualcosa. Diciamo che sei mia ospite, per qualche tempo. Ti porterò cibo, acqua e vestiti. Ma dovrai essere remissiva e nel tempo fare qualcosa per me. Niente d’illegale, solo un piccolo favore.» «Come hai fatto a trovarmi?» chiede, sviando il discorso. È interessata a conoscere le dinamiche del rapimento, ancora prima del motivo. «Diciamo che non ho mai creduto fino in fondo che la grande Maura Porcu fosse morta in quel modo. Mese dopo mese cominciavo a farmene una ragione, finché stamattina ho ricevuto una telefonata inattesa. L’occasione è stata ghiotta e non me la sono lasciata sfuggire. Sapevo dove trovarti e ho dei favori che qualcuno mi deve, anche all’ospedale. Ed eccoti qui.» Maura cerca d’inquadrarlo: sardo, lo capisce dall’accento, e di una certa età, forse sulla settantina. «Resta da capire solo il perché, allora» lo incalza. «Il piccolo favore, già. Dovrai convincere i tuoi nonni a cedermi un terreno. Sono tanti anni che lo chiedo, ma quel testone di tuo nonno ha sempre rifiutato. È cocciuto e non vuole sentire ragioni. Non le ha mai volute sentire, nonostante le occasioni che gli ho concesso, anche quelle che non doveva rifiutare…» Maura resta silenziosa qualche istante. Inizia a metabolizzare la situazione, un tassello per volta. «Quindi, io sono qui affinché tu possa ricattare mio nonno per quel terreno? Quanto mai potrà valere, per rischiare una condanna a vent’anni per rapimento, o anche più, se dovessi morire?» «Credimi, ne vale la pena. E se tuo nonno fosse qui, te lo confermerebbe.» «Ti rendi conto che stai parlando a vanvera? Mio nonno è in coma, credo che difficilmente ti stringerà la mano di fronte a un notaio!» «Sono così tanti anni che aspetto, che uno o due di più non faranno la differenza. Potrebbe sempre morire, e allora tua nonna scambierebbe volentieri quella terra contesa con la tua vita!» Lei ridacchia. «Vuoi dire che andresti davanti a un notaio, pur sapendo che ti autodenunceresti?» «Io avrò il terreno, tu la tua vita, nessuno torcerà un capello a nessun tuo famigliare e vivremo felici e contenti. Potrai essere solo madre e moglie, senza altri problemi. Non è quello che desideri? Non è per questo che hai finto la tua morte, per sparire e trovare scampo da chi ti dava la caccia? Sono io a capo dell’organizzazione che ha fatto di una


mediocre poliziotta la grande Maura Porcu! Ti ho dato filo da torcere, messo di fronte criminali di primo piano, dato e portato via amori. Sono io che ti fissavo mentre dormivi. Vortice, Vertigo e tutti gli altri, in maggioranza erano uomini miei. Altri li ho corrotti ed erano sul mio libro paga. Certo, erano criminali, assassini, pane per i tuoi denti. Adesso tutto potrebbe finire con un piccolo accordo fra gentiluomini. Pensaci, hai tutto il tempo. Certo, tua nonna si preoccuperà, i tuoi figli assilleranno il tuo compagno chiedendo dove sei, quando torni, perché sei andata via, perché non li ami più… Sei pronta ad affrontare un nuovo dolore?» Maura fa un respiro profondo. «Tu non mi lascerai mai andare via di qui. È tutta una farsa. Otterrai ciò che vuoi, oppure no. La mia vita finisce qui comunque, sepolta da qualche parte sotto a un mirto o un cactus in fiore. Puoi mentire, ma io ormai l’ho capito.» Non c’è remissione nelle sue parole. Solo tanta tristezza. Avere combattuto contro avversari spietati, ed essere colpita a tradimento, in un momento di dolore. «Pensa quello che vuoi. Adesso, le regole. Punto primo: io verrò tutti i giorni, verso sera, a portarti da mangiare. Diciamo che verso le 18:00 ti farai trovare sulla sedia oltre il muretto di fronte alla casa. Io vengo, poggio delle bisacce sul tavolo e tu non muovi un muscolo. Tirerai la catena per dimostrare che è ancora fissata al muro. Così io potrò posare il fucile e fare quattro chiacchiere con te. Se fai i capricci, salto un giorno. Se insisti, ne salto due. Vedrai, un giorno senza bere è lungo, due ti manderanno all’inferno!» Ascolta in silenzio, poi chiede: «Hai un nome?» Lui ride. «A te piacciono i soprannomi. Chiamami Ulisse, il conquistatore di Troia!» «Ulisse avrà anche conquistato Troia, ma tu non vincerai mai una Porcu!» «Vedremo. Adesso devo lasciarti. La strada è lunga fino alla macchina e si sta facendo tardi. Nella bisaccia ci sono dei farmaci per il mal di testa e di stomaco. Forse i sonniferi che ti ho dato lasceranno degli effetti collaterali. Ci vediamo domani. Ricorda le regole.» «Devi portarmi notizie di mio nonno!» «Non ho alcuna intenzione di andare tutti i giorni in ospedale a mettermi in mostra. Ti dirò solo se dovesse morire, quello sì. Un bel manifesto funebre, con la moglie in lacrime e la bella nipote scomparsa.»


Maura prende una pietra e la scaglia oltre la costruzione, nella direzione della voce. Avrebbe potuto cercare di aggirare il nuraghe per vederlo, ma il rumore della catena l’avrebbe messo sull’avviso. «Fossi in te non lo farei, Maura. Sono l’unico che sa dove ti trovi e che ha la chiave per liberarti. Tienimi caro…» «Fottiti, bastardo!» dice a bassa voce. Ha altro per la testa. Raccoglie la catena e cerca di spostarsi più in fretta che può verso il lato da dove lo sconosciuto le parlava. Siede su un masso e resta in ascolto. Le giungono rumori di passi lontani, poi di un rametto spezzato e infine di un sasso che rotola. Si fissa nella testa le direzioni, colloca quelle postazioni ideali lungo un tragitto fatto di rilevazioni sul paesaggio dello sfondo. Minuti dopo sente il motore d’un mezzo avviarsi e diventare in poco tempo flebile e sparire. È l’ultimo riferimento nella sua mappa effimera. Ora sa che la via di fuga si trova da qualche parte a levante, ai piedi di un sentiero per capre fra cactus e arbusti spinosi. C’è una calda brezza che risale la collinetta del nuraghe. Le porta odori di erbe e terra secca. E, nel mezzo, un aroma che non riesce a identificare. Una nota stonata che la tiene a lungo su quello sperone di roccia. A pensare a cosa sia. Al perché le sembra tanto importante. Un odore portato dal vento. Un sapore che dovrebbe conoscere e che invece le è straniero. Sbuffa. Raccoglie la catena e si appresta a verificare cosa quel tipo le abbia lasciato per cena, colazione e pranzo. Su quanta acqua può contare. Poi deve sistemarsi il giaciglio per la notte, darsi da fare per lasciare fuori casa animali indesiderati e cercare un mezzo per togliersi quella dannata catena. Ma prima di tutto, sente la vescica che sta per scoppiare. Abbassa la lampo e si lascia andare. Pipì e lacrime assieme sulla stessa polvere. Stringe i pugni. Deve lottare di nuovo.


CAPITOLO 6 Le prime luci dell’alba la vedono sbattere le palpebre sul riflesso d’un vetro, che le rimanda un raggio di sole direttamente in faccia. Si guarda attorno con rabbia, consapevole che quanto vede attorno è la dura realtà e non già le ultimi propaggini d’un sogno assurdo. Si stira le giunture e siede su quella specie di letto. Un materasso dove avranno dormito in mille, con sopra almeno un lenzuolo pulito e una coperta che odora di pecora. Tuttavia ha riposato bene, si sente tranquilla e pronta ad affrontare una giornata da reclusa con obbligo di fuga. Ha già visto fin dove la catena le consente di arrivare. Ha già esplorato ogni angolo e recesso alla ricerca di un grimaldello per rompere la catena, ma non ha scovato nemmeno una pietra abbastanza grossa per tentare. Ha rimediato una pentola di terracotta e una vecchia sveglia di ottone. Forse usando il vetro come uno specchio riuscirebbe a inviare messaggi luminosi, ma non si fa illusioni. Ha una tanica con ancora un paio di litri d’acqua per la giornata. Una pagnotta di pane, formaggio e un salame. Niente coltello. Un blister di pasticche per il mal di testa, uno per il mal di stomaco. Una volta mangiato qualcosa per colazione, si appollaia sul tetto del nuraghe più alto, a osservare l’orizzonte. Non ha nulla per accendere il fuoco, ma può sempre provare con i classici legnetti. Si consuma gli occhi un paio d’ore per tentare d’individuare la presenza di una casa, una strada, un segno di civiltà qualunque al quale indirizzare in qualche modo una richiesta di aiuto. Può fare segnali luminosi, sfruttando il sole nascente contro un frammento di vetro. Ma se non capisce all’indirizzo di chi, sarebbe inutile. Il sole inizia a scottare e Maura si ripara alla lunga ombra del nuraghe. Tre unità. Una è la residenza vera e propria, con cucina e camera al piano superiore. Quella di sinistra è un deposito per derrate, l’altra era il ricovero per pecore, crollato da tempo. Un cancello sbarrato le impedisce di entrare e prendere un macigno col quale spezzare la catena. A ogni modo, quel sedicente Ulisse potrebbe tornare in ogni


momento e trovarla in quell’intento. Non ha voglia di prendersi un colpo di fucile alla schiena, meglio rimandare al momento più opportuno. Già, Ulisse… Chi può essere? Ci pensa fino all’ora di pranzo. Non ne ha mai sentito parlare. Conosce Vincenzo Sanna, la gola profonda che ha avvisato il suo carceriere. Sa dell’ossessione di Ulisse per il fondo del nonno, ma non ne conosce i motivi. Dell’uno per averlo a costo della vita d’innocenti, dell’altro per non cederlo a costo della propria. E poi la notizia che Ulisse sarebbe a capo del sodalizio criminale contro al quale sta combattendo da anni. Potrebbe impazzire… «Se solo mio nonno si riprendesse, anche solo per un minuto…» Sa che è molto più di una preghiera: è la richiesta d’un miracolo che non potrà avvenire e non di certo a breve. Può fidarsi di Ulisse e convincere la nonna a cedere il terreno una volta che il nonno sarà morto? Può in cuor suo barattare quanto suo nonno ha gelosamente custodito per decenni, con l’avere salva la vita? Più che per sé, deve farlo per i suoi figli, e sua nonna non le potrà negare quell’accordo assurdo. Cerca di visualizzare il terreno in questione: un centinaio di ettari nel profondo entroterra di Olbia. Colline di granito infuocato, un deserto di arbusti rinsecchiti e cactus centenari. Ci vivono controvoglia capre, serpenti e rari uccelli. C’è un capanno di caccia e una manciata di sugherete. Si ricorda appena di un piccolo nuraghe, l’unico sopravvissuto a quella che poteva essere un tempo un discreto villaggio. Un ettaro di pietre crollate una addosso all’altra, con l’unica torre ancora in piedi. Niente di valore, tenendo presente la distanza dalla costa e dai servizi. «Forse quel che vuole è sepolto sotto terra!» mormora la donna. In effetti, una comunità così sviluppata potrebbe avere accumulato qualche ricchezza, e forse Ulisse vuole metterci sopra le mani senza che nessuno lo venga a sapere, e senza un proprietario che gli si faccia avanti con il fucile puntato. Ma di quale ricchezza si potrebbe trattare? Tanta da rischiare di crepare in galera, magari con qualche morto sulla coscienza? Beve metà dell’ultimo litro d’acqua. Il liquido è ormai una pozione calda e dal sapore di plastica, ma è bene non fare gli schizzinosi. Controlla l’altezza del sole all’orizzonte, e decide che non mancherà molto all’ora dell’appuntamento. Meglio farsi trovare pronti, e


d’altronde starsene seduta in casa o sulla seggiola del luogo dell’incontro, cambia davvero poco. Inoltre può tentare di capire da che parte l’uomo arriverà, e dare conferma alle sue congetture. Siede e resta in attesa.


CAPITOLO 7 A occhi chiusi ascolta i rumori della sera. Il frullo d’ali d’un uccello le rivela che qualcuno sta arrivando e l’ha disturbato. Giunge da destra, da nord. È ancora lontano, almeno duecento metri. Non ha sentito il motore né il raspare delle ruote sul sentiero sconnesso. L’uomo arriva ansimando. Porta uno zaino e si sorregge a un bastone nodoso. Ha anche un fucile a tracolla e si ferma a debita distanza per controllare la situazione. Maura lo fissa tranquilla, le mani bene in vista poggiate sul tavolo, la catena che s’allunga dietro di lei e scompare in casa. «Brava ragazza, hai fatto bene i compiti. Allora, hai riflettuto sulla proposta?» Giunge a pochi metri da lei e si ferma a rifiatare. «Può darsi. Dal momento che hai mostrato la tua faccia, ritengo che non ci saranno possibilità per me di portare a casa la pelle» commenta, acida. «Ma cosa vai a pensare, Maura! Io sono un uomo d’affari. Lasciamo stare le scaramucce che sono accadute tempo addietro. Te l’ho detto: io ottengo il terreno e tu la libertà. Sono un sardo come te, ho i miei modi di vedere le cose, ma se prometto, piuttosto muoio se non posso tenere fede alla mia parola!» Per dare maggiore effetto a quella profferta sputa per terra con foga. «Staremo a vedere. Per prima cosa, voglio far sapere a mia nonna che sono viva. Perlomeno staranno tutti meno in ansia. Poi ragioneremo sul resto.» «Questo si può fare» concede, annuendo. «Da quel che so, tuo nonno è stabile, per il momento non rischia di morire. Questo vuole dire che il nostro accordo sarà ancora lontano dall’essere compiuto.» «Non penserai di tenermi prigioniera in questo tugurio per mesi, o anni?» lo guarda sconvolta. «Tu sei la mia garanzia. Fintanto che stai qui, nessuno mi darà la caccia e il nostro accordo potrà restare in piedi. Augurati che tuo nonno crepi presto, che tanto non rinsavirà.»


«Sei un bastardo! Io mi auguro invece che si risvegli subito e venga a stanarti! Lui saprà di certo dove trovarti.» Sorride. «Bene, trascorsi questi minuti di piacevoli discorsi fra amici, ecco la proposta, cui si è aggiunta in nottata un’altra cosa. In questo zaino, oltre a cibo e acqua, c’è un registratore vocale.» Le mostra lo zaino, tenendolo sospeso con una mano. «Registra quel che vuoi. Descrivi dove ti trovi, quel che sai di me e dei miei scopi. Insomma, ti lascio libera di fare la poliziotta. Se ti trovano, tornerai in libertà senza nemmeno un capello strappato, ma il nostro accordo resterà salvo. Hai troppo da perdere, se una volta libera lo ripudierai. Secondo: nel frattempo, potrai collaborare a distanza con il tuo vecchio capo Petrucci, che ha una nuova gatta da pelare e non sa come venirne fuori…» «Io ho smesso, Ulisse o come cazzo ti chiami» gli risponde decisa. Scuote la testa. «Balle, e tu lo sai. Non è per me che lo farai… Pare ci sia in giro un assassino di bambini. Almeno tre sono stati uccisi negli ultimi due mesi, ma solo ieri hanno messo a fattore comune le informazioni giudiziarie sui vari casi, che hanno coinvolto bambini di San Marino, Rimini e l’ultimo di Teramo.» «Come sono stati uccisi?» chiede lei, tanto per farlo parlare. «Il primo con un colpo in testa. Un bastone o una spranga. Gli altri due con una fucilata a distanza.» «Non si tratta dello stesso assassino, il modus operandi non è comune nei tre casi.» «Erano tutti e tre portatori della sindrome di Down. Del tipo più leggero. Gli ultimi due vivevano in famiglia e andavano a scuola. Quello di San Marino viveva in una struttura pubblica ma era libero di uscire quando voleva.» «E io che cazzo c’entro? Sono ancora morta in via ufficiale e prigioniera, non mi sembra di avere qualche possibilità di lavorare a questo caso, semmai qualcuno lo volesse ancora, il mio aiuto.» «Io ho tre nipoti, di cui uno affetto dalla stessa sindrome. Voglio quel figlio di puttana in galera, meglio se morto. Tu come desideri uscire da questa storia, viva o morta?» «Preferibilmente viva, signor Ulisse dei miei stivali. Viva e a testa alta.» Ulisse indica di nuovo lo zaino. «Lì dentro troverai articoli di giornale e stampe prese online. Manda un bel messaggio vocale a Petrucci. Che sapesse o meno della tua falsa dipartita, sarà felice di sentirti e


condividere con te la sua pena. Facciamo così: ci tengo così tanto a fermare quel pazzo che se riuscirai a farlo catturare, ti lascerò libera subito, seppur obbligata a procurarmi quel terreno. Non scherzo. Ci vediamo domani sera.» Maura non commenta, ha gli occhi come due fessure e la sua mente viaggia a mille. «Ho bisogno di più acqua. Da bere e per lavarmi. Anche abiti e assorbenti. Tra pochissimo avrò le mestruazioni, e non posso restare solo con quello che ho indosso!» «Non posso procurarti una Jacuzzi, ma vedrò quel che si potrà fare. Tu intanto fa’ la brava. Adesso, allontanati di qualche metro e tira la catena. Voglio controllare che tu non abbia preparato qualche scherzo, prima di voltarti le spalle!» Lo dice puntando il fucile. Maura lo guarda e sorride, velenosa. Tutto sommato, è ancora in grado di mettergli paura. Arretra di qualche passo e afferra la catena, tirandola con forza. Quella si solleva da terra e si tende, poi crolla con un lungo tintinnio. «Soddisfatto?» «Solo più tranquillo. Divertiti a registrare, hai fino a due ore in totale.» «Come faccio a capire che poi avrai trasmesso i messaggi a chi di dovere?» «Lo capirai dalla risposta che ti daranno. A presto, Maura.» L’uomo gira le spalle e sparisce nella boscaglia.


CAPITOLO 8 Maura è rimasta seduta in silenzio a occhi chiusi. Ha contemplato i rumori dell’uomo mentre si allontanava, forse capendo qualcosa di più circa la sua direzione. Fa un largo giro, diversi uccelli si sono involati man mano che lui avanzava. Si ferma per qualche minuto per accertarsi che nessuno lo stia seguendo – perché quella donna è pericolosa anche se legata – infine taglia quasi di netto verso la pianura e parte con un mezzo a motore. “Deve trattarsi di un’auto a benzina, quasi non si sente rumore”. Soddisfatta, Maura apre l’involto che le è stato lasciato e si appresta a fare l’inventario: due uova sode, una grossa pagnotta, salsiccia secca e formaggio pecorino fresco. Una bottiglia di vino casereccio e due d’acqua. Quanto basta per tirare alla sera successiva, ma niente scorte per tentare una fuga nel deserto che scorge attorno. Controlla il piccolo registratore vocale, ha le batterie cariche ed è pronto ad ascoltarla. Decide prima di cenare, si ragiona meglio a pancia piena… Deposita i suoi averi sul tavolaccio della stanza centrale. Copre tutto con un canestro per tenere lontani eventuali quattro zampe indesiderati, e si allunga sul giaciglio. Si sente spossata per l’inattività, scoraggiata per la situazione in cui versa, triste per il dolore che i suoi familiari staranno patendo non sapendo nulla di lei. È a loro che indirizza il primo messaggio. Miei amati, sono proprio io, Maura. Non sono scappata, né morta. Qualcuno mi ha rapita e mi tiene prigioniera. Il motivo per il momento lo taccio, ha poca importanza per voi. Ne darò conto con altro messaggio alle forze dell’ordine. Il mio rapitore, che si fa chiamare Ulisse, ci tiene a me e vuole qualcosa in cambio per la mia liberazione, per cui per il momento sono al sicuro.


Mi dispiace di non essere assieme a voi, vi amo tantissimo. Arianna, Giorgio, Paolo, Dario, nonna e nonno. Oh, caro nonno, spero che riuscirai a riprenderti, non potrei sopportare la prigionia senza la speranza di poterti parlare di nuovo. Ho bisogno di te, guarisci, ti prego. Nonna, fatti forza, fra non molto potremo riabbracciarci, anche se al prezzo di un piccolo sacrificio. Dammi notizie del nonno. Sono in un posto tutto sommato bello, un nuraghe grande, disperso in una campagna brulla e densa di arbusti e cactus da rendere impossibile la fuga. La cosa più grande, oltre al desiderio di essere liberata e di riabbracciarvi? Un bel bagno con tanta schiuma. È l’acqua il bene primario che mi manca, ne ho appena quanto basta per non disidratarmi. Bambini miei, quando riceverete il mio messaggio aspettate che faccia sera e guardate il cielo: la luna e le stelle che vedrete sono le stesse che vedo io, sarà come guardarle assieme. Vi abbraccio, fate i bravi con papà e la nonna. Dario, l’ultimo pensiero è per te. Grazie per quanto stai facendo… Interrompe la registrazione con le lacrime agli occhi. Ha tentennato, non è riuscita a dirgli che lo ama. È tanto tempo che non lo dice più, troppo per ricordare il suono di quelle parole. Beve un sorso d’acqua, assaporandone ogni goccia. Due bicchieri per la cena, uno per la notte, uno per colazione e due per pranzo. Se va bene, ne resta uno per un’emergenza, ma nemmeno una stilla in più. Sospira, è tempo di passare alla seconda comunicazione. Sono io, sono Maura Porcu. Se non già presente, chiamate Petrucci, confermerà che sono io, viva, anche se al momento prigioniera. Per chi si fosse perso qualche puntata, ho finto la mia morte per stare in pace e al sicuro per qualche tempo, con il piccolo appena nato. Dovevo sparire soprattutto per chi mi stava dando la caccia. Ho profittato della situazione, ma è durata davvero poco. Però adesso sono stata rapita, dall’ospedale di Olbia, di certo con la complicità di qualche interno. Indagate su Vincenzo Sanna, è l’unico che mi ha visto al paese e che può avere fatto la spia. Il mio rapitore è un tizio alquanto particolare, ve lo descrivo: sulla settantina, veste abiti rustici, da campagnolo. Ha i


capelli quasi tutti bianchi, con una chierica marcata. Non porta occhiali né barba o baffi. Dall’accento sembra un sassarese, ma i tanti anni che ha passato sul continente ne hanno imbastardito la dizione, ora molto più fluida e affatto gutturale. Parla un italiano fluente, ha senz’altro studiato, forse agraria, ma s’interessa anche di archeologia e beni antichi. Mi tiene segregata in un vasto complesso di tre nuraghe di cui uno diroccato, disperso in un deserto quasi pianeggiante. Mi ha drogata all’ospedale e mi sono risvegliata qui, per cui non so dire dove mi trovo e che giorno sia. Sono tenuta alla catena assicurata a un cavicchio tramite manette d’ordinanza. Che strano, eh? Legata come un criminale. Non ho possibilità di fuga, anche se riuscissi a spezzare la catena non saprei dove andare e non ho acqua a sufficienza per camminare, forse per giorni, senza una meta precisa. Chiedete a gente del posto, un luogo come questo è senz’altro particolare e noto. Il mio rapitore si fa chiamare Ulisse e non teme di mostrarsi in volto. Vuole scambiare la mia vita con qualcosa che nominerò in seguito. Guida un’auto a benzina, credo un fuoristrada. Mi ha parlato di un nuovo caso che vi toglie il sonno: un probabile assassino seriale di bambini con sindrome di Down. Curioso, mi ha chiesto d’interessarmene. Mi ha lasciato degli articoli e li ho scorsi qualche minuto, ma dicono poco. Il modus operandi è cambiato, cercate altri casi del genere, anche se non sono sfociati con la morte del minore. Confermatemi che la cronologia è corretta: prima il ragazzino di San Marino, poi gli altri due in sequenza. Omicidio compulsivo il primo, programmati gli altri due. Fosse stata anche la stessa mano, le motivazioni sono diverse. Brutto da dire, ma a me sembra un doloroso depistaggio e non mi aspetto altri casi del genere. Non sono più un poliziotto, ma una vittima da salvare. Allora datevi da fare. Sto scontando un prezzo troppo alto per aver servito le forze di polizia e non vorrei pagare anche con la vita. Cercate su Google Maps, sui libri di geografia, presso l’esercito: questo è un posto speciale, tre nuraghi grandi sulla cima d’una bassa collina, con attorno null’altro che una pianura e modeste colline all’orizzonte, il tutto ricoperto di cactus e polvere arida. Vi do tre giorni, poi cercherò un modo per fuggire. Mandatemi altre notizie sull’assassino dei ragazzi. Ciao!


Maura mette via il registratore. Ha detto quel che le passava per la testa, tanto per mandare il messaggio che è ancora viva e per tenere buono Ulisse. Ha raccontato cose, ma non lo scopo dell’uomo. Ha descritto il luogo di prigionia, ma non dove si trova davvero. Mentre riprende la cena interrotta, pensa a tutta una strategia. Mentire, fingere di essere accondiscendente. Capire fin dove può fidarsi e ottenere una via d’uscita. Che non si trova più in Sardegna ormai le è chiaro: il nuraghe è costruito con pietra calcarea e non granitica. L’aroma che sentiva nell’aria era il profumo d’una pianta spontanea, di cappero. È diffusissimo, ma prospera solo su rocce calcaree e in Sardegna sono rarissimi. Non sa dire perché, ma crede di essere finita in Puglia e il nuraghe potrebbe essere un trullo rimasto allo stato grezzo: niente guglie né stucchi, solo pietra. Ha bisogno ancora di un giorno o due. Tenere bordone all’uomo per cercare di arrivare a un dunque. Trovare la via della libertà sulla sua auto, piuttosto che vagare ore o giorni nel deserto infuocato e senza una direzione da seguire. Sorride e si concentra. Via al cronometro mentale. Porta le dita al lobo di un orecchio, sgancia l’orecchino e lo apre davanti a lei. Raddrizza il piccolo punteruolo e cerca d’infilarlo dentro la serratura delle manette. Con movimenti rapidi e meccanici agisce sulle piccole leve interne. Uno scatto ed è libera. Si massaggia con soddisfazione la caviglia dolorante, poi si sistema l’orecchino. Sette secondi, può fare di meglio, ma forse non serve. Almeno, la notte può riposare meglio.


CAPITOLO 9 Maura è sul tetto piatto del trullo, ormai lo chiama così. Osserva da un paio d’ore l’orizzonte che ha intorno, alla ricerca di un qualche indizio, ma oggi come nei giorni precedenti non ne trova. Sono le 10:00 passate e si è già stufata. Beve un sorso d’acqua e prende la bottiglia mezza vuota con sé. Trascina la catena fino al tavolo all’aperto, e la posiziona accanto alla sedia, come se lei fosse seduta per attendere Ulisse. Le manette sono sganciate e lei ha un pensiero fisso in testa: tendere un agguato all’uomo e riguadagnare la libertà. Ha ancora una reputazione da difendere, e nessuno può metterle le mani addosso impunemente. Osserva il breve sentiero dal quale l’uomo le appare, termina dietro una siepe di cactus dopo una decina di metri. Oltre, non sa cosa la potrebbe attendere. Di certo Ulisse non si trattiene ore e ore a spiarla o aspettare un suo passo falso per abbatterla con una fucilata, gli uccelli che s’involano al suo arrivo glielo dicono. Deve fare attenzione a non lasciare tracce del suo passaggio, e cerca di stare distante dal percorso che segue l’uomo. Sassi smossi, un cactus spezzato, impronte delle sue scarpe da tennis sulla sabbia. Raccoglie una ramaglia e la porta con sé. Ogni tanto controlla il suo passaggio e cancella le rare impronte. Fintanto che la collinetta e il trullo sono in vista, non rischia di perdersi; al massimo dovrà fare un giro più largo per tornare indietro. Scende lungo un sentiero che pare una peristalsi per quante volte la costringe ad aggirare boschetti di cactus e rampicanti. Infine, raggiunge una stretta vallata. Vede il luogo in cui Ulisse lascia il mezzo. Solchi di pneumatici e cartacce. Le impronte degli scarponi arrivano a un passaggio a pochi metri da lei, e si perdono sul pietrisco. La valletta si allunga e sparisce oltre una curva. Potrebbe esserci una casa o anche un aeroporto, non si vede nulla. Decide di prendere il giro più largo, per evitare d’incrociare la pista dell’uomo e confondere le sue impronte con quelle di lui.


Torna nella boscaglia e cammina per una mezz’ora, per poi ritrovarsi dall’altra parte della valletta. Da lì vede più orizzonte. C’è una strada sterrata e di lato quello che sembra essere il greto di un torrente in secca. Ma poi? Un chilometro verso la civiltà, o venti? Avesse parecchi litri d’acqua potrebbe tentare la fuga. Oppure se fosse sicura che l’uomo si ferma sempre nello stesso posto, potrebbe attenderlo lungo il sentiero e assalirlo. Ci sono troppe variabili nel suo piano di fuga, sa di avventato e si sente troppo debole e vulnerabile per affrontarne anche una sola. Torna sui suoi passi, comunque rinfrancata dalla scoperta. La bottiglietta è quasi vuota, ne ha appena un’altra per tirare a sera. Giunge alla sua prigione di pietra con il sole di mezzogiorno. È tutta sudata e si dà della pazza, per il rischio che si è presa. Torna all’ombra e alla frescura della sua stanza. Si sdraia sul letto e cerca di rifiatare. Ha la buona idea di riallacciare le manette prima di crollare in un sonno profondo. Maura è sulla cima di un burrone. Ulisse la pungola con il fucile e le ride in faccia. “Adesso salta!” le comanda, e lei si mette in ginocchio, supplicandolo di non ucciderla. L’uomo affonda la canna del fucile nel suo costato e lei grida di dolore, così forte da svegliarsi. «Allora sei ancora viva!» esclama Ulisse con un ghigno. «Non mi sento bene. Colpa del sole» taglia corto la donna. «C’è troppo sole per chi non è abituato. Cosa speravi di trovare là fuori?» «A tutti i carcerati è concessa la speranza di scappare» dice, passandosi una mano sul viso sudato. «I carcerati seguono le regole del vivere civile. Qui le regole le faccio io. Hai imparato la lezione?» «Non c’è nulla là fuori. Solo sassi, spine e il calore del deserto.» «Non hai pranzato» osserva l’uomo. «Mi sento bruciare per la febbre. Devo bere.» Si alza e Ulisse fa un passo indietro. La donna ridacchia. «È solo acqua, Ulisse.» Prende la bottiglia e ne beve una metà. Si lascia scivolare sul letto, la catena tintinna di lato e le dà uno strappo alla caviglia. «Se la tua fama non ti precedesse, potrei anche toglierti la catena, ma rischierei di fare una brutta fine o di doverti uccidere.»


«Perché, non lo farai comunque?» «In principio era il mio scopo, vendicarmi di te. Ma adesso sei più preziosa da viva che da morta. Poi, posso sempre decidere all’ultimo.» Maura non replica, si rovescia un po’ d’acqua sulla testa e sospira. «Tuo nonno è ancora vivo, e ho altre notizie sull’assassino di bambini.» «Bene, anch’io ho fatto i compiti.» Indica un luogo imprecisato della stanza, più o meno verso la direzione del tavolo. «Non so quanto darei per vedere le facce dei tuoi colleghi quando apprenderanno che sei ancora viva! Ex colleghi…» precisa, non senza una punta di veleno nel tono della voce. «Non mi frega niente di non essere più un poliziotto con distintivo e pistola. Ho risolto più casi da civile che quando ero agli ordini di questo o di quello!» Ulisse scuote la testa. «A me non la dai a bere. Scapperesti da questa prigione di fuoco, se ti promettessero di rientrare. Guardati, ti stai rammollendo, catturata da un vecchio come me, la grande Maura Porcu!» Maura si mette seduta e fissa l’uomo con occhi inferociti, tanto che quello è costretto ad arretrare e puntare il fucile. Lei ride e torna a sdraiarsi. «Così sai che non puoi permetterti di prendermi per il culo! Adesso, se non c’è altro, ti prego di lasciarmi. Devo riposare.» «Sissignora contessa, me ne vado subito» risponde, facendo un inchino. «Però domani sera ti voglio al tavolo fresca e riposata. E anche ripulita, ho portato una tanica d’acqua per lavarti. Inizi a puzzare come un cadavere!» L’uomo lascia la stanza e Maura lo sente allontanarsi giù per il sentiero. Non commette l’errore di uscire, teme che Ulisse possa restare di guardia per capire se sta fingendo. Tende le orecchie e percepisce il rumore di passi che si allontanano. Si sfila l’orecchino e sgancia le manette. Si appressa alla finestrella e guarda verso la vallata. Un corvo si alza in volo dopo un po’, e le sembra di percepire rumori di pneumatici che raschiano nella sabbia mentre l’auto fa inversione. Sono le 19:00 e ha ancora un paio d’ore di luce per tentare una via di fuga. Raccoglie le sue cose e le mette dentro lo zaino con le provviste che Ulisse le ha lasciato. Controlla l’acqua della tanica, la odora e l’assaggia. Sembra potabile e d’altronde non può fare diversamente.


Fa per avviarsi, poi la coglie un dubbio tremendo: come mai ha lasciato lo zaino, questa volta? Lo svuota con cura, controlla tasche e compartimenti, poi lo vede. Un aggeggio piccolo come un accendino, ma capace di trasmettere un segnale a chilometri di distanza. “Bastardo, mille volte bastardo!”. Ulisse ha piazzato un rilevatore di posizione, contando sul fatto che se Maura avesse tentato di scappare, lui l’avrebbe ritrovata più in fretta di quanto lei avesse cercato di allontanarsi. Lo deposita sul tavolo dopo una veloce occhiata, e si pone lo zaino sulle spalle. È stanchissima e accaldata, ma si dice che non sa cosa le può riservare il domani, specie dopo che avrà ascoltato il messaggio e la sua promessa di fuga. E di Ulisse non si fida. Gioca come il gatto con il topo, e a lei quel gioco non è mai piaciuto. Fuori l’attende la frescura della sera. Ha molte cose da fare.


CAPITOLO 10 Maura sbuca nella valletta quasi senza accorgersene. Fa attenzione ad allontanarsi dalla parte opposta del parcheggio usato da Ulisse. Si guarda attorno, cercando segnali di civiltà: una linea elettrica o del telefono, un cancello, un rudere, ma non c’è niente, solo quei maledetti cactus, arbusti e pietraie a perdita d’occhio. Attorno vede collinette che si susseguono tutte uguali. Si sistema lo zaino sulle spalle e passa la tanica d’acqua all’altra mano. Si avvia decisa. Conta su un paio d’ore di luce, poi se la luna o le stelle la assisteranno, potrà proseguire ancora a lungo. Vuole allontanarsi il più possibile dalla zona del trullo, e sperare di non sbagliare direzione a un eventuale incrocio, rischiando di perdersi nel nulla infuocato che si accenderà sin dalle prime luci dell’alba. Cammina spedita, attenta a quel che ha intorno. Forza l’andatura, respira a narici dilatate. Sente che ce la può fare, che la fatica non riuscirà a fermarla. Passa mezz’ora, poi un colpo di fucile le fa schizzare della terra addosso. Getta via la tanica e cerca un riparo, ma un secondo colpo di fucile la convince che è meglio fermarsi e mettere le mani sulla testa. «Maura, Maura, tu mi deludi…» Ulisse appare, sollevandosi da una dolina. Ricarica veloce il fucile e glielo punta addosso. «Dovevo provarci. La tanica…» «Già, la tanica. È stato proprio quello il tuo errore. Acqua da bere e non per lavarti come avevi richiesto. Come vedi, non sono un uomo da poco come potrebbe apparire dagli abiti dozzinali che indosso. C’è una micro camera nella stanza. Mi è bastato restare in attesa cinque minuti per accorgermi che stavi facendo i bagagli. Comunque devo farti i complimenti per come sei riuscita ad aprire le manette. Nemmeno con la chiave in dotazione saresti stata più veloce! Però adesso devo punirti…» «Cosa intendi fare, vuoi tagliarmi un piede come agli schiavi d’America?» lo sfida la donna.


«Niente di così truculento. Ti incatenerò al letto, giusto un paio di metri di catena per i bisogni. Due ceppi alla vecchia maniera e sarai sistemata. Dobbiamo portare avanti il nostro accordo, te lo sei scordato?» «Ma ci potranno volere anche dei mesi!» si lamenta Maura. «Allora prega che tuo nonno crepi in fretta, e manda un messaggio alla nonna, che inizi ad ammorbidirsi. Così alla fine ognuno avrà avuto quel che desidera: tu la libertà, e io una certa cosa. Adesso muoviti, ti riporto lassù! E quelli restano qui.» Le punta il fucile addosso e la costringe a lasciare lo zaino e la tanica. «Io non ci arrivo a domani sera senz’acqua. Tanto vale che mi spari qui sul posto!» «Allora bevi tutta l’acqua che ti riesce e prendi una bottiglia con te. Sbrigati.» Maura beve fino a scoppiare, ma riesce a ingoiare solo una mezza bottiglia. È calda e le fa un po’ schifo. Usa il resto per buttarsela sulla testa e sulla faccia. Raccoglie l’altra bottiglia e una pagnotta di pane, che inizia a mangiare strada facendo. «Proprio non vuoi mollarmi, eh? Di’, cosa ti ha fatto la mia famiglia?» chiede, fra un boccone e l’altro. «Di questo parleremo più avanti. Cammina, e non farmi perdere altro tempo.» La strada non è poi così lunga, Maura realizza di avere percorso non più di un paio di chilometri, e si ritrova presto nella valletta. Punta il luogo dove di solito Ulisse lascia il suo mezzo e inizia la salita, spedita. A volta sale a quattro zampe, ma l’uomo la tallona e non la lascia allontanare. «Rallenta, puttana, che tanto non mi semini!» «Ti piace così tanto il mio lato b?» commenta, poi scivola e cade lungo distesa. L’uomo la deride. «Vedi, così impari a fare la spiritosa!» ma il suo sorriso dura poco, il ramo di un arbusto preparato ad arte dalla donna viene liberato e lo colpisce con violenza al volto, facendolo ruzzolare all’indietro. Maura scatta veloce, ma non si azzarda ad affrontare Ulisse, che già sta recuperando il fucile. «Stronza! Cosa speri di fare? Torna subito qui!» Le spara un paio di colpi a casaccio, facendo volare pale di cactus ovunque.


Maura non risponde alla provocazione, scappa piegata in due e raggiunge la valletta, sospinta dalle sue lunghe e giovani gambe, che le mettono le ali ai piedi. Quando Ulisse giunge a sua volta nella radura, lei è quasi sul fondo. Scarica il fucile, rabbioso, ma non arriva nemmeno a sfiorarla. Maura corre veloce e si ferma solo per qualche attimo per sfilarsi una lunga fila di aculei che ha rimediato scartando durante la fuga per evitare una scarica di pallettoni dell’uomo. Sa che la distanza fra di loro non potrà essere colmata da Ulisse, che però ha il vantaggio di conoscere il territorio a differenza di lei. Raggiunge il luogo dell’agguato e raccatta lo zaino e la tanica mezza vuota. Per il momento se li porta appresso, poi si vedrà. Cammina veloce guardandosi alle spalle. Oltre una curva scorge il fuoristrada di Ulisse, un vecchio Toyota di sana lamiera. Si affretta, ma non trova le chiavi. Furiosa, strappa i fili sotto al cruscotto e lo distrugge con una pietra. Non contenta, fracassa il cristallo anteriore. Si ferma per un attimo, ancora poco convinta di avere bloccato quel pachiderma d’acciaio. Si strappa un lembo della camicia e lo avvolge attorno a una piccola pietra. Ficca l’involto dentro al tubo di scappamento, fin dove le riesce. È tempo, il rumore dei passi alle sue spalle le dice che è ora di togliere le tende. «Troia, non avrai osato manomettere il mio fuoristrada!» «Porcu, sono una Porcu! E adesso sei appiedato anche tu. Vedi di risparmiare il fiato, se non mi hai portata nel culo del mondo forse ce la puoi fare!» Si affretta ad allontanarsi, perché Ulisse le sta scaricando il fucile addosso. Ma Maura ha fatto bene i conti, nemmeno questa volta viene raggiunta dai pallettoni. La strada sale e scende fra collinette e doline, meglio allontanarsi per evitare che un tratto con tornante la avvicini all’uomo e al suo fucile.


CAPITOLO 11 Maura ha perso il conto delle ore passate a camminare. Ha finito il cibo e la mezza tanica d’acqua. Se la svuota addosso e la getta dietro un ceppo di cactus, per non lasciare tracce. Si dice che non mancherà molto alla mezzanotte, la luna è alta nel cielo, e le illumina la strada come un faro. Ogni tanto si ferma per guardarsi alle spalle e ascoltare i suoni della notte. Rifiata qualche istante, poi riparte cercando di non pensare alla fatica. Il paesaggio pare non cambiare mai, pure sembra che le colline abbiano fianchi più bassi, come se si stessero addolcendo. Crolla di schianto, non ne può più. Le dolgono i piedi per la lunga camminata e ha la schiena inzuppata dal sudore per via dello zaino che si è portata appresso con le due bottiglie d’acqua di riserva. Siede su una roccia e si sciacqua la faccia con un po’ d’acqua. Beve un sorso e scorge qualcosa che attraversa il disco della luna. «Un uccello!» Le sembra strano, un uccello grande che vola di notte. Guarda meglio e dopo un po’ ne passa un altro. «Sono gabbiani!» mormora, interessata. Gabbiani uguale mare, uguale gente. Si alza e riprende il cammino. Davanti a sé le collinette sembrano richiudersi sulla strada. Oltrepassa la strettoia e si blocca sul posto: c’è un cancello chiuso a un centinaio di metri, oltre il quale si scorge una pianura in basso con case sparse e una distesa di pini. E, cosa più bella, si vede il mare. Sorride, ce l’ha fatta. Non passerà molto per giungere a una strada asfaltata e incrociare un’auto in transito. Lo sparo la coglie come nuda nella piazza d’un paese. Alla sua destra si apre una buca sul sentiero. Ulisse sembra aver sfruttato al meglio la conoscenza del territorio, situazione che gli ha permesso di prendere una buona scorciatoia e anticiparla al cancello, nonostante la notte e l’età. «Merda!» Maura scarta di lato, non ha intenzione né di farsi impallinare né di tornare alla mercé di quel pazzo. Corre zigzagando verso una


collinetta, mentre dietro e attorno a lei i proiettili miagolano nel buio. Contra otto spari, cadenzati da pause di tre o quattro secondi uno dall’altro per ricaricare. Per il momento è al sicuro. “Non è un’arma semiautomatica. Direi piuttosto una carabina a colpo singolo, con ricarica tipo Winchester o con l’otturatore. Questo spiega il ritardo fra i colpi”, riflette. Si guarda famelica attorno. Ulisse le chiude il passaggio verso il cancello, ma allo stesso tempo non può inseguirla con agilità. Striscia più bassa che può attorno alla collinetta e la aggira. Risale il fianco di quella attigua e sbuca dall’altra parte. La strada non si vede. Cerca una via di fuga fra massi e arbusti spinosi, e ringrazia il cielo che non ci siano più gli odiati cactus. Si allontana di parecchio, attenta a non mostrarsi sullo sfondo del cielo. Si ritrova lungo una discreta scarpata che termina nell’alveo di un torrente in secca. Un lungo reticolato recinta la proprietà, al di là del greto. C’è fin troppa visibilità per tentare il passaggio, ma se resta bloccata in quel posto, alle prime luci dell’alba sarà più visibile di una mosca dentro una tazza di latte. Studia la zona, pianifica dove intende attraversare, dove scavalcare il recinto e nascondersi subito dopo. C’è una boscaglia a una cinquantina di metri e oltre chissà, magari una strada. Guarda per qualche istante verso il fondo del canalone, ma non vede la sagoma del suo cacciatore in arrivo. Scatta come una lepre, scivolando sul pendio, atterra fra i sassi e la sabbia del letto disseccato del torrente, sfrutta le lunghe leve per divorare la ventina di metri fino al reticolato, poi salta come un’antilope insidiata dal leone, una mano sul palo a fare da perno, le gambe che prendono il volo di lato e la percezione di riuscire a passare dall’altra parte. Ancora una volta le cose non vanno come desidera. Sente un colpo alla schiena, come se un macigno le fosse stato scagliato da una fionda enorme. Solo il rumore dello sparo le dice cosa sta succedendo. Balzo e proiettile la gettano dall’altra parte, senza fiato. Ruzzola per qualche metro, poi si ferma sul fianco. Respira a bocca aperta, sbatte gli occhi, si chiede quanto grave sia la ferita. Inaspettatamente le gambe rispondono, le braccia la sostengono nella ripartenza dapprima a quattro zampe, poi piegata in avanti come una centometrista, poi via sempre più veloce.


Il colpo di carabina successivo la manca d’un niente, ma non ce n’è un altro: ormai è entrata nel bosco, lo attraversa al riparo dalla cortina di tronchi, protetta da cespugli bassi. Sbuca sulla strada asfaltata come un alce inseguito da un orso, e quasi finisce contro un’auto che sta sopraggiungendo. La blocca e si precipita allo sportello dell’autista. «Polizia, è un’emergenza! Si sposti e mi lasci guidare, siamo in pericolo!» La ragazza alla guida la guarda senza reagire. Maura la spinge verso il sedile del passeggero, già occupato da un’altra giovane donna. Per fortuna che la vecchia Renault 4 consente una manovra veloce. Fa inversione sul posto e riparte con quanta velocità la vecchia auto le consente. «State giù!» ordina imperiosa. Le due ragazze si fiondano sul pavimento dell’auto, un groviglio di braccia e gambe. Dallo specchietto piazzato nel mezzo del cruscotto vede una fiammata lontana, e dopo un momento i vetri vanno in frantumi. Ma è l’ultima sortita di Ulisse. Già le case di un paese si avvicinano e, con esse, la salvezza. Fine anteprima. Continua…


INDICE PREFAZIONE DELL’AUTORE .................................................................... 7 CAPITOLO 1 ........................................................................................... 11 CAPITOLO 2 ........................................................................................... 13 CAPITOLO 3 ........................................................................................... 17 CAPITOLO 4 ........................................................................................... 20 CAPITOLO 5 ........................................................................................... 22 CAPITOLO 6 ........................................................................................... 26 CAPITOLO 7 ........................................................................................... 29 CAPITOLO 8 ........................................................................................... 32 CAPITOLO 9 ........................................................................................... 36 CAPITOLO 10 ......................................................................................... 40 CAPITOLO 11 ......................................................................................... 43 CAPITOLO 12 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 13 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 14 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 15 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 16 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 17 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


CAPITOLO 18 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 19 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 20 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 21 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 22 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 23 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 24 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 25 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 26 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 27 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 28 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 29 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 30 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 31 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 32 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 33 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 34 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 35 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 36 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 37 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 38 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 39 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 40 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 41 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


CAPITOLO 42 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 43 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 44 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 45 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 46 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 47 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 48 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 49 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 50 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 51 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 52 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 53 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 54 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 55 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 56 ..................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. NOTE DELL’AUTORE ......... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. RINGRAZIAMENTI ............. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


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