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Questa è la storia di cinque improbabili supereroi. Marco, un ragazzino che trasforma le persone in docili zombi; Maria, una prostituta che crea per protezione un suo doppio; Luigi, un senzatetto che usa un universo parallelo per muoversi senza essere visto; Giusi, una ragazza la cui patologia le conferisce una inumana velocità; lo Spettro, un misterioso writer che riesce ad animare le sue creazioni. Reclutati da Shiv, un indiano il cui terzo occhio riconosce gli esseri speciali e da don Giulio, un prete che è rimasto vincolato a un cane demoniaco durante una evocazione satanica, si uniscono in uno strampalato super gruppo e si ritrovano a difendere la Terra e le proprie vite da un invasore alieno. Sullo sfondo, una Lucca invasa da cosplayer durante un famoso festival fumettistico.

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Published by redazione, 2024-06-11 07:26:29

La classe, Stefano Frigieri

Questa è la storia di cinque improbabili supereroi. Marco, un ragazzino che trasforma le persone in docili zombi; Maria, una prostituta che crea per protezione un suo doppio; Luigi, un senzatetto che usa un universo parallelo per muoversi senza essere visto; Giusi, una ragazza la cui patologia le conferisce una inumana velocità; lo Spettro, un misterioso writer che riesce ad animare le sue creazioni. Reclutati da Shiv, un indiano il cui terzo occhio riconosce gli esseri speciali e da don Giulio, un prete che è rimasto vincolato a un cane demoniaco durante una evocazione satanica, si uniscono in uno strampalato super gruppo e si ritrovano a difendere la Terra e le proprie vite da un invasore alieno. Sullo sfondo, una Lucca invasa da cosplayer durante un famoso festival fumettistico.

In uscita il 28/6/2024 (15,70euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2024 (5,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


STEFANO FRIGIERI LA CLASSE ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA CLASSE Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-671-1 Immagine di copertina: Emanuele Tonini Prima edizione Giugno 2024


A Steve, John, Alan e Jack, che mi hanno fatto sognare.


7 NOTA DELL’AUTORE Questa è una storia che parla di supereroi. Per i pochi che ancora non sanno cosa siano, mi spiego meglio: i supereroi, nel mondo colorato e ridondante dei fumetti, sono quei personaggi che proteggono i deboli e fanno trionfare il bene sul male. Insomma: fanno cose strane vestiti in modo strano. Tutto questo sempre con il sorriso sulle labbra e i muscoli bene in vista. Sono dei narcisi, si beano dell’applauso, godono nell’apparire sulle copertine, sono felici solo quando le mamme gli offrono i propri figli da baciare. Nella nostra storia, però, non tutto segue una direzione così netta e precisa. Niente folle festanti, medaglie onorifiche, copie vendute. Bene e male si mischiano come nel gioco dello shanghai, e bisogna stare molto attenti a selezionare il bastoncino giusto per evitare di far crollare tutto. Di muscoli e sorrisi compiaciuti se ne vedranno pochi. Mantelli, maschere e calzamaglie? Niente di tutto ciò. Siete stati avvertiti.


CAPITOLO 1 – GLI EROI “Fletto i muscoli e sono nel vuoto!” Ratman MARCO Il professor Geraci ha sessant’anni e molti capelli bianchi, uno per ogni problema. Il lavoro lo annoia, la moglie non lo capisce più – anche se non è certo che lo abbia mai capito – i colleghi lo snobbano, gli alunni lo odiano, le case editrici continuano a frustrare le sue ambizioni di scrittore. Di recente la sua vita è perfino peggiorata: ha scoperto di avere una prostata grossa come un pugno. Gli era venuto il sospetto quando aveva cominciato a svegliarsi in piena notte con la vescica che urlava la sua incontenibile urgenza, per poi passare lunghissimi minuti guardando sconsolato un triste filo d’urina gocciolare nella tazza del water. Così si era deciso a prenotare una visita urologica. Il medico, dopo un esame così approfondito che era stato un vero e proprio attentato alla sua virginale dignità, aveva confermato: ipertrofia prostatica. «Tutto normale alla sua età, però meglio fare altri controlli…» Il tarlo del dubbio aveva cominciato a rodergli la mente con i suoi dentini affilati. Un altro problema, un altro capello bianco. Mentre aspetta di sapere, continua a svegliarsi e correre in bagno per evitare spiacevoli sorprese. A volte ce la fa, altre no. Sua moglie comincia a non lo sopportalo più, se mai lo ha sopportato… Ora, mentre si avvia a scuola, la frustrazione e la paura si concentrano su un punto preciso: la raffica d’interrogazioni che ha


in programma per quella mattina. Sorride sadico al solo pensiero. Non è mai stato tenero con i suoi alunni ed è per questo che lo odiano. Oggi però la sua solita cattiveria ha un alibi di ferro: ieri notte si è svegliato ben cinque volte; al buio si è distrutto il mignolo del piede contro lo spigolo del letto, e zoppica ancora. In tutta la carriera scolastica ha perseguito un solo scopo: far capire, a colpi di compiti e interrogazioni, a quella banda di piccoli criminali in erba, cosa li aspetta nella vita. Lui lo sa ed è giusto che comincino a capirlo anche loro: tanta fatica e troppe delusioni. Lo fa per il loro bene, ovviamente. Ciò che qualcuno chiamerebbe vendetta, nei confronti della vita e del mondo intero, per il professor Geraci è semplice giustizia; pazienza se qualche innocente ci va di mezzo. Entra a scuola facendo lo slalom tra gli studenti che si accalcano davanti all’entrata poi, colto dalla solita urgenza, si affretta verso i bagni. Per fortuna a quell’ora non c’è ancora nessuno. Appoggia la cartellina sul lavabo e sta per entrare in un orinatoio tappezzato di graffiti osceni, quando sente un lieve tossire dietro di lui. Si gira e si trova faccia a faccia con un ragazzino il quale, zaino sulle spalle e sguardo serio, lo scruta in silenzio. Il professor Geraci lo riconosce e si rabbuia. «Marco? Che ci fai qui? Questo bagno è riservato a noi insegnanti! Fila in classe, che oggi sicuramente ti interrogo!» Il ragazzino non si muove, né accenna a una risposta. Ha sedici anni, biondo, fisico gracile e uno sguardo intenso che incute soggezione. Geraci ora un po’ di timore comincia ad averlo per davvero. «Allora?» riprova, intensificando il tono autoritario della voce. Marco non si fa impressionare e continua a guardarlo senza dire una parola. Il suo silenzio ha ormai assunto l’aspetto di una vera e propria minaccia.


Il professore fa due passi verso di lui, cercando di non mollare la presa sulla vescica. La sua camminata ha un che di ridicolo, come un pinguino che caracolla su una sottile lastra di ghiaccio. Marco si limita a sollevare un dito e grattarsi la tempia destra. Tutto si fa buio. Quando la luce ritorna a illuminare il mondo, il professor Geraci si ritrova a letto, vestito e con le coperte tirate su fino alla gola. Si gira stupito e l’orologio sul comodino gli segnala che sono le 14:00; la macchia sul davanti dei calzoni rivela che l’impellente urgenza di prima si è “risolta”. Si alza, mezzo intontito, e si domanda cosa diavolo sia successo. Ripensa a quanto accaduto: il bagno, Marco, il buio. Non ricorda molto altro. Non è la prima volta che ha questi vuoti di memoria e, ora che ci riflette, sempre dopo aver incrociato lo sguardo di quell’inquietante ragazzino. Forse è solo un caso, forse sono i primi sintomi di un Alzheimer galoppante. Un nuovo pensiero, un nuovo capello bianco. Mentre si alza per cambiarsi i pantaloni, viene colto da un brivido, forse di terrore. *** Marco si liscia il ciuffo biondo, e vede nel corridoio il professore arrancare come uno zombie verso l’uscita. Anche per oggi ha evitato l’interrogazione e, visto il suo grado di preparazione, non può che essere un bene. Mentre inizia ad avere il solito mal di testa, si chiede cosa penserebbero i suoi compagni di classe se sapessero chi devono ringraziare, oggi come molte altre volte, per lo scampato pericolo. Diverrebbe il loro idolo e forse farebbero una colletta per erigergli una statua nel cortile della scuola. Oggi invece lo evitano come la peste: sarà per quella sua aria severa e fin troppo adulta che spaventa e incute timore.


Questa è la vita: ingiusta e distratta. Lui è abituato, ormai. Comunque pensa, mentre si avvia verso l’aula, che è solo colpa sua: non ha mai voluto renderli partecipi del suo dono, forse per la paura che, dopo un primo momento di gloria, il rispetto potesse trasformarsi in diffidenza, nel dubbio che un giorno quel potere potrebbe essere usato contro di loro. Allora è meglio così, molto meglio che tutto rimanga nascosto al resto del mondo. Nemmeno i genitori sospettano qualcosa; chissà come reagirebbero sapendo di avere un figlio che può far fare loro quello che vuole. Del resto, è già successo in passato: per sfuggire a una punizione, a un fastidioso compito che gli era stato affidato, alle smancerie di qualche parente troppo esuberante. Gli erano bastati pochi secondi per obnubilare la mente del suo obiettivo, in modo da potersi dileguare senza farsi notare. Ricorda il povero nonno che appena lo vedeva gli afferrava le guanciotte e le strizzava come panni d’asciugare. Una volta, stanco di quella tortura, lo aveva guardato negli occhi e l’uomo aveva smesso di strizzare ed era rimasto immobile, lo sguardo velato e le mani ciondoloni, come se avesse avuto un ictus. Poi, quando Marco aveva mollato la presa sulla sua mente, si era girato intorno disperato, fino a incrociare lo sguardo sconsolato della moglie che lo scrutava scuotendo la testa. Era stata l’ultima volta: ora, quando lo vedeva, stava a distanza di sicurezza. Si era accorto di avere quel potere con la fine della pubertà, quando corpo e mente cominciavano a intravedere nuovi eccitanti percorsi. Quello si prospettava come uno dei più interessanti. Accadde la prima volta quando il pastore tedesco dei vicini, il quale tutte le volte che lui gli passava accanto saltava contro la rete di protezione abbaiando furiosamente, lo fece una volta di troppo e nel momento sbagliato. Marco era nervoso per un compito andato male; lo aveva guardato


con odio, il cuore che batteva a mille per lo spavento, e aveva pensato: “A cuccia, stronzo!”. Il cane aveva fissato lo sguardo nel vuoto per un secondo, poi si era infilato nella tana, obbediente. Dopo alcune prove, Marco aveva capito qual era il suo potere: imporre agli altri il proprio volere. All’inizio ci aveva preso gusto. Poi, quando aveva visto negli occhi di sua madre la paura di aver perso pezzi della sua vita in un abisso oscuro, che assomigliava tanto alla pazzia, aveva iniziato a limitarsi, indirizzando le sue doti sugli estranei. Ciò non gli avrebbe creato alcun fastidioso e inutile rimorso, anzi. Si divertiva con qualche bullo del quartiere, oppure con quell’odioso professore che non meritava altra punizione per la sua cattiveria. In questi casi contava solo il risultato, e quello c’era sempre. Marco, felice di avere una mattina tranquilla, anche se il dolore alla testa non accenna a diminuire, si avvia verso la sua classe. È così soddisfatto che non si accorge di tre occhi che lo spiano da dietro una porta socchiusa. GIOVANNI A pochi chilometri dalla città, scorre l’autostrada. Per i residenti della zona è un vero fastidio: il rumore, le perenni code e la densa cappa di smog, li rendono isterici e nervosi. Dormono male e la mattina, mentre fanno la solita abbondante colazione, si lamentano con il coniuge. Poi vanno a lavorare, nella loro decappottabile nuova di zecca, s’infilano in quel fiume d’asfalto che li porterà alla meta e non ci pensano più. Chi invece non si lamenta, e di notte si accontenta di un giaciglio di cartone pressato, addormentandosi cullato dal rumore del traffico, la mattina fa colazione con due brioche regalate da qualche anima buona e usa le proprie gambe come unico mezzo di


locomozione; sono i reietti e i diseredati di questa indifferente società. Hanno eletto a loro residenza le ampie zone sotto il cavalcavia tra i grossi piloni di cemento, e benedicono ogni giorno il loro sicuro e tranquillo rifugio. La comunità dei senzatetto è unita da un comune destino e da precisi obiettivi: sopravvivere nascondendosi il più possibile da chi guarda e giudica. Giovanni però ha trovato un modo molto più efficace per sfuggire agli occhi del mondo. Ha cinquant’anni, il periodo della vita dove di solito si inizia a tirare le somme e a pianificare il resto della propria esistenza. Prepararsi con calma, insomma, per ciò che verrà dopo: la vecchiaia. Lui però non ne ha avuto il tempo. I suoi ultimi cinque anni sono stati un precipitare vertiginoso dentro un pozzo senza fondo. La fortezza che aveva a fatica edificato negli anni e in cui sperava di rifugiarsi, tranquillo e sicuro, aspettando la fine dei suoi giorni, era crollata. Il primo mattone a sgretolarsi era stato quello del lavoro. Un giorno gli avevano propinato la solita balla che l’azienda aveva necessità di ristrutturare e si rendeva necessaria una drastica revisione dell’organico. Colpa del mercato, della crisi, di malefici influssi astrali. Insomma, si erano resi conto che potevano benissimo fare a meno di lui. Cancellavano così in un attimo tutti gli anni che aveva passato a spaccarsi la schiena per loro, a buttare lacrime e sangue per una causa che, ora se ne rendeva conto, non era mai stata davvero la sua. A questo era seguito il secondo crollo: un’inevitabile depressione. Iniziò a smettere di cercarsi un’alternativa e passare le giornate ad autocommiserarsi, maledicendo l’infausto destino. Poi il colpo finale: la richiesta di divorzio. Sua moglie aveva trovato una via di fuga, infischiandosene delle


conseguenze. D’altronde, perché fargliene una colpa? Non si erano mai amati, ed era più che giusto che almeno lei cercasse di sopravvivere. Però Giovanni non si aspettava che proprio lei contribuisse attivamente alla sua distruzione finale. Come conseguenza, mentre le sue riserve economiche calavano fino a scomparire del tutto, la depressione aveva raggiunto un punto di apparente non ritorno. Poi, a un passo dal baratro, aveva trovato la forza di non cadervi dentro. Si era aggrappato con forza alla vita, come i papaveri che vedeva ogni mattina in primavera ai bordi delle strade, circondati dall’asfalto, avvolti dai gas di scarico delle macchine, ma sempre vivi e fieri nel loro fulgido e sfacciato colore rosso. Si era trovato in mezzo a una strada con una valigia di ricordi e la disperazione nel cuore, ma la forza interiore di quei fiori, decisi a sopravvivere a qualunque costo. Era diventato un vagabondo, senza tetto e famiglia, ma con un pizzico di speranza nel cuore. La sua, in fondo, era una storia comune, come si era reso conto dovendo condividere con molti altri disperati, un piatto di minestra e un riparo dal freddo della notte. Ma lui, per fortuna, non era come gli altri, possedeva qualcosa che lo distingueva. Non solo la tenacia, ma anche un potere segreto, qualcosa che ora gli tornava molto utile. Fin da piccolo, quando aveva bisogno di nascondersi, riusciva a scomparire, passando in una realtà tutta sua. Molto comodo quando doveva affrontare i bulli della scuola, le sgridate di suo padre o più semplicemente quando doveva arrivare prima in un luogo. Problemi comuni a molti ragazzi della sua età, come Marco ad esempio, e che Giovanni risolveva in un modo molto particolare. Gli bastava trovare l’angolo cieco, lo spazio nascosto fra le molecole, il buio tra i raggi di luce: entrare in quella porta e sparire dal mondo per entrare in un “altro universo”.


All’inizio era uno spazio molto piccolo, adatto alle sue dimensioni, ma con il tempo era cresciuto insieme a lui, diventando qualcosa di più complesso e articolato. Era come attraversare un lungo tunnel dal quale lui poteva uscire come e dove voleva. La chiamava la Scorciatoia. Un posto strano, dai rumori ovattati, in cui vigeva un tempo diverso. Quando vi entrava, osservava il mondo esterno muoversi lentamente. Gli sembrava di camminare in un tunnel di melassa che lo sosteneva e lo avvolgeva, proprio come fosse una cosa viva. Qualcosa che si era adattata a lui in fretta. In quello spazio si sentiva protetto e coccolato. Non ne aveva mai avuto paura, nemmeno all’inizio: era troppo utile, ma soprattutto molto, molto divertente! La sua casa sull’albero, il suo rifugio antiatomico. Da grande invece il bisogno era stato l’opposto: apparire, mettersi in mostra, distinguersi dagli altri; sul lavoro, con gli amici, con le donne. Aveva usato il dono solo in sporadiche occasioni e in condizioni di assoluta emergenza, come sfuggire a un marito geloso o un cliente insoddisfatto. Ogni volta la Scorciatoia lo accoglieva comunicandogli la sua gioia malata, come si fosse sentita abbandonata. Aveva derubricato queste strane sensazioni come dovute alla tensione del momento, e non ci aveva ragionato sopra più di tanto. Ora, nella sua nuova situazione di escluso della società, quella via di fuga gli tornava utilissima. E lei era stata felice di tornare a essergli utile. L’aveva accolto come un’amante, trascurata per troppo tempo. Poteva nascondersi dalla massa di volti anonimi che osservavano e giudicavano e che lasciavano profonde cicatrici sulla sua anima. La Scorciatoia gli evitava la vergogna d’incrociare i loro sguardi, ma soprattutto aumentava le possibilità di sopravvivenza. Riusciva a dormire su una panchina o sotto un portico senza che nessun poliziotto lo costringesse ad andarsene; poteva sfuggire alle


spedizioni punitive di qualche banda di balordi in cerca di una vittima sacrificale, riusciva a conquistarsi la razione quotidiana di cibo e speranza per tirare avanti ancora un po’. Come oggi, ad esempio. Alla mensa dei poveri c’è una fila lunghissima. È un settembre mite, ma la sera comincia a fare fresco. Giovanni ha dormito pochissimo ed è appena arrivato, assonnato e affamato, e ora rischia di non trovare posto. Guarda quella massa di disperati che si accalca per un piatto di minestra, con l’unico obiettivo di aggiungere un altro giorno al loro personale calendario. Si gratta la barba ispida, chiude gli occhi, si concentra e passa dall’altra parte. Una cosa veloce; nessuno se ne accorge. La Scorciatoia lo accoglie e lui entra in quel mondo soffice e materno: i suoni si affievoliscono, le persone intorno a lui iniziano a muoversi più lente. È come indossare un comodo cappotto, solo che si tratta di qualcosa di vivo, senza dubbio. Fin dalle prime volte si è accorto di non essere solo, in quello strano mondo. Quando ha provato a guardarsi alle spalle e a cogliere di sorpresa gli abitanti, ha intravisto solo una nebbia, vaga e informe, che si muoveva intorno a lui. Si era chiesto cosa fosse e cosa nascondesse, ma dopo un po’ aveva deciso che era fatica sprecata. Nessuno sembrava volergli fare del male, anzi, e lui se n’era dimenticato. Da ragazzo, l’incoscienza della gioventù che non vede o non vuole vedere: da adulto, il bisogno di rifugiarsi in quel luogo, qualunque cosa fosse, gli aveva cancellato ogni curiosità. Ora si limita a prendere atto dell’esistenza di quelle cose, segnalate da qualche lieve movimento che a volte riesce a intercettare, ma che mai interferisce con il suo cammino. Fanno ormai parte della sua vita, una parte necessaria e irrinunciabile.


Percorre tutta la fila senza essere notato. Scivola oltre la volontaria che sta dirigendo il flusso all’ingresso e si ritrova nella sala mensa. Appena dentro, trova uno spazio dietro una colonna dove nessuno lo può notare, fa un passo di lato e rientra nel mondo di tutti i giorni. Viene subito colpito dalle voci concitate, i rumori di chi cerca il suo posto ai tavoli, gli odori del cibo appena servito. Si liscia l’impermeabile che ormai ha perso il suo colore originale, diventando un mosaico di indefinibili macchie, poi si avvia tranquillo e sicuro verso il bancone, dove una ragazzona di colore sta servendo il cibo. Afferra un piatto, il più grande che hanno, e attende. È pronto a godersi una bella minestra calda. La ragazza lo osserva sorridendo, e immerge il mestolo in un’enorme pentola fumante. Bene, anche per oggi si mangia. È già qualcosa, no? Mentre Giovanni pregusta il suo imminente pranzo, c’è qualcuno, dall’altra parte della strada, che ha assistito a tutta la scena: lo ha visto entrare e uscire dalla Scorciatoia, ha seguito ogni suo passo e ora sorride divertito. Sopra quel sorriso lampeggia lo sguardo di tre piccoli occhi. MARIA Nell’ambiente tutti la conoscono come Moana, ma lei non si chiama così. Sulla carta d’identità c’è scritto Maria, che è un bellissimo nome ma si sa, lo spettacolo è spettacolo: Moana profuma di esotico e proibito, trasuda sessualità e trasgressione, e questo attira i clienti. Maria invece ricorda troppo campi da coltivare, biancheria stesa e focolari accesi, latte e caffè e coccole sotto il piumone. In un lavoro come il suo, non è una buona pubblicità. Gli uomini, si sa, sono stupidi; anche se, quando sono intenti alla loro ginnastica sessuale, sbuffando e ansimando sopra di lei, del suo nome, vero o falso che sia, non gliene frega più nulla.


Chi viene da lei, attirato dal nome e da una buona fama, è interessato solo a un po’ di complicità, pazienza e a un orgasmo ben simulato. In tutte queste cose lei è la migliore. L’uomo che ora sta spingendo dentro di lei con frenetica urgenza, inseguendo una parvenza di erezione, non fa eccezione. Non la chiama più per nome, anzi non dice proprio nulla: si limita ad ansimare e a grugnire. Lo sta facendo da almeno cinque minuti, senza grandi risultati. In questi casi la pazienza si rivela la sua più grande qualità. Improvvisamente l’uomo si ferma e la guarda con una strana luce negli occhi. «Girati» sussurra. Lei obbedisce, d’altronde non è una richiesta inusuale. Anzi; non essere costretta a guardare nei suoi occhi porcini seppelliti nel grasso, è un vero sollievo. Ha l’occasione di distrarsi un po’, di allontanarsi, almeno con il pensiero, da una situazione che le sta venendo a noia. Si mette in ginocchio e aspetta il segnale per ricominciare a gemere nella maniera più convincente possibile. Nel frattempo si guarda le unghie e pensa a cosa cucinerà quella sera per cena. Poi sente un forte dolore a una natica. «Ma che cazzo…» Moana si allontana dall’uomo e si gira a guardarlo. Finché sono schiaffi sul sedere va ancora bene, ma lui ora ha in mano una spatola irta di piccole punte, e la cosa comincia a essere eccessiva. Poi il cliente compie un altro errore: sorride compiaciuto e ordina: «Bene puttana, ora facciamo sul serio!» Eccolo il limite, quello che non devono mai superare. Non è l’epiteto che la infastidisce, a quello si è abituata; l’arroganza invece, l’idea che lui pensi di poter fare del suo corpo ciò che vuole, la fa davvero imbestialire. Maria stringe i denti – ora si sente Maria, a tutti gli effetti – mentre si massaggia la chiappa dolorante, e lo osserva sorridere e sollevare minaccioso il suo piccolo strumento di tortura. Lei ricambia il sorriso e fa un gesto.


Uno solo. Dietro la testa dell’uomo compare una mano guantata che gli afferra il collo, stringe e lo solleva, come fosse un bambolotto di gomma. Il suo sesso ancora flaccido ballonzola nell’aria mentre cerca disperatamente di recuperare terreno e dignità. Dall’ombra alle sue spalle spunta un volto femminile che sorride a Maria, mentre continua a stringere senza pietà. Per lei è come guardarsi allo specchio. Quel volto è identico al suo: stesso sorriso, stesso sguardo tranquillo e deciso. «Ok, ora ti rivesti e te ne vai» sussurra a quell’ammasso oscillante di carne. L’uomo non risponde: è troppo occupato a rantolare. Allora l’altra Maria gli fa scuotere la testa in segno d’assenso, come se tenesse in mano il pupazzo di un ventriloquo. Poi lo lascia andare. Lui crolla al suolo con un rumore sordo, come fosse un sacco della spazzatura. Nell’ambiente Moana/Maria è famosa: è l’unica che non ha mai avuto un protettore. In realtà il protettore, anzi la protettrice, ce l’ha. È quella che, mentre l’uomo, arraffati i vestiti, si precipita verso l’uscita senza guardarsi indietro, le fa un segno con il pollice alzato, indietreggia e scompare. Ha compiuto il suo dovere, e adesso ritorna dietro le quinte. Maria sorride soddisfatta e inizia a rivestirsi. Quando esce di casa per fare la spesa, non s’accorge di un uomo dalla carnagione olivastra che la guarda appoggiato a una macchina parcheggiata. Le lenti dei suoi occhiali scuri lampeggiano alla luce del sole. Non si accorge, soprattutto, dell’occhio che per una frazione di secondo si è aperto al centro della sua fronte, e l’ha puntata come fosse il mirino di un fucile telescopico.


LO SPETTRO Nessuno ha mai visto il volto dello Spettro. Anche solo vederlo lavorare è impresa quasi impossibile. Chi ha avuto questa fortuna, parla di una persona dall’età e dal sesso imprecisati, nascosto sotto il cappuccio di una felpa grigia e da una kefiah che gli lascia scoperti solo gli occhi, freddi come pezzi di ghiaccio. Lo Spettro appare e scompare nel giro di una notte, proprio come l’essere di cui porta il nome. Le sue opere spuntano d’improvviso su muri di fabbriche e case. Il suo è un nome da battaglia: tutti i writers ne hanno uno. Lui ha scelto quello e ci si attiene: lo Spettro è evanescente e inafferrabile. Firma così i murales che ormai tappezzano ogni angolo libero della città. Per tutti i colleghi è un mito inarrivabile. Le sue opere vibrano di un’energia intensa, come fossero vive e stessero solo aspettando l’occasione buona per saltare giù dal muro e fuggire nella notte. Grandi draghi metallici dalle ali spiegate, guerrieri ipertecnologici usciti da un futuro da incubo, delicate naiadi che danzano sull’acqua, cavalli imbizzarriti che scalpitano nel vento. L’apparizione di ogni suo graffito è un evento irrinunciabile. Tutti lo sanno: meglio affrettarsi per andarlo a vedere, fotografarlo e immortalarlo perché dopo un giorno l’opera scompare, misteriosamente. Sono le 02:00. Lo Spettro è fermo davanti all’ultimo capolavoro: un enorme samurai in tenuta da guerra che copre quasi per intero la parete mezzo scrostata di un vecchio edificio abbandonato. La maschera facciale raffigura un oni, l’orco della tradizione giapponese. L’espressione del viso è deformata da un’orrida smorfia. I baffi spioventi, le folte sopracciglia e gli occhi spalancati e spiritati completano l’impressione di trovarsi di fronte a un essere demoniaco. L’elmo è sormontato da un piccolo drago d’oro, l’armatura a piastre e lamelle sovrapposte rifulge di sgargianti colori blu e


rosso. È raffigurato di profilo: le mani guantate reggono una odaki di almeno un metro e mezzo, che punta verso un invisibile avversario. Ai suoi piedi ci sono montagne di cadaveri, i nemici che ha appena ucciso. Sullo sfondo un enorme ciliegio in fiore e, ancora più indietro, la sagoma del monte Fuji sfumata dalla nebbia. La prospettiva è perfetta: sembra che stia per uscire dal muro e continuare il suo massacro nel nostro mondo. Mentre rimira la sua opera illuminata da un fioco lampione, lo Spettro giocherella soddisfatto con due bombolette, facendole roteare, come un pistolero con le sue Colt. Sono gli strumenti di lavoro, le bacchette magiche con le quali crea perfetti incantesimi. Da poco ha smesso di piovere e in giro non c’è nessuno. All’improvviso si sente un rumore di passi affrettati sul selciato velato dalla pioggia. Lo Spettro corre a nascondersi dietro una siepe. Un uomo spunta dall’ombra e si avvicina con passo sicuro all’enorme murale. Indossa giacca e cravatta, un vistoso anello al dito mignolo, il lucido cranio che scintilla alla luce dei lampioni. Muove uno sguardo fermo e sicuro qua e là, come un sovrano in visita ai suoi possedimenti. In effetti è tutto suo: don Calogero è l’incontrastato boss del quartiere. Annusa l’aria come un segugio in caccia, ma è certo che nessuno lo disturberà. Gira sempre senza scorta, visto che non esiste essere umano, nell’arco di dieci chilometri, che si sognerebbe mai nemmeno di sfiorarlo, anche solo per una carezza. Del samurai non gli importa nulla, e non lo vede nemmeno: è lì per una faccenda molto delicata che deve risolvere al più presto. Invece il samurai sta aspettando proprio lui. Appena don Calogero arriva vicino al murale, lo Spettro, ancora


nascosto dietro alla siepe, alza una delle due bombolette e la muove in avanti. Contemporaneamente la spada del samurai compie lo stesso movimento: si stacca dal muro e penetra per alcuni centimetri nella schiena del boss. Lui fa appena in tempo a sorprendersi che lo Spettro muove ancora la mano, come se stesse manovrando i fili di una marionetta. Il samurai solleva la spada e l’uomo inizia a divincolarsi come un grosso insetto trafitto da uno spillone. Poi la figura rientra nel muro e ritorna nella sua posizione originaria. Ora sulla montagna di corpi c’è un cadavere nuovo di zecca. È vestito come un uomo moderno, e risalta in mezzo agli altri. Lo Spettro è sicuro che nessuno si stupirà: gli artisti si prendono spesso delle libertà! Inoltre, tra un giorno la sua opera sarà come al solito scomparsa. Infila le bombolette nelle tasche della felpa e si frega le mani soddisfatto. Pregusta già il lauto compenso che gli verrà pagato per l’ottimo lavoro svolto. Nessuno piangerà la scomparsa di don Calò. Il mondo lo conosce come artista; pochi sanno invece che ogni tanto arrotonda con lavori di ben altro genere. Fa per andarsene quando, girandosi, si trova davanti un uomo che lo guarda fisso. La carnagione scura si confonde con la notte ma gli occhi, quelli sì, si vedono molto bene. Tutti e tre. «Noi dobbiamo parlare…» sussurra e non aggiunge altro. GIUSI La ragazza sta tremando, ha la fronte che scotta e si sente invadere da un calore così intenso che le sembra di esplodere. Si appoggia al muro del vicolo, poi estrae dal borsone che porta a tracolla una piccola siringa da diabetico e si pianta veloce l’ago in una coscia.


Per lei quella siringa è come un salvagente per la vittima di un naufragio: indispensabile per la sopravvivenza. Infatti, dopo qualche secondo, si sente già meglio; il calore inizia a sparire e non trema quasi più. Allora, con calma, si accende una sigaretta. Se ci fosse qualcuno a osservarla – e qualcuno in effetti c’è, nascosto nell’ombra – vedrebbe il cilindretto bianco consumarsi in un secondo, come aspirato da un mantice. Sono le ultime energie che si stanno dissipando. La ragazza si gode quella boccata di nicotina e sorride. A volte arriva al limite, rischiando la vita, ma è sempre molto divertente. Ha una malattia genetica che le fa produrre in eccesso una proteina che controlla la contrazione delle fibre muscolari. Averne troppa è un grosso problema. I suoi sgradevoli effetti avevano iniziato a comparire con la pubertà. All’inizio le procuravano solo un’eccessiva irritabilità e frequenti sbalzi di umore. Tutte cose normali a quell’età, perciò non ci aveva fatto troppo caso. Essere sempre carica di una strana e inesauribile energia, aveva anche un lato positivo. Faceva parte della squadra di atletica della scuola, ed era sempre stata piuttosto scarsa. Quando erano comparsi i primi sintomi della malattia, le sue prestazioni erano diventate davvero straordinarie: cento metri in dodici secondi netti, senza nemmeno fare troppa fatica. Stava diventando una vera promessa dello sport. L’unico svantaggio era dover tenere sempre a portata di mano una notevole scorta di panini, bibite ipercaloriche e merendine. Mangiava di continuo, per fortuna senza ingrassare. La sua vita era frenetica e senza pause: dormiva pochissimo e non sembrava stancarsi mai. I crampi che la coglievano erano stati giudicati dal medico della squadra come una conseguenza della crescita. Forse un po’ troppo frequenti, ma niente di serio. Bastavano i miorilassanti e gli antidolorifici, anche se in dosi da


cavallo. Poi però erano comparsi altri effetti collaterali più fastidiosi: intenso calore corporeo, affaticamento, abbondante sudorazione e forti mal di testa. Fino a che, un giorno, i pantaloncini da allenamento avevano preso fuoco. Aveva fatto delle analisi e i risultati erano stati sconfortanti: i suoi muscoli erano in perenne tensione e producevano una quantità abnorme di energia. Di giorno in giorno la situazione peggiorava. Non si aveva conoscenza di casi come il suo e non c’era perciò modo di risolvere la situazione. Un caso clinico più unico che raro. Il medico le consigliò di rinunciare a qualunque sforzo eccessivo, fare frequenti docce fredde e soprattutto molta attenzione. Più facile a dirsi che a farsi. Giusi aveva delle ambizioni sportive da soddisfare, e anche qualche normale esigenza fisica. Il suo primo orgasmo, anche se solo frutto di un intenso preliminare, fu talmente violento che il ragazzo che era con lei si spaventò e non si fece più vedere. Col tempo imparò a dosare l’energia e a limitare gli eccessi: questo le permise di condurre una vita quasi normale. I genitori, soprattutto la madre ansiosa di natura, si erano molto preoccupati per la sua salute. L’avevano portata da ogni specialista conosciuto, senza conseguire grossi risultati. Poi, visti i miglioramenti che la ragazza stava ottenendo con le sue sole forze, l’avevano lasciata stare. Nel frattempo si era iscritta all’Università, cercando così di stare il più possibile lontano da casa. Mentre frequentava i laboratori della facoltà di chimica aveva fatto una straordinaria scoperta: una sostanza che riusciva a tenere sotto controllo l’eccessiva produzione di quella infernale proteina, e usò se stessa come cavia per sperimentarla. I risultati furono subito entusiasmanti: dopo una sola somministrazione il calore e il tremore scomparivano quasi per


magia. Finalmente poteva riprendere ad allenarsi senza paura di diventare una torcia umana e sognare di vincere premio Nobel e Olimpiadi. Tenne la scoperta segreta per evitare che qualcuno gliela rubasse. Ora che sapeva come tenersi sotto controllo, poteva superare i limiti che si era imposta per pura sopravvivenza e sfruttare così, finalmente, il lato positivo di quella maledizione. Creava il suo antidoto nel laboratorio dell’università, ma solo in piccole quantità e con notevoli rischi di essere scoperta. Aveva perciò bisogno di diventare autonoma per aumentarne la produzione. Il primo problema era stato trovare il denaro per l’acquisto della strumentazione necessaria. L’urgenza e l’euforia le fecero accantonare ogni scrupolo morale e iniziò a sfruttare la velocità per borseggiare i passeggeri della metropolitana senza temere di venire scoperta. Era così rapida da diventare quasi invisibile. Pian piano il gruzzolo aumentava. «Il fine giustifica i mezzi!» si ripeteva ogni volta. In cuor suo, però, non poteva negare che si divertiva anche, e molto. L’importante era avere sempre con sé la sua scorta di dosi. Era diventata una drogata a tutti gli effetti. Per gli altri è un lampo che si percepisce appena. Per lui invece, nascosto dietro un pilone della stazione della metropolitana, si muove proprio come tutti gli altri: il terzo occhio percepisce il tempo in maniera differente. Giusi si ferma e si spolvera i vestiti mentre viene assalita dalle solite convulsioni: è arrivato il momento dell’iniezione. Dopo essersi iniettata la dose, si siede per terra a riposare. Pian piano smette di tremare. Allora si accende una sigaretta. Mentre se la gode, si sente picchiettare su una spalla. Si gira e ciò che vede non fa che aumentare il suo tremore. «Calma» le sussurra l’uomo senza muovere le labbra. «Va tutto bene.»


Quelle parole esistono solo nella sua mente. “Questo è tutto da dimostrare…” pensa la ragazza, scrutando quelle tre iridi, nere come l’inchiostro.


CAPITOLO 2 – LA RIUNIONE “Non essere il benvenuto è la storia della mia vita!” Deadpool La chiesa è avvolta dalle ombre. Solo alcune decine candele, una per ogni speranza, spargono un po’ di luce; il resto è solo buio e silenzio. In fondo, sotto l’altare maggiore, l’oscurità è spezzata da un fioco bagliore. Giovanni, nel suo impermeabile sdrucito, percorre veloce la navata centrale diretto verso quella fonte luminosa. Si è rasato per l’occasione: mezz’ora buona, perché il suo bilama ha da tempo perso il filo. Si ostina a usarlo comunque, è un ricordo dei suoi tempi migliori. I suoi passi affrettati producono una lieve sinfonia, rimbombando tra le mura, fin dentro le absidi e alle cappelle, poi su, in alto, a lambire archi e volute. I tacchi, rinforzati da decine di riparazioni, creano un ritmo da tap dance che lui è quasi tentato di sviluppare, anche solo per spezzare la tensione. Rinuncia e in pochi secondi arriva davanti all’entrata della cripta. Appoggiato al muro c’è un cartello che indica: “VIETATO L’INGRESSO”. Dopo un attimo di esitazione decide che quel monito non è per lui, si fa coraggio e comincia a scendere i pochi gradini. Giunto nell’ambiente sottostante, viene colpito da un freddo umido che stritola le ossa: sembra quasi di veder sgorgare dalle fessure tra le pietre sottili rivoli d’acqua. Si stringe nell’impermeabile. I giornali che ha infilato sotto la camicia un po’ lo proteggono, ma non riescono a evitargli qualche brivido, non sa più se per il freddo o la paura.


Quando gli occhi si sono abituati a quella semioscurità, nota che si trova in mezzo a una piccola foresta di colonne. Al centro della sala c’è un sarcofago di pietra che funge da altare. Sopra è steso un panno scuro, ai cui lati brillano due candelabri. Davanti, a braccia conserte, un prete lo sta osservando. Ha circa sessant’anni, il fisico robusto, un grosso naso che gli spunta dalla faccia come un chiodo dal muro, il cranio calvo che scintilla alla luce delle candele. Sul volto ancora giovanile, ci sono sottili cicatrici; ai suoi piedi sonnecchia un enorme cane nero. «Venga, non abbia timore! Mancava solo lei.» Nella cripta ci sono altre quattro persone: alcune sedute, altre appoggiate ai muri e alle colonne. Alla sinistra del religioso c’è un uomo dalla carnagione olivastra, un indiano con un vistoso turbante giallo che lo guarda con due profondi occhi neri. Giovanni sa bene cosa nasconde quel copricapo: il suo speciale sguardo sul mondo. È la stessa persona che lo ha contattato qualche giorno fa dandogli un indirizzo e un motivo. Quest’ultimo glielo ha sussurrato con fare cospiratorio: sembra che siano qui per salvare il mondo. Niente di meno. Quando ha visto cosa c’era sotto il turbante, ha avuto un attimo di panico: poi, si è detto, chi sono io per permettermi di stupirmi di qualcosa? Era assurdo pensare di essere l’unico a vivere in un mondo di stranezze. Gli altri quattro convocati formano una compagnia piuttosto variegata: un ragazzetto con uno zaino sulle spalle e l’aria scocciata; una giovane in tuta, le braccia strette intorno al corpo come a proteggersi, non si sa bene da cosa; uno strano personaggio dal sesso indefinibile, il volto nascosto da cappuccio e sciarpa che lasciano scoperto uno sguardo così penetrante che sarebbe meglio celassero anche quello; una donna dal trucco pesante che sembra un’attrice porno in procinto di andare in scena.


Nessuno di loro dimostra un particolare entusiasmo per essere lì. Il prete indica, con un sorriso, l’indiano al suo fianco. «Shiv lo avete già conosciuto, io invece mi presento: sono don Giulio. Grazie di essere venuti. Lo so, tutto ciò vi deve sembrare davvero strano, o forse no. Dovreste essere abituati alle stramberie. Credo che le vostre esperienze di vita vi abbiano dotato di un’apertura mentale ben superiore alla media. Avete sbirciato nel lato oscuro del mondo, anzi, lo state frequentando. Non è vero?» Nessuno risponde, nemmeno per contraddirlo. «Bene, ora devo conquistare la vostra fiducia e mi sembra giusto farlo iniziando a conoscerci meglio. Shiv, ad esempio. La sua anomalia è evidente, non altrettanto le sue indubbie qualità. Credo sia utile, a questo punto, raccontarvi la sua storia.» SHIV Quando Chandra Kahn fu avvertito che la moglie stava per partorire, chiese al collega di sostituirlo al controllo della macchina per la macinazione del frumento. Avuto il suo consenso, fece un cenno al superiore che, al corrente della situazione, si limitò a sorridergli e incitarlo a correre al più presto a casa. Chandra era teso ed emozionato, come chiunque sia in attesa del primo figlio, ma non riusciva a togliersi di dosso l’ansia e la paura che qualcosa potesse andare storto. Aveva visto e sentito di troppi bimbi nati deformi, sia nel suo paese, Ahinda, che in quelli vicini. Nell’Uttar Pradesh questi casi erano molto frequenti, soprattutto nelle zone vicine alle grandi fabbriche, come quella in cui lui lavorava. Qualcuno parlava d’inquinamento radioattivo, altri di maledizioni e punizioni divine; la perversa fantasia di Chandra gli faceva apparire ogni tanto immagini di mani con due dita, gambe piegate in angoli impossibili, teste enormi su piccoli e fragili corpicini. Una volta era stato un testimone diretto di una di quelle nascite mostruose: la cugina, qualche anno prima, aveva dato alla luce un essere indefinito che lui era riuscito a intravedere solo per un


secondo prima che lo portassero via, facendolo scomparire come se non fosse mai esistito. La sfuggente visone del corpo martoriato e ululante gli aveva inciso una profonda cicatrice nell’anima. Si ripeteva ogni giorno che era impossibile capitasse a lui: era un fedele adepto della religione sikh, non aveva mai mancato di venerare il Dio e ogni anno, come prevedeva la regola, si recava al Tempio d’Oro per pregare e leggere i testi sacri. Tre mesi fa vi si era recato insieme alla giovane sposa e le aveva diligentemente lavato il ventre che già rivelava l’imminente nascita. Aveva sempre rispettato i sacri principi: onestà, condivisione e consapevolezza. Nulla poteva andare male. Arrivato davanti alla propria casa si aggiustò il turbante, si accarezzò la lunga barba con gesto rituale ed entrò emozionato e pronto ad accogliere la venuta del suo splendido bambino. Appena entrato sentì l’urlo della moglie, lungo e teso, che segnalava con il suo dolore, il momento della nascita. Chandra si sentì invadere da una gioia immensa; poi ebbe un attimo di esitazione, la mente assalita dai soliti, orribili dubbi. La sua paura si concretizzò quando si accorse che all’urlo era seguito un profondo e inspiegabile silenzio. Attraversò di corsa l’atrio e le due stanze che lo separavano dalla camera allestita per il parto, senza che nessun pianto di neonato annullasse i dubbi, rassicurandolo che tutto era andato per il meglio. Quando fu sulla soglia della camera, Chandra si fermò ansimando, il cuore imprigionato in un blocco di ghiaccio. Vide l’ostetrica accanto al letto che teneva tra le mani un piccolo fagotto; la moglie, tra le lenzuola fradice di sudore, si era girata a guardarlo. Entrambe avevano gli occhi velati dalla disperazione. Chandra si avvicinò al figlio appena nato, sollevò un lembo dell’asciugamano che lo nascondeva e lo guardò. Il bimbo piangeva disperato, gli occhi due laghi di lacrime, ma nessun suono proveniva dalla piccola bocca spalancata.


Era un orribile mostro senza voce, e chissà quali altri anomalie nascondevano il suo corpo. Chandra vacillò e si appoggiò al muro con la mano per non cadere. Nella tempesta di pensieri che gli rimbombavano nella testa, uno fra i tanti cominciò a farsi strada: quello non era suo figlio, non lo sarebbe mai stato. Doveva sbarazzarsene, il più presto possibile. Strappò il fagotto dalle mani dell’ostetrica e, sordo alle urla della moglie, corse fuori come impazzito. Ora quel pensiero era un comando: “Liberatene! Uccidilo subito!”. Vicino alla loro abitazione scorreva il fiume. Chandra si fece largo a spintoni tra le persone che erano venute a condividere la sua gioia e che lo guardarono stupite e spaventate, e si diresse veloce verso l’argine. In due passi era immerso fino alla vita nella fitta vegetazione. Quella terribile voce continuava a gridare ordini: “Distruggi quel mostro! Solo così potrai tornare a sperare in una vita normale!”. Giunto vicino agli ultimi ciuffi di canne, a un metro dall’acqua torbida che scorreva veloce, si fermò ansimando e si accorse che nella foga aveva perso il prezioso turbante. Ci avrebbe pensato più tardi, ora aveva una cosa più importante da fare. Sollevò il bambino. Pronto a gettarlo nei gorghi vorticosi. In quel momento l’asciugamano si aprì e Chandra incrociò gli occhi di suo figlio: due erano ancora chiusi, il terzo si era spalancato e lo fissava con curiosità. In mezzo alla fronte ancora sporca di placenta, si era aperta una fessura come una piccola ferita e tra quelle labbra di carne, ancora rosse per l’irritazione, spuntava un piccolo occhio dall’iride viola. Il bimbo non piangeva più; si limitava a guardarlo con quell’occhio spalancato. Poi, lentamente, anche gli altri due si aprirono. Chandra si bloccò come ipnotizzato da quei tre sguardi severi. Invece di aumentare, l’orrore, in qualche inspiegabile modo, si attenuò, come se il figlio, con quell’occhio impossibile, gli stesse accarezzando l’anima per tranquillizzarlo. Poi sentì una voce alle sue spalle gridare in tono autoritario:


«Fermo!» Si girò: un vecchio yogi era fermo a pochi metri da lui, il sottile braccio puntato sul bambino come una spada, la barba grigia che vibrava di collera, le vesti sporche e spiegazzate che ricadevano come un precoce sudario sul corpo magro e ossuto. «Fermo!» ribadì. «Quel bambino è sacro! Lui ha la vista. Ora non ti appartiene più!» Detto questo si avvicinò, e con delicatezza glielo tolse di mano. Chandra, come paralizzato, lo lasciò fare e, quando l’uomo cominciò a indietreggiare con il neonato fra le braccia, rimase impassibile senza riuscire a parlare. Poi si riscosse, vide il suo turbante abbandonato tra i giunchi, lo raccolse, se lo aggiustò sul capo e seguì l’uomo verso casa. Lo sguardo del figlio aveva tacitato l’imperiosa voce nella sua mente; quello autoritario dello yogi gli aveva mostrato la giusta via, l’unica possibile. Il bimbo fu chiamato Shiv e visse per quindici lunghi anni adorato dalla popolazione locale come un piccolo Dio. Ogni giorno gli venivano portati doni di ogni tipo: fiori, profumi, incenso, ma anche carne e frutta che andavano a marcire dentro enormi recipienti di terracotta costruiti apposta per contenerli. Le balie del paese fecero a gara per avere l’onore di allattarlo, ma a poche, solo quelle più fornite di latte, fu concesso simile privilegio. Ogni tanto la madre andava a trovarlo e lo yogi le permetteva anche di tenerlo in braccio. Chandra non andò mai, nemmeno per vedere come cresceva; forse per vergogna, forse per paura. Quando fu più grande e cominciò a parlare, divenne un riferimento imprescindibile per la vita dell’intera comunità. Venivano anche da molto lontano a portargli piccoli casi da giudicare, diatribe da risolvere, misteri da svelare. Il suo terzo occhio riusciva a leggere nell’anima delle persone e a riconoscere i loro peccati. Davanti agli accusati spalancava quella piccola finestra sul mondo, li fissava uno a uno in silenzio, poi indicava con sicurezza il


colpevole e l’innocente. Nessuno dubitò mai delle sue scelte. Ma lui non amava quel genere di vita. Era servito e coccolato, ma non gli si permetteva di essere libero di divertirsi come avrebbe voluto. Anche se le ragazze addette alla sua persona lo viziavano e facevano di tutto per accontentare ogni suo capriccio, Shiv capì subito che quella vita non gli si addiceva. Appena loro si distraevano, scappava fuori dal tempio a rincorrere le cavallette, a costruire fischietti con i fili d’erba o soltanto a fissare le nuvole e seguirne le trasformazioni. Solo allora si sentiva felice. La mente cresceva più in fretta del corpo, e i pensieri viaggiavano veloci, facendolo maturare rapidamente. Un giorno gli portarono due uomini: si sapeva che uno dei due aveva rubato nella casa di un ricco possidente locale. Gli chiesero chi fosse il colpevole. Shiv era stanco e annoiato e voleva solo andare a giocare: guardò i due uomini, riconobbe subito quello giusto ma indicò l’altro, solo per fare un piccolo dispetto a chi si aspettava giustizia dal suo responso. Aveva tredici anni e ogni tipo di attenuante. L’uomo fu afferrato con brutalità, portato nella piazza del paese dove gli mozzarono entrambe le mani. Quando fu commesso un altro furto, sempre ai danni dello stesso proprietario, e l’altro uomo, quello che Shiv aveva giudicato innocente, colto con le mani nel sacco della refurtiva, il derubato, deluso e arrabbiato, andò da lui a chiedere spiegazioni. Shiv era spaventato e, mentre gli diceva che in fondo erano ladri entrambi e andavano puniti tutti e due, giurò a se stesso che appena avesse potuto, sarebbe fuggito da tutte quelle responsabilità. Durante la notte, appena riusciva, sgattaiolava fuori dal tempio, nascondeva il terzo occhio sotto un turbante e si aggirava nel paese fingendo di essere una persona normale. Le fughe non duravano molto: veniva subito riconosciuto e assalito da persone che volevano baciargli la mano o si prostravano ai suoi


piedi. Raggiunta la maggior età non ce la fece più: fuggì da quella prigione dorata e iniziò un lungo viaggio che lo portò ad attraversare vari Paesi del mondo. Si guadagnava cibo e riposo facendo piccoli lavoretti, e solo in poche occasioni usò la magia del suo sguardo viola. Giunse infine sulle coste dell’Africa settentrionale e trovò posto su di un barcone d’immigrati che faceva rotta verso il nostro Paese. Voleva porre più distanza possibile tra lui e la città di origine, crearsi una vita normale, cercare un luogo dove nessuno lo conoscesse e fosse trattato come tutti gli altri. Durante una colluttazione con la polizia, il turbante gli era caduto e l’occhio, seppur chiuso come una ferita, aveva provocato dubbi e paure. L’avevano rinchiuso lontano da tutti gli altri, in attesa di una verifica. Don Giulio lo aveva trovato in queste precarie condizioni, e Shiv aveva subito capito che quell’uomo dolce, con la pelle segnata dalle rughe di una vita difficile, poteva aiutarlo. Dietro a quegli occhi buoni si nascondevano i dubbi e le paure di tutti, ma la forza interiore che lui vide nascosta dietro quello sguardo curioso, fu subito certo gli avrebbe mostrato la giusta direzione. Allora si affidò a lui e gli raccontò tutto. Si tolse il turbante e aprì il suo occhio segreto. Don Giulio lo guardò per un lungo minuto, poi decise di nasconderlo e proteggerlo. Gli spiegò, anzi, che era lui che cercava, che era sicuro il suo potere avrebbe fatto la differenza. Dovevano solo capire come. *** «La luce di quell’occhio mi scavò l’anima» continua don Giulio «e piantò dentro di me un piccolo seme di fiducia e speranza. Cercavo qualcuno come lui, il Signore mi aveva già mostrato quale strada seguire. Da allora è rimasto sempre al mio fianco. La missione che


gli ho affidato era semplice: trovare le persone speciali come lui e condurle da me.» Fa una breve pausa e un sorriso rassicurante. «Non abbiate timore: non ho intenzione di rivelare al mondo la vostra esistenza e costringervi a uscire dall’ombra in cui vi siete rifugiati. Volevo solo conoscervi e dirvi cos’ho in mente. Alla fine sarete voi, e solo voi, a decidere.» «Sì, va bene. Facciamo presto, però!» esordisce Marco, con il suo immancabile zaino sulle spalle, dimostrando il suo fastidio in maniera evidente. Gli altri lo guardano in silenzio. Don Giulio lo scruta con interesse. «Marco, vero? Dimmi cos’hai provato quando hai visto Shiv la prima volta?» Il ragazzino lo fissa con alterigia. «Vuole che ammetta che ho avuto paura? Se le fa piacere, sì, un po’. Mi sembra normale. Poi ho pensato che non era logico fossi l’unico strambo in questo mondo. Allora mi sono deciso ad ascoltare cosa aveva da dirmi, mi sono fidato delle sue parole ed eccomi qui…» «Bene» don Giulio annuisce soddisfatto. «In quanto al fare presto… dipenderà solo da voi.» Il cane ai suoi piedi emette un brontolio, alza l’enorme testa e la scuote come se si fosse appena svegliato da un sonno millenario. È un incrocio tra un alano e un dobermann iper sviluppato. A ogni sospiro le narici emettono fili di fumo, proprio come quelle di un drago. «Calmo!» comanda don Giulio con tono deciso. Il cane, per nulla turbato, apre gli occhi e lo guarda. La cripta, fino ad allora rischiarata solo dai grossi candelabri, viene invasa da una luce abbagliante. Gli occhi della bestia sembrano due bracieri ardenti in cui danzano le fiamme dell’inferno. Lo osserva tranquillo poi apre le fauci e pronuncia alcune parole. Anche se non assomigliano a quelle di nessuna lingua creata dall’uomo, il prete sembra capirle perché ricambia lo sguardo, solleva la mano destra con le dita aperte a ventaglio, e la rivolge verso il mostro. Sul palmo inizia a pulsare uno strano simbolo che sull’animale, ha


l’effetto di una frustata. La bestia emette un guaito, poi torna ad accucciarsi rabbrividendo di paura. Chiude gli occhi e la cripta ripiomba nella consueta semi oscurità. «Ci mancava solo il cane parlante…» sbuffa Maria, accendendosi una sigaretta e puntando l’estremità incandescente verso il cane. «Pare proprio che lei ci debba altre spiegazioni.» Ha l’aria di una che nella vita ha visto situazioni ben più strane di questa. Don Giulio accenna un sorriso. «Maria, vero? Sì, ha ragione, mi scusi, ma… be’, intanto questo non è un cane!» Nella cripta cala il silenzio. Anche Marco sembra aver trovato un po’ d’interesse in ciò che sta avvenendo. Il personaggio in felpa invece continua a rimanere immobile; appoggiato a una delle colonne, sembra essere diventato parte delle decorazioni della chiesa, come una metopa in abbigliamento moderno. «Lo avevo capito…» replica Maria, prendendo una lunga boccata di fumo. Don Giulio ignora le parole della donna e prosegue: «E non parla. Almeno non nel senso comune. Se sentite la sua voce, è solo perché risuona nella vostra mente.» «Ah, è telepatico! Di bene in meglio» commenta Marco. «No, diciamo che Shiv fa da ponte tra noi e lui. È un altro dei suoi poteri.» Tutti sono attenti alle parole del prete, la ragazza in tuta invece sembra non essersi accorta di niente: ha lo sguardo perso nel vuoto e i suoi occhi sono due ragnatele di capillari spezzati. Si guarda in giro, tremando vistosamente. «Scusate ma io… devo fare una cosa, e subito!» dice con voce intensa. «Prego, signorina Giusi. Faccia con comodo.» Lei non sta più ascoltando: si appoggia al muro, estrae rapidissima da una tasca una siringa, toglie il tappo e si pianta l’ago nella coscia, trapassando la tela dei jeans.


Chiude gli occhi e il suo tremore si attenua, fino a scomparire. «Ok. Scusate ancora… Ora va tutto bene. Continui la prego.» Marco scuote la testa, con fare strafottente. «Gabbia di matti…» «Perfetto!» dice don Giulio, strofinandosi le mani «Mi sembra arrivato il momento per raccontarvi la mia storia.» DON GIULIO Circa un anno fa, era una bella serata di maggio, avevo appena finito le confessioni del sabato, e decisi di fare una passeggiata rilassante. Stavo vivendo un difficile periodo della mia vita professionale: i dubbi avevano cominciato a superare le certezze, le paure erano improvvisamente diventate più concrete delle sicurezze. Il volto di Dio mi appariva come offuscato da una fitta nebbia di pericolosi pensieri. Troppe ne avevo viste e sentite durante questa prima parte della vita. “Forse a sessant’anni è normale”, mi dicevo, “accumuli delusioni, dolore e frustrazione, troppo per una semplice anima che ha bisogno di riposarsi ogni tanto e di capire, più di quello che ci viene concesso”. Avevo incontrato persone buone che però ora mi sembravano una sparuta minoranza, rispetto alla cattiveria, l’indifferenza, l’egoismo degli altri. Sapevo bene com’era fatto il mondo, ma avevo bisogno di un obiettivo preciso da conseguire e una luce, chiara e limpida, che me lo mostrasse. Niente cori celesti o atti miracolosi; mi bastava molto meno, una parola, un sorriso, qualcuno che ascoltasse e capisse. Quella specifica sera cercavo solo di dimenticare i problemi, anche per un momento, e godermi il fresco dell’imbrunire. Camminai per alcune ore, senza una meta precisa. La luna occhieggiava tra nuvole basse che cercavano di nascondermela, e lei invece si ostinava a mostrarsi e a illuminarmi la strada.


Era ormai mezzanotte quando mi trovai a passare accanto a un palazzo che sapevo abbandonato. Poi udii un rumore. Mi avvicinai incuriosito e mi accorsi che da una finestrella a livello del terreno proveniva una luce. Mentre sbirciavo oltre quel vetro sporco, vidi un’ombra passare. Forse un barbone, pensai. Qualcuno aveva una torcia in mano e si muoveva sicuro nelle viscere del palazzo. Nel breve momento che riuscii a scorgerlo, vidi che vestiva una lunga tunica con un cappuccio a punta che gli copriva la testa. No, non sembrava affatto un senzatetto. Qualcosa mi spinse a seguirlo per cercare di capire cosa stava facendo lì dentro. Non pensai nemmeno per un secondo ai rischi che potevo correre: notai che la finestrella era socchiusa, la aprii del tutto, scivolai all’interno e mi misi subito sulle sue tracce. Intanto l’oscurità era tornata ad avvolgere l’ambiente. Sembrava che l’uomo si fosse dissolto nel nulla. Non mi rimase altro da fare che affidarmi alla fortuna. Accesi un fiammifero e avanzai tentoni attraverso un lungo corridoio che portava nelle viscere dell’abitazione. Intorno a me solo rottami e spazzatura. La luna, attraverso i vetri spezzati, illuminava a tratti il cammino. Scesi alcune scale e percorsi altri corridoi bui e deserti, senza incontrare nessuno. Al primo fiammifero se ne aggiunsero altri prima d’intravedere finalmente la luce: proveniva da una stanza in fondo a un cunicolo avvolto dalle ombre. Con estrema cautela, mi avvicinai e sbirciai oltre la soglia. La camera era spoglia e illuminata in modo fioco. Al centro dell’ambiente c’erano alcune persone disposte in un circolo perfetto. Indossavano lunghe tuniche scure e si tenevano per mano. Sul pavimento in mezzo a quel cerchio di corpi, intravidi un disegno fatto con il gesso, all’interno del quale c’era un pentacolo. Sulle cinque punte stavano dritte altrettante candele nere. Erano quelle le uniche luci a illuminare la scena.


I muri erano ricoperti da complicati simboli di varie forme e dimensioni. Mentre guardavo stupito, quegli strani monaci iniziarono a cantare. Una litania cadenzata e organizzata come un coro sacro, ma che risultava disarmonica e inquietante. Ogni tanto si fermavano, alzavano le mani e gridavano alcune parole al limite dell’umano. Ero impietrito dall’orrore: i ceri, il pentacolo, tutto stava a indicare che stavo assistendo a un’evocazione satanica. Ero paralizzato dall’orrore ma, temendo pericolosi sviluppi, riuscii a riscuotermi e decisi d’intervenire per interrompere quel rito blasfemo. In quel preciso momento, dal centro del pentacolo si alzò un denso fumo nero. Le mie narici si riempirono di un odore acre e pungente, mentre il fumo si deformava assumendo una forma precisa. Allora spalancai la porta e mi precipitai urlando verso di loro. Diedi una spinta a quelli che stavano davanti, cercando così di spezzare quel cerchio demoniaco. Loro, spaventati, si fecero di lato e io, come in una classica slapstick comedy, scivolai sul pavimento e caddi. Istintivamente misi le mani avanti, cercando di limitare i danni e finendo per appoggiarle proprio sopra quegli strani simboli. Poi alzai la testa e vidi in mezzo al fumo nero che si alzava a spirali, quella che sembrava una porta. Mentre mi chiedevo cosa fosse, iniziò lentamente ad aprirsi. In mezzo a quella nebbia acre e pestilenziale spuntò il muso di un enorme cane ringhiante. I suoi occhi, che lampeggiavano di odio e furore, erano fatti di fuoco puro; dentro di essi danzavano fiamme concrete come esseri viventi. Sembravano provenire dall’inferno e, da come si muovevano fuori e dentro, quegli occhi diabolici dimostravano l’intenso desiderio di penetrare nel nostro mondo. Il cane ne stava preparando la venuta, come un esploratore che saggia il terreno prima dell’arrivo dell’esercito. Il mostro digrignò i lunghi denti affilati, poi alzò la testa ed emise


un profondo ululato. Non conoscevo nessun animale che facesse quei versi. Dietro di me i satanisti fecero eco a quel grido. Sentii il rumore dei loro passi: era chiaro che stavano scappando terrorizzati. Terrorizzati, come me, che però ero paralizzato. Il cane emise un profondo ruggito, sputandomi in faccia incandescenti fili di bava che mi segnarono il volto per sempre. Poi fece un passo verso di me. Allora trovai la forza di alzare una mano per proteggermi, e solo a quel punto mi accorsi che sul palmo avevo impresso un segno, uno di quelli disegnati per terra. Il gesso era penetrato nella pelle come un tatuaggio. Avevo spezzato il disegno protettivo e il mostro era libero. Ecco perché i satanisti erano fuggiti. Vidi il cane fare un altro passo verso di me. Continuai a tenere alzata la mano e chiusi gli occhi, aspettando l’inevitabile fine. Invece non successe nulla. Quando li riaprii il demone era fermo, la luce nei suoi occhi si era attenuata, la porta nel fumo era sparita, anche quella strana nebbia si era diradata. Il mostro puntava lo sguardo dritto verso il palmo della mia mano. Abbassai il braccio come a comandargli obbedienza, e lui chinò la testa in segno di sottomissione. Fu un gesto istintivo, ma molto efficace. In cuor mio avevo capito che la mia salvezza e quella del mondo intero, dipendeva da quel simbolo. Mi alzai e feci alcuni passi indietro, sempre tenendo d’occhio il demone. Mi accorsi allora che lui mi seguiva docile, la testa china, gli occhi bassi, un filo di fumo nero che gli usciva dalle narici. Continuava a ringhiare la sua rabbia per non essere più padrone del suo corpo. Stava prendendo atto che ero io il suo padrone ora, e lui era costretto a obbedirmi perché possedevo quel simbolo magico. Iniziai a tremare, rendendomi conto della situazione. Quella creatura era ai miei comandi, forse per sempre. Pregai con tutte le mie forze: “Dio ti prego, aiutami!”. In quel momento la mia fede era più salda che mai. Per un


momento pensai anche il Signore stesse utilizzando il suo Antico Nemico per farmi riavvicinare a Lui. Forse la mia anima impaurita stava davvero impazzendo. Chiesi ancora aiuto e questa volta Egli rispose. Fu solo un sussurro, ma le parole erano chiare: “Segui la tua strada”. Ancora oggi non so se le sentii davvero, ma quello che importava era che ci credessi fermamente. Ero di nuovo pieno di rinnovata fede, ma soprattutto sentivo nel profondo del cuore di avere un scopo da perseguire. È proprio quello che la Voce mi disse, e che mi ha portato qui e ora. Ho una missione da compiere, e sono sicuro che sia la stessa che avete voi! *** Don Giulio si ferma. Li guarda aspettando una loro reazione. Intanto si strofina la guancia solcata dalle pallide cicatrici. Nessuno dei presenti ha osato interromperlo, tale era la foga con la quale stava raccontando la sua storia. Se non ci fosse stato il cane infernale a confermare le sue parole, lui che per tutto il tempo non si era mosso come se non lo riguardasse, sarebbe sembrato il delirio di un prete che aveva perso la fede e si era convinto di averla ritrovata in un buio sotterraneo, mezzo accecato dal fumo di qualche candela, ottenebrato da visioni che erano il parto della sua mente disperata. Sembrava proprio che l’incontro con il Male l’avesse rincuorato sull’esistenza della sua controparte. Marco sta cercando di metabolizzare quella strana storia, non più strana, in effetti, di quella di uno nato con tre occhi, o che riesce a comandare le menti altrui. Il ragazzo si guarda intorno e capisce che tutti, ognuno a suo modo, stanno provando a stemperare la paura che li ha invasi e riprendere il controllo. Giusi si mangia le unghie; Maria stringe le labbra rosso fuoco; Giovanni nasconde il viso dentro il bavero dell’impermeabile.


Solo quella inquietante figura incappucciata sembra immune dalle emozioni. Don Giulio guarda l’enorme bestia acquattata ai suoi piedi, quasi con affetto. «È ormai un anno che è costretto qui dentro» spiega. «Come potete immaginare non è molto a suo agio, ma deve obbedirmi, che gli piaccia o no. A volte mi fa pena, e forse è questa la cosa più inspiegabile. Per fortuna non se n’è ancora accorto nessuno. Tengo la cripta inaccessibile, dicendo che è chiusa per dei lavori di restauro, e lui resta qui tutto solo. Alla fine sembra un normalissimo cane. A parte gli occhi…» Lo accarezza sulla testa con la mano priva di simbolo e lui continua a sbuffare fili di fumo che si avvitano nell’aria come punti interrogativi. «Ok, va bene. Cosa vuole da noi?» domanda Marco, spazientito. Si è proclamato portavoce del gruppo, senza che nessuno l’abbia investito del ruolo. Don Giulio sorride e unisce i palmi come se stesse iniziando a pregare. «Ancora un attimo di pazienza: devo finire la mia storia» replica pacato, prima di schiarirsi la voce e proseguire il suo racconto: «Sei mesi dopo incontrai Shiv, e lui mi disse che nel mondo esistono molte persone speciali come lui. Le percepisce con la sua terza vista, quella dell’anima. Sono intorno a noi. Alcune nascoste, altre inconsapevoli. Anche per lui il nostro incontro sembrava un segno inequivocabile che Dio aveva un progetto per noi.» «Ma… non ha dubbi in proposito?» Giusi, ritrovata la calma, decide di partecipare alla riunione. «Non posso permettermeli. Poi, chi sono io per andare contro la sua volontà? Perché, ne sono sicuro, questo è quello che vuole. Che noi siamo qui, ora. Per questo ho deciso di trovarvi e di farvi la mia proposta.» «Finalmente ci siamo!» grida Marco. «Prima, però, penso sia giusto che vi conosciate, che ognuno di voi dica qual è il suo potere. Chi comincia?» domanda, guardandoli uno per uno, in attesa. Marco aggrotta la fronte. «Perché dovremmo?»


«Perché siete qui, quindi avete avuto dei buoni motivi, no?» Il ragazzo accenna a un mezzo sorriso. «Può darsi, sì. Io per esempio ero curioso, credo lo siamo tutti. Ora più che mai. Allora comincio: ecco… io riesco a convincere le persone a obbedirmi, li trasformo in zombi, docili e mansueti. Per cui, attenti a non farmi arrabbiare!» ridacchia, ma nessuno lo segue. Maria si schiarisce la gola. «Io creo un mio doppio, non chiedetemi come. Mi sono accorta di avere questo dono da qualche anno, da quando ho iniziato la mia… professione. Spero la cosa non vi scandalizzi» accenna un sorriso imbarazzato. Nessuno parla, per cui la donna si sente in diritto di continuare: «Ero stanca di avere un protettore. Quello stronzo mi picchiava e io… be’, ero stufa. Una sera ho immaginato di dargli finalmente una lezione e… lei è apparsa. Da allora lavoro da sola. La uso per difendermi. L’altra me stessa è forte, e non ha paura di nulla. Forse la costruisco con la rabbia e il dolore che ho accumulato. Con la gente che incontro ogni giorno, vi assicuro che torna molto utile… Io… accidenti, non l’ho mai raccontato a nessuno…» Don Giulio si avvicina e le mette una mano sulla spalla. Maria sorride e si pulisce il trucco che le sta colando sul viso mischiato a una lacrima. Lo Spettro continua a non parlare, ma estrae una bomboletta e disegna rapido un gattino sul muro dietro di lui. Poi alza la mano e il gattino si drizza sulle zampe posteriori e inizia a miagolare. Il cane/demone alza la testa infastidito, guarda distratto quel piccolo disegno animato che striscia sul muro, poi riprende a dormire. Lo strano personaggio in felpa fa un altro gesto, e il gattino scompare. «Molto illuminante…» commenta Giusi, che fa un passo avanti per attirare la loro attenzione. «Ora tocca a me. Be’, che sia chiaro: non sono una drogata, almeno nei termini che s’intendono di solito. Ho una malattia che mi fa consumare energie in brevissimo tempo e mi dona una elevata velocità. La tengo a bada con una cura di mia invenzione. Sì, ne sono dipendente, ma sono fatti miei, no?» si stringe nelle spalle.


«Certo che sì, Giusi, non siamo qui per giudicare. Giovanni? Manchi solo tu!» dice don Giulio, voltandosi verso di lui. L’uomo sospira e si stringe nell’impermeabile come per proteggersi, dal freddo e dai loro sguardi curiosi. La condizione dei suoi abiti fotografa la misera condizione in cui versa: i pantaloni lisi sulle ginocchia, che hanno perso da tempo il loro colore originario, la camicia rattoppata alla meglio in più punti, i capelli lunghi. Solo il suo sguardo è chiaro e limpido. Li guarda uno per uno, poi comincia: «Sono un barbone, un senzatetto. Ma questo forse l’avete già capito. Insomma… non sto a spiegare il come e perché. Sono i casi della vita, che mi hanno portato a questa situazione» allarga le mani in un gesto rassegnato. «Ormai non importa, anche perché ho trovato un ottimo modo per sopravvivere ai pericoli e alla vergogna: quando non ne posso più di questo mondo, mi rifugio nell’altro, il mio. Riesco a trovare delle porte d’accesso e lì dentro, al sicuro, anche per poco tempo, recupero fiducia e sicurezza. No, non ho intenzione di fare nessuna dimostrazione pratica. Dovete fidarvi e basta.» Don Giulio incrocia le braccia e li guarda negli occhi. «Giovanni dice il vero, tutti voi l’avete detto. Siete diversi, è innegabile, ma uniti e uguali nei vantaggi e negli svantaggi.» Si guardano e annuiscono. Don Giulio continua: «Bene, credo sia giunto il momento di dirvi cosa voglio io da voi.» Fa una pausa teatrale, poi prosegue: «Vorrei che vi uniste a me nella lotta contro le forze del male.» La cripta amplifica le sue parole in modo enfatico. I cinque si guardano stupiti. Maria comincia ridacchiare. «Il… male?» è Marco, come al solito, il primo a dare voce al loro scetticismo. «Lei ha letto troppi fumetti da ragazzino…» Don Giulio continua a guardarli in silenzio. «Sta scherzando, vero?» Maria ha cambiato tono e comincia ad arrabbiarsi. «In un certo senso, lo spero!» Il misterioso personaggio in felpa alza una mano e si strofina pollice e indice come dire: “A me va bene tutto. Dipende solo dalla paga”.


Giovanni si schiarisce la voce per attirare l’attenzione. «Ci sto!» esclama senza pensarci troppo su. Nei suoi occhi brilla la luce della speranza: forse è giunto il momento del riscatto. Quelle semplici parole fanno apparire la proposta del prete logica e inevitabile. Giusi sorride e si stringe nelle spalle. «Perché no? Potrebbe essere divertente!» Anche lei intravede interessanti prospettive: un modo per sfogarsi e magari, chissà, racimolare qualche soldo per continuare i suoi studi. Don Giulio afferra l’occasione al volo. «Ricordatevi: è Dio che ci ha dato questi poteri e noi abbiamo il dovere di…» «Ma per favore! Io non so chi mi ha dato questa cosa che lei chiama potere, e sinceramente non m’interessa! Il mio unico dovere è di andare a scuola e cercare di non farmi bocciare! Non tutti gli anni, almeno…» Marco è alterato, ma continua a lanciare occhiate al prete come a sfidarlo. “Dai, convincimi!”, pensa. “Sono venuto qui per questo!”. Don Giulio lo accontenta. «Marco, Marco… Non vorrai mirare solo a evitare compiti e interrogazioni. Puoi ambire a qualcosa di più leggendario. Fare la differenza, essere qualcuno. Questa è la tua grande occasione! Sei tra persone che ti capiscono e ti apprezzano. Puoi smettere di nasconderti e cominciare a mostrare a tutti quanto vali!» Il ragazzo scuote la testa. «Io non voglio che il mondo sappia di me! Non m’interessa…» Maria continua a soffiare nervosa piccole nuvole di fumo. «Non vi preoccupate, terremo segrete le nostre identità. Nessuno saprà chi siamo. Agiremo nell’ombra: è molto meglio per tutti» tranquillizza don Giulio. «Solo noi sapremo quanto siamo stati determinanti, quante vite avremo salvato! Ci proteggeremo e ci aiuteremo a vicenda. Questo, lo vogliate o no, è il nostro destino.» Lo Spettro continua a non parlare, ma ora si gratta la testa come se fosse confuso. «Insomma, secondo lei non abbiamo scelta…» Marco sbuffa.


«Facciamo così: le do un mese di tempo. Se la faccenda non mi soddisfa, me ne vado. Tanto, a parte fingere di studiare, per ora non ho molto di meglio da fare…» Don Giulio capisce allora di aver fatto centro: Marco ha bisogno di avere vicino qualcuno come lui, che lo capisca e ne riconosca le potenzialità. Per ora gli basta questo. Al di là dell’aria da duro, è quello che ha più bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di frequentare persone che condividono i suoi stessi problemi. Ha carisma, e la sua decisione peserà sul gruppo, convincendo chi ancora resiste. Come Maria, per esempio, che ancora guarda il prete con sospetto. Il silenzio dello Spettro invece è ormai un implicito assenso. «Siamo qui per aiutare chiunque avrà bisogno di noi, ma soprattutto siamo qui per imparare. Dagli altri, da quello che abbiamo dentro e che ancora non abbiamo avuto il coraggio di svelare, nemmeno a noi stessi. Ah, di certo capirete bene che nessuno di voi sarà retribuito…» chiarisce, poco prima di guardare lo Spettro che scuote deluso la testa. «Ho pensato a un nome» prosegue, ignorando la delusione dei quattro «qualcosa che ci identifichi e in cui possiamo riconoscerci. Ci potremmo chiamare La Classe, che ne dite?» «Be’, non è proprio come I Vendicatori ma… Lei sarebbe il nostro insegnate di religione?» scherza Marco. «No, solo uno che, come voi, ha bisogno di apprendere.» «A me va bene tutto!» annuisce Giusi. «Ok, seguo la maggioranza per ora» si aggrega Maria. Giovanni non risponde subito, quasi come se avesse improvvisamente cambiato idea. Poi con un gesto secco si sbottona l’impermeabile, che per un attimo svolazza nell’aria come fosse un mantello, e dice: «Quando si comincia?» Questo finale a effetto era proprio quello che ci voleva. Ormai sono un gruppo, che lo vogliano o no. ***


Sono le 18:00. Appena usciti dalla chiesa si guardano un attimo, poi con un breve cenno di saluto ognuno prende la propria strada. Sembra che per ora nessuno abbia voglia di approfondire. Ci sarà tempo e luogo. Non è il momento delle parole ma solo dei dubbi e quelli possono risolverli da soli. Marco è l’unico che invece ha bisogno subito di capire. Prima di uscire ha fatto due domande con un tono di voce che sfiorava la presa in giro. Aveva percorso con il dito l’intera volta della cripta e aveva detto: «Questa la possiamo considerare la nostra base segreta, l’Aula della Giustizia?» Don Giulio aveva, come al solito, sorriso; sembrava che, al momento, non avesse altre espressioni disponibili. «Direi più un punto di ritrovo. Un angolo tranquillo dove condividere pensieri e problemi.» «Insomma, finiremo per fare riunioni di autocoscienza invece di andare in giro a sconfiggere il male.» Maria non riusciva ancora a cogliere il lato positivo della cosa. Sempre che ce ne fosse uno. «A proposito: se succede qualcosa d’interessante, come ci convoca? Proiettando una croce sulle nuvole? Mediante una trasmittente che ci infilerà nel cranio?» Il prete aveva guardato Marco e per un momento il sorriso era svanito, lasciando il posto a un’espressione di rimprovero. «Considero questa cosa molto seriamente, ragazzino. Se il mondo avrà bisogno di noi ce lo farà sapere, in qualche modo! Non ti preoccupare, tramite Shiv ci terremo in contatto con voi. Intanto potete continuare con la vostra vita.» L’indiano, che per tutto il tempo non aveva emesso suono, rimanendo fermo accanto al prete come fosse l’ennesima colonna di pietra della cripta, aveva approvato con un cenno del capo. Marco gli aveva risposto alzando il pollice. Il loro primo incontro si era concluso così. Adesso il giovane aspetta che gli altri scompaiano alla vista, poi fa una piccola corsa e raggiunge Giovanni, prima che svolti l’angolo


e si dilegui anche lui tra le ombre. Ha sentito subito una strana affinità con quell’uomo, come se fossero esseri perduti in un oceano senza fine, bisognosi, perlomeno, di farsi compagnia. Lo raggiunge e lo tira per una manica. «Senti, scusa… posso farti una domanda?» chiede. Giovanni si gira, ancora perso nei suoi pensieri. «Chi… ah, sei tu! Sì certo, ma non dovresti essere già a casa a quest’ora?» «Tranquillo, me la so gestire. Male che vada questa sera i miei genitori avranno un po’ di mal di testa… Ormai ho imparato a evitare le punizioni» ridacchia ma vede l’espressione di disappunto dell’altro e si affretta a correggere il tiro: «Scherzo, dai! Non sono un mostro! Non ancora, almeno…» Giovanni lo guarda non troppo convinto: quel piccolo delinquente in erba gli fa un po’ paura, ma anche una profonda tenerezza. Un figlio, pur con i problemi che avrebbe comportato, era forse la cosa che mancava per rendere il suo matrimonio più stabile. Allunga una mano per tentare una veloce carezza, ma il ragazzino la schiva. «Non ti offendere ma… ci tengo all’igiene!» Giovanni si lascia sfuggire una smorfia. «Fai di tutto per risultare antipatico, vero? Io mi lavo tutte le mattine, caro ragazzo! Mi sono pure sbarbato per essere presentabile ai vostri occhi.» Marco sorride, in parte vergognandosi delle sue parole, e cambia argomento: «Ho visto che sei entusiasta della cosa. Voi grandi siete così ingenui a volte… Però devo confessare che… be’, all’inizio ero scettico ma poi non so… ho bisogno di pensarci su.» Giovanni lo guarda, questa volta con severità, e incrocia le braccia per sottolineare che, nonostante tutto, l’adulto è lui. «Avevi bisogno di chiedermi qualcosa di specifico?» «Certo, solo una domanda, facile facile. Mi daresti uno strappo fino a casa?» Normalmente Giovanni non fa entrare nessuno nella Scorciatoia. È sempre stata una cosa solo sua, da non condividere con nessuno, per gelosia e prudenza, ma questa è una situazione particolare e forse fare uno strappo alla regola potrà servire a dimostrare al ragazzo la sua disponibilità, a regalargli tutta la sua fiducia e


convincerlo a far parte del gruppo. Inoltre, è convinto che prima o poi lo dovrà fare, quindi meglio iniziare subito. Qualunque cosa sia quella che, per merito di don Giulio, sta nascendo tra loro, è senz’altro importante e in futuro potrà diventare anche amicizia, ciò di cui anche Giovanni sente il bisogno. Non si può sempre fuggire, dai problemi, dalla vita, nascondersi da qualche parte aspettando che il temporale passi. Qualche volta è meglio bagnarsi per scoprire che non è poi tanto male. Basta non farlo da soli. Marco gli è sembrato, fin dall’inizio, il più diffidente e difficile da coinvolgere; invece forse è la persona giusta con cui compiere il primo passo insieme. Al di là dell’età, della situazione sociale, la sente come un’anima affine. «Va bene, andiamo.» Giovanni si guarda intorno, individua un varco, si assicura che nessuno li guardi e infila una mano nel nulla. Poi prende per un braccio il ragazzo e lo tira dentro con sé. Una volta dentro, a Marco sembra di sprofondare in un’enorme vasca piena di cioccolato. Annaspa qualche secondo in quella roba densa, terrorizzato come se fosse in bilico su un baratro, poi sente che i suoi piedi si sono ben ancorati al terreno e si tranquillizza. Il luogo si è adattato a lui e gli permette di muoversi e respirare. Si fa coraggio e segue Giovanni, che intanto si è addentrato in quella specie di tunnel sottomarino. Gli sembra di percorrere un lungo corridoio che scorre tra due pareti trasparenti: al di là di esse vede le altre persone, le figure distorte e deformate, che camminano senza fare caso a loro. Quella visione fa male agli occhi, come quando guarda attraverso i vetri di un acquario. Anche il tempo è distorto: mentre dentro sembra normale, fuori è come vedere un film al rallentatore. Per un attimo Marco si ferma a guardare il fiume di macchine che gli scorre accanto, le persone che sembrano misurare ogni loro


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