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SERENA GUCCI LA FOSSA DEI LEONI ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA FOSSA DEI LEONI Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-660-5 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Aprile 2024
A Kirikù e Aida, in nome di una vecchia promessa
7 PROLOGO Essere nella fossa dei leoni. Definizione: Trovarsi circondati di pericoli e non avere altra possibilità che affrontarli o soccombere, a meno che non si verifichi un evento miracoloso. I due uomini entrarono nell’ingresso del condominio. Lì, se possibile, faceva più freddo che all’esterno. Il più anziano dei due, alto e prestante nonostante l’età, fece strada a quello più giovane e basso di statura, che lo seguiva con un sorriso divertito stampato in faccia, verso le scale che conducevano al sottosuolo. «Roberto, ancora non mi hai detto per quale motivo sono qui» esordì quest’ultimo. «Sei un ispettore di polizia, no?» «Sì, ma non capisco.» «Devi farmi da testimone.» «Chi devi ammazzare?» ridacchiò. «Non scherzare, Marco. Sai che affitto appartamenti di mia proprietà, e una locataria non si fa sentire da giorni con i genitori. Non riescono a contattarla e, abitando lontano, non possono venire fin qui a controllare. Così mi hanno pregato di entrare nell’appartamento, per cercare di capire cosa possa esserle accaduto. E io ammetto di avere paura ad aprire la porta.» Marco fece un gesto con la mano, come a scacciare le sue parole. «Ma dai Roberto, paura di cosa? Al massimo potrei denunciarti, dato che affitti anche questi monolocali abusivi ricavati nel seminterrato.» «Ecco, adesso mi pento di averti chiamato!» esclamò risentito. «Te lo dico di nuovo: ho paura. Non vorrei trovarmi davanti un cadavere, perché magari Melania ha avuto un malore e nessuno, me compreso, se n’è accorto.»
8 «Melania è l’affittuaria, immagino. In pratica devo testimoniare che sei entrato nell’appartamento, abusivo, di tua proprietà e se c’è un cadavere non è per colpa tua.» «In parole povere, sì. Ecco ci siamo» rispose Roberto a disagio, avvicinandosi a una delle porte dello scantinato. Armeggiò con la serratura ed entrò. Premette l’interruttore e un tubo al neon illuminò l’ambiente: sembrava un normalissimo monolocale, soffitto basso a parte. Marco si guardò intorno. L’appartamento era arredato in modo semplice e di modeste dimensioni. Al centro della sala c’era un tavolo con due sedie, e verso destra un piccolo angolo cottura con frigorifero e lavello. Fecero qualche passo all’interno, e controllarono che fosse tutto in ordine. Nella parte sinistra c’era la zona notte, costituita da un divano letto aperto, un armadio a due ante e una scrivania con sopra un computer portatile e una stampante. Una porta aperta mostrava un piccolo bagno, creato con pareti in cartongesso. Luce e aria passavano da due finestre lunghe e strette a bocca di lupo, poste a filo del soffitto. Era tutto in ordine, non c’erano né una maglia appoggiata sul letto, né una cartaccia nel cestino della scrivania. Roberto cominciò ad aprire sportelli e cassetti. «Sembra che non manchi niente, al massimo dovrebbe fare un po’ di spesa» dichiarò, chiudendo lo sportello del frigorifero dopo una breve ispezione. «Gli abiti sono qui, non vedo grucce vuote. E nessun cadavere, sarai contento» constatò Marco, dopo aver aperto e richiuso l’armadio. «E dove può essere andata?» «È maggiorenne? Allora si tratta di allontanamento volontario. Comunica ai genitori di presentare denuncia di scomparsa, così noi della polizia potremo cominciare a indagare.» Rispose mentre Roberto, chino sulla scrivania, leggeva un foglio che si trovava davanti alla stampante. «Marco? Chiama i tuoi colleghi. Questa è la lettera di una suicida!» si preoccupò, mostrando il foglio all’amico.
9 L’ispettore cambiò espressione. Gli strappò il foglio dalle mani, intanto che leggeva prese lo smartphone dalla tasca del cappotto. Corse fuori dall’appartamento, poi su per le scale. Uscì dal portone e provò a chiamare. Il telefono squillò a lungo. «Santoro? Sono Attavante. Passami la squadra investigativa. Giovane donna scomparsa, probabile suicidio. No, non so dove possa essere andata.»
CAPITOLO 1 Infagottata nel suo largo giubbotto da mezza stagione, Cassandra percorreva il sentiero con espressione cupa. Era successo di nuovo, ne era sicura. Si lasciò alle spalle i vecchi oliveti che si trovavano ai piedi della montagna, dove la campagna ormai abbandonata fungeva da confine con il bosco. Il sentiero cominciava quasi in piano, per poi inerpicarsi sulla Montagna Nera. Prima lecci, querce e agrifogli, poi faggi e castagni con un ricco sottobosco di felci. Procedeva di buon passo, scavalcando con agilità gli stretti ruscelli che incontrava. Ogni tanto il bosco si apriva su qualche radura erbosa, oppure su scorci di campagna in lontananza con grandi campi coltivati. Passava in rassegna tutto quello che la circondava, per poi proseguire. Non era per niente tranquilla. Aveva visto di nuovo dei lampi gialli sulla montagna la sera prima, e sapeva che portavano solo guai. Diede un calcio a un sasso che finì rotolando in mezzo alle foglie secche. L’odore di terra umida le fece venire in mente i funghi che raccoglieva di solito in quel periodo, solo che adesso aveva altro cui pensare. Abitava ai piedi della Montagna Nera, i boschi fitti che la ricoprivano le avevano fatto meritare quell’appellativo. Com’era costretta a fare da qualche mese, era in giro a perlustrare la zona. Nei giorni precedenti i carabinieri forestali avevano installato i pali con la segnaletica per alcuni sentieri, e lei aveva avuto il suo bel daffare per riuscire a sradicarli e gettarli via lungo i pendii. Non era la prima volta, ma lo faceva per un buon motivo. Cominciò a mordicchiarsi l’unghia del pollice, scrutando le cime degli alberi, il bosco era fin troppo silenzioso. Proseguì in direzione della zona dove aveva visto i lampi gialli. Era cresciuta in quei luoghi perciò, conoscendo bene anche i passaggi più nascosti, contava in breve di arrivarci. Prese uno stretto percorso che si
perdeva in mezzo alla vegetazione, sicuramente un passaggio abituale degli animali selvatici. Camminava a passo svelto, quello che un tempo faceva esclamare a sua madre: «Ma dove devi andare così di corsa?», lasciandosi schiaffeggiare dai rami e graffiare dai rovi. Magari avesse avuto un carattere deciso come il suo passo, invece era da sempre timida e insicura. Quando raggiunse la meta delle sue ricerche, sapeva già cosa avrebbe trovato: erba bruciata in più punti e un animale mezzo sbranato. In questo caso si trattava di un cinghiale. L’unica parte riconoscibile era la testa, il resto del corpo sembrava passato nel tritacarne. Il forte odore di sangue le fece rivoltare lo stomaco. E se i responsabili di quello scempio fossero ancora lì vicino? Sapeva bene di chi si trattava, e che non le avrebbero fatto del male, ma adesso che dovevano essere più grandi e forti non era sicura di riuscire a fermarli. Il silenzio irreale che la circondava la fece rabbrividire. Doveva andarsene subito. Percorse a ritroso il sentiero, camminando sempre più veloce. Arrivò a valle quasi senza accorgersene. Un miagolio la fece voltare. Un grosso gatto tigrato sbucò a lato del sentiero. «Kirikù tutto a posto?» chiese. Il gatto socchiuse gli occhi, mettendosi a ronfare con espressione soddisfatta. «Meno male.» In quel momento un altro gatto, anzi una gatta, uscì da un cespuglio vicino. «Ciao Aida. Su, torniamo a casa. Sono salita sulla montagna perché ho visto di nuovo i lampi, questa volta ne ha fatto le spese un cinghiale» considerò ad alta voce, abituata a condividere quel che pensava con i suoi gatti. D’altra parte, vivendo da sola, non aveva molte occasioni per scambiare due chiacchiere con qualcuno. Quando raggiunse casa, notò un fuoristrada dei carabinieri forestali parcheggiato lì davanti. In piedi fuori dal mezzo e con la schiena appoggiata contro lo sportello, uno di loro la stava aspettando a braccia conserte. «Cassandra dove sei stata?» le domandò.
«Non sono affari tuoi, Martino. E comunque lo capirebbe anche un imbecille che ero nel bosco, mi hai appena vista arrivare da lì!» Cercò di evitarlo, ma lui le sbarrò la strada. «E cosa stavi facendo?» chiese in tono ironico. «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.» A quel punto lui cambiò atteggiamento, era arrabbiato. «No, mi rispondi, invece! Vuoi una multa? Vuoi finire in galera? L’amministrazione comunale paga la segnaletica per i sentieri, noi forestali la mettiamo e puntualmente, tu» le puntò un indice contro il petto «fai il tuo giro e la sradichi, gettandola chissà dove! Devi smetterla!» Cassandra si strinse nelle spalle. «Non sai per quale motivo lo faccio.» «Infatti vorrei che mi spiegassi. L’unica cosa che so, è che da quando è morto Claudio, hai proprio perso la testa: giri notte e giorno per la montagna, non mangi più, distruggi cartelli e scacci gli escursionisti che vengono fin qui. Ora ti vedo perfino arrivare in compagnia dei tuoi gatti mentre parli con loro come a dei cristiani! Adesso il quadro è proprio completo: sei impazzita del tutto!» Gli lanciò uno sguardo infuocato. «Lascia stare mio marito e i miei gatti!» esclamò in tono secco, passandogli accanto per entrare nel cancello di casa. Quest’ultima apparteneva alla sua famiglia, gli Zeni, da secoli. Anni prima i suoi genitori, il nonno materno e lei, che all’epoca era poco più di una bambina, si erano trasferiti in città dove c’erano più opportunità di lavoro. La vecchia casa l’avevano tenuta per le vacanze. Rimpiangendo i luoghi in cui era cresciuta, dopo il matrimonio, si era stabilita a Casa Zeni con il marito. Traduceva libri, tra cui anche testi universitari, scriveva articoli per il web e aveva creato un blog dal discreto successo, su cui pubblicava articoli su zone, sentieri, boschi e antichi borghi poco conosciuti che scovava in giro per la regione. Perciò poteva lavorare da casa e spostarsi solo di tanto in tanto per cercare materiale. Suo marito Claudio, che era nato e cresciuto in città e lì esercitava come avvocato penalista, si era innamorato pure lui di quei luoghi. Era costretto a fare il pendolare, ma la cosa non gli pesava.
Chi vedeva la casa per la prima volta rimaneva incantato, sembrava una via di mezzo tra una baita di montagna in pietra e un villino inglese a due piani, circondata da un giardino lussureggiante pieno di colori durante la bella stagione. Lo attraversò senza nemmeno alzare gli occhi sulle piante cresciute in modo disordinato, i gatti la seguirono per rientrare con lei. Martino la raggiunse, ed entrò senza aspettare che lo invitasse a farlo: si conoscevano fin da bambini, certe formalità non erano contemplate. Una volta all’interno si guardò intorno scuotendo la testa. Dalla morte del marito, la sua amica si era lasciata andare: nelle stanze regnava il caos più completo. In cucina sembrava si fosse divertita a tirare fuori dai mobili tutte le pentole e le stoviglie, in salotto vestiti ammucchiati sul divano e libri impilati ovunque. La grande libreria vuota sembrava guardarlo desolata. Sulla scrivania il computer, lasciato acceso forse da ore, era circondato da fogli pieni di appunti e libri gettati a casaccio. «Stai preparando il trasloco?» chiese, indicando con un gesto del braccio tutto l’ambiente. Lei lo guardò con espressione confusa. «Sì. No. Non so cosa voglio fare, è tutto così difficile…» Le lacrime cominciarono a scenderle silenziose lungo il viso. Cassandra aveva quarant’anni ed era sempre stata molto magra, un mistero per tutti come facesse a reggersi in piedi. E continuava a deperire perché mangiava sempre meno. Il largo giubbotto che indossava, la faceva sembrare una bambina con i vestiti del fratello maggiore. Martino le si avvicinò, e dopo averla stretta in un breve abbraccio, l’aiutò a toglierlo. «Coraggio. Capisco cosa provi, ma puoi farcela un passo alla volta. Scommetto che non mangi niente e passi le notti in bianco, vero? Stai ancora soffrendo per la morte di Claudio, ci mancherebbe altro, sono passati pochi mesi. Ma cosa direbbe se ti vedesse in questo stato? Promettimi che mangerai qualcosa, poi ti farai un bel bagno e una buona dormita. Vedrai che domattina a mente fresca saprai decidere cosa fare. Sono sicuro che hai finito per trascurare anche il lavoro.»
Tirò su col naso e scosse la testa. «No quello no. Le scadenze…» mormorò a occhi bassi. Lui annuì, poi disse una cosa che sembrò risvegliarla: «Non ti occupi più neanche del giardino, molte piante stanno morendo e il resto sembra una giungla.» A quelle parole lei alzò la testa con espressione sbalordita, stravolta dal dolore non ci aveva più pensato. Un attimo ed era già fuori. Quando lui si affacciò alla porta di casa, Cassandra aveva già tra le braccia pala, zappa, annaffiatoio e cesoie. La guardò affannarsi intorno alle piante, smuovendo la terra, potando e concimando. Meglio così, pensò. Con tutto quel movimento, appetito e sonno le sarebbero venuti di certo! Decise di andarsene e la salutò, ma lei non rispose: era così presa da quello che stava facendo, che nemmeno lo sentì. Cassandra lavorò alacremente al giardino per il resto della giornata. Martino aveva visto giusto: quando rientrò in casa, stanca e sudata, si accorse con stupore di avere fame. A causa del dolore per il lutto, la sua mente aveva messo in un angolo per mesi tutto quello che la circondava. Buttarsi a capofitto nella cura delle piante, aveva risvegliato i suoi bisogni primari. Per prima cosa, si concesse una lunga doccia. “Da quanto non curo più il mio aspetto?” si chiese, applicando lo shampoo sui capelli che ormai avevano perso qualunque piega. Avvolta nell’accappatoio, si asciugò con cura i capelli prima di pettinarli, e regolò le sopracciglia con le pinzette. Fece una smorfia triste alla se stessa riflessa nello specchio: aveva gli occhi pesti a causa del pianto e delle notti insonni, e la sua chioma trascurata la faceva assomigliare a Maga Magò. «Domani parrucchiera» decretò ad alta voce, raccogliendo i capelli in una coda di cavallo, rimanendo stupita delle sue stesse parole perché programmi non ne faceva più da tempo. Una volta pulita e vestita, ma con lo stomaco gorgogliante, constatò che purtroppo la sua dispensa era vuota, fatta eccezione per la pappa dei
gatti e qualche scatoletta di mais cotto a vapore, che a lei non era mai piaciuto. «Era Claudio quello che ne andava matto, e adesso non può più mangiarlo.» Di nuovo una lacrima spuntò tra le ciglia. Se l’asciugò con un gesto rabbioso, prima d’indossare le scarpe e il giubbotto e uscire di corsa da casa. Una volta in auto, sfrecciò verso il paese come se avesse avuto il diavolo alle calcagna. “Il diavolo, già…” pensò, scoppiando in una risata isterica. Parcheggiò nella piazza principale di Montagna, un nome banale adatto a quel piccolo paese, dove si trovavano oltre alla sede del Comune, la chiesa, un piccolo supermercato e il bar. Si diresse verso la trattoria che si trovava subito dietro l’angolo: l’odore di carne stufata l’attirò come una sirena. Quando spinse la porta ed entrò, i presenti si voltarono verso di lei, tutta gente del posto che conosceva da sempre. Chi salutò imbarazzato, chi la chiamò a gran voce per nome agitando un braccio per salutarla, e chi si fece avanti per abbracciarla, come la proprietaria del locale che uscì apposta dalla cucina per farlo. Tanti le rinnovarono le condoglianze per la perdita del marito, altri si dissero felici di rivederla. Li ringraziò tutti con un sorriso mesto. A un tavolo d’angolo si trovavano Martino e un suo collega che, essendo forestiero, si lasciò andare a commenti spiacevoli. Commenti che non avrebbe mai fatto, se l’avesse conosciuta. «La pazza è scesa dal monte, alla fine!» Martino gli lanciò un’occhiataccia. «Alessio non ti permettere.» «Cosa ho detto di male?» domandò lui, sorseggiando la sua birra. «È vero. Gira giorno e notte per i boschi con i capelli arruffati e gli occhi spiritati, distrugge cartelli e spaventa la gente. Se non è pazza, cos’è? Dimmelo.» «È una donna che ha perso il marito che amava da un giorno all’altro. Io e lei ci conosciamo fin da bambini, e ti garantisco che è del tutto normale!» Alessio abbassò lo sguardo e bofonchiò: «Sì, come no…»
«Guardala adesso» lo invitò, indicandola con la mano. «Ti sembra che abbia gli occhi spiritati e i capelli arruffati?» Alessio fece spallucce. La cosa non poteva importargli di meno, bastava che smettesse di fare danni. Martino si alzò per andarle incontro e invitarla al loro tavolo. Lì per lì lei rifiutò più volte, poi finì per accettare. La proprietaria della trattoria le portò il piatto del giorno: stufato di manzo e patate. Cucinato da lei era una vera delizia, con il sugo saporito e la carne che si scioglieva in bocca. Mangiò con appetito senza quasi alzare lo sguardo dal piatto, rispondendo a monosillabi ai tentativi di conversazione di Martino. Tornata a casa, cedette di schianto al sonno, tant’è che si addormentò vestita sul letto. *** La mattina si svegliò con il sole che batteva sulla finestra, la sera prima non aveva chiuso neanche gli scuri. Stiracchiandosi soddisfatta, si chiese da quanto tempo non dormisse così bene. La bocca le si piegò in un sorriso amaro. Inutile domandarlo: dal giorno della morte di Claudio. Respinse con stizza la trapunta, guardandosi intorno: la camera era la sua da quando era bambina, dal giorno del funerale non se l’era più sentita di dormire in quella matrimoniale, troppi ricordi lì dentro. Ma anche in quella cameretta ce n’erano: il letto di ferro battuto con la trapunta a riquadri di stoffa, cucita dalla mamma, il cassettone antico con il piano di marmo nero e il grande armadio antico a due ante, dove si nascondeva per gioco da piccola. I suoi nonni e i genitori non c’erano più, suo marito pure. Le rimanevano giusto i bei ricordi di una vita passata in larga parte tra quelle mura. «Ma non sono così vecchia da vivere solo di quelli!» esclamò. Da quando era rimasta sola, aveva preso l’abitudine di parlare a voce alta, il silenzio la intristiva. I ricordi riguardo alle persone amate sono tutti belli, adesso però doveva crearne di nuovi.
«Devo continuare a vivere anche per loro che non ci sono più» dichiarò. E vaffanculo a chi c’era là fuori sulla Montagna Nera. Quella era casa sua e non gliel’avrebbero rovinata. Forte di queste motivazioni, marciò fiera verso il bagno. Rise quando si vide allo specchio, con gli abiti con cui aveva dormito ormai stazzonati e la coda che le pendeva tutta storta su un lato della testa. Fece una doccia veloce, poi indossò jeans e camicia per andare dalla parrucchiera e a fare la spesa. «Non è così che facciamo noi donne quando vogliamo cambiare? Cominciamo dai capelli, no?» si disse con un sorriso, finendo di pettinarsi. Uscendo dal bagno si guardò intorno: Martino aveva ragione, la casa era nel caos più completo, sporca e trascurata. Però non poteva pretendere di prendere di nuovo in mano le redini della sua vita e sistemare tutto in un solo giorno. Si sarebbe occupata di una stanza alla volta, facendo pulizie a fondo ed eliminando quello che non serviva più. Adesso che era sola, decine di piatti e pentole, per non parlare della grande quantità di biancheria da letto e da casa, erano diventati inutili. Forse quando aveva tirato fuori dai mobili tutto quello che c’era dentro, era partita con quell’idea. Ma era così istupidita dal dolore e dagli strani episodi che si stavano verificando nel bosco, da essersene dimenticata. Ovvio che il suo amico avesse pensato a un trasloco. Non era una cattiva idea, prendere le sue cose e andarsene, ma dove? Lontano da lì non conosceva nessuno. Quelle cittadine erano state tutte conoscenze superficiali, i compagni di scuola e università l’avevano sempre considerata una sorta di montanara civilizzata e tenuta a distanza. Martino invece era il fratello che non aveva mai avuto, il migliore amico in assoluto. Erano stati in classe insieme fino a che lei non aveva traslocato in città. In seguito si erano tenuti in contatto tramite lettere e telefonate, e frequentati ogni volta che tornava in paese con i suoi. Con il tempo si erano persi di vista quasi del tutto, qualche chiamata per scambiarsi notizie in generale su lavoro e salute, e basta. Dopo il matrimonio era tornata ad abitare in paese, invece Martino era riuscito a
farsi assegnare al Comando dei Carabinieri forestali di zona solo due anni prima, perciò la loro amicizia si era rinsaldata da poco. Scese le scale a precipizio, come faceva da sempre, e le parve di risentire la voce di sua madre che gridava: «Vuoi romperti l’osso del collo?» Entrò in cucina. Kirikù, il suo grosso gatto tigrato, guardava fuori dalla finestra. Stava lì fiero e immobile come una statua, le pupille ridotte a una fessura per via della luce del sole, non mosse neanche la testa quando lei lo chiamò. La scena le ricordò una poesia che aveva scritto anni prima: I gatti stanno sempre davanti alla finestra. Non per guardare cosa c’è fuori ma per impedire che qualcosa entri. “È vero. I gatti sono le sentinelle delle nostre case, niente di brutto deve entrare” si disse. Avvicinandosi alla finestra, vide Aida aggirarsi per il giardino come una pantera in miniatura. Tirò un sospiro di sollievo. Negli ultimi tempi aveva visto spesso lampi gialli sulla montagna e trovato i resti dei banchetti di… cosa diamine erano? Ancora non lo aveva capito, temeva però che potessero attaccare i due gatti. Sperava che gli sentissero il suo odore addosso e stessero loro alla larga. Aprì la finestra e si mise a schioccare forte la lingua contro i denti, a ritmo serrato. Era il richiamo che usava per la gatta, un po’ come i fischi modulati che si usano per chiamare i cani. Per Kirikù bastavano due brevi schiocchi per vederlo arrivare. La gatta avanzò verso di lei, facendo ondeggiare la coda, il manto tartaruga rosso e nero la mimetizzava nella penombra delle piante. «Buongiorno Aida.» La gatta le rispose a modo suo, socchiudendo gli occhi gialli. «Tutto bene? Oggi vado in paese, tornerò per pranzo. Voi due non muovetevi da casa, mi raccomando!»
Aida e Kirikù in quei mesi erano stati in qualche modo la sua ancora di salvezza, gli unici in grado di confortarla dopo il lutto. Kirikù lo aveva adottato pochi anni prima da una compaesana. La sua gatta aveva avuto quattro cuccioli e lei ne aveva preso uno. All’epoca era piccolissimo, come il protagonista del cartone animato di cui aveva preso il nome. Gli si era affiancata in seguito Aida, trovata abbandonata. Aveva il pelo in maggioranza scuro e il portamento altero, da qui il nome della principessa etiope protagonista dell’opera lirica di Giuseppe Verdi. Più tardi, seduta sulla poltrona della parrucchiera, pensò che la sua nuova vita poteva cominciare anche così: dandoci un taglio per ripartire da capo o quasi. Uscì due ore dopo dal negozio, sentendosi la testa più leggera grazie alla nuova acconciatura: via la coda di cavallo a favore di un taglio più corto e scalato, e si era fatta schiarire i capelli. «Sei irriconoscibile, sembri un’altra!» le disse la parrucchiera con un sorriso, accompagnandola poi alla porta. Proprio ciò di cui aveva bisogno. Appena girato l’angolo incontrò Martino, che le passò davanti senza riconoscerla. Sorridendo soddisfatta proseguì per la sua strada. Cercò di bandire la tristezza mettendosi all’opera: ogni giorno s’imponeva di sistemare qualcosa in casa, eliminando quello che non le serviva più. Cosa se ne faceva di tante pentole, dei vari servizi di piatti, dei mille asciugamani e lenzuola, degli innumerevoli attrezzi di suo padre e suo nonno, dei modellini di mezzi dell’esercito che il padre assemblava nel tempo libero? Tenne solo quello che poteva esserle utile adesso che era sola, al massimo qualcosa in più nel caso avesse avuto ospiti e qualche oggetto per ricordo. Alla fine si guardò intorno nelle stanze che, alleggerite del superfluo, le sembrarono più grandi e ordinate. Per lungo tempo era diventata come un’ospite in casa propria, messa in un angolo, circondata dalla mole di oggetti che non le appartenevano e che giocoforza le riportavano alla mente chi non c’era più.
Forse un giorno la tristezza per la loro assenza si sarebbe trasformata in malinconia, e avrebbe potuto ricordare i suoi cari con un sorriso. La ferita per la perdita di Claudio poi, era fin troppo recente e chissà se e quando si sarebbe rimarginata. Distrarre la mente si rivelò un ottimo antidoto per non farsi travolgere dalla depressione. La vita ricominciava, doveva fare progetti per l’immediato futuro e riempire le giornate per impedirsi di pensare. Sistemare la casa e il giardino a lungo trascurati furono l’inizio del suo piano di cambiamenti. Poi cominciò a pianificare le nuove mete di cui parlare nei suoi articoli, e il modo di risolvere il problema sulla Montagna Nera, prima che fosse troppo tardi. Per fortuna l’autunno stava avanzando, e sperava che loro rallentassero l’attività, magari andando in letargo. Sempre che certe creature andassero in letargo. Con il passare dei giorni le temperature si abbassarono, i forestali collocarono la nuova segnaletica per alcuni sentieri, che stavolta rimase al suo posto, poi cominciarono la manutenzione di altri. In vista della bella stagione, il Comune intendeva promuovere la zona a beneficio degli amanti della natura e delle passeggiate. Cassandra continuava a perlustrare la montagna per controllare che non ci fossero incidenti a causa delle strane creature. Lasciò perdere la segnaletica solo perché più di una volta si accorse che Martino la seguiva a distanza. Pensava che non lo notasse? Gli faceva un cenno di saluto e proseguiva per la sua strada. Come sperava, in quel periodo non accadde niente di anomalo: niente bagliori nel buio o animali maciullati, e si augurò che tutto proseguisse così. Anche se continuava a mangiare poco, una sera per cena si concesse il lusso di un bel risotto ai funghi. Il profumo che si spandeva per la cucina le ricordò le tante sere passate insieme ai suoi cari davanti al focolare, con la nonna che le raccontava le novelle. Quest’ultima era mancata quando frequentava ancora la scuola elementare, e tante abitudini familiari erano andate perse quando si erano trasferiti tutti in città.
Stava aggiungendo del brodo al riso che cuoceva nella pentola, quando bussarono alla porta. Trasalì perché non aspettava nessuno, in più abitava lontano dal paese. Non aveva fatto caso al rumore di un’auto che si avvicinava, chi poteva essere? Aprì piano la porta, sorridendo poi sollevata quando riconobbe Martino. Lui ricambiò il sorriso ed esordì, facendo il vocione: «Buonasera bella bambina. Che buon profumino! Non vuoi farmi entrare?» Lei ridacchiò. «Buonasera grande orso. Ti offro volentieri il risotto, a patto che non mangi me!» rispose, stando al gioco. Lui si fece avanti scusandosi per l’improvvisata. C’era stata una riunione in Comune: per il periodo Natalizio erano state programmate alcune iniziative, come l’esibizione del coro della chiesa e un mercatino dell’usato e artigianato. «Ho pensato potesse interessarti. So che hai molte cose dei tuoi che ti dispiaceva gettare via, potresti mettere su una bancarella e venderle lì. Che ne dici?» Lei annuì, interessata. «È una bella idea, partecipo volentieri. Sarà divertente, magari verranno anche dei forestieri.» Martino la guardò entusiasta, sembrava un bambino euforico per l’arrivo di Babbo Natale. «Era da tanto che non ti vedevo sorridere. Le cose vanno meglio?» chiese. «Sarò sincera: no. Un giorno sono felice, quello dopo giù di morale. È per questo motivo che cerco di tenere impegnata la mente in tutti i modi: voglio riprendere in mano la mia vita, non annegare nella disperazione» spiegò, tornando in cucina a mescolare il risotto. Martino la seguì e lei continuò a parlare: «Devo ringraziarti, è stato per merito tuo, quando mi hai fatto notare la casa e il giardino trascurati, se mi sono riscossa dal torpore. Dalla morte di Claudio vivevo come immersa nella nebbia, senza più accorgermi di quello che mi circondava. Forse è troppo presto, ma voglio provare ad allontanare la tristezza. Adesso il minimo che possa fare è offrirti la cena» aggiunse ridendo, indicando il risotto ormai pronto. Poi gli fece cenno di accomodarsi. L’uomo sorrise e si avviò verso la tavola già apparecchiata, aggiungendo un coperto.
Il pasto in compagnia le fece bene. Martino si complimentò per come aveva sistemato casa e soprattutto per l’ottimo risotto. «Lo vedo che ti è piaciuto, te ne sei mangiato due scodelle!» «Colpa tua, sei una cuoca formidabile! Beato chi ti sposa.» Cassandra si bloccò con la forchetta per aria. Lui si accorse della sua reazione si affrettò a rimediare: «Scusami. Era una frase che diceva sempre mia nonna. L’ho ripetuta senza volere.» Cassandra scosse la testa. «Tranquillo, non me la prendo.» Imbarazzato, lui cambiò discorso: «Volevo dirti del tuo blog, mi scordo sempre. È davvero ben fatto, pieno di colori, immagini e descrizioni di luoghi e passeggiate. Solo non capisco perché non parli mai della nostra zona e della Montagna Nera. Se lo facessi, sai quanta gente verrebbe?» Cassandra cominciò a tossire, strozzandosi con un sorso di vino. Gente sulla Montagna Nera? Con quello che accadeva? «Può essere un’idea, potrei scrivere degli articoli sull’argomento» replicò evasiva. «Stanno pensando di ripristinare il Sentiero Bianco, te lo ricordi?» aggiunse Martino. «Certo. Mio nonno ci portava spesso a fare delle passeggiate per vedere il lastricato di pietre bianche. Metà percorso è stato inghiottito dalla vegetazione o rovinato dagli smottamenti, se ne nota a malapena qualche tratto.» «E non è un peccato che si perda così? Cosa ci raccontava sempre tuo nonno? Che era un sentiero che saliva a spirale intorno alla Montagna Nera…» «E in tempi antichi, i popoli della nostra zona lo percorrevano fino in cima dove, presso un altare, i sacerdoti facevano offerte e sacrifici a non si sa quali divinità» concluse il discorso Cassandra. «Da bambino avevo una fifa tremenda quando sentivo parlare di sacrificio, pensavo uccidessero esseri umani!» rise lui. Lei scosse la testa. «No tutt’altro. Al massimo offrivano un animale.» «Come fai a sapere queste cose?» «Dimentichi che la mia famiglia vive qui sulla Montagna Nera da sempre? Sono storie che conosco bene. Forse anche i miei antenati seguivano quelle processioni.» «E l’altare c’è ancora?»
«Non è un altare come quello che c’è in chiesa, sono alcune grosse rocce. Non si notano più perché ci sono cresciuti degli alberi intorno.» Lui la guardò ammirato. «Vedi quante cose sai di questi luoghi? È un peccato non condividerle sul blog. La gente incuriosita verrebbe per ripercorrere le orme degli antichi sacerdoti!» Sorrise. «Prima sistemate i sentieri, poi ne riparliamo. Va bene? Sono gelosa dei nostri luoghi, mi dispiacerebbe vedere branchi di cialtroni ovunque a schiamazzare e sporcare.» «Esagerata, mica tutti fanno così. Al giorno d’oggi in tanti visitano luoghi ricchi di storia e natura in cerca di tranquillità.» Se solo Martino avesse saputo perché lei cercava di tenere tutti lontano dalla Montagna Nera…
CAPITOLO 2 Arrivò infine il periodo natalizio, e in paese tutti fecero a gara per illuminare e decorare le case e le vetrine dei negozi. Per alcuni pomeriggi consecutivi, il coro della chiesa si sarebbe esibito in piazza, nella sede del Comune di Montagna due artisti locali avrebbero esposto i loro quadri, mentre il mercatino a cui avrebbe partecipato anche Cassandra, si sarebbe tenuto il giorno dell’Immacolata e le domeniche precedenti al Natale. L’otto dicembre le strette vie contornate di case con le facciate di pietre a vista, erano illuminate da file di luci multicolori, dagli altoparlanti la musica natalizia si diffondeva ovunque, rendendo l’atmosfera magica. Era bello vedere tanta gente in giro a fare acquisti e godersi la festa. Cassandra aveva creato una bancarella di fortuna, usando un tavolo pieghevole. Nel giro di poche ore era riuscita a vendere molti oggetti, compresi alcuni servizi di piatti appartenuti alla nonna. Martino, che faceva parte del comitato organizzativo, passava spesso a controllare che tutto procedesse a dovere, accompagnato talvolta dal Sindaco. Nel pomeriggio, quando la temperatura era scesa ancora, le aveva portato un bicchiere di vin brulé accompagnato dai biscotti che le donne della parrocchia vendevano per beneficenza. Ridevano e scherzavano, lui ben contento di vedere l’amica più serena dopo mesi difficili. L’anziana signora del banco di bigotteria di fianco a quello di Cassandra, che si faceva notare per l’abbigliamento dai colori sgargianti, lo canzonò: «Giovanotto la sua fidanzata non gliela portano via! Viene sempre a controllare!» Arrossendo come un ragazzino, si sentì in dovere di spiegare: «Guardi che si sbaglia. Siamo solo amici.» La signora scosse la testa, esibendo un sorriso furbo. «Sono al mondo da abbastanza anni per riuscire a capire la gente alla prima occhiata.
Vedo bene che tra voi c’è una bella energia. Si faccia avanti, non lasci passare il tempo, o se ne pentirà.» Martino mormorò all’indirizzo di Cassandra che sarebbe tornato più tardi, prima di allontanarsi. La signora lo seguì con lo sguardo per un po’, quando furono di nuovo sole, considerò: «Si capisce che è innamorato di lei.» Cassandra, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, decise di dire la sua: «Non fraintenda, siamo cresciuti insieme ed è il mio migliore amico. A Febbraio ho perso mio marito, non ho più nessuno dei miei cari e lui mi è stato vicino. Passo momenti difficili, e…» Cassandra non fece in tempo a finire il discorso che la donna l’afferrò per un polso, tirandola a sé. La sua espressione cambiò, il sorriso si trasformò in un ghigno, mentre la pelle del viso si scuriva e assottigliava. Le guance s’incavarono e gli occhi si affossarono fino a rivelare occhiaie vuote, la bocca spalancata mostrò denti gialli e marci. Terrorizzata, cercò di chiedere aiuto, la voce però le usciva appena. Non riusciva a liberarsi dalla sua stretta, anche tirando con tutte le sue forze. Possibile che nessuno si fosse accorto di niente? Sentiva la musica attutita come se provenisse da lontano, la gente intorno a loro sembrava muoversi al rallentatore. La donna parlò, una voce terribile e stridente come unghie sulla lavagna. «Credevi che me ne fossi andata? Non lascio la Montagna Nera, ricordalo! Puoi fare quello che vuoi, ma ricorda che ti tengo d’occhio!» Cassandra sgranò gli occhi, stupefatta. Lei? Com’era possibile? Continuando a contorcersi in un buffo balletto, provò a liberare il braccio ma la donna non allentava la presa. In quel momento una voce irruppe nelle sue orecchie, forte e chiara come la sveglia al mattino: «Guardate! Una fiaccolata sulla Montagna Nera!» esclamò eccitato un ragazzino indicando la montagna. Come se la frase avesse spezzato un incantesimo, la donna la lasciò andare, la musica giunse di nuovo nitida e la gente riprese a muoversi.
Ancora impaurita indietreggiò di qualche passo, osservandola. Il suo volto era tornato normale e stava parlando con clienti davanti alla sua bancarella. Cos’era successo, maledizione? Lei era arrivata fin lì, come aveva fatto? Poi ripensò alla frase del ragazzino: fiaccolata? Guardò verso la Montagna Nera: quattro grandi luci si muovevano lungo il fianco del monte. In tanti indicavano le luci gialle, che a tratti sparivano per riapparire poco più in là, in mezzo agli alberi. Martino era a poca distanza da lei. Stava parlando con espressione preoccupata alla ricetrasmittente ai colleghi di turno. «Sulla montagna, si vede dal paese… No! Non ci sono fiaccolate in programma, forse un principio d’incendio. Arrivo prima possibile, voi dirigetevi sul posto con un paio di mezzi.» «No! No! No!» gridò Cassandra. Corse da Martino afferrandolo per un braccio. «Martino non dovete andare lassù!» «Tranquilla, è il nostro lavoro. Sappiamo come comportarci anche se interveniamo di notte» le rispose, dirigendosi poi verso il mezzo di servizio. Lei ormai sull’orlo di una crisi isterica, scosse la testa cercando di trattenerlo. «Tu non capisci, non dovete salire lassù!» «E allora spiegami» disse, come quando l’aveva aspettata davanti a casa. Lei serrò le labbra. «Non posso.» Tornò di corsa alla bancarella per prendere la borsa. Chiese alla donna che vendeva bigiotteria il favore di avvisare gli organizzatori: che pensassero loro a mettere via le sue cose, le avrebbe recuperate poi. Raggiunse la sua auto ma, quando fece per chiudere lo sportello, una mano lo bloccò. Sentì il cuore fare un tuffo nel suo petto. Era Martino, la guardava preoccupato. «Lasciami andare!» gli disse. «Dove? Sulla Montagna Nera? Ogni volta ti rifiuti di dirmi cosa succede. Credevo avessi smesso con le stranezze» la rimproverò, con sguardo severo.
«Tu non capisci» ripeté ancora, mordendosi il labbro inferiore con fare nervoso. «Smettila!» gridò Martino alterato. «Scendi dall’auto!» Le intimò. «Non posso!» «Cosa non puoi? Vuoi andare lassù in auto, che neanche ci arriverebbe perché non è un fuoristrada? Vuoi spegnere tu l’incendio?» Martino stava perdendo la pazienza. «Non è un incendio, lo vuoi capire? È pericoloso per voi, per tutti. Devo andarci io!» Ormai era in lacrime, cos’altro poteva dirgli? «Vieni con me, sbrigati!» le ordinò, tirandola per un braccio. Frastornata, lo seguì fino alla sua auto di servizio. Ebbe appena il tempo di allacciare la cintura di sicurezza che lui partì sgommando. Macinò in fretta i pochi chilometri di strada asfaltata fino ai boschi. Scalando le marce aggredì il sentiero pietroso per arrivare fin dove era possibile. Appena fermò il fuoristrada, Cassandra scese a precipizio, incamminandosi in fretta verso la zona della montagna dove si vedevano le luci. Era buio pesto, ciononostante procedeva sicura e senza impedimenti. Martino la affiancò con una torcia in una mano e la ricetrasmittente nell’altra. «Rimani qui» disse lei, fermandosi «vado io su.» «A parte che non saprei cosa raccontare ai miei colleghi che stanno arrivando, mi vuoi dire una volta per tutte cosa c’è là?» «Non lo so nemmeno io…» rispose. «Sono pericolosi, sono degli strani esseri: demoni, mostri, non lo so. Fatto sta che quando hanno fame, uccidono animali. Ma stanno crescendo e cercano prede più grosse. Io li conosco, non chiedermi altro perché sarebbe lunga da spiegare, so solo che a me non faranno niente. Posso fermarli!» Martino aggrottò la fronte, confuso. Poi si schiarì la voce e chiese: «Le luci… Sono loro?» Lei lo guardò con sollievo. «Allora mi credi?» «Certo che ti credo. Ti conosco da una vita e so che non potresti inventare certe storie nemmeno se avessi perso la testa.» Si lasciò andare a un sospiro profondo. Poi annuì. «Per rispondere alla tua domanda sì, quando si vedono i lampi gialli sono loro. Compaiono
all’improvviso, dove c’è qualcosa da cacciare. Subito dopo spariscono e rimangono solo la testa e i resti della preda.» Rimasero a guardarsi in silenzio per un tempo che le parve infinito, poi Martino disse: «Corri. I miei colleghi ci metteranno ancora del tempo ad arrivare. Risolvi questa faccenda, poi ne riparliamo.» Cassandra si voltò, proseguendo la salita. Vide in lontananza i lampi, sembravano quelli di un temporale in arrivo. Come il giorno in cui li aveva incontrati per la prima volta. Sembravano passati secoli, invece che meno di un anno. Era febbraio, il giorno lo ricordava fin troppo bene. Quello che era successo allora le si ripresentò alla mente come se fosse appena accaduto. Camminava stordita in mezzo al bosco. Aveva inciampato riprendendosi per tempo, evitando così di cadere in ginocchio sui sassi aguzzi del sentiero. Era stato come risvegliarsi da un sogno, un incubo. Come e quando fosse arrivata lì, non lo ricordava. Rammentava solo la telefonata di quella mattina, poi più nulla. Al telefono la voce sconosciuta di un poliziotto l’aveva informata dell’incidente stradale in cui era rimasto coinvolto suo marito. Ricordava vagamente la polizia stradale che l’accompagnava in ospedale, poi il discorso del medico del pronto soccorso: «Abbiamo fatto il possibile, fratture multiple, non ha sofferto…» Un bel “mi dispiace” per concludere e lei era rimasta sola con il suo dolore. Aveva rimosso tutto, di come fosse riuscita a tornare a casa e di come si fosse ritrovata a camminare disperata in mezzo al bosco. I ricordi s’infransero e ritornò in sé quando rischiò di cadere. Avvertì sotto la mano la corteccia ruvida del tronco a cui si era appoggiata per restare in equilibrio. Lasciando scivolare le dita sul muschio, continuò a pensare con tristezza a Claudio. Ricordò che quel giorno orribile aveva percorso il sentiero vicino a casa e la radura erbosa, gli stessi dove da bambina giocava a fare la principessa, immaginando che gli animali del bosco fossero tutti suoi amici. “Perché quando si è piccoli è tutto così semplice?” si era chiesta.
Scuola, amici, giocare nel bosco, sfornare dolci con la nonna, abbracciare la mamma, aiutare il nonno nell’orto, aspettare il babbo che torna dal lavoro. Poi il tempo passa e tutto cambia. E non in meglio purtroppo. La malinconia per la sua infanzia perduta le provocò una crisi di pianto improvvisa. Un lamento le salì alle labbra e lo buttò fuori con lo stesso impeto con cui si vomita quando si sta male di stomaco. Un’unica vocale ripetuta all’infinito, nemmeno una pecora ferita sarebbe stata capace di tanto, perché il suo pianto assomigliava a un belato. Il primo tuono la fece sobbalzare, seguito da altri più forti. Le nuvole nere cariche di pioggia spuntarono senza preavviso. Abituata com’era a fare passeggiate ogni giorno nel bosco, si sarebbe dovuta accorgere per tempo della pioggia in arrivo. E invece, distratta dall’accaduto… La luce del giorno era sparita. Era primo pomeriggio, ma sembrava che il sole fosse appena tramontato. Si disse che forse era meglio tornare a casa, così affrettò il passo ma il temporale si scatenò, bloccandola. La pioggia cadeva fitta, grosse gocce la colpirono con forza. A causa del forte vento procedeva con difficoltà, reggendosi a stento in piedi. In pochi secondi si ritrovò fradicia, l’acqua le ricadeva tra i capelli, in faccia, gli abiti appiccicati addosso. Scivolò più volte scendendo a valle, il sentiero divenuto un torrente. Finì per cadere a terra, infangandosi tutta. Dolorante si rimise in piedi nello stesso momento in cui un fulmine colpì una quercia vicina, seguito da un lampo accecante. Gridò, spaventata, il boato era stato così forte da assordarla. I timpani le dolevano e fischiavano. A pochi passi da lei l’albero schiantato al suolo bruciava, dal tronco in fiamme vide scappare degli animaletti. Senza esitare, corse a salvare quelli che sembravano scoiattoli con il pelo in fiamme. Usando il suo giubbotto per avvolgerceli dentro e smorzare il fuoco, si allontanò in fretta dall’incendio.
Poi dal fagotto che teneva tra le braccia si levarono versi simili alle strida di un rapace, piuttosto che lo squittio di scoiattoli. Stupita, si fermò. La pioggia continuava a scorrerle addosso, ansante abbassò lo sguardo: quattro paia di occhi luminosi e biancastri la fissavano. Appartenevano a quattro piccoli quadrupedi simili a pezzi di legno contorto, la testa stretta e lunga, le bocche piene di denti appuntiti. Strillavano e si agitavano per il dolore, la loro pelle annerita dal fuoco da cui li aveva salvati prima. Le morsero le mani a sangue ma lei, frastornata per quello che stava accadendo, non avvertì dolore. Un forte rumore di rami spezzati, come di una ruspa che si apre un varco, attirò la sua attenzione. Alla luce dei lampi una sagoma enorme si fece largo tra i cespugli, per poi spiccare un salto e atterrarle davanti. Provò a gridare senza riuscirci, il cuore le scoppiava nel petto per il terrore. Voleva scappare ma le gambe diventate come di piombo non le obbedirono, costringendola a rimanere immobile a fissare la cosa che aveva davanti. L’essere era grande quanto un orso. I lampi lo illuminarono: senza una forma definita, sembrava un pezzo di carne cruda, pieno di gibbosità e dall’odore nauseabondo: un misto di sangue e marciume. La testa come un mucchio d’interiora, in mezzo alle quali un Dio folle aveva incastonato due occhi simili a sfere fiammeggianti. Quella che doveva essere la bocca, somigliante a una ferita grondante pus giallognolo, emise un suono stridente. Avvicinando la testa alla sua, annusò e poi scoppiò a ridere. Quella cosa rideva! Una risata così forte che le rimbombò in testa, terrorizzandola. Sentì il rivolo caldo dell’urina scenderle lungo la gamba. Se l’era fatta sotto. Tremante e con gli occhi pieni di lacrime, si preparò al peggio. Lo vide allungare quella che era una zampa? Un braccio? E afferrarle la testa. “Ora stringerà e sarà tutto finito” pensò, chiudendo gli occhi. Invece l’essere parlò, una voce sgraziata come un chiodo su una lastra di metallo.
«La tua persona è gradita alla Montagna Nera. Questa montagna ha una grande energia, che mi serve per maturare e crescere me stessa e i miei figli. Il fuoco stava per ucciderli ma tu li hai salvati, questo significa che ho un debito di riconoscenza verso di te! Guai, però, se parlerai di noi con qualcuno, se non vorrai incorrere nelle mie ire. Anche perché chi ti crederebbe mai?» Perse i sensi e quando aprì gli occhi, il temporale era passato e lei era sola. Nei mesi successivi aveva avuto diverse occasioni di parlare con quella cosa, cui aveva dato il nome fittizio di Madre e di vedere a volte i suoi figli e i resti delle loro azioni. Il ricordo svanì dalla sua mente mentre raggiungeva infine i luoghi dove stavano imperversando in quel momento i figli di Madre. «Sento qualcuno che ha brutti pensieri» disse la voce stridula che lei ormai conosceva bene. «Vattene» ringhiò Cassandra. «Sai che non lo farò. Questa è casa mia e dei miei figli.» «Questa non è la vostra casa, dovete andarvene!» «Non ci penso proprio a dare retta a una fragile umana. Basta un tocco e siete finiti.» «Senti chi parla. Se non fosse per questi luoghi, chissà che fine avreste fatto.» «Infatti. Qui siamo e ci rimaniamo, non puoi mandarci via.» Vicino a lei non c’era nessuno. Dopo il primo terribile incontro, Madre mostrava la sua presenza solo con la voce. «Ho un debito di riconoscenza verso di te, questi sono legami indissolubili!» Cassandra sospirò. «Lo so, sono mesi che me lo ripeti.» «I miei figli si sono svegliati dal letargo perché avevano fame» aggiunse Madre cambiando discorso. I quattro si erano scatenati facendo del loro peggio: trovò i resti di alcuni cervi, maschi e femmine. Spinti dalla fame dovevano averne seguito l’odore, per dargli poi la caccia lungo il fianco della montagna. Solo le teste erano intere, il resto una poltiglia sanguinolenta.
Sentì un sibilo alle sue spalle, poi lo stesso odore nauseabondo di marciume di Madre. Si voltò, trovandosi a tu per tu con due dei figli, un brivido di paura le salì lungo la schiena. «Andatevene!» gridò, sentendosi ridicola. Figuriamoci se certi esseri le avrebbero obbedito. L’ultima volta che li aveva visti, erano grandi quanto un mastino. Adesso erano della stessa taglia dei cervi che avevano ucciso. Per via delle ustioni riportate nell’incendio, sembravano cavalli ai quali fosse stata rimossa la maggior parte della pelle. E come cavalli pure loro si muovevano a quattro zampe. Allungò una mano verso di loro, consapevole di cosa rischiava. «Vi ho detto di andarvene! Avete mangiato, ora basta!» In un attimo tutti e quattro la circondarono, anche gli altri due avevano sentito la sua voce e raggiunta. “Stupida, credi di essere il domatore di un circo?” si rimproverò. I figli di Madre si limitarono ad annusarla a lungo, comunicando tra loro con versi gutturali e squittii. Poi si voltarono, alcuni lampi gialli ed erano scomparsi. Tempismo perfetto, perché sentì avvicinarsi i carabinieri forestali. Si allontanò in fretta, se l’avessero trovata lì non avrebbe saputo giustificare la sua presenza in alcun modo. Tornò dove Martino aveva lasciato il fuoristrada, le portiere erano aperte così poté prendere la sua borsa e tornare a casa per vie secondarie. Lasciò un biglietto al suo amico: “Tutto a posto. Sto andando a casa. Ci sentiamo”. All’improvviso le riecheggiò in testa la risata stridula che ormai conosceva bene. «Cassandra non puoi fermarmi! Hai visto cosa ti è accaduto in paese? Attenta a quello che fai! Ho un debito di riconoscenza verso di te, ma potrei dimenticarlo se continui a mettermi i bastoni tra le ruote. Io e i miei figli dobbiamo completare la crescita, e tu non ce lo impedirai!» L’ultima frase le rimbombò nelle orecchie come se qualcuno avesse gridato in un megafono. Disperata, scappò via. La sua però era una corsa inutile: se Madre avesse voluto ucciderla, niente glielo avrebbe impedito.
CAPITOLO 3 La mattina seguente, un sottile strato di brina ricopriva tutto il paesaggio, e le temperature si erano abbassate ancora. Aida e Kirikù dormivano beati davanti al caminetto acceso. Mica scemi, pensò Cassandra. Dopo una notte agitata, durante la quale aveva continuato a rivedere in sogno Madre e i suoi quattro terribili figli, si era alzata dal letto sentendosi malissimo: occhi pesti, passo incerto, testa pesante, dolori ovunque. Di certo aveva preso l’influenza. Aprì il cassetto della credenza per cercare il termometro e in quel momento bussarono alla porta. «Cassandra apri!» Riconobbe la voce di Martino, così andò ad aprire. Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti, la luce del giorno le dava un gran fastidio. Il suo amico entrò a passo di carica, travolgendola con un fiume di parole. «Sono qui per sentire una volta per tutte la storia che mi tieni nascosta. Ieri notte io e i miei colleghi abbiamo trovato sai bene cosa sulla Montagna Nera. Per fortuna hanno pensato a un brutto episodio di bracconaggio ma, dato che ci saranno delle indagini e intensificati i controlli, voglio sapere cosa rischiamo tutti! Sia chiaro che non ho raccontato dei mostri, ci mancherebbe, poi mi mandano in TSO. Però quando ho visto quella carneficina, mi è preso un accidente. Ma quanto sono grandi?» Parlava a voce alta e Cassandra non poté fare a meno di prendersi la testa tra le mani, stringendo forte gli occhi con aria sofferente. «Piano, Martino» si lamentò con un filo di voce. Solo allora lui si accorse del suo stato. «Cos’hai?» chiese preoccupato. «Forse ho l’influenza, sto malissimo. Per favore abbassa la voce, mi scoppia la testa.» Raggiunse la poltrona vicino al caminetto. Martino prese il plaid dal divano e glielo drappeggiò sulle spalle.
«Grazie fratellone, premuroso come sempre» lo prese in giro bonariamente, mentre lui le tendeva il termometro. «Tieni, provati la temperatura. Comunque anche se stai male non mollo: voglio sapere tutta la verità.» Cassandra cominciò a raccontare. Aveva appena accennato al giorno in cui era morto Claudio, che avvertì un forte fitta alla gamba sinistra. Se la massaggiò proseguendo il discorso. Il dolore però aumentò, prima simile a un crampo poi come se qualcuno l’avesse frustata. Senza volere, le scappò un lamento. «Tutto bene?» chiese Martino. «Tranquillo. Con la febbre alta di solito mi vengono dolori muscolari» minimizzò. «Ti stavo dicendo che camminavo senza sapere dove mi trovassi, quando all’improvviso il cielo si è riempito di nuvoloni grigi ed è cominciata una forte burrasca di vento e pioggia. Cercavo di tornare a casa, ero fradicia e continuavo a cadere a causa del sentiero allagato e del fango, quando all’improvviso è caduto un fulmine vicino a me.» Quando cominciò a raccontare degli scoiattoli che aveva salvato, non ce la fece a proseguire. Sentì il corpo irrigidirsi e un dolore fortissimo la percorse tutta. Si alzò ma, prima di riuscire a muovere un passo, cadde a terra svenuta. Quando a fatica riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il volto di un medico chino su di lei. Fece girare lo sguardo intorno preoccupata: si trovava in un letto d’ospedale, collegata a un monitor e con una flebo nel braccio. Cos’era successo? «Signora come si sente? Riesce a capire quello che dico?» chiese l’uomo, puntandole una luce negli occhi per controllare la reazione delle pupille. Cassandra annuì, muovendo appena la testa. «Riesce a parlare?» le chiese ancora. «Sì» mormorò con un filo di voce, intanto che il medico le chiedeva il suo nome, quando era nata e altre domande per capire se fosse cosciente. «Cosa ci faccio qui? Cos’è successo?»
«Me lo dica lei. Suo marito ha detto che aveva la febbre alta, poi ha cominciato a lamentare forti dolori alle gambe e infine è caduta a terra, priva di sensi. Può spiegarmi meglio?» Marito? Forse aveva creduto che Martino lo fosse. «A un tratto ho avvertito delle fitte a una gamba che poi sono diventate sempre più forti. L’ho sentita irrigidirsi come se avessi i crampi, così ho provato ad alzarmi e camminare. Da quel momento in poi non ricordo altro.» «Soffre di attacchi epilettici? Diabete? Malattie cardiovascolari?» Scosse la testa. «No. Martino non vi ha detto niente?» «Suo marito ci ha ragguagliato sulla sua salute, però voglio essere sicuro e sentirmelo dire da lei. Comunque le abbiamo fatto tutti gli esami di routine per escludere anche ischemia, ictus o infarto. Stiamo aspettando i risultati, intanto dovrà passare la notte in osservazione. La lascio alle cure dell’infermiera, la rivedrò più tardi.» Il medico salutò uscendo dalla stanza. La giovane infermiera l’aiutò a sistemarsi nel letto, poi controllò il monitor e la flebo. «Signorina Luisa, non posso rimanere qui. Devo tornare a casa. I miei gatti…» Cassandra provò a protestare, dopo aver letto il nome sul cartellino appuntato alla divisa. La donna accennò un sorriso gentile. «Mi chiami solo Luisa. Adesso deve pensare a guarire, alla casa e ai gatti ci penserà suo marito. Poverino era così preoccupato quando l’ha portata qui, che pensavo avremmo dovuto rianimarlo!» «Non è mio marito, solo un amico.» La donna la guardò confusa. «Non è quello che ci ha detto… e comunque da come si disperava per lei, sembrava proprio che lo fosse. E che bell’uomo! Ora la lascio riposare» esclamò, congedandosi per andare a controllare gli altri pazienti. Cassandra si lasciò andare contro il cuscino con un sospiro. Martino un bell’uomo? Era così abituata a lui, che in tutta sincerità non aveva mai considerato il suo aspetto. Ma cosa faceva? Era in ospedale e forse aveva rischiato di morire, aveva altro a cui pensare. Più tardi sentì dei passi nel corridoio, poi Martino fece capolino dalla porta. «Ehi, come ti senti?»
«Come se avessi un macigno addosso» rispose. «E ho scoperto di avere di nuovo un marito» provò a sorridere. «Non scherzare, era l’unico modo per avere notizie su di te. Ho parlato con il medico che ti sta seguendo: sembra non ci sia niente di grave. Mi hai fatto prendere uno di quegli spaventi! Stavi cominciando a raccontarmi dei mostri o quel che sono e di come li hai incontrati, quando ti sei alzata, ti sei irrigidita come un baccalà e sei caduta a terra. Volevo chiamare l’ambulanza, solo che sarebbe dovuta venire da un altro paese e casa tua non è facile da raggiungere. Così ti ho caricato in auto e sono corso in ospedale. Credo di aver infranto tutti i limiti di velocità.» Prese una sedia, accomodandosi accanto al letto. «Posso?» chiese. «Ormai ti sei già seduto. E poi come potrei mandare via il mio salvatore?» Lui abbassò un attimo lo sguardo, poi si concentrò di nuovo su di lei e azzardò: «Te la senti di finire il racconto?» Lei annuì. «Dov’ero rimasta? Ah sì. Mi trovavo sotto la pioggia, quando un fulmine ha colpito un albero vicino a me, incendiandolo.» La fitta simile a una frustata si ripresentò alle gambe. Di nuovo? Ciononostante continuò a parlare. «Rimasi stordita dal boato e stavo per scappare, quando vidi alcuni animaletti che scambiai per scoiattoli. Erano avvolti dalle fiamme, così mi precipitai a salvarli. Invece erano dei… Ah!» Una forte fitta alla testa la obbligò a fermarsi. Disse a Martino cosa sentiva, poi un’altra fitta ancora e svenne di nuovo. Lui premette il pulsante per le emergenze, medico e infermieri arrivarono di corsa. Prima di dedicarsi a lei, lo fecero uscire dalla camera. Cassandra sognò di essere nel grande prato vicino casa. Indossava un abito leggero e sentiva una brezza piacevole sul viso, come se fosse primavera inoltrata. A un tratto registrò un movimento con la coda dell’occhio. Accanto a lei c’era Madre, sapeva che era lei anche se aveva perso le sembianze del pezzo di carne gibboso com’era la prima volta che l’aveva vista.
Alta oltre due metri, la testa piccola e incassata nell’ampio torace, le gambe corte e magre. Fosse stata una situazione divertente, avrebbe detto che sembrava un imbuto. Le braccia erano così lunghe da toccare quasi terra con la punta delle dita. Gli occhi rossi e brillanti come li ricordava. «Cosa devo fare con te? Hai capito la lezione o devo ripeterla? Solo che alla prossima finiresti dritta tra le braccia del tuo defunto marito» minacciò, con voce cavernosa. Cassandra scosse la testa, confusa. «Non capisco.» «Ah! Non capisce, poverina. Ti ho fatto venire la febbre perché non devi raccontare dei miei figli. Non solo… stavi descrivendo anche il nostro primo incontro, così ti ho causato quei dolori.» Lasciò che le sue parole aleggiassero tra di loro, prima di continuare: «Credevo avessi imparato la lezione, invece riapri i tuoi begli occhioni e la prima cosa che fai è metterti di nuovo a raccontare di noi! Mi hai costretta a punirti di nuovo. Adesso puoi decidere: o stai zitta e io ti faccio tornare alla tua insulsa vita, oppure parli e rimani in questo prato per sempre.» Lei si guardò intorno. «Non è un brutto posto» soppesò. «Come sei stupida! Dove credi di essere? Sei sempre nel letto con quelle persone dalle tuniche bianche intorno a te. Se vuoi svegliarti sai cosa devi fare. Anzi cosa non devi fare! Allora?» Quello era un ricatto bello e buono, purtroppo il coltello dalla parte del manico lo aveva lei. «Avevi detto di avere un debito di gratitudine verso di me.» «È per quello che sei ancora viva. Se tra noi due non ci fosse niente, ti avrei già uccisa.» «Mi costringi al silenzio, quindi. Devo tenere per me questo segreto, questa storia… D’accordo, starò zitta.» «Giuri?» domandò Madre con un ghigno. Lei annuì. «Giuro…» Si svegliò all’improvviso gridando: «Giuro! Giuro! Giuro!» Il medico, stupito dalla reazione della paziente, le iniettò subito un calmante che la proiettò stavolta in un sonno privo di sogni.
Quando si riprese le sembrarono passati pochi minuti da che si era sentita male, invece il medico la informò che era rimasta incosciente per oltre ventiquattr’ore. «Signora ci ha fatto prendere di nuovo un bello spavento. Stavolta le abbiamo fatto anche una tac per non lasciare nulla d’intentato. Le farà piacere sapere che non ha niente di grave.» Cassandra sospirò di sollievo. Si guardò intorno, cercando il volto familiare del suo amico. «Dov’è Martino?» «Lo abbiamo spedito a casa a riposare. Rifiutava di allontanarsi da lei anche solo per pochi minuti» fece una smorfia divertita. «Abbiamo scoperto che non è suo marito. Passo sopra alla sua bugia solo perché è nelle forze dell’ordine e mi ha aiutato a scoprire finalmente cosa le è accaduto, altrimenti avrei potuto denunciarlo per essersi spacciato per un’altra persona e ottenere così informazioni private sulla sua salute.» Cassandra si schiarì la voce e interrogò: «Cosa le ha detto?» «Mi ha detto che la sera precedente al suo ricovero, lei è salita sulla montagna vicino casa sua. Non con calma come richiederebbe una normale scarpinata, ma correndo come uno stambecco. Tutto questo perché stava guidando i carabinieri forestali sul luogo di caccia di alcuni bracconieri. Eroismi a parte, lo sforzo fisico non indifferente, unito all’influenza che già covava, le hanno causato un forte abbassamento della glicemia. Ecco spiegati gli svenimenti e i forti dolori muscolari, conditi da febbre alta. Per non parlare del fatto che l’ho trovata molto sottopeso» spiegò. Cassandra annuì ma rimase in silenzio, così il medico proseguì: «Mi ha detto anche che lei, da quando è mancato il suo vero marito, mangia poco e niente. Lo ringrazi perché davvero non ci stavo capendo niente, credevo avesse qualcosa di molto più grave a essere sinceri. Ho già tutti i risultati relativi al suo caso e sarà contenta di sapere che tra pochi giorni potrà tornare a casa con le sue gambe. Gambe che se vuole la reggano in piedi, dovrà fornire di adeguata alimentazione. Ci siamo capiti?» concluse, lanciandole uno sguardo di rimprovero. Cassandra ringraziò il dottore e poggiò la schiena sul cuscino. Continuava a rimuginare sul dialogo tra lei e Madre. I suoi poteri si stavano rafforzando se era riuscita a colpirla fin lì ad almeno venti
chilometri da casa, per non parlare dei cambiamenti fisici suoi e dei quattro figli. Una volta finita la crescita, come sarebbero diventati e quanto tempo ci sarebbe voluto prima che questo accadesse? Erano passati dieci mesi da che era cominciato tutto, ed erano cambiati così tanto. E in più per avere salva la vita aveva dovuto fare un giuramento a Madre. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…
INDICE PROLOGO .................................................................................... 7 CAPITOLO 1 .............................................................................. 11 CAPITOLO 2 .............................................................................. 25 CAPITOLO 3 .............................................................................. 34 CAPITOLO 4 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 5 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 6 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 7 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 8 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 9 ...................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 10 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 11 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 12 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 13 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 14 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 15 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 16 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 17 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 18 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 19 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 20 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 21 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. CAPITOLO 22 .................... Errore. Il segnalibro non è definito. EPILOGO ........................... Errore. Il segnalibro non è definito. Nota dell’Autrice ................ Errore. Il segnalibro non è definito. Ringraziamenti .................... Errore. Il segnalibro non è definito.